N. 5 – 2006 – Contributi

 

ALLe Origini del concetto di dolo: dall’etica di aristotele al diritto penale romano

 

GiaN paolo demuro

Università di Sassari

 

 

 

Sommario: Premessa – Parte A: IL DOLO NELLA STORIA E NELLA FILOSOFIA GRECA. 1. La distinzione tra Φόνος εκούσιος (omicidio volontario) e Φόνος ακούσιος (omicidio involontario) – 2. La struttura della Ψυχή. Leggi e sanzioni penali nel pensiero politico di Platone – 3. La psicologia dell’atto morale in Aristotele – 4. Il concetto di scelta come essenza della responsabilità – Parte B: IL DOLO NEL DIRITTO PENALE ROMANO. 1. Il diritto penale romano – 2. La lex Numae: la distinzione tra omicidio doloso (“dolo sciens”) e omicidio colposo (“imprudens”). Il rilievo dell’elemento intellettivo – 3. La lex Cornelia de sicariis et veneficis: il dolus malus quale espressione dell’elemento volitivo – 4. Dalle quaestiones perpetuae alla cognitio extra ordinem. La prassi in tema di elemento soggettivo:“Delinquitur autem aut proposito aut impetu aut casu”. Il concetto di animus – 5. Il significato storico-scientifico delle fonti romane per lo sviluppo del concetto di dolo. – 5.1. Il dolus malus. – 5.2. La distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito. – 5.3. Il contenuto etico del concetto di dolo. – 5.4. La nozione di animus. – 5.5. La fondamentale importanza di alcuni frammenti per l’ampliamento del concetto di dolo.

 

 

Premessa

 

Lo studio delle origini del dolo è tema di indagine intersettoriale. Innanzitutto coinvolge non solo il diritto penale sostanziale ma anche quello processuale. Il dolo poi non è mai descritto in una formula legislativa generale e astratta ma è concetto etico che trova espressione sostanziale e processuale nella punizione dei delitti di sangue. In quanto concetto etico, lo studio delle origini del dolo non può procedere disgiunto dalla considerazione filosofica. Unica forma di responsabilità colpevole, il dolo coincide con la forma tipica dell’agire umano, la volontarietà cioè della condotta.

L’identificazione del male, storicamente precaria, è in origine semplice. Il male è rappresentato dalle aggressioni alla persona e al patrimonio e pertanto etica, religione e diritto penale non hanno problemi di convivenza, ma anzi coincidono.

Nel guardare con gli occhi di oggi all’elemento soggettivo e in particolare al dolo nelle civiltà greca e romana, è necessario tenere presente che la natura delle fonti, spesso non giuridiche ma letterarie, e la mancanza di una disciplina generale e astratta delle forme dell’atteggiamento psicologico, rendono possibile la ricerca di modi di sentire piuttosto che di compiuti concetti. Punto di estrapolazione di questi modi di sentire è solitamente la repressione dell’omicidio e in genere dei delitti di sangue, innanzitutto perché generalmente perseguiti e poi perché soprattutto con riferimento a questi rilevava l’esistenza, la diversità e la intensità dell’atteggiamento psicologico.

Lo schema classico di studio del dolo – struttura, oggetto e accertamento – è frutto della scienza penalistica moderna, così come la ricchezza di contenuti di ogni singola fase di studio.

a) Sotto il profilo della struttura, sia nel mondo greco che in quello romano, la distinzione in tema di atteggiamento psicologico è tra volontarietà e involontarietà della condotta: la prima è necessaria per l’affermazione di responsabilità penale, la seconda giustifica al più rimedi di tipo risarcitorio.

Generalmente non è la nozione di volontarietà a essere approfondita quanto piuttosto quella di involontarietà. All’interno del concetto di involontarietà sono comprese, spesso indistintamente (anche perchè non vi era l’esigenza di distinguere, data l’identità di conseguenze), situazioni che i moderni analizzeranno in maniera differente e più analitica: e dunque cause di esclusione della coscienza e volontà (caso fortuito e forza maggiore), del dolo (errore e ignoranza), della colpevolezza (in particolare incapacità di intendere e di volere), dell’antigiuridicità (stato di necessità e legittima difesa): involontaria è anche la condotta imprudente e pertanto sembra non esistano barlumi di considerazione autonoma della colpa quale forma di responsabilità penale.

Il giudizio sulla volontarietà o involontarietà della condotta, e dunque sul carattere lecito o illecito, presuppone poi un rimprovero di tipo etico e religioso.

b) L’atteggiamento psicologico viene riferito principalmente alla condotta: oggetto del dolo – per usare una terminologia di oggi –  non è l’intero fatto ma solo un suo elemento. Parti del fatto possono dunque essere imputate oggettivamente.

c) Il profilo dell’accertamento è assai semplificato da un sistema processuale spiccio, nel quale solitamente vige una presunzione di colpevolezza e non di innocenza: il fatto in sé parla il linguaggio del dolo e la prova principale è la confessione dell’accusato, estorta spesso con la tortura.

Nel mondo greco le fonti strettamente storiche (Erodoto, Senofonte, Tucidide) sono scarne e poco significative per lo studio dell’elemento soggettivo; meglio riferirsi alle opere filosofiche di Platone e Aristotele, dove si ritrovano non solo le definizioni di volontarietà e involontarietà ma anche riflessioni interessanti sulla questione delle tipologie di comportamento non razionali, così come sulle cause del comportamento umano sbagliato. In particolare è utile analizzare i riferimenti alla colpevolezza (in particolare alla nozione di “scelta”) che si possono trovare nell’Etica Nicomachea di Aristotele, giacchè costituiscono le basi della filosofia aristotelico-tomistica sul cui fondamento il Cristianesimo si erige[1]: ed è indubbio il contributo del Cristianesimo alla categoria della colpevolezza, sviluppatasi attraverso approfondite elaborazioni nella Canonistica medievale, nella Scolastica, nei Postglossatori e nel Giusnaturalismo settecentesco, fino al pensiero giuridico moderno.

Nell’antica Grecia, comunque, i concetti di volontarietà e involontarietà trovano riconoscimento normativo nella legislazione di Arconte e nel periodo aureo di Atene e sembrano corrispondere al senso comune.

Numerose sono invece le fonti normative nel diritto penale romano: anche in questo, peraltro, la prospettiva di studio dell’elemento soggettivo deve fare leva non solo sulle fonti giuridiche, dove spesso prevale il senso obiettivo di fatto illecito, ma anche sulle fonti letterarie, dove si ritrova lo spirito che animava la materia penale.

Quanto infine all’oggetto del nostro studio, non ci soffermeremo sui termini dell’incontro tra le visuali del giurista, dello storico e del filosofo del diritto. Ci limitiamo a ricordare le parole di un illustre romanista, Giuseppe Grosso, secondo il quale «l’apertura storica è essenziale al giurista per acquistare coscienza del suo stesso lavoro, e rendere questo più sensibile alla individualità degli elementi con cui opera»[2], e quelle di un eminente filosofo del diritto, Michel Villey, il quale scrive che «la riflessione filosofica è lo strumento insostituibile del progresso del diritto»[3];  e infine poniamo come base la precisazione di un maestro delle scienze penalistiche, Giacomo Delitala, sulla diversa ottica di studio degli storici e dei dommatici: mentre allo storico, nella valutazione di qualsivoglia dottrina, non è consentito prescindere dalle condizioni di tempo e di ambiente, se non vuole perdere l’intimo significato della dottrina che studia, ciò è invece consentito al dommatico[4].

Ultimo e fondamentale, non va dimenticato che il dolo è sì un istituto che affonda profondamente le sue radici in categorie pregiuridiche, ma ciò non significa che il legislatore sia vincolato a dati o criteri “ontologici”: «definire il dolo significa porre un criterio normativo di imputazione dell’illecito»[5], perché su di esso incidono esigenze preventive e aspetti probatori. Un criterio normativo che non deve però, d’altro canto, far dimenticare la natura pregiuridica del concetto.

 

PARTE A

IL DOLO NELLA STORIA E NELLA FILOSOFIA GRECA

 

1. – La distinzione tra Φόνος εκούσιος (omicidio volontario) e Φόνος ακούσιος (omicidio involontario)

 

Le informazioni sulla fase più risalente dell’antica Grecia possono essere tratte soprattutto dai poemi omerici[6]. Il cittadino deve ricorrere all’auto-difesa, non risulta vi sia interesse pubblico alla repressione dei reati e si ottiene giustizia per mezzo della vendetta, personalmente o attraverso i propri congiunti. La differenza tra fatti colpevoli e incolpevoli rileva solo di fatto, essendo il giudizio sulla colpevolezza e sull’eventuale perdono rimesso alla vittima o ai suoi parenti; ma per attribuire il diritto alla vendetta è sufficiente il verificarsi dell’evento[7]. Peraltro la vendetta è diretta solo all’autore dell’offesa e non viene coinvolta la sua famiglia.

Ancora più scarse sono le informazioni sul periodo che dall’epoca eroica porta all’epoca aurea di Atene. Si ritiene comunque che si verifichi il passaggio da una situazione di inerzia (disinteresse) statale al contrario principio della pena pubblica. Ma come e perché si arrivi a questo mutamento e quali forze sociali abbiano imposto l’affermazione del principio della pena pubblica rimane oscuro: si può solo presumere – secondo la dottrina – l’intervento di fattori religiosi[8]. Sull’assassino grava una macchia (μύσος, μίασμα), che come una malattia contagiosa aggredisce chiunque venga in contatto con lui: è perciò necessario allontanare il reo dal luogo dove risiede l’anima irata dell’ucciso. Lontano dalla patria l’assassino deve cercare una purificazione e solo dopo un incerto trascorrere del tempo, svanito il sangue versato, di nuovo può fare ritorno in patria[9].

Le concezioni del passato condizionano ancora – seppur parzialmente – il diritto ateniese[10]. Le azioni “penali” sono riservate ai congiunti dell’ucciso, che hanno anche il diritto di assistere all’esecuzione della pena di morte e nel caso di omicidio involontario possono determinare la durata dell’esilio e possono porvi fine[11]. Il diritto alla vendetta è in alcuni casi riconosciuto legalmente, come nei confronti del ladro notturno e di chi sia sorpreso a recare disonore alla famiglia[12]. La pena del taglione, riconosciuta solo sporadicamente nell’epoca più antica, non trova ancora applicazione nel più tardo diritto ateniese[13].

Ad Atene, in epoca storica, la purificazione sacrale a cui si è accennato diventa un surrogato della pena pubblica e si applica all’autore di un omicidio non doloso: quando la divinità si dichiara soddisfatta, la comunità può di nuovo intrattenere rapporti con l’omicida. Lo stimolo del diritto sacrale è fecondo per il diritto laico di Atene: esso regola in genere la colpevolezza dal punto di vista dell’interesse pubblico, ma senza trarne per intero le conseguenze, come dimostra la sussistenza in qualche raro caso della vendetta privata[14].

I Greci, così come i Romani, non hanno un concetto generale di dolo: paradigma per l’analisi è dunque la punizione dell’omicidio[15].

L’ipotesi più grave è rappresentata dal Φόνος εκούσιος, l’omicidio volontario, altrimenti citato come Φόνος έκ προνοίας, omicidio cioè intenzionale (i tedeschi traducono προνοία con Absicht)[16]. L’autore doloso viene giudicato dal più antico e “autorevole” tribunale ateniese, l’Aeropago, e viene punito con la morte e la confisca dei beni. Egli può peraltro, dopo la prima udienza e ferma la confisca dei beni, rifiutare il giudizio e scegliere la via di un esilio senza ritorno.

L’omicidio involontario (Φόνος ακούσιος) è di competenza del tribunale del Palladio, che lo sanziona con l’esilio temporaneo (forse un anno), esilio a cui può essere posto fine dai congiunti dell’ucciso. Sotto il Φόνος ακούσιος rientrano sia casi di interruzione del nesso causale, sia ipotesi da ricondurre al concetto di colpa, dato che colpa e causalità non vengono allora distinte[17]. Vi sono peraltro casi (citati in Demostene contro Aristocrate, ma anche da Platone[18]) in cui la responsabilità è del tutto esclusa: il caso della uccisione non voluta di un avversario durante una gara di combattimento; il caso dell’uccisione in guerra del compagno scambiato per il nemico; l’ipotesi del medico che nell’esercizio della propria attività, senza volerlo, cagiona la morte del paziente. In questi casi si è sì in presenza di situazioni involontarie, ma il contesto di base, lecito e, in particolare nel caso del medico, rilevante socialmente, in cui le azioni si svolgono, “giustifica” gli esiti indesiderati ed esclude ogni responsabilità. Non viene dunque in questione la colpevolezza e la possibile colposità dell’errore, ma si tratta piuttosto di cause di giustificazione (scriminanti). Certamente a queste ultime è infine da ricondurre l’indubbia esclusione di ogni sanzione anche nel caso di uccisione per legittima difesa.

Le “regole” appena esposte non hanno certamente carattere di inderogabilità né esiste un sistema processuale garantista in cui possano sempre imporsi. Ciò è dimostrato da un esempio tratto da un discorso di Antifonte e relativo a un caso di errore: una donna per avvelenare il proprio coniuge si avvale di un’ancella la quale in buona fede serve un veleno mortale al coniuge della donna (presentandolo come e) credendolo un filtro d’amore. Ebbene in questo caso l’ancella viene condannata a morte (non importa – osserva Löffler – se ciò sia dovuto alla particolare disciplina del reato di avvelenamento o al fatto che la servitrice sia straniera)[19].

 

 

2. – La struttura della Ψυχή. Leggi e sanzioni penali nel pensiero politico di Platone

 

I processi psichici che guidano le azioni umane sono caratterizzati in senso socratico nei dialoghi giovanili di Platone. Socrate però non rende giustizia al fenomeno del conflitto interno al volere: i comportamenti eticamente riprovevoli trovano la loro causa nell’inadeguatezza mentale di individui privi di riflessione, mentre coloro i quali, grazie alla loro conoscenza, si regolano costantemente su criteri razionali conducono una vita coerente, esente da critiche e lineare[20]. Tutto ciò in linea con lo scopo, proprio dei filosofi antichi, di fare della filosofia una vera e propria “arte della vita” (technê tou biou o ars vivendi): «la loro idea di filosofia – si è detto – mira a formare, non meramente a informare»[21].

Lo «statico ideale di autoperfezionamento psichico» delineato nei dialoghi giovanili non è certamente idoneo a rappresentare la realtà della vita[22].

Nel Fedro e nella Repubblica si delinea una svolta nel pensiero di Platone. Ora il filosofo, pur ponendo al centro dell’opera il problema politico, descrive la struttura dell’anima (così viene tradotta la parola greca Ψυχή) sul presupposto che la struttura dell’anima di ogni singolo corrisponda a quella del suo Stato ideale: lo Stato platonico – si afferma infatti – non è altro che “l’immagine ingrandita dell’uomo” e formare il “vero Stato”, per Platone, significa formare il “vero uomo”[23]. Anche l’anima individuale è dunque composta di tre elementi: istinto, emotività e ragione. Un uomo è giusto quando ognuna delle tre parti dell’anima adempie alle sue funzioni e di conseguenza l’elemento razionale, sostenuto dall’emotività, dirige l’istinto[24].

L’anima, nella descrizione che Platone ne dà nella Repubblica e nel Fedro, appare come una struttura complessa e organizzata in modo dinamico: è la sede della lotta della persona umana con sé stessa. La spiegazione delle cattive azioni si radica saldamente in un aspetto essenziale della struttura dell’anima e dunque il miglioramento di sé si impernia sul raggiungimento dell’ordine e dell’armonia nella propria anima. La ragione deve governare, l’elemento spirituale deve dare forza alle attività dell’anima, la concupiscenza deve essere guidata verso un appagamento nobile e degno[25].

Mentre però nella Repubblica l’elevatezza morale dei cittadini rende inutili leggi e sanzioni penali, queste sono invece contenute nelle Leggi, ultima espressione del pensiero politico di Platone[26]. La stabilità dello Stato che Platone immagina nelle Leggi richiede che i cittadini rispettino la legge e le obbediscano: alla legge si deve però obbedire perché è buona e  non semplicemente perché è la legge. Perciò la legge definisce e “forma” il comportamento; essa impone, ma nello stesso tempo insegna, la giusta condotta[27].

Platone rimane fermo nel vecchio insegnamento di Socrate che l’uomo ingiusto non è volontariamente tale, giacchè nessun uomo vorrebbe accogliere nella sua parte più preziosa, l’anima, il più grande di tutti i mali, l’ingiustizia[28]. Per Platone morale e religione sono inseparabili, e dunque l’ingiustizia è insieme immoralità ed empietà[29].

Un’azione è giusta o ingiusta a seconda che uno operi o meno in modo onesto e con rette intenzioni nell’arrecare ad altri qualche beneficio o danno (Leggi, IX, 6, 861-862)[30]. Platone individua tre cause che muovono all’ingiustizia: la collera, il piacere e l’ignoranza (Leggi, IX, 7, 863-864). Da queste, che rappresentano la spinta all’azione, si distinguono altre cause, le quali invece rendono esente da responsabilità l’autore: come diremmo oggi, vi sono “cause che escludono l’imputabilità”, quali la pazzia, l’influenza di malattie o la tarda vecchiaia, e altre che invece “escludono l’antigiuridicità”, come la legittima difesa (“se uno sorprende di notte un ladro, che si introduce nella sua casa, e lo uccide, sia immune da colpa”) o il procurare involontariamente la morte durante l’esercizio dell’attività medica (Leggi, IX, 8, 864-865 e IX, 12, 873-875).

Platone afferma che in tutti gli Stati e da tutti i legislatori vengono considerate due specie di ingiustizie, quella volontaria e quella involontaria (Leggi, IX, 6, 861). Particolarmente dettagliata è la disciplina dell’omicidio (e analogamente delle lesioni), basata soprattutto sui motivi dell’azione (segnatamente con riferimento alla collera). Il giudizio negativo sul movente contribuisce ad attribuire la qualifica di volontaria all’azione e la rende pertanto illecita. La volontarietà dell’omicidio trova movente o nella cupidigia (il primo e il più grave tra i moventi), o nell’ambizione o infine nella necessità di nascondere il compimento di certe azioni (Leggi, IX, 10, 869/870). Le sanzioni sono le più varie, dalla condanna a morte all’esilio, fino al semplice risarcimento del danno nei casi di omicidio involontario.

I comportamenti umani che possono avere rilevanza penale sono dunque valutati in tre modi: a) azioni volontarie, ingiuste, e insieme immorali ed empie, dove l’ingiustizia deriva anche e soprattutto dall’immoralità del motivo, e che sono sanzionate duramente; b) azioni involontarie, non meglio specificate, ma che devono ritenersi non ingiuste, perché rette da un motivo moralmente apprezzabile e che trovano rimedio nel risarcimento del danno; c) azioni per le quali è esclusa ogni responsabilità, o per la mancanza di imputabilità o per la presenza di una causa di giustificazione  o perché dovute al caso.

Platone infine tratta della discrezionalità dei tribunali, indispensabile data l’infinità dei casi particolari e delle circostanze. Vi è un punto in cui riconosce necessario affidarsi in ogni caso a essi, cioè per decidere se il fatto è stato commesso o no: ma per quanto riguarda le sanzioni, il metodo è quello di offrire ai giudici, mediante schemi e formule di pene, modelli ed esempi perché non deviino dal sentiero della giustizia (Leggi, IX, 14, 875-877).

La sistematica di Platone rispecchia – come appare dal confronto con quanto enucleabile dalle scarsissime fonti storiche – le concezioni giuridiche del tempo (le Leggi sono databili intorno al 350 a.C) e trova conferme oltre che nella legislazione di Draconte anche nelle (più risalenti) orazioni di Antifonte (480 circa a.C.- 411 a.C.), che nelle sue tetralogie distingue tra omicidio volontario, colposo e dovuto al caso[31].

 

 

3. – La psicologia dell’atto morale in Aristotele

 

Nella classificazione aristotelica del sapere, l’etica costituisce una “scienza pratica” in quanto esprime un sapere causale[32]: negli Analitici Posteriori Aristotele espressamente afferma che si ha scienza “quando si conosce la causa per la quale una cosa è, e che proprio di tale cosa è causa” (Anal. Post. I, 2, 71 b 9-12). In quanto scienza pratica essa rivolge il sapere, cioè la conoscenza delle cause, non già alla pura contemplazione (come le scienze teoretiche quali matematica, fisica e filosofia prima) né alla produzione (come le scienze “poetiche”, vale a dire le arti), ma alla prassi, cioè all’azione.

L’agire umano è dunque l’oggetto dell’etica[33]. Conformemente all’impostazione realistica della sua gnoseologia, per Aristotele la specificità del tipo di sapere espresso da una scienza (la sua natura) si definisce fondamentalmente dall’oggetto che quella scienza studia. Così, oggetto dell’etica sono le azioni, le quali sono “realtà che possono essere diverse da quelle che sono”: l’etica – in quanto scienza causale – studia le determinazioni in virtù delle quali l’azione si produce. La mancanza di “stabilità” della prassi è dovuta al fatto che l’azione, nella sua specifica individualità, è qualcosa di irripetibile e singolare, perché irripetibili e singolari sono le circostanze nelle quali essa si compie: le azioni possono essere tutt’al più simili fra loro ma mai identiche. Il metodo dell’indagine morale è perciò di tipo induttivo anziché deduttivo, giacchè l’azione nella sua individualità non può essere dedotta, in quanto ha sempre da adattarsi alle circostanze, le quali sono imprevedibili nella loro particolarità. In campo etico la verità non attiene all’universale, ma al particolare: «le azioni infatti hanno per oggetto i particolari e la nostra teoria deve accordarsi con essi» (Eth. Nic. II, 7, 1107 b 30-34)[34]. «Nel campo di ciò che è oggetto d’azione la verità si giudica dai fatti e dalla vita, giacchè in questi risiede l’elemento fondamentale» (Eth. Nic. X, 9, 1179 a 18 ss.).

Dell’etica, quale scienza della condotta, esistono due concezioni fondamentali: a) la prima considera l’etica quale scienza del fine cui la condotta degli uomini deve essere indirizzata e dei mezzi per raggiungere tale fine, e deduce sia i fini che i mezzi dalla natura dell’uomo; b) la seconda considera l’etica come la scienza del movente della condotta umana e cerca di determinare tale movente allo scopo di dirigere o disciplinare la condotta stessa[35]. Due concezioni variamente intrecciatesi nell’antichità e nel mondo moderno, ma profondamente diverse. La prima parla infatti il linguaggio dell’ideale a cui l’uomo è indirizzato dalla sua natura, e per conseguenza della “natura” o “essenza” o “sostanza” dell’uomo. La seconda parla invece dei “motivi” o delle “cause” della condotta umana o delle “forze” che la determinano e pretende di attenersi al riconoscimento dei fatti. L’etica di Aristotele costituirebbe il prototipo della prima concezione e a questa apparterrebbero anche il pensiero di Tommaso d’Aquino, Fichte, Hegel, Rosmini. La seconda concezione fondamentale dell’etica, che si ritrova già in Senofonte e nel mito di Prometeo e che, assente per tutto il Medioevo, viene ripresa solo nel Rinascimento, si configura come una dottrina del movente della condotta e si caratterizza perché in essa il bene non viene definito in base alla sua realtà o perfezione ma solo come oggetto della volontà umana o delle regole che la dirigono[36]. Questo riferimento alle regole che dirigono la condotta umana ha fatto ritenere maggiormente compatibile con il diritto penale proprio questa seconda concezione[37]. Non ci soffermeremo su questa compatibilità, pur osservando che in entrambe le concezioni sono trattati aspetti essenziali per il diritto penale, quali i fini, i mezzi e i moventi della condotta umana. Qui ci si concentrerà solamente sulla psicologia dell’atto morale nella filosofia aristotelica giacchè in essa si riscontra quella sequenza di atteggiamenti psicologici che ancora oggi può costituire fondamento della responsabilità.

Socrate aveva ridotto le virtù a scienza e a conoscenza e aveva negato che l’uomo potesse volere e fare volontariamente il male. Platone aveva condiviso questa impostazione. Aristotele critica Socrate (Eth. Nic., III, 7, 1113 b, 15 ss. e VII, 3, 1145 b, 25 ss.) per avere negato l’esistenza di veri e propri casi di debolezza del volere o di intemperanza (akrasia) e supera questa interpretazione intellettualistica del fatto morale aggiungendo – aspetto questo essenziale per la storia della responsabilità, anche penale – alla rappresentazione la volizione[38]. Egli, da buon realista, si rende conto che altro è conoscere il bene, altro è attuarlo e realizzarlo, «farlo, per così dire, sostanza delle proprie azioni», e dunque cerca di determinare più da vicino quali siano i complessi processi psichici che l’atto morale presuppone[39].

L’importanza di Aristotele nello storia e nello studio dei processi psichici che guidano le condotte umane viene attestata dai penalisti tedeschi di fine ottocento. In particolare Löffler rileva come Aristotele sia stato il primo a postulare l’indeterminismo come presupposto di ogni giudizio etico sulle condotte umane: la volontà (Wille) può costituire fondamento di un giudizio di valore etico, solo se libera (frei). Ad Aristotele viene riconosciuto un ruolo fondamentale nella storia della colpevolezza: «Eine vollkommene Ausbildung fand die Schuldlehre jedoch erst in der Ethik des Aristoteles» (“la Schuldlehre trova la sua prima compiuta esposizione nell’etica di Aristotele”)[40]. Vedremo in seguito l’influsso aristotelico sull’idea di colpevolezza nel diritto romano; e anche quando, tra la fine del XIII sec. e gli inizi del XIV sec., la “scuola dei commentatori” riprende l’approfondimento del tema del dolo, un secolo prima un grande avvenimento segna il mondo della cultura: la riapparizione dei testi aristotelici e in particolare dell’Etica Nicomachea, che contiene la psicologia dell’atto morale[41].

Aristotele studia il come e si chiede il perché delle azioni umane: dalla sua etica derivano gli strumenti non solo per osservare ma anche per comprendere il fenomeno criminoso[42]. La suitas della condotta, la coazione morale, l’imputabilità, il momento conoscitivo e volitivo del dolo, l’intenzionalità del comportamento, la nozione di scelta, l’errore sul fatto e quello sul precetto sembrano trovare proprio nella filosofia di Aristotele gli elementi primordiali, ma già raffinatamente sviluppati, seppure in un’ottica spesso di imputazione morale (e dunque di biasimo) più che giuridica (e dunque di punizione)[43].

Per Aristotele ogni oggetto naturale ha un principio interno. Il principio dell’azione risiede nel soggetto (Eth. Nic., III, 7, 1113 b 30): il che spiega l’efficacia delle leggi, dei premi e dei castighi. Il funzionamento dell’intelletto è analogo a quello della sensibilità. L’anima intellettiva riceve le immagini così come i sensi ricevono le sensazioni: il suo compito è di giudicarle vere o false, buone o cattive, e, a seconda del modo in cui le giudica, le approva o le disapprova, le desidera o le sfugge. L’intelletto è, quindi, la capacità di giudicare le immagini fornite dai sensi (De an., III, 7, 432 a)[44].

Aristotele dedica dunque una dettagliata attenzione alle questioni della responsabilità morale e giuridica. La nozione che esprime questa attenzione è quella di “volontà”, conformemente alla tradizione storica, che, come abbiamo notato, assume come prima distinzione di valore (insieme etico, religioso e giuridico) quella tra comportamenti volontari e comportamenti involontari.

Oggi la nozione di volontà ha un significato differente nelle varie scienze cognitive. Anche nel diritto penale il riferimento alla volontà è contenuto con diversi significati in più istituti: in tema di attribuibilità dell’azione od omissione (la c.d. suitas) nell’art. 42 comma 1 c.p., a proposito del dolo nell’art. 43 comma 1 c.p. e infine riguardo all’imputabilità nell’art. 85 c.p. Non potendo qui affrontare il difficile tema della definizione di volontà nelle diverse scienze cognitive, adottiamo come termine di confronto con le tesi aristoteliche la nozione che pone a questo riguardo, confrontandola con la filosofia antica, il filosofo tedesco Horn: «la volontà indica l’istanza decisionale in base alla quale stabiliamo la concezione di responsabilità e di imputabilità giuridica e alla quale facciamo risalire gli adempimenti morali o la colpa. La volontà è una facoltà che compete all’io, non irrazionale; ed è una facoltà, che può causare spontaneamente un evento. Parliamo di una volontà buona e di una cattiva sempre in riferimento alla bontà della motivazione, che risulta decisiva in funzione dell’agire; di conseguenza giudichiamo la qualità di un comportamento in base alla dignità dell’intenzione che a essa soggiace. Inoltre si tratta di una facoltà che può operare arbitrariamente. La volontà permette, a prescindere dalla convinzione di dover accordare la propria preferenza a ciò che è migliore, di scegliere ciò che è peggiore, o anche di agire, un attimo dopo, in maniera diversa da come si è fatto. Questo non significa assolutamente che essa sia irrazionale. Piuttosto si mantiene neutrale rispetto all’alternativa tra razionalità e irrazionalità. Peculiare della volontà è solamente la ponderatezza o perfino la coscienza di un’intenzione, non la sua razionalità»[45]. Questa definizione, che sembra attagliarsi anche alla dimensione volitiva del dolo in diritto penale[46], si suppone risalga originariamente alla tradizione giudaico-cristiana[47]. Non sarebbe tuttavia giusto – si afferma – ritenere che l’antichità non conosca il problema della responsabilità, della imputabilità giuridica e dell’attribuzione di colpa[48]. Ed è proprio Aristotele ad affrontare il tema della volontà quale fondamento della responsabilità morale e giuridica.

Nelle opere aristoteliche per indicare la volontà vengono utilizzati tre concetti: έκούσιον, προαίρεσις e βούλησις.

Con il concetto di έκούσιον, Aristotele indica quei fatti che hanno un agente razionale come principio, padrone o causa; l’agire è έκούσιον quando l’autore del fatto avrebbe potuto, altrettanto bene, astenersi dal realizzarlo, quando cioè non è stato costretto a comportarsi in quel modo da influenze esterne o interne. Il concetto di έκούσιον rappresenta, come vedremo, la base dell’agire ingiusto e designa solo la mancanza di coercizione, non la consapevolezza di un’azione, tanto che si ritiene che questa espressione richiami il concetto di spontaneità anzichè quello di volontarietà. Secondo Abbagnano l’aggettivo spontaneus non è che la traduzione latina di έκούσιος, e significa «libero»[49]. Leibniz, che introdusse il termine nel linguaggio filosofico moderno, ne indica così l’origine e il significato: «Aristotele ha ben definito la spontaneità dicendo che un’azione è spontanea quando il suo principio è in colui che agisce. Spontaneum est cuius principium est in agente. Ed è così che le nostre azioni e le nostre volontà dipendono interamente da noi» (Théod., III, § 301).

Il concetto di έκούσιον sembra avvicinarsi alla “coscienza e volontà dell’azione od omissione” che rappresenta la base minima per l’imputazione soggettiva (penale) secondo il nostro art. 42 comma 1 c.p. Il codice attuale, secondo quanto enuncia la sua Relazione (n. 59), recepisce il concetto classico di azione (inteso qui in senso lato, come sintesi di azione in senso stretto e di omissione, cioè come condotta) secondo il quale l’azione sarebbe un comportamento dominato (o dominabile) dalla volontà dell’uomo (concetto naturalistico o causale di azione)[50].

La nozione aristotelica che più si avvicina al concetto di volontà come “istanza decisionale”, di cui parla Horn, è quella di προαίρεσις.

Aristotele distingue la “deliberazione” (βούλησις) dalla “scelta” e di questa (προαίρεσις) analizza per primo in modo esauriente il concetto[51]. L’analisi è contenuta nell’Etica Nicomachea, dove Aristotele considera elemento costitutivo della definizione di virtù etica la nozione di «scelta»[52]. La virtù – dice infatti Aristotele – «è una disposizione che orienta la scelta» (Eth. Nic., II, 6, 1106 b 36)[53]. La nozione di scelta rappresenta l’appartenenza piena dell’atto al soggetto e presuppone i concetti di volontario (τό έκούσιον) e involontario (τό άκούσιον), essendo la scelta un atto volontario, rientrante quindi nell’ambito di questa nozione, pur avendo un’estensione minore[54].

Nella filosofia aristotelica la colpevolezza non costituisce solo presupposto della responsabilità ma è anche criterio di misura della pena, non decide solo dell’an ma anche del quantum della responsabilità. La distinzione odierna tra colpevolezza come elemento del reato (Strafbegründungsschuld), che decide cioè della sussistenza della responsabilità (penale), e colpevolezza per la commisurazione della pena (Strafzumessungsschuld), che decide invece della misura della pena nel caso concreto[55], trova una prima espressione già in Aristotele. La differenza tra atto volontario e atto involontario incide infatti sul profilo sanzionatorio. La differenza tra il volontario e l’involontario porta Aristotele a sottolineare che la giustizia si può realizzare non solo attraverso la reciprocità ma anche per mezzo della proporzione, di una giustizia cioè correttiva (Eth. Nic. V, 8, 1132 b 30)[56]. Mentre per i Pitagorici la giustizia si fonda sulla reciprocità semplice, Aristotele accoglie sì l’idea della reciprocità, ma asserisce che essa deve fondarsi su una proporzione, deve cioè consistere in una restituzione proporzionale all’entità di quanto si è ricevuto. La giustizia correttiva esige dunque che si valuti – tra gli elementi di commisurazione della sanzione – la volontarietà o meno dell’atto che ha provocato il danno. Questo tipo di giustizia corrisponde – osserva lo Stagirita – al comune modo di intendere degli uomini ed è riscontrabile nella vita della polis[57].

Quanto alla finalità e all’efficacia della pena, Aristotele fa inoltre una importante considerazione specialpreventiva: il biasimo e la punizione sono ritenuti appropriati solo quando, agendo sui desideri della persona, possono produrre dei cambiamenti nella sua condotta futura[58].

Involontario (τό άκούσιον) e dunque non ingiusto – chiarisce poi il filosofo – è ciò che si compie per costrizione o per ignoranza (Eth. Nic., III, 1, 1109 b 34 ss.).

Un atto è compiuto per costrizione «quando il suo principio è fuori dal soggetto, tale essendo l’azione nella quale chi agisce o chi subisce non ha nessun concorso: ad esempio se il vento lo porti da qualche parte, o uomini lo tengano in loro potere» (Eth. Nic., III, 1, 1110 a 1 ss.)[59]. Involontario per costrizione – diremmo oggi – è l’atto compiuto (per caso fortuito o) forza maggiore.

La definizione dell’involontarietà dovuta a ignoranza è più complessa[60]. In primo luogo richiede la distinzione tra “involontarietà” e “non-volontarietà”.

Un atto compiuto per ignoranza è sempre “non-volontario”, in quanto il soggetto non sa quello che effettivamente fa e cagiona un esito diverso dalle sue intenzioni; ma per essere “involontario” è necessario che egli provi dolore per quell’esito, giacchè soltanto a questa condizione l’estraneità dell’atto all’intenzione dell’agente è completa (Eth. Nic., III, 2, 1110 b 17-18).

In secondo luogo va distinto l’atto compiuto “per ignoranza” (causato cioè dall’ignoranza) da quello compiuto “nell’ignoranza”. Ricorrendo alla terminologia odierna: il primo è un errore di fatto e scusa (esclude il dolo), il secondo è un errore di diritto e non scusa.

Compiuto “per ignoranza” è l’atto nel quale il soggetto ignora le condizioni particolari in cui si compie: tali condizioni sono «chi agisce, che cosa compie, l’oggetto e l’ambito in cui agisce e talvolta anche il mezzo (per esempio con quale strumento), il risultato (per esempio la salvezza) e il modo (per esempio dolcemente o con forza)» (Eth. Nic., III, 2, 1111 a 4 ss.). Ora, quando l’ignoranza verte su alcuna di queste condizioni, soprattutto su quelle che Aristotele ritiene le più importanti, quelle cioè nelle quali e a causa delle quali l’atto si compie, l’atto stesso è involontario (Eth. Nic., III, 2, 1111 a 16 ss.) e dunque non soltanto non è riprovevole ma suscita perdono e talvolta compassione.

Compiuto invece “nell’ignoranza” è quell’atto nel quale il soggetto ignora la regola di condotta: siffatta ignoranza non è causa dell’involontarietà del suo atto, bensì di malvagità. L’ignoranza della regola inficia l’intenzione, ma non la decisione di prendere una certa iniziativa: proprio il carattere ancora volontario dell’atto rende plausibile la sua colpevolezza. Aristotele non ritiene che l’ignoranza delle regole di condotta sia una scusante: l’agente può infatti essere punito per ciò che fa in condizione di ignoranza, se egli stesso è responsabile della sua ignoranza. E’ pertanto giusto punire coloro «che ignorano qualcosa prescritto nelle leggi, che si debba e non sia difficile sapere. Parimenti anche negli altri casi, quando è evidente che l’ignoranza deriva da negligenza, in quanto è in facoltà dei colpevoli il non essere ignoranti: essi infatti sono padroni di prendersene cura» (Eth. Nic., III, 5, 1113 b 30 e 1114 a 4). Insomma, così come nel nostro attuale sistema penale (art. 5 c.p. dopo la sentenza Corte cost. 364/88), l’ignoranza della legge penale non scusa, tranne che si tratti di ignoranza inevitabile[61].

I chiarimenti su ciò che è “involontario” (τό άκούσιον) permettono per converso di definire ciò che è “volontario” (τό έκούσιον). «Poiché involontario è ciò che si compie per costrizione e per ignoranza, si converrà che volontario è ciò il cui principio risiede nel soggetto, il quale conosce le condizioni particolari in cui si svolge l’azione» (Eth. Nic., III, 3, 1111 a 22-24). La volontarietà è dunque definita da due condizioni: l’essere il soggetto principio dell’atto (cioè la mancanza di costrizione dell’atto stesso) e la conoscenza delle circostanze in cui l’azione si inserisce[62]. In termini penalistici attuali, la “volontarietà” comprende la coscienza e volontà della condotta (la c.d. suitas) e l’elemento intellettivo del dolo, cioè la rappresentazione degli elementi che integrano la fattispecie oggettiva[63]. Volontarie sono dunque le azioni semplicemente “spontanee”, che hanno cioè la loro origine nei soggetti che le compiono, e nelle quali ricorre la componente conoscitiva[64]. Come si vede, esse non coincidono con quelle che noi oggi chiamiamo con lo stesso nome. Al moderno requisito della volontà (come elemento del dolo) si avvicina piuttosto la nozione di scelta (προαίρεσις)[65].

La “scelta” (προαίρεσις), come già accennato, è sì infatti qualcosa di volontario, ma non si esaurisce in questa dimensione[66]. La nozione di volontario (τό έκούσιον) è cioè più estesa di quella di scelta, e ne costituisce il genere. Nell’ambito di questo genere ciò che specifica la nozione di “scelta” è che essa comporta una deliberazione preventiva, che di per sé – secondo Aristotele – non appartiene all’atto volontario in quanto tale; così, egli afferma, «del volontario partecipano anche i fanciulli, delle scelte deliberate no. Inoltre le cose che si compiono in modo immediato diciamo che sono involontarie» (Eth. Nic., III, 4, 1111 b 8-10). Si possono volere (desiderare) anche cose impossibili, ma non le si può scegliere, così come si possono volere (desiderare) cose che non dipendono dal soggetto, ma non le si può scegliere.

La scelta contiene sia un profilo conoscitivo sia un profilo volitivo. Essa implica sempre un ragionamento e una riflessione sulle cose e sulle azioni che dipendono da noi e che sono realizzabili. Questo tipo di ragionamento e di riflessione viene chiamato da Aristotele βούλευσις (deliberazione). La differenza aristotelica tra βούλευσις e προαίρεσις (tra deliberazione e scelta) viene così descritta: «la prima stabilisce quali e quanti siano le varie azioni e i vari mezzi che bisogna mettere in atto per raggiungere certi fini: stabilisce cioè tutta la serie delle cose da realizzare per arrivare al fine, da quelle più remote a quelle più prossime e immediate; la seconda agisce su queste ultime e le scarta se irrealizzabili, le mette in atto se le trova realizzabili»[67]. La scelta è dunque l’ultimo passaggio nella psiche del soggetto (dall’an al quomodo, potremmo dire), l’essenza della responsabilità.

La deliberazione ha per oggetto le cose che possono essere diversamente da quello che sono e che sono oggetto di azione (Eth. Nic., III, 5, 1112 a 20 ss.); non soltanto, ma che sono conoscibili non con esattezza assoluta, ammettendo un margine di indeterminatezza, margine che lascia spazio appunto alla decisione (Eth. Nic., III, 5, 1112 b 1 ss.). Infine, non si delibera sui fini, bensì sui mezzi per raggiungere i fini, secondo un procedimento che è analogo a quello di una costruzione geometrica (Eth. Nic., III, 5, 1112 b 12)[68]. «L’oggetto della deliberazione e l’oggetto della scelta sono identici, tranne che l’oggetto della scelta è già stato determinato» (Eth. Nic., III, 5, 1113 a 3-4) in seguito a una deliberazione. Anche la scelta verte pertanto sui mezzi e non sui fini e si esercita nell’ambito di quelle cose che nella prassi sono in potere dell’uomo e ammettono un margine di variabilità. Nell’ambito di queste cose, quando il “desiderio” (όρεξις) abbia messo in moto la volontà verso un fine, vale a dire le abbia indicato un bene da perseguire, allora la scelta, sulla base di una deliberazione, interviene a decidere i mezzi (nel senso di atti) adeguati per raggiungerlo[69]: in questo senso Aristotele afferma che la scelta è «un desiderio deliberativo delle cose che dipendono da noi» (Eth. Nic., III, 5, 1113 a 11-12) e altrove la definisce «un intelletto desiderante o un desiderio ragionante» (Eth. Nic., VI, 1, 1139 b 5) e aggiunge che «essa è sempre accompagnata dalla ragione e dal pensiero» (Eth. Nic., III, 4, 1112 a 15)[70].

Ulteriori caratteri della nozione aristotelica di “scelta” si ricavano dalle differenze con altri concetti. Distinguendo questa nozione dalle forme di “desiderio” (brama e impulsività), Aristotele indica che oggetto della brama è ciò che è piacevole o doloroso, mentre oggetto della scelta è «ciò che è moralmente utile e bello»; nulla a che vedere neppure con l’impulsività, perché chi agisce impulsivamente non agisce per scelta deliberata. Altri elementi del concetto di προαίρεσις si possono trarre dalla differenza con la nozione di “opinione” (δόξα): oggetto dell’opinione è ogni realtà, anche quelle eterne e immutabili, sulle quali non è possibile scegliere, la scelta invece concerne solo le cose possibili[71]; l’opinione si distingue in vera e falsa, la scelta in buona e cattiva; il professare opinioni non determina la qualità etica del carattere, lo scegliere cose buone o cattive sì; l’opinione non concerne il seguire o il fuggire il bene e il male, ma la conoscenza della loro natura, la scelta riguarda invece il perseguirli o il fuggirli; infine il valore dell’opinione è dato dalla verità del suo rapporto con l’oggetto, il valore della scelta è dato dalla conformità del suo oggetto al dovere.   

Si chiarisce pertanto la dinamica del compimento dell’atto virtuoso, al quale la scelta “è cosa molto affine” (Eth. Nic., III, 4, 1111 b 6) dato che tale atto consiste in una scelta moralmente buona. Lo stesso vale ovviamente per l’atto vizioso, che ha luogo quando il fine moralmente malvagio indicato dalla volontà trova espressamente, nel giudizio della deliberazione, i mezzi per essere conseguito. L’atto virtuoso è dunque una scelta virtuosa, così come l’atto vizioso è una scelta viziosa: si tratta di scelte deliberate per la realizzazione rispettivamente di un fine moralmente buono oppure malvagio. Fuori di questa strutturale e costitutiva unità di mezzi e fini l’atto non ha luogo. «Il principio dell’azione morale è la scelta (…) ed i principi della scelta sono il desiderio e il calcolo indirizzato a un fine. Per questo la scelta non è senza intelletto e pensiero; né senza una disposizione morale. Infatti la condotta buona e il suo contrario nella prassi non esistono senza pensiero e senza carattere» (Eth. Nic., VI, 1, 1139 a 28 ss.). L’essere virtuosi pertanto non consiste soltanto nel compiere certi atti moralmente buoni, ma nel compierli intenzionalmente: in questo senso nel medioevo si dirà che la virtù è un actus electivus. Nello stesso modo, solo l’atto che deriva da una scelta è ingiusto e malvagio.

«Sono dunque tre – secondo Aristotele – i tipi di danno che possono verificarsi nella comunità. Quelli che sono accompagnati da ignoranza sono degli errori, come quando si agisce senza che la persona che subisce l’azione o ciò che si fa o il mezzo o il fine siano quelli che si supponeva: infatti o non si credeva di colpire o non con questo strumento o non questa persona o non con questo scopo, ma le cose sono andate in modo diverso dallo scopo che si pensava di raggiungere (per esempio, si è colpito non per ferire ma solo per pungere, e non quest’uomo o con questo strumento). Insomma, quando il danno ha luogo contro ogni previsione, però senza malizia, si ha un errore (si commette un errore infatti quando il principio dell’imputazione risiede nel soggetto; si ha invece una disgrazia quando risiede fuori del soggetto). Quando poi ha luogo consapevolmente, ma senza una deliberazione precedente, si ha un’azione ingiusta: ad esempio le azioni che si compiono per collera o per quante altre passioni, necessarie o naturali, sopraggiungono all’uomo[72]. Causando infatti questi danni e commettendo questi errori si agisce ingiustamente, e si tratta di azioni ingiuste, ma tuttavia per esse non si è ancora ingiusti né malvagi: infatti il danno non è dovuto a malvagità. Quando invece l’azione deriva da una scelta deliberata si è ingiusti e malvagi» (Eth. Nic., V, 10, 1135 b 10 ss.)[73].

 

 

4. – Il concetto di scelta come essenza della responsabilità

 

Aristotele lascia come eredità il concetto che la virtù e la malvagità dipendono solo dagli uomini, che l’uomo è responsabile delle proprie azioni, causa dei suoi stessi abiti morali, che cioè in esso risiede qualcosa da cui dipende essere buoni o cattivi[74]. Cosa sia questo qualcosa, si ritiene non abbia saputo determinarlo, non abbia cioè saputo correttamente definire la vera natura della volontà e del libero arbitrio: «l’uomo occidentale capirà che cosa siano la volontà e il libero arbitrio solo attraverso il Cristianesimo»[75]. 

Il concetto della volontà come «principio dell’azione in generale» già prefigurato da Platone e Aristotele viene esposto compiutamente da S. Agostino, per il quale «la volontà è in tutti gli atti degli uomini, anzi tutti gli atti nient’altro sono che volontà» (De Civ. Dei, XIV,6)[76].

Al diritto penale però interessa, per l’attribuzione della responsabilità, non solo la volontà come «principio dell’azione in generale»[77], quella che nel pensiero aristotelico rientra nel concetto di έκούσιον e nell’attuale diritto penale nella nozione di coscienza e volontà della condotta (la c.d. suitas) ma anche e soprattutto la volontà come «scelta», come «principio razionale dell’azione»[78], quella cioè che Aristotele definisce nel De Anima (III, 10, 433a, 23) «l’appetizione che muove in conformità di ciò che è razionale» e nell’Etica Nicomachea (III, 3, 1113a, 10) «l’appetizione volontaria delle cose che dipendono da noi»: la scelta si inserisce in una sequenza logica e psicologica che parte dal desiderio, prosegue con la volontà e con la deliberazione e si conclude con la scelta stessa. Nella nozione di προαίρεσις, cioè di «scelta», si esprime il senso pieno dell’appartenenza dell’atto al soggetto, il profilo conoscitivo e quello volitivo, e dunque la forma tipica di responsabilità (di colpevolezza), l’essenza del dolo: la scelta esprime la sintesi tra deliberazione e azione.

Il pensiero di Aristotele è la più compiuta espressione e quasi una sintesi della filosofia classica. Oggi si afferma che chiunque abbia tentato qualsivoglia asserto di carattere meta-settoriale e meta-empirico, si è ritrovato (e si ritrova anche oggi) a muovere categorie, che per diretta filiazione o per dialettica e mediata trasformazione e contrapposizione, derivano da Aristotele e da quella filosofia classica che in lui trova la forma più compiuta[79]. Talora forse inconsapevolmente, ciò è avvenuto anche nel diritto penale, quando dal mero fatto materiale si è risaliti all’autore, alla coscienza e volontà della sua azione od omissione, alla sua capacità di intendere e di volere, alle sue motivazioni, alle sue finalità e in particolare al suo atteggiamento psicologico (dolo ed errore) nei confronti del fatto stesso: il momento intellettivo e il momento volitivo trovano la propria cerniera nel momento della scelta (προαίρεσις), ultimo atto significativo che si compie nella psiche dell’agente prima di passare all’azione (o all’omissione), concetto che per primo fu enucleato da Aristotele e che ha segnato il pensiero filosofico.

Gli Stoici aderiscono a questo concetto della volontà come scelta e la definiscono «appetizione razionale» (Diogene Laerzio, VII, 116). A questa nozione si riferisce Cicerone quando sostiene che «la volontà è un desiderio conforme a ragione, mentre il desiderio che è opposto alla ragione o troppo violento per essa è la libidine o la cupidigia sfrenata che si trova in tutti gli stolti» (Tusc., IV, 6, 12). Lo stesso concetto della volontà come scelta è proprio di Seneca, e in particolare della dottrina stoica dell’assenso (synkatathesis), termine che descrive una sensazione o una disposizione d’animo che nascono da un impulso (impetus), ma devono poi essere oggetto di una comprensione concettuale mediante l’assenso, cioè tramite un atto di giudizio (iudicium). Questo passaggio è descritto così nel de Clementia (II, 2, 2): “ut quod nunc natura et impetus est fiat iudicium”. Questa dottrina prevarrà per tutto il Medioevo: la ripetono infatti Alberto Magno (S. Th., I, q. 7, a. 2), S. Tommaso (S. Th., I, q. 80, a. 2), Duns Scoto (Rep. Par., III, d. 17, q. 2, n. 3) e Ockham (In Sent., IV, q. 14 G)[80]. Essa sarà poi criticata e ridefinita da Hobbes che, nel Leviatano, afferma: «La definizione della volontà data comunemente nelle scuole, che essa è un appetito razionale, non è buona. Giacché, se lo fosse, non ci potrebbero essere atti volontari contrari alla ragione … Ma se invece di appetito razionale, diremo appetito risultante da una precedente deliberazione, allora la volontà sarà l’ultimo appetito nel deliberare» (Leviath., I, 6). Quasi una ripetizione alla lettera della definizione di Hobbes viene ritenuta – da Abbagnano[81] – quella più recente di Dewey: «La volontà non è qualcosa di opposto alle conseguenze o separata da esse. E’ la causa delle conseguenze; è la causazione nel suo aspetto personale; l’aspetto che immediatamente precede l’azione»[82].

La nozione di scelta come essenza della colpevolezza sembra trasparire anche oggi nella importantissima sentenza della Corte costituzionale (24 marzo 1988, n. 364), che ha affermato definitivamente la costituzionalizzazione del principio di colpevolezza, riconoscendo che responsabilità «personale», a norma dell’art. 27 comma 1 Cost., è sinonimo di «responsabilità per fatto proprio colpevole»[83]. Ebbene, in questa sentenza si legge fra l’altro: «Il principio di colpevolezza è pertanto indispensabile appunto anche per garantire al privato la certezza di libere scelte d’azione: per garantirgli, cioè, che sarà chiamato a rispondere penalmente solo per azioni da lui controllabili e mai per comportamenti che solo fortuitamente producano conseguenze penalmente vietate»[84]. Disponendo che «nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale», l’art. 5 c.p. sanciva la responsabilità, tra l’altro, di chi, ignorando senza colpa che la sua azione avrebbe violato un precetto penale, non era in grado di scegliere tra il rispetto e la violazione del precetto penale[85]. La decisione della Corte pone invece oggi il principio che l’ignoranza inevitabile della legge penale esclude il rimprovero di colpevolezza, perché il soggetto non è in grado di ravvisare quali comportamenti sono vietati e dunque di orientare la sua azione e compiere una scelta. La piena, particolare compenetrazione tra fatto e persona implica che siano sottoposti a pena soltanto quegli episodi che, appunto personalmente, esprimano il riprovevole contrasto (o indifferenza) con i valori della convivenza espressi dalle norme penali: l’obbligo di non ledere i valori penalmente garantiti richiede dunque la partecipazione volitiva del singolo alla realizzazione del reato[86]. Sempre nella decisione della Corte si legge che «il legislatore costituzionale intende garantire ai cittadini, attraverso la possibilità di conoscenza delle norme penali, la sicurezza giuridica delle consentite, libere scelte di azione»[87].

La possibilità di conoscenza intende dunque garantire la possibilità di scelta. Non si richiede l’effettiva conoscenza, per quanto teoricamente sostenibile, perché una simile pretesa valorizzerebbe unilateralmente il principio di colpevolezza, relegando in secondo piano le esigenze di prevenzione generale e di tenuta complessiva dell’ordinamento penale[88]. La conoscibilità del precetto penale, essendo un dato psicologicamente soltanto potenziale, è dunque strutturalmente estranea al dolo, che consta di coefficienti psicologici effettivi, e rappresenta invece un requisito ulteriore e autonomo di colpevolezza. Viene in tal modo accolta la c.d. teoria della colpevolezza (Schuldtheorie), la quale assume la coscienza dell’antigiuridicità come elemento a sé stante della colpevolezza, cosicché vi può essere dolo (in quanto altro elemento a sé stante della colpevolezza) anche se manca tale coscienza, in caso di ignoranza o errore evitabile sul divieto[89].

Al dolo non inerisce dunque la coscienza dell’antigiuridicità: il soggetto può essere in dolo anche quando non opera alcuna scelta per l’illecito perché la sua ignoranza dell’illiceità penale è evitabile, è dovuta cioè a sua colpa.

La «libera scelta d’azione», che costituisce – secondo questa sentenza – il primo presupposto della responsabilità (penale) è concetto che può essere riferito non solo alla scelta per l’illecito, ma anche e prima alla volontà come “principio dell’azione in generale”, e poi soprattutto alla rappresentazione e volizione del fatto (tipico)[90], pur essendo chiaro che quest’ultimo riferimento si attaglia alla forma originaria di responsabilità penale, a quella cioè dolosa, piuttosto che a quella colposa. Oggetto di questa libera scelta d’azione devono essere, perlomeno, gli elementi più significativi della fattispecie, identificati dalla Corte costituzionale, in un’altra sentenza (la 1085/88), in quelli che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie[91], e dalla dottrina in tutti gli elementi significativi, o meglio “fondanti”, rispetto all’offesa e alla riconoscibilità del fatto quale illecito[92]. A conferma dell’aggancio della significatività a un dato qualitativo come l’offesa (lesione o messa in pericolo) dell’interesse protetto vale la seguente definizione di «fatto», oggetto del dolo: «il fatto è l’insieme degli elementi oggettivi che individuano e caratterizzano ogni singolo reato come specifica forma di offesa a uno o più beni giuridici»[93].

Le decisioni della Corte costituzionale che affermano il principio di colpevolezza si inseriscono appieno nella logica del momento rappresentativo del dolo, cioè nel rimproverare al soggetto di avere avuto ben chiaro dinanzi agli occhi il fatto antigiuridico e di non essersi lasciato trattenere da quella rappresentazione ammonitrice[94]. Perché il momento intellettivo si proponga davvero quale “zoccolo duro del dolo”, quale “filtro razionale senza cui non può darsi un volere consapevolmente indirizzato”[95], perché funzioni insomma come elemento per orientare la scelta, è necessario il rispetto del principio di colpevolezza quale fissato dalla Corte costituzionale. Se allora si può prescindere dalla scelta per l’illecito quando il soggetto si è messo colpevolmente in stato di ignoranza, non è invece possibile prescindere dalla scelta per la dannosità del fatto, concepita in una dimensione sostanziale-concreta.

Questa libera scelta di azione si esprime appieno quando il soggetto conosce come certi gli elementi del fatto e prevede come sicuro che il suo comportamento realizzerà il fatto di reato, dato che chi agisce in questa situazione vuole la conseguenza (ritenuta) certa e necessaria della sua condotta; alla cognizione certa deve poi equipararsi, data l’impossibilità di ogni distinzione, la rappresentazione del fatto come altamente probabile. La nozione di responsabilità penale (id est colpevolezza) legata all’idea di scelta non solo trova naturale e logica conferma nel dolo diretto e in quello intenzionale (in cui il fatto che costituisce reato è addirittura preso di mira come scopo dall’agente) ma offre altresì un criterio di comprensione della forma di dolo dai confini più incerti[96], il dolo eventuale, nel quale l’agente si rappresenta come (concretamente e seriamente) possibili gli elementi del fatto e dunque ritiene solamente possibile che il suo comportamento realizzerà il fatto di reato. L’idea del dolo come scelta si può riferire al dolo eventuale a condizione che lo si intenda però come non come dolo di pericolo ma come accettazione dell’evento: tra l’agire e il non agire (o comunque tra l’agire così o l’agire diversamente) si sceglie di agire, pur consapevoli delle seriamente possibili conseguenze dannose collaterali ulteriori e accettando pure l’eventualità che tali conseguenze collaterali effettivamente si realizzino.

Nell’ottica dell’idea di scelta vengono in considerazione non le teorie che per definire la struttura del dolo eventuale accentuano il momento rappresentativo, ma quelle che a tal fine puntano sul momento volitivo. La struttura del dolo eventuale non è diversa da quella delle altre forme di dolo. Il momento conoscitivo consta della previsione da parte dell’agente della concreta possibilità del verificarsi dell’evento lesivo. Questo è però il requisito che fa da base all’essenziale momento volitivo e non è sufficiente ai fini della configurabilità del dolo eventuale, come invece ritiene la teoria della possibilità, secondo la quale agisce già dolosamente chi prevede la concreta possibilità di provocare la lesione di un bene giuridico e ciononostante agisce ugualmente, e la teoria della probabilità (che rappresenta una variante della prima), secondo cui sarebbe necessaria nell’agente una rappresentazione della verificazione dell’evento in termini di probabilità. Possibilità e probabilità di verificazione dell’evento sono, oltre che requisiti-base per la volizione, elementi essenziali in sede di accertamento dell’elemento volitivo, ma non possono descrivere l’essenza del dolo, costituita dal momento volitivo e in particolare, per noi, dalla scelta. Questa indagine quantitativa è utile per fornire indizi sulla presenza del dolo, così come a tal fine sono utili altri criteri pure proposti come indicativi dell’essenza del dolo eventuale: così per la teoria della operosa volontà di evitare, dove la predisposizione o meno di misure volte a ostacolare l’evento può fungere da orientamento in sede di accertamento, e così anche per le c.d. formule di Frank[97].

A maggior ragione insufficienti per descrivere il dolo eventuale sono le c.d. teorie emozionali, incentrate su un atteggiamento interiore dell’agente espresso in varianti terminologiche quali “approvazione”, “consenso”, “indifferenza”, “fiducia”, “speranza”, “desiderio”, ecc. Tutte queste espressioni indicano atteggiamenti psicologici ancora lontani da quella scelta consapevole per l’offesa del bene giuridico che rappresenta l’oggetto del rimprovero di colpevolezza: si tratta di elementi interni alla psiche dell’agente che semplicemente possono contribuire a fondare la scelta stessa, possono cioè “far muovere la volontà” ma non sono essi stessi “volontà”.

Il dolo eventuale non può fare a meno del momento volitivo: anzi, esso è ancor più necessario, dato che la verificazione dell’evento non è il fine immediato dell’agente e che egli non si rappresenta come certa la realizzazione del fatto. E’ necessaria un’appropriazione del fatto e questa appropriazione si ha con una presa di posizione, con una decisione, con una volizione, insomma con una scelta. Nella dottrina italiana l’attenzione sul momento volitivo nel dolo eventuale è comunemente affermata e talora questo momento viene espresso proprio con il termine “scelta”. Già Delitala affermava che «l’atto di volontà è atto di elezione, atto di scelta, e in tale scelta i risultati non desiderati sono stati, se previsti, sicuramente messi in conto, poiché rappresentano il costo del conseguimento del fine perseguito dall’agente»[98]. E ancora oggi nei manuali di diritto penale si afferma che «è necessario … che l’atteggiamento interiore manifestato dal soggetto si avvicini il più possibile ad una presa di posizione della volontà capace di influire sullo svolgimento degli accadimenti»[99], oppure si parla di una “presa di posizione”, di una “scelta di volontà”, orientata nel senso della lesione del bene tutelato[100], o ancora, ultimamente, si ritiene sussistente il dolo (eventuale) in tutti e soli i casi in cui la rappresentazione dell’evento come possibile pone l’agente in una condizione psicologica tale per cui la scelta di agire per la realizzazione del proprio obiettivo possa ritenersi consapevolmente fatta “a costo” della realizzazione dell’evento delittuoso, effettivamente (ancorché in termini di mera possibilità) rappresentato come connesso alla propria scelta d’azione[101].

Nell’ottica della scelta come fondamento della responsabilità dolosa, va segnalato che, dopo che già Engisch aveva evidenziato la «presa di posizione dell’agente rispetto al mondo dei beni giuridici»[102], la teoria che consente la «collocazione del dolo nel più intimo del soggetto agente» viene ritenuta (da Hassemer) quella del dolus eventualis come «decisione a favore della possibile offesa di un bene giuridico» («Entscheidung für die mögliche Rechtsgüterverletzung»)[103]. La migliore sintesi tra consapevolezza, volontà e decisione (e un richiamo espresso alla «scelta») è offerta da chi ritiene che la maggiore meritevolezza di pena del dolo rispetto alla colpa non dipenda soltanto dalla circostanza che il reo doloso abbia considerato le eventuali conseguenze della propria condotta, ma in più e soprattutto dalla sua «ponderata scelta di agire» in seguito a tale valutazione[104].

Nella dottrina italiana un riferimento espresso al momento della scelta è contenuto nell’opera di Prosdocimi sul dolo eventuale. Secondo l’Autore, posto che sia nelle ipotesi di dolo eventuale che di colpa con previsione si é in presenza di un evento (non perseguito intenzionalmente dall'agente e) previsto come possibile, la distinzione tra queste due forme di colpevolezza andrà ricercata non già sul piano della previsione ma sul piano della volizione. Così, si avrà dolo eventuale quando il rischio viene accettato a seguito di un’opzione, di una deliberazione con la quale l'agente consapevolmente subordina un determinato bene ad un altro, cioè, possiamo aggiungere, di una scelta: vi é la chiara prospettazione di un fine da raggiungere, di un interesse da soddisfare, e la percezione del nesso che può intercorrere tra il soddisfacimento di tale interesse e il sacrificio di un bene diverso; l'agente compie anticipatamente (sia pure in modo rapido) un bilanciamento degli interessi (suoi e altrui) in gioco e l'evento collaterale viene considerato come prezzo (eventuale) da pagare per il raggiungimento di quel determinato risultato[105]. In questo modo anche il dolo eventuale diventa espressione di una “volontà pianificatrice” coerente con la definizione del delitto doloso (“secondo l’intenzione”) fornita dall’art. 43 c.p.[106].

 

PARTE B

IL DOLO NEL DIRITTO PENALE ROMANO

 

1. – Il diritto penale romano

 

Il diritto penale romano pone anzitutto il problema dell’autonomia concettuale e scientifica della materia. Già Mommsen nella prolusione zurighese del 1852 osserva che il diritto penale è, per sua stessa natura, più di ogni altro diritto soggetto alle leggi del mutamento secondo i tempi[107]. Ciò induce Mommsen a una scelta metodologica in cui sistema e storia cercano faticosamente di trovare un giusto equilibrio: il diritto penale assume pertanto una posizione mediana (Zwischenstellung) tra storia e sistema[108].

Nell’elaborazione giurisprudenziale romana non trova mai riconoscimento un complesso di norme e di istituti unitariamente raccolto dalla scienza giuridica romana sotto la categoria “diritto penale”, separato da altri sistemi di riferimento (ius civile, ius honorarium, ius privatum, ius publicum)[109]. Tanto meno appaiono formulati dai giuristi e dai legislatori princípi generali – per esempio in tema di elemento soggettivo – che possano portare alla costruzione di quella che oggi definiremmo una “parte generale” del diritto penale[110]. I giuristi romani dedicano sì attenzione ai profili penalistici, i legislatori egualmente pongono norme specifiche e complessi normativi (relativamente elaborati) per la repressione dei fatti illeciti: tuttavia mai viene raggiunta l’autonomia scientifica del profilo penale rispetto all’insieme del ius[111]. Secondo la dottrina romanistica ciò dipende in prevalenza dalla vicenda storica per cui i giuristi non sono chiamati in materia penale a esercitare quell’attività di consulenza interpretativa, che li rende viceversa ineguagliati artefici della elaborazione scientifica del diritto privato: il complesso delle norme penali pubbliche è considerato a Roma quale strumento ed emanazione diretta della funzione repressiva delle autorità cittadine e statuali[112].   

Questa vicenda storica spiega perché nell’esperienza romana è assai difficile distinguere tra diritto penale sostanziale e diritto penale processuale[113]. L’individuazione, infatti, dei comportamenti da vietare e reprimere è per molto tempo così intimamente connessa con l’attività punitiva che la dottrina romanistica riconosce arduo, e storiograficamente distorsivo, trattare separatamente delle fattispecie dei reati (e di quanto attiene alla previsione dell’assoggettabilità a pena) e dell’applicazione giudiziale delle sanzioni[114].

Un altro elemento caratterizzante il diritto penale romano (soprattutto dell’età più antica) è il carattere di “sacralità” che assumono sia le previsioni normative che le sanzioni[115].

Il diritto penale romano si trascina ancora i pesanti e autorevoli giudizi di Mommsen (che pure dedicò al diritto penale romano la prima grande ricostruzione storica moderna) che lo qualifica “pessimo e in parte veramente infame”[116] e di Carrara, che sostiene che i romani sono stati giganti per quanto attiene alla costruzione del ius privatum, pigmei nella repressione criminale e che dunque “il giure romano non è sempre sicura guida nelle materie penali”[117]. Prima ancora Beccaria definisce “uno scolo de’ secoli i più barbari” anche “leggi” dell’antica Roma[118]. Peraltro anche oggi, in uno dei più autorevoli manuali italiani di diritto penale, si legge che nel diritto penale romano «mancò una elaborazione scientifica paragonabile, sia pure lontanamente, a quella del diritto civile»[119].

Andare alla ricerca della nozione di dolo nel diritto penale romano è reso ancora più difficile dal fatto che mai i giuristi romani assurgono a concezioni astratte nel diritto penale né mai formulano teorie generali, secondo il tipico stile romano, che “costruisce senza formulare”[120].

Una teoria generale sul dolo – che dunque non ci è trasmessa dai Romani[121] – viene ricostruita poi dai romanisti e dai penalisti con riferimento ai delitti di sangue, per i quali solamente si pongono i problemi della sua esistenza (per il riconoscimento di responsabilità penale) e della sua intensità.

Seguiremo ora la nozione di dolo nelle diverse età, ponendo come base in ciascuna epoca storica l’espressione normativa più rilevante e non trascurando di descriverne – data l’intima connessione – il sistema processuale. A proposito della connessione col sistema processuale va segnalato che lo spazio di tempo nel quale il concetto di dolo può emergere con più facilità dalla prassi è soprattutto il periodo tra il IV secolo a.C. e il I secolo d.C.: dopo, i regimi sempre più scopertamente autocratici e arbitrari rendono ardua la ricerca di sistemi di garanzia del cittadino, nonostante i tentativi della giurisprudenza antonina e severina di porre qualche argine[122].

 

 

2. – La lex Numae: la distinzione tra omicidio doloso (“dolo sciens”) e omicidio colposo (“imprudens”). Il rilievo dell’elemento intellettivo nel dolo

 

Nell’età più antica il rilievo limitato della legislazione penalistica e l’ampiezza della discrezionalità del potere magistratuale rappresentano fattori che si riflettono sulla concezione che i Romani avevano della materia penale: essa non assurge a vera autonomia. Si afferma infatti che, mentre il diritto privato merita il nome di ius, per la materia penale ci si trova di fronte a un complesso di atti repressivi e non di istituti o situazioni oggetto di elaborazione dottrinale e autonomia tecnica[123].

Nonostante tali limiti è comunque possibile indagare la rilevanza che i Romani attribuiscono all’elemento soggettivo, perlomeno – come già detto – con riferimento all’omicidio, dato che altri illeciti (anche affini all’omicidio) rilevano oggettivamente (il membrum ruptum o l’os fractum) mentre altri ancora non possono non essere dolosi (così il furtum e il malum carmen incantare)[124].

Il più antico diritto penale romano è dominato dalla cosiddetta lex Numae, il cui celebre precetto è: “si quis hominem liberum dolo sciens morti duit paricidas esto[125]. Questa disposizione, della quale subito chiariremo il senso, trova un precedente nel mondo greco – come altre del più antico diritto romano – nella legge di Draconte, che distingue, come osservato, tra omicidio volontario (Φόνος εκούσιος) e omicidio involontario (Φόνος ακούσιος). La norma romana, attribuita a Numa, sembra che imponga ai congiunti dell’ucciso di uccidere (o far uccidere) l’omicida, magari assicurato alla “giustizia” e messo a loro disposizione dalla comunità[126]: tutto ciò allo scopo di impedire, come nella legge di Draconte in Grecia, che nella situazione di impurità derivante dal sangue versato, essi si accontentino della composizione pecuniaria[127]. La complementare statuizione sull’omicidio colposo “si quis imprudens occidisset hominem, pro capite occisi agnatis eius in contione offerret arietem” impone invece all’autore del crimine di consegnare, alla presenza del popolo, un ariete ai parenti dell’ucciso, affinché sia sacrificato in sua vece[128]. Secondo la tradizione un’eco della regolamentazione sacrale dell’omicidio colposo si troverebbe anche nelle dodici tavole, con ciò confermando, a contrario, il regime dell’omicidio doloso[129].

La distinzione numana rileva in primo luogo sotto il profilo della repressione criminale, perché apre la strada all’avocazione allo “Stato” della persecuzione dell’omicidio e al superamento quindi della vendetta con una pena pubblica[130]: «Mirabile che Roma abbia fatto così presto un simile passo!» esclamava Ferrini.

Pena “pubblica”, con significato di espiazione religiosa, è anche quella riservata all’omicidio colposo, dato che la consegna dell’ariete avviene alla presenza del popolo. Sia nell’omicidio doloso che in quello colposo, è dunque il coinvolgimento della comunità ad attribuire il carattere di pubblicità alla sanzione. E’ bene precisare che è necessario astrarre da quella che è oggi la comprensione dell’ordinamento statuale: si può scorgere la configurazione di quella società politica che noi chiamiamo “Stato”, ma insieme la dottrina romanistica sottolinea i limiti originari segnati dalla genesi e dalla funzione, in rapporto alla coesistenza degli organismi minori, che conservano il carattere di organismi politici[131].

In secondo luogo, sotto il profilo sostanziale, la rilevanza attribuita all’elemento soggettivo significa il superamento dell’arbitrio prima vigente, quando cioè la vendetta dei familiari veniva esercitata indiscriminatamente, anche in caso di omicidio colposo, preterintenzionale o “legittimo”[132].

Sul significato storico della lex Numae non vi è accordo tra i due massimi cultori del diritto penale romano, Mommsen e Ferrini. Alla lex regia viene attribuito da Mommsen un significato storico fondamentale, giacchè essa contiene il primo barlume di considerazione soggettiva dell’atto delittuoso[133]. A questa considerazione si oppone Ferrini a parere del quale in tutta la civiltà indoeuropea si hanno chiari segni, anche antichissimi, della punizione del crimine sempre in base a una volizione cagionante. La norma sull’omicidio presenta dunque «il carattere di una tradizione formante parte del patrimonio morale e giuridico più vetusto»[134].

Comunque sia di ciò, con questa lex è fissato un limite all’indiscriminata reazione dei parenti, nel senso che viene considerato omicida, e sottoposto alla controversa sanzione (“paricidas esto”)[135], solo chi commette il fatto – si dice – “con prava intenzione e consciamente” (“dolo sciens”)[136].

La terminologia variamente usata (sciens, sciens prudensque, sciens dolo malo) per indicare la responsabilità dolosa porta a concludere che solo il momento conoscitivo venga preso in considerazione, dato inoltre che non risulta alcuna indicazione che espressamente richiami il momento volitivo in relazione all’evento. Inoltre si ritiene non troppo ardito (gewagt) pensare che nei casi più gravi sia sufficiente il dolo eventuale[137]. 

In realtà il significato dell’espressione “dolo sciens” è assai controverso. E’ dubbio innanzitutto che lo “sciens” sia originario, così come si dubita che la formula contenga anche l’aggettivo “malo[138].

Ma soprattutto i dubbi sorgono dall’etimologia. Nel greco antico δόλος significa “esca per i pesci” (così nell’Odissea, XII, 52); il corrispondente dolus latino esprime sostanzialmente il concetto di astuzia, inganno[139]. L’uso di dolus per qualificare l’elemento soggettivo del reato porta Binding ad accomunare il concetto di dolo del diritto romano a quello del diritto criminale greco e a quello del diritto germanico primitivo: non l’agire cosciente e volontario, ma l’uso di astuzia e inganno nel compimento della condotta delittuosa[140]. Questo concetto di dolo viene giudicato però un fraintendimento, dovuto all’origine lessicale del termine e a un’analisi incompleta delle fonti. Il termine dolus, certamente acquisito a Roma o direttamente dalla Grecia o attraverso la civiltà italiota, attribuisce sì il massimo significato possibile all’elemento intellettivo nella condotta criminosa ma non induce certamente a limitare la punizione ai fatti commessi con frode: «dove e come infatti si punirebbe l’omicidio solamente intenzionale?»[141].

 

 

3. – La lex Cornelia de sicariis et veneficis: il dolus malus quale espressione dell’elemento volitivo

 

A partire dall’età repubblicana nel sistema giuridico-religioso romano si distinguono due ordini di fatti illeciti, i crimina e i delicta; entrambi illeciti penali nel senso che ambedue danno origine a una sanzione punitiva per il reo, ma distinti quanto alla forma di persecuzione processuale, che nel caso dei crimina si attua con le forme della repressione pubblica, mentre nei delicta con le forme del processo privato[142].

In questa fase il diritto penale sostanziale – riferito d’ora in poi ai crimina  non riceve nuovi impulsi fino all’emanazione della lex Cornelia de sicariis et veneficis.

Allo sviluppo e al possibile approfondimento del significato di dolus contribuisce invece – nel passaggio dall’epoca regia alla Roma repubblicana – il diritto processuale, con il superamento dell’arcaico sistema formalmente sacrale della repressione criminale e la successione al rex, nell’esercizio della persecuzione, dei magistrati della respublica (quaestores, duumviri e, con importanza sempre crescente, tribuni della plebe). Questi promuovono d’ufficio i giudizi davanti alle assemblee popolari, che decidono attraverso una procedura complessa, che impegna il magistrato e il popolo per più giorni.

Data la complessità dei iudicia populi accanto a essi esistono altre forme di repressione. Gli illeciti più comuni, furto e ingiuria, vengono sanzionati da pene di carattere privato, perseguite dall’offeso mediante il processo civile ordinario; altri illeciti di poco conto, come la piccola delinquenza di strada, sono oggetto di amministrazione più che di giurisdizione, di polizia più che di persecuzione, e danno luogo a una semplice castigatio in via di polizia. Ma anche con riguardo agli illeciti più gravi, e rispetto ai quali si prospetta un problema di accertamento dell’intenzionalità, come l’omicidio, operano i tresviri capitales. Questi svolgono un’attività complessa e articolata: da alcuni accenni di Cicerone nella pro Cluentio si apprende che essi ricevono la denuncia del crimine, procedono all’interrogatorio dell’accusato, ne dispongono la custodia in carcere, fanno ricercare i mandanti, organizzano i confronti; insomma svolgono un’attività di investigazione e istruzione sommaria, il cui scopo precipuo è di evitare l’instaurazione di processi inutili e di preparare materiale vagliato per i processi invece da instaurare[143].

Vari fattori spingono verso un procedimento più duttile e più snello: la crescente espansione territoriale e urbana che si ha tra la fine del III e gli inizi del II secolo, la complessità delle questioni portate davanti alle assemblee, il meccanismo processuale eccezionalmente prolisso, la proletarizzazione delle masse urbane, che rende i comizi sempre più facilmente vulnerabili dalle influenze demagogiche suscitando l’ostilità dell’aristocrazia senatoria[144]. Reati di massa, che minacciano la sicurezza pubblica e in genere l’autorità dello Stato, come congiure, delitti commessi da bande, associazioni per delinquere diramate in più città, vengono portati, solitamente ad opera di delatores, davanti al senato, che esamina i casi e, se ne ravvisa l’opportunità, istituisce una cognizione straordinaria (quaestio extra ordinem). I magistrati incaricati della quaestio sono investiti del compito di cognoscere et statuere, cioè non solo di accertare i fatti ma anche di pronunciare il giudizio. Quaestiones analoghe sono in seguito disposte anche dal popolo su iniziativa dei tribuni della plebe (soprattutto per reprimere gli abusi perpetrati da magistrati romani a danno delle popolazioni soggette)[145].

Ai fattori che portano alla istituzione di quaestiones extra ordinem, si aggiunge la creazione – dovuta alla complessità che viene assumendo lo Stato romano con la sua espansione – di nuove fattispecie di illecito che abbisognano di indagini accurate. L’antico processo davanti ai comizi e le repressioni straordinarie cedono progressivamente il passo alle quaestiones perpetuae[146], tribunali stabili, istituiti per legge, che diventeranno l’organo ordinario della repressione criminale dell’ultima età repubblicana e dei primi tempi dell’impero.

La fattispecie che diede origine al movimento di riforma e il cui approfondimento concorse ad attribuire al diritto penale una sua propria consistenza e autonomia fu il crimen repetundarum, cioè la concussione dei magistrati provinciali[147]. Sull’esempio della lex Calpurnia, altre nuove quaestiones e dunque altre figure di illecito pubblico vengono create con apposite leges[148].

La creazione con legge di nuovi tribunali per nuovi reati attribuisce al diritto penale romano dell’età classica – ancora più chiaramente rispetto all’età arcaica – una caratteristica particolare, la preminenza cioè dell’aspetto processuale. Così come il diritto privato appare come un insieme di azioni giudiziarie, pur essendovi anche le situazioni e i negozi giuridici, la mentalità concreta dei Romani fa sì che il diritto penale sia l’insieme dei iudicia publica, dato che la sfera sostanziale trova attuazione (o meglio “espressione”) nel processo. I crimina e le leggi che li regolano, appaiono, sul piano tecnico e formale, come sistemi di procedimenti[149]. Il carattere casistico del diritto penale romano, il suo originario e caratteristico aspetto processuale, impediscono la formazione dell’ipotesi tipica, astratta o “normale”, di reato, e consentono tuttalpiù la classificazione delle modalità concrete delle forme di realizzazione dell’illecito in funzione delle loro ricadute pratiche sulla variazione della pena. «Il concetto di delitto – si ritiene – è assorbito, per un verso, dall’actio con la quale lo si accerta e si persegue in processo, per altro verso dalla pena con cui viene sanzionato»[150].

In un tale sistema, l’accertamento del fatto (e a maggior ragione dell’elemento soggettivo) non è connotato da alcuno dei requisiti legalistici e garantistici propri della nostra moderna mentalità giuridica.

«Legum servi sumus ut liberi esse possimus», stando a Cicerone. Ma questa è un’aspirazione più che la realtà normativa a Roma. Infatti sul rispetto del principio di legalità e dei suoi sottoprincipi non vi è accordo nella dottrina romanistica. Alla tesi di Mommsen, che ravvisa in certi momenti dell’esperienza criminalistica romana un’etica di garanzia dei diritti di libertà individuali[151], si contrappone già ai suoi tempi l’opinione di von Jhering per cui “è nel diritto criminale che l’impero della legge si è meno manifestato”, proprio in quel settore del diritto, spiega von Jhering, “in cui le nostre idee lo reclamano di più”[152]. Anche più recenti posizioni, analizzando complessivamente e realisticamente il sistema, giungono a conclusioni opposte a quelle di Mommsen[153]. Basti pensare ai principi di irretroattività e di determinatezza. Quanto al primo, le disposizioni colpiscono spesso attività già compiute. Quanto al secondo, la descrizione dei fatti punibili è imprecisa e attribuisce all’interprete una discrezionalità amplissima: seppure in età più tarda, ma esprimendo un concetto comune, Modestino (allievo di Ulpiano) scrive che i reati si individuano non solo “ex scriptura legis” ma anche “ad exemplum legis”.

A proposito di altri principi di garanzia, questa volta di tipo processuale, propri della nostra mentalità e del nostro tempo, la situazione è parimenti ben diversa da quella di oggi. Innanzitutto la terzietà del giudicante non è assolutamente assicurata. Di fatto, poi, non vige la presunzione di innocenza, quanto piuttosto – come fa intendere Cicerone nell’esordio dell’oratio pro Cluentio – una sorta di presunzione della colpevolezza dell’accusato: vi è un capovolgimento del ruolo delle parti per quanto attiene alla prova, ed è il prevenuto a doversi scagionare dall’accusa, anche quando l’accusatore non adduce prove risolutive. Fino al primo Principato, manca un vero e proprio secondo grado di giudizio. Infine le sentenze non hanno motivazione, essendo costituite da una sommatoria di voti pro o contra[154].

Seppure con i limiti segnalati nell’accertamento processuale, nuovo e decisivo impulso al diritto penale romano, nell’ottica dell’elemento soggettivo, viene conferito dalla lex Cornelia de sicariis et veneficis[155]. Questa legge, che unifica due distinte quaestiones operanti in tema di omicidio in epoca presillana, deferisce ad apposito tribunale gli omicidi commessi con uso di armi o di sostanze venefiche (non esistendo armi da fuoco, il veleno era il mezzo più usato): accanto all’omicidio sono punite tutta una serie di altre condotte (il portare armi in luogo pubblico allo scopo di compiere assassini o saccheggi, l’incendio doloso e le attività intese a ottenere, in un processo capitale, la pronuncia di una condanna ingiusta) che possono sì portare alla morte di altri uomini (e in questo senso sono atti preparatori), ma che vengono punite per sé stesse e non quali atti di tentativo[156].

Per la dottrina penalistica tedesca di fine ottocento – non solo Löffler, ma anche Klee, von Bar e Binding – questa legge rappresenta un punto di svolta nella considerazione dell’elemento soggettivo. La volontà malvagia (böse Wille), che nella precedente legislazione non rilevava, assume un ruolo preminente. Per il diritto romano classico vale da ora il principio che il fondamento della responsabilità penale risiede nella volontà[157]. Si sostiene addirittura che questa trasformazione della concezione di responsabilità, operata dalla lex Cornelia e dalla successiva giurisprudenza, rappresenta un fatto tra i più importanti della storia umana. La nuova concezione della responsabilità porta la giurisprudenza romana a una tale altezza da costituire un “luminoso esempio” nei secoli bui del medioevo[158].

I motivi di questa trasformazione della concezione di responsabilità vengono ravvisati nella nuova struttura statale e nell’influsso della filosofia greca[159]. Riguardo all’influsso della filosofia greca, nel complesso la Schuldlehre del diritto penale romano è ritenuta una ben riuscita trasmissione nel campo giuridico dei principi dell’etica di Aristotele[160].

Quanto alla nuova struttura statale, essa ben presto limita il diritto di vendetta. Ad arginare l’eccitamento degli animi serve la valvola di sfogo rappresentata dal sistema delle pene private, nel quale a lungo si perpetuano gli antichi modi di vedere. In cambio l’elemento della vindicta privata viene espulso dal settore della giustizia penale, dove ora assume un ruolo di primo piano l’interesse pubblico.

Sotto l’influsso soprattutto di Platone e Aristotele[161], l’essenza dell’interesse pubblico a punire viene descritta nelle opere di Cicerone (pro Rab., 3,10) e di Seneca. L’idea della pena come vendetta viene respinta e trova invece posto il problema della umanizzazione della pena. Quando Seneca nel de Clementia (I, 22) indica le finalità della pena, così si esprime: “Transeamus ad alienas iniurias, in quibus vendicandis haec tria lex secuta est, quae princeps quoque sequi debet: aut ut eum, quem punit, emendet, aut ut poena eius ceteros meliores reddat, aut ut sublatis malis securiores ceteri vivant[162].

Con la dichiarazione dell’interesse pubblico alla punizione, si crea lo spazio nel quale può svilupparsi, sempre sulla scia dell’etica aristotelica, il principio di colpevolezza[163]. Ma questo nuovo fondamento della responsabilità criminale non si esprime formalmente: esso piuttosto rappresenta un postulato etico autonomo, che influenza in vario modo legislazione, dottrina e giurisprudenza romane, in primo luogo e in generale nel dolo, poi nella teoria del tentativo e infine nell’escludere la punizione del delitto non voluto[164].

La dottrina penalistica tedesca sostiene che con questa legge si imprime nuovo e decisivo impulso al diritto penale sostanziale romano poiché si passa da una concezione dell’illecito centrata essenzialmente sulla causazione dell’evento a una considerazione più attenta del momento soggettivo, e dunque anche della volontà[165].

La dottrina romanistica non condivide questo rilievo eccezionale attribuito alla Lex Cornelia. La ipervalutazione di questa legge – che peraltro non menziona esplicitamente il requisito del dolo di omicidio[166] - nello studio dell’elemento soggettivo, deriverebbe probabilmente da un frammento del Digesto:

 

D. 48,8,7 – Paulus libro singulari de publicis iudiciis: In lege Cornelia dolus pro facto accipitur. neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur. quare si quis alto se praecipitaverit et super alium venerit eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum deiceret, non praeclamaverit et praetereuntem occiderit, ad huius legis coercitionem non pertinet[167].

 

Questo frammento e in particolare il celebre inciso “In lege Cornelia dolus pro facto accipitur” è inteso come un’allusione alla circostanza che il dolo è presunto nella lex Cornelia in alcuni fatti non equivoci, come per esempio andare armati in città allo scopo di commettere aggressioni: ma in realtà la frase del Digesto si ritiene frutto dell’accentuata valutazione dell’elemento intenzionale propria delle dottrine allora vigenti; inoltre si reputa necessario tenere conto del particolare periodo storico in cui la lex Cornelia è emanata e dunque del clima di disordine dell’età sillana[168]. La legge sillana è infatti una legge di ordine pubblico, volta precipuamente alla restaurazione dell’ordine e della sicurezza pubblica dopo i convulsi anni della guerra civile e solo in via secondaria alla persecuzione dell’omicidio[169]. Ecco dunque il motivo dell’affiancamento in un’unica legge di fatti diversi, alcuni in senso lato preparatori di altri, ma comunque puniti autonomamente.

Il differente rilievo attribuito alla lex Cornelia dai romanisti da una parte e dai penalisti (tedeschi di fine ottocento) dall’altra deriva probabilmente dalla diversa ottica di studio: forse più attenta al contesto storico quella dei romanisti, invece più orientata al confronto con l’attualità quella dei penalisti, ai quali inoltre non sfugge che quando nel medioevo si riprende a meditare sulla dimensione soggettiva dell’illecito, è proprio la lex Cornelia a rappresentare la base “nobile” per questa rinascita.

Insieme a quanto previsto dalla lex Cornelia, i termini e le formule che in generale nelle fonti sembrano esprimere il concetto di dolo sono: dolo, sciens dolo, dolo malo, sciens dolo malo, sciens, sciens prudensque, voluntas, data opera, consulto, sponte, consilium, adfectu, proposito[170]. I due massimi cultori (romanisti) del diritto penale romano ritengono queste espressioni perfettamente equivalenti: per Mommsen, che parte dal presupposto che la nozione di delitto esiga nella persona capace di agire una volontà contraria alla legge, queste circonlocuzioni sinonime si specificherebbero poi nell’animus proprio di ogni singola figura delittuosa[171]; per Ferrini, nessuna distinzione è possibile, e dolo è «né più né meno, che la consapevolezza del torto che si vuole commettere»[172].

Queste espressioni del concetto di dolo si inseriscono in un quadro che riflette la mentalità dei Romani e quindi il carattere delle loro fonti giuridiche: l’affermazione, l’esclusione o l’attenuazione della responsabilità non sono legate a uno schema logico generale. Non esistendo dunque una teoria generale della colpevolezza, le ipotesi sono esposte confusamente e a quelle in cui si delinea una responsabilità dolosa si trovano affiancate altre che noi definiremmo (secondo gli schemi odierni) di esclusione della coscienza e volontà dell’azione od omissione, di esclusione della colpevolezza (scusanti), di esclusione dell’antigiuridicità e di esclusione dell’imputabilità[173]. Non di rado poi il dolo è parafrasato con parole che accennano piuttosto alla malvagità dell’impulso, e pare confondersi pertanto con il motivo dell’azione[174].

E’ plausibile sostenere che questa vaghezza di significato derivi dal sistema processuale. Le semplificazioni probatorie e l’assenza di principi garantistici (in particolare dell’obbligo di motivazione delle sentenze) rendono sostanzialmente inutile l’elaborazione (scientifica e/o giurisprudenziale) di un concetto più preciso[175].

Una definizione del dolo come quella di Labeone secondo cui “dolum malum esse omnem calliditatem fallaciam machinationem ad circumveniendum fallendum decipiendum alterum adhibitam”, è propria del diritto civile e di quello processuale (actio doli). Tale formula viene ritenuta inapplicabile – con l’eccezione dello stellionatus[176] – nel diritto penale romano[177]. Al concetto romano di dolo meglio si attaglia un profilo etico, peraltro non rigidamente definibile[178]. Così quando in Ulpiano (D. 47,12,3,1) si esclude la responsabilità dei malati di mente e dei minori di età, ciò viene motivato proprio con la incapacità di dolo (personae igitur doli non capaces)[179]. Egualmente quando in Gaio si vuole escludere la responsabilità penale di chi abbia agito nell’esercizio di un diritto si usa la formula “nullus videtur dolo facere, qui suo iure utitur” (D. 50,17,55). Ancora a proposito di chi agisca in stato di necessità, Ulpiano afferma “si tamen vi metuque compulsus fuit hic qui distractus est, dicemus eum dolo carere” (D. 40,12,16,1). Infine una eccezione alla regola “error iuris nocet” (riguardo alla violazione di un divieto di apertura del testamento posto da un senatoconsulto) dovuta alla presenza di imperitia o rusticitas viene ricostruita in Ulpiano dal punto di vista del dolo: “Et si sciens, non tamen dolo aperuit, aeque non tenebitur, si forte per imperitiam vel per rusticitatem ignarus edicti praetoris vel senatusconsulta aperuit” (D. 29,5,3,22): l’ignoranza dovuta a colpa esclude il dolo[180].

L’accento morale nel concetto romano di dolo sembra confermato poi dall’attenzione prestata ai motivi dell’agire e dall’insistenza sul dolo d’impeto, ritenuto eticamente meno riprovevole di quello di proposito.

Pur condividendo che il concetto di dolo nel diritto penale romano riveste un contenuto etico[181], la dottrina penalistica non rinuncia però a ravvisarvi anche un significato tecnico-giuridico. I termini e le formule che esprimono il concetto di dolo segnalerebbero un uso linguistico “aperto” del termine dolus: accanto a un significato tecnico-giuridico da riportare al concetto di absicht (“intenzione”) ne esisterebbe un altro più generico, non ben precisato dalla giurisprudenza romana[182]. Questo significato più generico potrebbe essere riferito sia al dolo-circumventio-vizio del consenso, come nello stellionato, sia al dolo quale designante l’illiceità del fatto, come nella locuzione “nullus videtur dolo facere, qui suo iure utitur[183].

Il concetto tecnico-giuridico di dolo nel diritto penale romano dell’età classica si ritiene contrassegnato dall’idea fondamentale che la responsabilità giuridica (e morale) è fondata sulla volontà. Questo sarebbe confermato dall’uso di termini quali voluntas, animus, consilium, consulto, data opera, sponte, proposito, vulneravit “ut occidat”; ma ciò varrebbe anche nell’uso di termini più antichi, quali sciens, sciens prudensque, sciens dolo malo, dove si presuppone comunque che chi realizza coscientemente una fattispecie, l’abbia anche voluta. Sarebbe un significato riferibile all’antico dolus directus, l’absicht della dottrina tedesca: è voluto l’evento, non solo il movimento corporeo[184].

La prospettiva di studio dell’elemento soggettivo in diritto romano non è solo quella che fa leva sulle fonti giuridiche, dove prevale spesso il senso obiettivo di fatto illecito e che non offrono di solito che una stringata terminologia, ma anche quella che poggia sulle fonti letterarie, dove si ritrova lo spirito che anima la materia penale. E proprio nelle opere retoriche di Cicerone troviamo tracce di come viene “sentita” nella prassi la responsabilità dolosa[185].

Come già in Platone e Aristotele, oggetto di particolare attenzione sono i casi di reati commessi per impetus, cioè per moto o perturbamento dell’animo, per provocazione, per violenta passione o sotto i fumi dell’alcool. Come osserva Ferrini, «finché si può dire che egli ha voluto uccidere, rimane intatta l’ipotesi della legge»[186]. La circostanza che l’autore del fatto sia stato mosso da impetus non vale giuridicamente a escludere il dolo e dunque la responsabilità, ma rappresenta dal lato morale un’attenuante. Cicerone nel De officiis (1,8,27) afferma che «Laeviora enim sunt ea, quae repentino aliquo motu accidunt quam ea, quae meditata et praeparata inferentur». Ma, di principio, ciò non vale a scusare in un regolare processo l’autore del fatto: l’impetus può rappresentare una difesa solo nelle libere dispute (dove cioè, senza che il giudizio sia vincolato al testo di una legge, si può discutere sulla maggiore o minore gravità morale di un fatto). Pertanto Cicerone nelle Partitiones oratorie (12,43) dice: «Nam quae motu animi et perturbatione facta sine ratione sunt, ea defensionem contra crimen in legitimis iudiciis non habuit, in liberis discreptationibus habere possunt». Sempre Cicerone però ammette (in De inventione, 2,28) che, di fatto, in casi estremi l’abilità oratoria può portare i giurati, posti di fronte all’alternativa di una piena condanna o di un’assoluzione e senza dovere rendere conto in motivazione, a un verdetto di assoluzione: «criminatio … laevabitur … si eiusmodi demonstrabitur iniuria, ut non modo viro bono, verum homini libero non fuisset toleranda»[187].

 

 

4. – Dalle quaestiones perpetuae alla cognitio extra ordinem. La prassi in tema di elemento soggettivo: “Delinquitur autem aut proposito, aut impetu aut casu”. Il concetto di animus

 

Quando si passa dalle quaestiones perpetuae alla cognitio extra ordinem le possibilità di influire sulla discrezionalità del giudicante diminuiscono sempre più. Il sistema delle quaestiones perpetuae non può incontrare il favore del nuovo regime: il compito di giudicare è attribuito a privati cittadini, le liste sono troppo ampie per consentirne un controllo, sorgono nuove figure di reato per cui è troppo dispendioso creare appositi tribunali. Così, pur essendo testimoniate ancora per tutto il secondo secolo d.C., le corti permanenti cedono progressivamente il passo a nuovi organi di giustizia. L’intera questione viene ora affidata all’imperatore (o a un suo delegato) il quale è investito in modo completo del giudizio, dalla sua introduzione alla sua decisione. Tale procedura è definita correntemente come cognitio extra ordinem, perché sorge e si sviluppa al di fuori del sistema processuale e criminale dell’ordo iudiciorum, e quindi senza i vincoli e le restrizioni formali della giurisdizione ordinaria[188].

Per quanto riguarda le fattispecie criminose, il diritto penale del principato presenta una compenetrazione reciproca delle figure di delitto previste nelle leggi istitutive delle quaestiones e delle innovazioni apportate dagli interventi imperiali e dall’attività giudiziaria extra ordinem[189]. Nel complesso le figure di reato rimangono le stesse della tradizione tardo-repubblicana e vengono invece aggravate radicalmente le pene.

Se da un lato diminuiscono le possibilità per le parti di influire sulla discrezionalità del giudicante, dall’altro aumentano il proprio potere discrezionale gli organi che giudicano extra ordinem. Mentre le corti permanenti delle quaestiones si pronunciavano sulla responsabilità dell’accusato senza possibilità di commisurare le sanzioni immutabilmente previste dalle leggi istitutive delle quaestiones, nella procedura extra ordinem gli organi giudicanti hanno la possibilità di adeguare la pena alla gravità del fatto, muovendosi in un ambito di discrezionalità delimitato da generiche istruzioni imperiali e dalla prassi instauratasi in precedenti decisioni[190]. Tale discrezionalità, non libera ma vincolata al potere assoluto del principe, permette comunque di tenere conto dei diversi gradi di colpevolezza dell’accusato, oltre che delle circostanze aggravanti e attenuanti, dell’età, del sesso e della condizione personale del reo[191].

Influenzata dalle dottrine platoniche e aristoteliche, la prassi instauratasi in tema di elemento soggettivo è descritta nel noto frammento di Marciano (D. 48,19,11,2) dove è in qualche modo accennata una sistematica della colpevolezza: «Delinquitur autem aut proposito, aut impetu aut casu. Proposito delinquunt latrones, qui factionem habent: impetu autem, cum per ebrietatem ad manus aut ad ferrum veniunt: casu vero, cum in venando telum in feram missum hominem interfecit»[192]. Col tramonto delle quaestiones perpetuae e con l’affermarsi della cognitio extra ordinem diventa ora possibile la considerazione di “attenuanti soggettive”, quale la situazione di chi agisce impetu. Così non solo in Marciano, ma prima in Papiniano e poi in un rescritto di Antonino Pio, nel caso tipico dell’uccisione della moglie colta nell’infedeltà si prevede una mitigazione di pena. Nel rescritto di Antonino Pio si parla esplicitamente dell’impetus (“impetu tractu doloris interfecerit”) e della remissione della pena capitale, “cum sit difficillimum iustum dolorem temperare” (D. 48,5,39,8)[193].

Nel passo di Marciano come esempio di reato di impeto viene indicato quello commesso in stato di ubriachezza. Per fatto avvenuto casu si prospetta l’ipotesi del dardo indirizzato contro la fiera e che invece colpisce un uomo. In realtà in questo comportamento potrebbe ravvisarsi – secondo gli schemi odierni – una responsabilità colposa (per imprudenza o negligenza o imperizia), e del resto sono numerosi i testi in cui si parla di casus e nei quali non sempre il termine si può intendere come caso fortuito[194]. La considerazione secondo gli schemi attuali di casus e impetus non trova d’accordo la dottrina romanistica, e l’ipotesi del comportamento colposo viene ricondotto sia alla nozione di impetus[195], sia invece a quella di casus[196]. Nella dottrina penalistica solleva ugualmente dubbi la collocazione sistematica di fatti commessi in stato di lascivia, luxuria, cupiditas, e in generale in situazione di “euforia”: in questi casi si ritiene presente nel soggetto una rappresentazione, seppur talora minima, delle conseguenze lesive, sufficiente per la responsabilità dolosa[197].

Meno dubbi rispetto a quelle di casus e impetus solleva la nozione di propositum, che invece esprime la piena intenzionalità, come nell’esempio di Marciano dei latrones che si riuniscono in banda proprio allo scopo e con deliberato proposito di commettere crimini.

In generale si può affermare che la procedura extra ordinem consente maggiore flessibilità nel giudizio sul fatto e nella commisurazione della pena. Quanto all’elemento soggettivo – si è osservato – rimane fermo che è richiesto il dolo, inteso come volontarietà (intenzionalità); nella fase più tarda del principato vengono tuttavia sanzionate anche condotte involontarie (non intenzionali), sempre che sussista almeno un alto grado di colpa[198].

Proprio alla intenzionalità si richiamano le definizioni del concetto di dolo fornite dalla dottrina italiana, così come all’analogo concetto di Absicht si rifà la dottrina tedesca[199]. Pertanto, il massimo cultore del diritto penale romano, Contardo Ferrini, definisce il concetto romano di dolo molto più angusto, ma anche molto più sicuro di quello del diritto penale moderno (si ricordi che Ferrini così scriveva tra la fine del diciannovesimo e i primi anni del ventesimo secolo). Del dolo eventuale, ad esempio, nulla saprebbe il diritto penale romano, considerato che il giurista non si ferma a indagare se l’agente ha potuto prevedere la possibilità del male arrecato: ciò che conta è se lo ha o no direttamente voluto arrecare. Animus occidendi, animus (adfectus) furandi, animus violandi sepulcri, animus inuriae faciendae, sono dunque – secondo l’Autore – altrettanti modi di esprimere il dolo e insieme designano “l’elemento intenzionale diretto”: «Tutto quello che avviene fuori dell’intenzione è designato come casus»[200].

Le conclusioni di Ferrini sono condivise anche da Delitala: pur non avendo, il diritto romano, approfondito il concetto di dolo, «il significato non equivoco delle espressioni comunque utilizzate lascia però concludere che si consideravano come dolosi solo i delitti commessi con dolo diretto, quelli cioè nei quali l’attività dell’agente è intenzionalmente indirizzata a produrre l’evento consumativo del reato»[201].

Nella dottrina penalistica tedesca si afferma (Klee, von Bar e Dahm) che il concetto di dolo del diritto romano si basa sull’accento della volontà antigiuridica[202]. Binding ritiene che nell’ambito dell’illecito ciò che caratterizza il dolus come speciale forma di colpevolezza è “das Wollen schlechthin”: solo il delitto doloso è voluto, quello colposo è invece non voluto[203]. Il riferimento alla volontà è condiviso da Löffler: “Ihnen war das dolose Delikt das gewollte Delikt”. Al di là di ciò che era direttamente voluto, i Romani non pensavano più al dolus: “dass man auch ungewollte Erfolge wollen könne, hatten sie noch nicht herausgebracht![204]. Come detto, al concetto tecnico-giuridico di dolus malus si riconosce il significato odierno di “Absicht” (intenzione) e quello di diritto comune di dolus directus[205].  Proprio Löffler aggiunge però che l’uso linguistico giuridico presenta spesso un carattere atecnico e dunque la nozione di dolo ha un contenuto molto più ampio. Esempi di tale allargamento nozionistico si trovano – secondo Löffler –  nella Lex Cornelia de sicariis et veneficis, dove è contenuta una pluralità di definizioni di omicidio e veneficio, che comprendono in parte anche delitti colposi, atti preparatori ed esecutivi di tentativo, e nella Lex Julia de vi publica vel privata (che si ritrova poi anche, come vedremo, nel Codex Theodosianus), dove l’uccisione avvenuta durante una rimozione violenta del possesso viene punita con la pena di morte[206].

Nella procedura extra ordinem del tardo impero, infine, il più alto grado di colpa (culpa lata) è criterio di imputazione soggettiva anche nei casi in cui viene richiesto il dolus malus[207]. Secondo Binding, «il necessario complemento del dolo» sarebbe la culpa lata (lascivia, luxuria), che si ha quando l’agente agisce con coscienza e volontà ma senza ostilità verso il diritto. Per l’Autore la nozione di culpa lata verrebbe elaborata per l’insufficienza dello stretto concetto di dolus di fronte a casi che pure reclamano la punizione[208], per esigenze cioè politico-criminali. I Romani dicono all’agente – scrive Binding[209] – «noi crediamo che tu non hai agito per uccidere e pertanto senza dolus malus, ma tu hai mostrato piena indifferenza per il buono o cattivo esito della tua azione, e quindi sei stato in culpa lata»; e aggiunge in nota a commento: «Also dolus eventualis im heutigen Sinn» («Dunque dolo eventuale nell’odierno senso»)[210].

Il ravvicinamento operato da Binding tra dolus malus e culpa lata, e dunque l’inquadramento dogmatico del dolo eventuale nel diritto penale romano, non è condiviso da Ferrini, che ravvisa nella culpa lata, conformemente alla tradizione giuridica orientale e occidentale, una specie qualificata di negligenza. Afferma l’Autore: «Che in materia di diritto privato la culpa lata si reprima, quando si reprime il dolo nell’adempimento di un’obbligazione preesistente, è noto: ma ciò nulla ha a che vedere col diritto penale. Per questo viene esplicitamente escluso che la lata culpa possa sostituire il dolo»[211]. I frammenti citati da Binding a sostegno del suo assunto sarebbero tutti relativi al diritto privato: «Ma in diritto penale le cose procedono ben diversamente. Qui non vi è un rapporto obbligatorio preesistente, di fronte al quale la lata culpa possa considerarsi come un voluto inadempimento. Qui è proprio la visione di quel danno e la positiva volontà di arrecarlo, che rappresentano il pericolo sociale e quella massima infrazione della norma, che richiede la reazione della pena»[212]. Pertanto, contrariamente a ciò che pensa Binding, secondo Ferrini «Di un dolo eventuale nulla sa il diritto penale romano»[213].

I due illustri Autori peraltro concordano nella conclusione che con lo sviluppo preso dalla cognitio extra ordinem a partire da Adriano assuma rilevanza penale anche l’omicidio colposo[214]: ma che non si tratti di ravvicinamento e di medesimo trattamento di dolus malus e culpa lata è dimostrato dalla espressa esclusione dell’applicazione proprio della lex Cornelia. Quando infatti Paolo nelle Sentenze parla del putator, il quale fa cadere un ramo tagliato sulla pubblica via senza dare avviso e così uccide un viandante che passa, si esprime così: «etsi in legem Corneliam non incurrit, in metallum datur» (PS 5,23,12).

Che poi il concetto romano di dolo sia molto più sicuro di quello del diritto penale moderno, come ritiene Ferrini, è negato ormai già dalla più recente dottrina romanistica[215]. In via di principio si afferma – e ciò può valere come critica alle analisi “audaci” dei penalisti - che non solo i Romani non hanno idee chiare sull’elemento soggettivo del reato, ma che anche noi non riusciamo ad avere idee chiare su quale fosse il loro pensiero generalizzato, e ciò non solo per la nostra difficoltà a immedesimarci negli antichi, ma per lo stato delle fonti[216]. Vi sono testi che paiono fare enunciazioni generali in materia di elemento psicologico, ma che in realtà acquistano ai nostri occhi questo valore perché estrapolati dai compilatori giustinianei dal contesto originario e presentati come proposizioni teoriche, quando invece frutto delle loro tendenze spiritualistiche[217]. Non rimane dunque – si afferma – che cercare di desumere la concezione e la natura del dolo avendo riguardo al sistema criminale romano in generale, facendo tesoro di tutti i sinonimi, e tenendo presente come i giuristi romani non riescano a “purificare” interamente il dolo dall’elemento etico[218]. Si può ritenere d’altro canto che ai giuristi romani non interessasse operare una tale “purificazione”, data la stretta, costante, ineliminabile interconnessione tra religio e ius.

Un caso classico di estrapolazione per una studiata sopravvalutazione dell’elemento intenzionale – utilizzato invece dai penalisti tedeschi come prova che il dolus comprende la voluntas antigiuridica – è il frammento del Digesto 48,8,14: Divus Hadrianus in haec verba rescripsit: ‘in maleficiis voluntas spectatur non exitus’ (Callistratus libro sexto de cognitionibus)[219]. Questo frammento si presta a due interpretazioni. Secondo la prima, l’Imperatore descriverebbe un’ipotesi in cui, pur non essendo seguito l’evento, vi è però la prova del disegno criminoso e dunque dichiarerebbe la punibilità del tentativo. La seconda interpretazione rappresenta l’ipotesi contraria, in cui cioè si è verificato l’evento, ma questo non è voluto e dunque ci si deve attenere alla valutazione dell’intenzione e non del fatto[220]. Entrambi i significati sono prospettati nella Collatio legum mosaicarum et romanarum[221].

Non potendo affrontare qui il tema del tentativo in diritto romano, è però da dire che una parte della dottrina avanza forti dubbi sull’interpretazione secondo cui il rescritto adrianeo renderebbe possibile la repressione di ogni ipotesi di tentato omicidio. Viene infatti giudicato poco ragionevole che la cancelleria imperiale decida di affermare un principio di così vasta portata affrontando un caso concreto che riguardava un omicidio commesso in rixa per mezzo di un ferrum, quando già in passato la lex Cornelia era stata applicata per casi di tentato omicidio o, per meglio dire, a ipotesi di lesioni non seguite dall’evento morte. La problematica relativa alla voluntas occidendi dovrebbe dunque essere piuttosto inquadrata nell’ambito del primo caput della lex Cornelia, laddove si puniscono quali titoli autonomi di reato appunto l’omicidio e il porto di un telum con intenzione omicida[222].

La seconda interpretazione del rescritto, in cui cioè si è verificato l’evento, ma questo non è voluto e dunque ci si deve attenere alla valutazione dell’intenzione e non del fatto, offre dimostrazione della non perseguibilità – a titolo di dolo – del delitto preterintenzionale[223]. E’ la voluntas occidendi a costituire l’omicidio[224]. Nel rescritto 1,6,4 della Collatio legum mosaicarum et romanarum si cita il caso di Epafrodito che con una percossa recata mediante un arnese di ferro uccide una persona; benché sia certo che la percossa è volontaria, l’Imperatore dice che «et qui hominem occidit absolvi solet, si non occidendi animo id admisit». Pertanto, quando non sia dimostrabile la volontà dolosa, si può giungere all’assoluzione, a meno che il colpevole non abbia dato prova di evidente leggerezza, la quale può essere provata, tra l’altro, dalle modalità del fatto o dalla particolare responsabilità che l’autore, per la professione che esercita, debba assumersi: in questi casi di colpa si ricorre a una pena extra ordinem[225].

Nell’epoca del principato l’idea del dolo conosce la massima interiorizzazione. Si aggiungono i concetti – di ascendenza filosofica (spesso i giureconsulti erano conoscitori anche della filosofia[226]) –  di animus e voluntas, che ricorrono spesso nei testi; e che insieme pongono il problema del loro accertamento[227]. Già nella prima epoca imperiale, allorquando la lex Cornelia diviene da legge sul banditismo legge sull’omicidio comune, l’ambulare cum telo viene inteso – sotto l’influenza della filosofia stoica – quale esempio di voluntas omicida, moralmente esecrabile e giuridicamente punibile anche se l’omicidio non viene consumato (homicidium imperfectum)[228].

In una delle sue Declamationes il retore Quintiliano tratta il seguente caso. Un figlio scacciato dal padre si imbatte, armato di gladius, nel padre e lo invita a ritirare l’abdicatio, costringendolo a giurare. Il padre giura e poi accusa il figlio di parricidium. Il primo punto da chiarire è – continua il retore – se il figlio fosse occisuri habitu, avesse cioè intenzione di (disposizione a) uccidere. Il modo in cui l’animus parricidae viene accertato è estremamente significativo: abdicatus in solitudine est; locus opportunus insidiis; habet gladium: instrumentum parricidii. Nella difficoltà in cui sempre ci si imbatte di individuare con sicurezza un atteggiamento interiore, in questo caso come in tanti altri citati nei rescritti, si inferisce l’animus occidendi dal mezzo impiegato per colpire[229]. In altri frammenti del Digesto (D. 48,6,11,2 e D. 48,19,16,8) l’instrumentum non viene invece ritenuto decisivo per l’accertamento della voluntas, dovendo a esso aggiungersi l’indagine sulle qualità morali (o meglio sullo status sociale) dell’agente: così se l’uomo clementissimus sia stato trovato armato, dovrebbe ritenersi che lo fosse tutandae salutis causa e non occidendi causa (Paul. Sent. 5,23,7[230]). Peraltro questa ricerca dell’elemento intenzionale non è costante. Si afferma infatti che gli operatori giuridici pratici sembra ritenessero che il crimen dovesse essere normalmente caratterizzato da “dolo”; sennonché, costretti in un “letto di Procuste” da formule legislative e da decisioni imperiali incontestabili, avallano poi l’indirizzo secondo cui “il dolo si prova dal fatto stesso”[231]. Si finisce così con il ritenere, tautologicamente, che l’autore di un fatto punibile a titolo di reato doloso abbia agito “sciens dolo malo” solo per averlo commesso[232].

Vi sono poi due rescritti imperiali che confermano l’essenzialità, quale fondamento della responsabilità, dello spirito (voluntas, animus) con cui un’azione viene compiuta. I due rescritti rivestono un significato storico importante, perché sono stati assunti come sostegno per la dottrina del dolus generalis[233]. Entrambi rappresentano un “ammaestramento” giuridico ai richiedenti.

Essi sono (Mos. et Rom. Leg. Collatio I, 8 e 9):

 

Imperator Antoninus Augustus A. Aurelio Herculaano et aliis militibus. Frater vester rectius fecerit, si se praesidi provinciae optulerit; cui si probaverit, non occidendi animo Iustam a se percussam esse, remissa homicidii poena, secundum disciplinam militarem sententiam proferet[234].

 

Imperator Alexander A. Aurelio Flavio et aliis militibus. Si modo pro quo libellum dedistis, non dolo praestitit mortem, minime perhorrescat: crimen quippe ita contrahitur, si et voluntas occidendi intercedat. Ceterum ea, quae ex improviso casu potius, quam fraude accidunt, fato plerumque non noxae imputantur[235].

 

Il dolus necessario per affermare la più grave responsabilità è rappresentato dalla voluntas occidendi. Questo dolus è richiesto in tutti i giudizi pubblici: perlomeno non risultano a Löffler casi in cui a esso si fosse rinunciato. Si può quindi dire – secondo l’Autore – che «al più tardo diritto romano la volontà delittuosa si è manifestata come base della responsabilità criminale»[236].

Provando a porre alcuni punti fermi, sulla base delle osservazioni della dottrina italiana e tedesca, possiamo affermare:

a)        L’unica graduazione di intensità del dolo nel diritto penale romano è quella – risalente a Platone (Leggi, IX, 7, 863-864) e Aristotele (Eth. Nic., V, 10, 1135 b 10 ss.)  – che fa leva sulla distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito, distinzione propria in particolare dei delitti di sangue, per i quali in definitiva il problema dell’elemento soggettivo si pone.

b)        Il concetto di dolo nel diritto penale romano mantiene sempre un contenuto etico-religioso, all’interno del quale la dottrina penalistica ravvisa anche un significato tecnico-giuridico.

c)         Il dolo assume talvolta un significato generico, da riferirsi sia al dolo-circumventio-vizio del consenso, come nello stellionato, sia al dolo quale designante l’illiceità del fatto, come nella locuzione “nullus videtur dolo facere, qui suo iure utitur”.

d)        Il significato tecnico-giuridico è riconducibile al nostro concetto di dolo intenzionale.

e)        E’ estranea ai Romani la (per noi comune) idea che Absicht e Vorsatz non possono essere lo stesso concetto, perché si danno casi al di là dell’intenzione, che non appartengono alla colpa, ma per la loro forma psichica sono di regola analoghi all’intenzione dal punto di vista dell’imputazione penale.

f)          L’elaborazione dogmatica delle diverse forme di dolo non è dunque riproponibile nel diritto penale romano. In primo luogo la differente sfumatura tra dolo intenzionale (o dolo diretto di primo grado) e dolo diretto (o dolo diretto di secondo grado) non emerge mai, e dunque la nozione di dolus parimenti comprende i casi in cui la realizzazione del fatto illecito costituisce l’obiettivo finalistico che dà causa alla condotta e i casi in cui la realizzazione del reato non è l’obiettivo che dà causa alla condotta, ma costituisce soltanto uno strumento necessario perchè l’agente realizzi lo scopo perseguito[237].

g)        Del dolo eventuale non vi è menzione nelle fonti[238]. Già abbiamo detto della differente valutazione del concetto di culpa lata in Binding e Ferrini. Peraltro, quanto ipotizzato da Löffler per la lex Numae, che cioè non sia troppo azzardato (gewagt) pensare che nei casi più gravi di fatto fosse sufficiente il dolo eventuale[239], si può pensare accadesse – sempre di fatto – anche più avanti.

h)        Nel più tardo diritto penale romano risulta decisivo per l’affermazione della responsabilità dolosa lo spirito (voluntas, animus) con il quale l’azione viene compiuta. Attraverso la nozione di animus, che Binding definisce come il fine di provocare l’evento antigiuridico come tale, il momento volitivo rimane impresso completamente nel concetto di dolus malus[240]. Con l’idea di animus si verifica cioè la massima interiorizzazione del concetto di dolo.

i)           Il diritto penale romano da un lato porta come eredità il concetto di dolo intenzionale, ma dall’altro lascia come base normativa una legge di ordine pubblico (la lex Cornelia de sicariis et veneficis) che già contiene gli strumenti per il suo superamento.

j)          Non è estranea ai Romani la consapevolezza del problema dell’accertamento. La presenza del dolo viene inferita dalle circostanze del fatto, in particolare dallo strumento utilizzato. Nelle fonti troviamo non solo il riferimento alle circostanze del fatto, ma anche quello alla personalità dell’autore.

k)        Ultimo e fondamentale, l’elaborazione dogmatica della nozione di dolo penale nel diritto romano non trova mai modo di esprimersi pienamente per la mancanza di un sistema processuale che ne consenta l’approfondimento. Struttura del dolo e suo accertamento sono realtà interdipendenti. Il momento dell’accertamento è, oggi come ieri, banco di prova della validità di ogni teoria sul dolo.

Dall’età costantiniana in poi la repressione criminale diviene esclusivamente imperiale e inquisitoria[241]. Si verifica una moltiplicazione dei tribunali che comporta una fitta rete di competenze concorrenti. La nuova concezione del potere (sempre più autocratico e ormai a fondamento divino) non può non comportare la riduzione ai minimi termini dei poteri di valutazione dei tribunali. In questo quadro ben si comprende l’involuzione del senso giuridico in tema di colpevolezza, che si manifesta – per quanto a noi interessa – nell’affermazione di forme di responsabilità oggettiva, dunque senza dolo né colpa, e di responsabilità collettiva[242].

Si chiude qui la parabola storica del dolo nel diritto romano. Caduto l’impero romano, la considerazione dell’elemento soggettivo seguirà una evoluzione storica assai simile a quella delle origini greche e romane[243]. La riscoperta del diritto romano, l’influsso del diritto canonico e la rinascita della scienza giuridica con i Glossatori e soprattutto con i Commentatori segneranno la riaffermazione dell’elemento soggettivo: ma questa sarà soprattutto la storia dell’allargamento del concetto di dolo. La base ideale, nobile e spesso mitizzata, rimarrà sempre il dolus malus romanistico.

 

 

5. – Il significato storico-scientifico delle fonti romane per lo sviluppo del concetto di dolo

 

Il contributo storico e scientifico del diritto penale romano per lo sviluppo del diritto penale e, per quanto a noi interessa, in particolare per la formazione del concetto di dolo è controverso. La controversia può ritenersi derivare dalla diversa ottica di studio degli storici e dei dommatici: mentre allo storico, nella valutazione di qualsivoglia dottrina, non è consentito prescindere dalle condizioni di tempo e di ambiente, se non vuole perdere l’intimo significato della dottrina che studia, ciò è invece consentito al dommatico[244].

Come traspare dall’analisi, la dottrina romanistica svaluta dunque in genere questo apporto, perché utilizza una chiave d’approccio improntata al relativismo storico e dunque lega strettamente i concetti alla realtà storica in cui operano e li giudica pertanto inutilizzabili in altre ottiche storiche e giuridiche.

La dottrina penalistica solitamente non si cura del diritto penale romano, forse influenzata dal giudizio negativo degli illuministi, e con riferimento all’Italia dalle severe critiche prima di Beccaria e poi di Carrara[245]. Solo in Germania tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento si studia il significato delle fonti romane per il concetto di dolo. In particolare Löffler e Binding – come visto – dedicano ampio spazio all’analisi del dolus (romanistico); il secondo addirittura utilizzando come schema la divisione tra momento conoscitivo (Bewusstseins-Moment) e momento volitivo (Willens-Moment). Lo stesso Binding definisce «die klare Auffassung der bewussten Schuld» il capolavoro (Meisterstück) dei Romani sul terreno della teoria del reato[246]. E anche in uno dei più autorevoli manuali tedeschi di diritto penale – pur senza approfondire il tema –  si riconosce oggi che il concetto di dolo del moderno diritto penale risale al tardo diritto romano e rappresenta uno dei massimi contributi di esso[247]. Nella dottrina italiana solo nel più volte citato scritto di Delitala dedicato al dolo eventuale e alla colpa cosciente si tratta brevemente della nozione di dolo nel diritto romano.

Volendo tentare una conciliazione tra le rispettive posizioni, lo studio dell’apporto dommatico delle fonti romane deve procedere con la cautela consigliata dalla dottrina romanistica nell’utilizzo delle fonti. Innanzitutto bisogna evitare paragoni tra la nostra esperienza e quella romana per trarne (solo) giudizi di valore. Va poi tenuto ben presente che i concetti del diritto penale sostanziale romano (peraltro elaborati dalla dottrina successiva e non fissati dagli stessi Romani[248]) vivono in stretta simbiosi con il diritto processuale: nell’esperienza romana è assai difficile infatti distinguere tra diritto penale sostanziale e diritto penale processuale[249]. Oggi come ieri, i concetti “respirano” solo attraverso la loro applicazione processuale[250]. E se una qualche attinenza il concetto sostanziale di dolo nel diritto romano può avere con l’attuale elaborazione concettuale, è però indiscutibile che il sistema processuale penale romano è ben lontano dai moderni sistemi e non svolge certamente una funzione di garanzia individuale: basti pensare alla presenza, in sostanza, di una presunzione di colpevolezza anzichè di non colpevolezza e alla mancanza di altri principi quale il nemo tenetur se accusare; all’inesistenza dell’obbligo di motivazione e del doppio grado di giudizio e in tema di prove al fatto che la confessione può essere estorta anche con la tortura (tormenta). Il principio del libero apprezzamento della prova (freie Beweiswürdigung), secondo Mommsen conosciuto dal diritto romano[251], ha dunque tutt’altro significato che quello di garanzia per l’accusato.

Pur con le cautele segnalate, studiare il concetto di dolo che traspare dalle fonti romane è dunque necessario non tanto e non solo per la sua validità scientifica, quanto per capire l’evoluzione storico-dommatica del concetto.

 

5.1. – Il dolus malus

 

L’eredità storica delle fonti romane è innanzitutto la loro nozione di dolus malus, ricondotta da Delitala alla struttura del dolo intenzionale, e che si rifà, seppur in forma meno raffinata, agli schemi mentali già elaborati dalla filosofia greca e in particolare da Aristotele nell’Etica Nicomachea.

Quando, superata la prima fase del diritto penale germanico nella quale la considerazione del delitto si fermava all’elemento oggettivo, inizia a riproporsi la distinzione tra fatti volontari e involontari, è proprio il “modello” di dolo del diritto romano, insieme ai richiami all’elemento interiore propri del diritto canonico, a fungere da spinta e da criterio ispiratore per la definizione del concetto di colpevolezza dolosa. Già abbiamo riportato come – secondo Löffler – la trasformazione della concezione della responsabilità dovuta alla lex Cornelia rappresenti «eine der wichtigsten Thatsachen der Weltgeschichte», che eleva la giurisprudenza romana a una tale altezza da costituire «in die Nacht mittelalterlicher Barbarei versunkenen Jahrhunderten ein leuchtendes Beispiel»[252]. Pur senza l’entusiasmo di queste parole, il ruolo essenziale del dolus romanistico per la riscoperta e la valorizzazione dell’elemento soggettivo viene riconosciuto dagli storici del diritto[253], fino a giungere all’affermazione di Kantorowicz secondo cui i primitivi passi della scienza penal-processualistica sono consistiti in una pura esegesi romanistica[254]. E storicamente sempre, quando, di fronte a tentazioni oggettivistiche nell’attribuzione della responsabilità, si è voluta invece riaffermare l’essenzialità dell’elemento interiore, il modello assunto (forse al di là della sua effettiva consistenza) è stato proprio il dolus malus romanistico.

Il contributo del diritto romano è limitato alla forma fondamentale di dolo, quella nella quale si esprime la piena intenzionalità del comportamento: risulta infatti estranea ai Romani – o perlomeno non traspare dalle fonti – l’idea per noi comune che intenzione e dolo non possono essere lo stesso concetto, perché si danno casi al di là dell’intenzione, che non appartengono alla colpa, ma per la loro forma psichica sono di regola trattati nello stesso modo dell’intenzione dal punto di vista dell’imputazione penale.

Un tentativo di riportare in termini dogmatici moderni questo ristretto significato viene intrapreso dallo stesso Löffler. Esisterebbero tre diverse relazioni giuridiche rilevanti fra la psiche del colpevole e i risultati della sua azione: a) dolo se l’agente ha voluto il risultato; b) semplice consapevolezza se il risultato è stato previsto ma non voluto; c) colpa se il risultato non è stato né previsto né voluto. Nel primo caso l’agente agisce per produrre il risultato, nel secondo nonostante la previsione del risultato, nel terzo senza previsione. L’ipotesi di cui alla lettera b) è quella sulla quale si sono maggiormente soffermati i postglossatori perché è qui che si manifesta l’insufficienza del dolus malus romanistico: essa rappresenterebbe una terza forma di colpevolezza, per consapevolezza secondo alcuni, per volontà o dolo di pericolo secondo altri. La base della teoria è proprio la restrizione del concetto di volontà: se l’agente non ha avuto di mira il risultato delittuoso non si può, per Löffler, parlare di volontà, neppure se il risultato è stato previsto. In definitiva l’autore tedesco trae dalla sua ricostruzione storica delle forme di colpevolezza la conclusione della necessità del ritorno alla forma originaria di dolo, quella propria dei Romani.

A questa tesi replica la più autorevole dottrina italiana, con argomenti ancora decisivi, sostenendo che nel fuoco della volontà non rientrano solamente i risultati avuti di mira, ma anche tutti quegli altri che sono previsti accanto a essi come certi o come possibili, a meno che l’agente non creda di poterli evitare e non si adoperi per evitarli: la base del ragionamento è dato dalla nozione stessa di volontà, che è atto di elezione, di scelta, nel compimento della quale i risultati non desiderati sono stati, se previsti, sicuramente messi in conto, poiché sono intimamente legati al conseguimento del fine perseguito dall’agente[255].

La nozione di volontà come atto di scelta rappresenta la vera essenza del dolo: di origine aristotelica, solo essa esprime il concetto di volontà colpevole. Questa nozione, che non emerge tanto dalla prassi giurisprudenziale quanto piuttosto dalle opere letterarie, nelle quali troviamo tracce di come è “sentito” l’elemento soggettivo nel diritto penale romano, rappresenta la vera e utile eredità concettuale. E’ una traccia che prima in Aristotele, poi nello Stoicismo, poi nel Cristianesimo e in particolare in Sant’Agostino segnerà l’etica e il diritto. Nel mondo romano la più compiuta esposizione si ha in Cicerone e in Seneca, e in particolare nella nota dottrina stoica dell’assenso (synkatathesis), cioè una sensazione o una disposizione d’animo che nasce da un impulso (impetus), ma deve poi essere oggetto di una comprensione concettuale mediante l’assenso, cioè tramite un atto di giudizio (iudicium). Questo passaggio è descritto così nel de Clementia (II, 2, 2): “Ut quod nunc natura et impetus est fiat iudicium”. La comprensione concettuale mediante l’assenso, quella cioè che Seneca chiama iudicium, rappresenta la sostanza della volontà colpevole, l’actus electivus di cui parleranno poi i medievali. Nelle fonti giuridiche romane invece non si va oltre il dolo intenzionale o di proposito, e non è avvertita l’esigenza di ulteriori approfondimenti: innanzitutto perché il sistema processuale difficilmente consente ai concetti di esprimersi e poi perché alla nozione di dolus malus si affianca, almeno stando a Binding, la nozione di culpa lata, valvola di sfogo per i casi di dolo eventuale, non strettamente riconducibili al dolus malus.

 

5.2. – La distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito

 

Con chiare ascendenze platoniche e aristoteliche, la distinzione tra dolo d’impeto e dolo di proposito trova espressione e applicazione nel diritto penale romano e si trova conservata oggi (seppur non espressamente) nella gradazione di intensità del dolo ai fini della commisurazione della pena (art. 133 c.p.). La minore complessità e durata del processo deliberativo, propria del dolo d’impeto, costituiva un’attenuante soggettiva che portava a una diminuzione di pena e in genere all’esclusione della pena capitale. I Romani consideravano presente il dolo (d’impeto) anche nel caso di reati commessi in stato di ubriachezza[256]: il classico passo di Marciano secondo cui «Delinquitur autem aut proposito aut impetu aut casu» reca come esempio di reato di impeto proprio quello commesso in stato di ubriachezza. Oggi si afferma (anche se la questione è dibattuta) che il dolo dell’ubriaco, come in genere quello del soggetto non imputabile, equivale a un impulso psicologico volontario, non a quella volontà veramente consapevole che integra il dolo autentico. A questa esatta considerazione non si attiene il trattamento sanzionatorio oggi riservato al soggetto non imputabile, dato che l’ubriachezza volontaria o colposa non fa scemare né esclude l’imputabilità (art. 92 comma 1): il rigorismo del codice penale italiano (ancora) vigente comporta una “finzione di imputabilità” che finisce per tradursi - si sostiene - in una “finzione di elemento soggettivo” e nella sostanza in una ipotesi di responsabilità oggettiva occulta o mascherata[257]. In un contesto quale quello romanistico non influenzato da esigenze politico-criminali di lotta a una piaga sociale quale l’alcolismo, la differente intensità di dolo d’impeto e dolo di proposito – seppure non sviscerata con gli argomenti delle scienze moderne – giustifica il trattamento meno severo riservato al dolo d’impeto. Questo trattamento non fa che confermare che la vera forma di dolo romanistica e dunque il dolo delle origini è il dolo di proposito, in quanto solo esso esprime la piena intenzionalità del comportamento.

 

5.3. – Il contenuto etico del concetto di dolo

 

Secondo Löffler e Binding, per i Romani il dolo è un concetto più etico che strettamente giuridico[258]. Ebbene, il contenuto di disvalore etico-religioso e sociale della nozione di dolo è un altro essenziale attributo che si è mantenuto nel tempo[259]. Nella più recente dottrina si riafferma che il diritto romano avrebbe instaurato una chiave per la conoscenza della nozione giuridica di dolo che, passando per il diritto medievale e intermedio, avrebbe dominato fino alla metà del 1800[260]. Questa chiave per la conoscenza – diffusissima fin quasi a suonare come un luogo comune – sarebbe sempre stata di natura irrazionale, ossia emozionale. Si distingue tra dolus bonus e dolus malus, e per dolus malus – non già per secoli ma per millenni – si continua a intendere l’animus nocendi, nelle sue infinite varianti di animus occidendi, furandi, injurandi, decipiendi, diffamandi, lucrifaciendi, laedendi, e via dicendo. Espressioni successive, impiantate su questa struttura emozionale di origine romanistica, quali astus animus, iniquus animus, iratus animus, animosus animus (nell’editto di Rotari), dolosus animus (nel Capitulare italicum), animadversio, pravitas, mala fides, prava voluntas, ecc., sono per lungo tempo all’ordine del giorno in tutte le aule dei tribunali in cui si giudica secondo le regole e i criteri derivati dal diritto romano. Per la dottrina italiana, la spiegazione razionalistica, ossia la razionalizzazione del fenomeno del dolo, può essere attribuita soprattutto a Carrara, nel quadro della sua innovatrice concezione del reato come «ente giuridico», anziché, sic et simpliciter, come fatto etico-sociale giuridicamente rilevante. Ancora oggi però, nelle varie codificazioni di tipo occidentale e nelle relative dottrine, quando si cercano gli elementi indicatori della nozione di dolo, è facile imbattersi in espressioni “emozionalmente pregnanti” quali la Gesinnung antisociale del codice penale tedesco-federale (vigente fino a qualche anno fa’), la mens rea, e soprattutto l’evil intent e la malice di sistemi giuridici anglosassoni, la böse Absicht del codice austriaco, la malicia e la alevosía già nel codice penale spagnolo. E un manuale di diritto penale sul quale si sono formate generazioni di studenti, insegna che il dolo è “volontà cattiva”, ossia prava voluntas, in quanto suppone la «consapevolezza di agire in contrasto con le esigenze della vita in comune e – in sostanza – di far male ad altri … e solo in quanto tale si distingue dalla colpa, che è leggerezza»[261]. Tutto questo dimostrerebbe come, ancora oggi, una impostazione dell’elemento soggettivo in chiave razional-formalistica non riesce – malgrado ogni apparenza contraria – a rendere realmente ragione dell’essenza del fenomeno, sia esso doloso o colposo[262]. Si sostiene anzi che i portati della moderna psicologia criminale rendono oggi ragione alla visione del dolus malus nel diritto romano e intermedio: «la distorsione insita nel dolo è di natura non già razionale-conoscitiva, sibbene emozionale-affettiva»[263].

 

5.4. – La nozione di animus

 

Abbiamo citato il parere di Binding, per cui il momento volitivo rimane impresso completamente nel concetto di dolus malus attraverso la nozione di animus, cioè di scopo che provoca l’evento antigiuridico come tale[264], e abbiamo rilevato come attraverso questa nozione si arrivi alla massima interiorizzazione del concetto di dolo.

Nella dottrina italiana, solo chi nel dolo esplorando l’atteggiamento interiore dà di esso una nozione psicodinamica arriva a sostenere che non esiste nessun reato nel codice penale, il quale possa essere compreso in astratto, e neppure individuato in concreto, prescindendo dal relativo animus: si fa l’esempio del chirurgo il quale incide con il bisturi il corpo del paziente: egli avrebbe sia la volontà che la finalità di farlo, ma non potrebbe essere imputato del reato di lesioni perché agisce senza l’atteggiamento interiore di chi vuol nuocere, ossia senza l’animus nocendi. In questa impostazione il disvalore della condotta assume il ruolo centrale; è il modo in cui la lesione del bene giuridico viene cagionata a dare il significato all’illecito penale e questo modo dipende interamente dall’atteggiamento interiore del soggetto attivo del reato: «il modo della condotta altro non è che espressione diretta e immediata del dolo inteso come malafede criminosa, o animus nocendi»[265].

Sotto un profilo generale, però, l’idea dell’animus come elemento strutturale del dolo, non trova oggi riconoscimento. Solo per specifiche figure criminose si sono sviluppate teorie incentrate sulla considerazione di un peculiare animus in capo al soggetto agente[266]. Già Carrara, richiamandosi a Ulpiano, riteneva che tra gli elementi della «forza fisica soggettiva» del delitto di ingiuria rientrasse la «intenzione maligna» dell’agente, e che dunque l’animus iniuriandi rivestisse un ruolo assolutamente centrale nella «essenza di fatto di questo maleficio»[267]. Con riferimento poi all’art. 395 del codice Zanardelli, in dottrina si credeva che un requisito dell’ingiuria sarebbe stato rappresentato dal c.d. animus iniuriandi, con il corollario dell’irrilevanza penale di ingiurie compiute con animus jocandi, defendendi, consulendi, corrigendi, narrandi o retorquendi[268]. Infine, seppure raramente, la tesi dell’insussistenza del dolo nei delitti contro l’onore in mancanza dell’animus iniuriandi vel diffamandi nel soggetto attivo, è stata sostenuta in dottrina anche sotto il codice penale del 1930[269]. E’ ormai evidente però in dottrina e in giurisprudenza che è arbitrario richiedere la sussistenza di un particolare motivo o scopo o animus del soggetto agente per la configurabilità del dolo ove la norma non ne faccia menzione[270].

Tuttavia, un giudizio di valore sull’autore del fatto o sul suo animus sembra proporsi oggi, talora, in sede di accertamento. In dottrina, già Ludwig von Bar, proprio uno degli autori tedeschi che approfondisce il significato del dolo nel diritto romano, afferma che la teoria del dolo eventuale può dissimulare un giudizio di valore in base al quale la volontà offensiva viene riconosciuta in capo a un “uomo cattivo” e negata in un “uomo buono”[271]. La suggestione esercitata dall’impressione di una natura malvagia o benevola dell’«anima dell’autore»[272] - oggi si osserva - si porrebbe dunque come ‘agente oscuro’ nell’economia del giudizio sulla natura dolosa o colposa del fatto, senza che si possa direttamente assegnarle una fisionomia riconoscibile e controllabile[273].

Il parametro del dolo come approvazione interiore dell’evento trapela nella giurisprudenza, sia italiana che tedesca[274]. Le sezioni unite della Cassazione, per potere accertare il dolo, richiedono (perlomeno in relazione al tentato omicidio) un approfondimento del processo motivazionale dell’autore. Questo approfondimento conduce a risultati sostanzialmente favorevoli al soggetto agente (esclusione della responsabilità dolosa) quando questi agisca in un contesto lecito di base, ovvero punti alla realizzazione di un obiettivo guardato con favore dall’ordinamento; laddove invece l’autore realizzi il fatto in un contesto di illiceità penale, la giurisprudenza è portata a ravvisare il dolo (eventuale o addirittura diretto) non tanto considerando l’effettivo grado di adesione psichica al fatto, quanto piuttosto incentrando l’attenzione sul motivo a delinquere propriamente inteso, ovvero sullo scopo perseguito dal reo, oggetto qui di riprovazione da parte dell’ordinamento[275]. Attraverso questo parametro, diventerebbe decisivo, per esprimere la condanna, il giudizio sull’autore, in tal modo convalidando una più generale tendenza a ricostruire un significato oggettivo del fatto, per applicare a esso l’etichetta del dolo o della colpa[276]. Si può però ipotizzare che in questo orientamento della giurisprudenza vada piuttosto ravvisato un particolare accento sull’animus dell’autore al momento del fatto, più che sulla sua persona, dato che il giudizio non investe complessivamente la persona (non importa che sia “buona” o “cattiva”) ma solo “lo scopo che provoca l’evento antigiuridico come tale”, per ricorrere alla terminologia di Binding per descrivere l’animus romanistico, e dunque la finalità, questa sì buona o cattiva, che anima l’autore.

Questa impostazione giurisprudenziale (peraltro non dichiarata espressamente) in tema di dolo eventuale non è condivisa in dottrina, dove si ribatte che la valutazione dolosa o colposa della condotta a partire dalle sue motivazioni non avrebbe un preciso fondamento tecnico, dato che la teoria dei motivi va sviluppata nella prospettiva della graduazione della gravità del reato e della necessità di una pena corrispondente (ai sensi degli artt. 61 n. 1, 62 n. 1 e 133 comma 2 n. 1 c.p.) e non nella ben diversa prospettiva dell’ascrizione del fatto a un certo titolo[277]. Il raffronto tra il fine perseguito e l’atteggiamento assunto rispetto all’evento non può dunque avere rilevanza strutturale ma valere unicamente come indice di accertamento[278].

 

5.5. – La fondamentale importanza di alcuni frammenti per l’ampliamento del concetto di dolo

 

Abbiamo visto come il concetto di dolus malus esprima la forma di adesione psicologica al fatto oggi viene ritenuta più forte, il dolo intenzionale. Ma le fonti romane, oltre a questo ruolo essenziale per l’identità del concetto di dolo, ne assumono (involontariamente) un altro e opposto: in particolare alcuni frammenti del Digesto costituiscono la base per la elaborazione delle forme meno intense di dolo, al confine con la colpa.

Per primo Löffler pone in rilievo, infatti, il grande significato storico di tre frammenti, non particolarmente importanti per il diritto romano, ma che servono ai pratici italiani e poi fino al diciannovesimo secolo per fornire una giustificazione conforme alle fonti della doctrina Bartoli e delle teorie del dolus generalis, del dolus indirectus e poi del dolo eventuale[279]. In questi frammenti l’evento non voluto, che si aggiunge a un’azione di per sé riprovata dal diritto, gioca un ruolo essenziale. Tuttavia tali passi descrivono casi eccezionali, dai quali non è possibile trarre alcuna indicazione sul concetto romanistico di dolo. In due di questi frammenti l’estraneità del dolo alle vicende trattate è anzi dichiarata espressamente.

La fondamentale importanza storica di questi frammenti è confermata da illustri esponenti della scienza penalistica, tedesca e italiana.

Secondo Schaffstein, sulla scia di Löffler, assumono rilievo essenziale per lo sviluppo del concetto di dolo non solo i passi delle fonti che contengono il più ristretto concetto tecnico-giuridico di dolo, ma soprattutto tre altri frammenti (quelli che subito vedremo) nei quali in via eccezionale l’autore di un fatto viene punito per un evento sì non previsto ma la cui realizzazione è da ritenere probabile[280]. Anche Schaffstein indica che sebbene palesemente questi tre passi descrivano casi straordinari, tuttavia i giuristi italiani su di essi fondano la regola. Nel diritto comune tedesco, in particolare per Carpzov, servono invece come sostegno alla dottrina del dolus indirectus.

Anche la dottrina italiana richiama questi frammenti del Digesto e li considera ipotesi nelle quali vengono ritenuti come dolosi, ai fini dell’equiparazione della sanzione, anche casi nei quali l’evento delittuoso, pur essendo una conseguenza prevedibile della sua azione, non è direttamente preso di mira dal colpevole[281]. Non si tratta però – riconosce Delitala – di una tarda estensione del concetto di dolo, quanto piuttosto di una equiparazione per ragioni di ordine pratico; una considerazione di opportunità: quia mali exempli res est. Peraltro la sanzione non è più la pena capitale: humiliores in metallum, honestiores in insulam relegantur. Rimane pertanto confermato – secondo l’Autore – che la forma di dolo del diritto penale romano è quella del dolo diretto. Invece i giuristi del medioevo (in primis Cino da Pistoia), formalmente ossequiosi alle fonti romane, ma audacemente innovatori, proprio facendo leva su questi passi del Digesto e trascurando le ragioni di ordine pratico che le giustificano, ravvisano in quei casi una vera e propria forma di dolo, da considerarsi accanto e alla stregua del dolo diretto.

I frammenti in questione sono i seguenti.

Il primo è D. 48,8,3,2, Marcianus libro quarto decimo institutionum:

 

Adiectio autem ista “veneni mali” ostendit esse quaedam et non mala venena. Ergo nomen medium est, et tam id, quod ad sanandum, quam id, quod ad occidendum paratum est, continet, sed et id, quod amatorium appellatur. Sed hoc solum notatur in ea lege, quod hominis necandi causa habet. Sed ex Senatusconsulto relegari iussa est ea, quae non quidem malo animo, sed malo exemplo medicamentum ad conceptionem dedit, ex quo ea, quae acceperit, decesserit[282].

 

Il secondo frammento è D. 48,19,38,5, Paulus libro quinto sententiarum:

 

Qui abortionis aut amatorium poculum dant, etsi dolo non faciant, tamen, quia mali exempli res est, humiliores in metallum, honestiores in insulam amissa parte bonorum relegantur; quodsi mulier, aut homo ferierit, sommo supplicio adficiuntur[283].

 

Da questi due primi frammenti Bartolomeo Cipolla (1420-1475), seguendo Bartolo da Sassoferrato (1314-1357), ricava la regola: «Ubi committens delictum minus voluit delinquere et plus delinquit: si verisimiliter potuit cogitare, quod ex minori delicto, quod intendebat, verisimiliter poterat sequi majus, tenetur de majori delicto, quod est secutum, et non de minori, quod ipse intendebat». Insomma, il giudizio oggettivo sulla seria possibilità della  verificazione dell’evento più grave è sufficiente per accertare il dolo[284]. Così ancora Covarruvias (1512-1577) cita questi frammenti come precedenti storici della sua dottrina della voluntas indirecta: egli sostiene che chi dà una pozione abortiva o amatoria la quale cagiona poi la morte di chi la assume, deve venire condannato a morte “quod ille actus ex propria vi ac natura maxime tendat in periculum mortis aut gravissimae laesionis[285]. L’idea fondamentale del dolus indirectus – come riportata da Engelmann – è che “im Wollen der Ursache mittelbar das Wollen der Wirkung liegt”, cioè “nella volontà della causa risiede indirettamente la volontà dell’effetto”. Ma solo la volontà dell’effetto che è solito normalmente seguire (eintreten) la causa[286].

Nei due frammenti citati, in realtà, il motivo della punizione è contenuto nell’inciso “quia mali exempli res est” ed è dunque di tipo preventivo[287]. Pertanto non vi è nessun allargamento del concetto di dolo, la cui presenza viene anzi espressamente esclusa con le espressioni “non quidem malo animo” nel primo, ed “etsi dolo non faciant” nel secondo. Si potrebbe replicare dubitando che il riferimento sia alla mancanza di dolo in senso tecnico; ma è plausibile invece trovare conferma del fatto che il termine dolus nell’uso linguistico ha spesso significato atecnico ed è espressione di un disvalore etico: appare infatti piuttosto sottolineata l’assenza di “malvagità” nelle azioni, come sembra più chiaramente dedursi dall’inciso del primo passo (“non quidem malo animo”). La morte, poi, costituisce evento aggravante di un comportamento – vendere pozioni amatorie o abortive – punibile anche quando in concreto non rimproverabile moralmente. Non è richiesto alcun nesso psichico tra il comportamento punibile e la morte, che viene accollata a titolo di responsabilità oggettiva. In questi passi, in cui vengono descritti delitti aggravati dall’evento, la moderna dottrina penalistica, contrariamente all’interpretazione datane dai postglossatori, trova esattamente conferma che al concetto romano di dolo appartiene solo la diretta volontà dell’evento[288].

Il terzo frammento, che compare in diverse fonti, è D. 48,6,10,1, Ulpianus libro sexagensimo octavo ad edictum:

 

Hac lege tenetur et qui convocatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur, neque homo occisus sit[289].

 

L’interpretazione di questo terzo frammento è più difficile. Il tema che diventerà oggetto anch’esso dell’attenzione dei giuristi medievali è quello dello spossessamento violento, con la relativa evoluzione storica e giuridica.

Lo spossessamento violento può essere considerato crimen vis e venire dunque punito secondo la lex Julia de vi publica: di tale crimen vis si rende infatti colpevole (“Hac lege tenetur”) anche “qui convocatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur”. La sanzione è l’interdictio aquae et ignis. Anche se la pena per il crimen vis subisce un successivo aumento, ciò non viene ritenuto ancora sufficiente per lo spossessamento violento. Un senatoconsulto stabilisce pertanto di punire secondo la Lex Cornelia de sicariis et veneficisitem is, cuius familia sciente eo apiscendae reciperandae possessionis causa arma sumpserit” (D. 48,8,3,4, Marcianus libro quarto decimo institutionum)[290]: le sanzioni sono quelle della lex Cornelia e dunque durissime, potendo arrivare alla pena capitale[291].

Nel 317 d.C. seguirono due editti dell’imperatore Costantino. Con il primo Costantino stabilisce:

 

Qui in iudicio manifestam detegitur commisisse violentiam, non iam relegatione aut deportatione insulae plectatur, sed supplicium capitale excipiat, nec interposita provocatione sententiam, quae in eum fuerit dicta, suspendat, quoniam multa facinora sub uno violentiae nomine continentur, cum aliis vim inferre tentantibus, aliis cum indignatione repugnantibus verbera caedesque crebro deteguntur admissae. unde placuit, si forte qui vel ex possidentis parte vel ex eius qui possessionem temerare tentaverit, interemtus sit, in eum supplicium exseri, qui vim facere tentavit, et alterutri causam malorum praebuit” (CT. 9,10,1)[292].

 

Con il secondo editto l’imperatore dispone:

 

Si quis per violentiam alienum fundum invaserit, capite puniatur. et sive quis ex eius parte, qui violentiam inferre tentaverit, sive ex eius, qui iniuriam repulsaverit, fuerit occisus, eum poena adstringat, qui vi deiicere possidentem voluerit (CT. 9,10,2)[293].

 

Negli editti è posto il principio che ogni manifesta violentia, da intendere in senso ampio, è di per sé sola punita con la pena capitale. Il fatto che tali atti di violenza sono spesso commessi verbera caedesque lascia trasparire la spiegazione che l’autore abbia ben previsto anche la possibilità dell’esito letale. Che l’imperatore comunque non intenda ancora come dolose le uccisioni, risulta dal tenore del passo, dove la situazione descritta non viene sussunta sotto la lex Cornelia ma crea un nuovo, singolare, diritto. La ratio di questa singolarità – ritiene Löffler – è la medesima dei primi due passi: quia mali exempli res est[294]. Per Costantino però l’intera questione è di scarsa rilevanza, dato che in realtà l’imperatore sanziona con la pena di morte già la manifesta violentia.

Nel Codex giustinianeo il primo editto appare in forma completamente mutata. Ora reca:

 

Quondam multa facinora sub uno violentiae nomine continentur, cum aliis vim inferre certantibus, aliis cum indignatione resistentibus verbera caedesque crebro deteguntur admisse, placuit, si forte quis vel ex possidentis parte vel eius qui possessionem temerare temptaverit interemptus sit, in eum supplicium exerceri, qui vim facere temptavit et alterutri parti causam malorum praebuit: et non iam relegatione aut deportatione insulae plectatur, sed supplicium capitale excipiat nec interposita provocatione sententiam quae in eum fuerit dicta suspendat (C. 9,12,6)[295].

 

Il modello originale è snaturato: la pena capitale è ora limitata ai casi in cui alla violenza si unisce la morte dell’aggredito. L’evoluzione segnalata dai passi successivi porta a ipotizzare che Triboniano nel primo passo citato in tema di spossessamento, D. 48,6,10,1 (come nell’equivalente D. 48,7,2), abbia aggiunto alla frase “Hac lege (cioè Julia de vi) tenetur et qui convocatis hominibus vim fecerit, quo quis verberetur et pulsetur” l’inciso “neque homo occisus sit” per salvaguardare la coerenza e l’unitarietà della codificazione[296].

In ogni caso da questi frammenti non si ricava alcunché sul concetto romanistico di dolo: essi segnano piuttosto la nascita dei delitti aggravati dall’evento. Si può però facilmente comprendere la loro utilità quando, di fronte al ristretto concetto di dolus ricavabile dalle fonti (e perlopiù interpretato come dolo intenzionale o diretto), la dottrina del diritto comune ha ricercato con “brama” questi casi di eccezione, ingannando (sé stessa e gli altri) sul fatto che essi racchiudano il concetto romanistico di dolo, mentre in realtà di questo concetto si superano i limiti[297].

Così Bartolo da Sassoferrato, dal frammento del Codex che punisce severamente (ma eccezionalmente) una vicenda delinquenziale frequente come quella dello spossessamento violento, trae la regola generale (doctrina Bartoli) che domina fino al sedicesimo secolo: «Si delinquit in plus incidendo in aliam speciem delicti hoc adverte: si quidem delictum, quod principaliter facere proposuerat, tendit ad illum finem, qui secutus est, et tunc inspicimus eventum. Si vero ad hoc non tendebat delictum, quod principaliter facere proposuerat, tunc non tenetur». L’idea fondamentale di questa teoria è cioè che l’autore risponde di ogni evento che si delinea con una certa probabilità al momento della sua azione[298]: e risponde dell’intero accaduto a titolo doloso[299]. Una relazione oggettiva di pericolo, dunque, che rappresenta un’idea ben lontana dal dolus malus dei Romani, ma utile per rispondere alle esigenze preventive e repressive e per superare le difficoltà probatorie, sempre attuali, del dolo intenzionale.

 

 



 

[1] Così Karol Wojtyla in una lettera del 2004 a Giovanni Reale (Domenicale del Sole 24 Ore, del 10 aprile 2005): «Con i valori della filosofia antica il Cristianesimo si è confrontato fin dall’inizio, suscitando mirabili sintesi in vari ambiti del sapere, specialmente in quelli teologico e antropologico». Secondo Emanuele Severino (La Filosofia Antica, Milano 1984, 16) «il cristianesimo è divenuto ciò che esso è solo in quanto la sua struttura concettuale portante è costituita dallo spazio originariamente aperto dal pensiero greco».

 

[2] GROSSO G., Storia del diritto romano, V ed., Torino 1965,  2.

 

[3] VILLEY M., Leçons d’histoire de la philosophie du droit, Paris 1962,  14.

 

[4] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, in Annuario dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, 1932, ora in Diritto penale. Raccolta degli scritti, vol. I, Milano 1976,  436. Nella dottrina penalistica il tema dell’elemento soggettivo nel diritto penale romano non risulta particolarmente approfondito. L’argomento è trattato solo da alcuni tra i maggiori penalisti di fine ottocento e della prima parte del novecento: in particolare nella dottrina italiana – seppur incidentalmente – da Impallomeni e Delitala e nella dottrina tedesca da Löffler, Klee, von Bar e Binding, e poi da Schaffstein e Dahm.

 

[5] PULITANO’ D., Diritto penale, Torino 2005, 349.

 

[6] CANTARELLA E., Norma e sanzione in Omero. Contributo alla protostoria del diritto greco, Milano 1979.

 

[7] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts. In vergleichend-historischer und dogmatische Darstellung, Leipzig 1895,  51-53. Questa conclusione è pressoché unanimemente condivisa. Löffler cita però ( 57-58) l’opinione di LEIST B.W. (Gräko-italische Rechtsgeschichte, ora Neudruck der Ausgabe 1884, Aalen 1964,  347) secondo il quale la differenza tra fatto volontario e fatto involontario è ben conosciuta in epoca eroica e da essa derivano differenze di trattamento. In particolare Leist ritiene che le ipotesi di omicidio in stato di eccitazione siano già nell’epoca più antica ricondotte al concetto di Φόνος ακούσιος (omicidio involontario). A sostegno di queste affermazioni Leist riporta brani di Cicerone e passi omerici. 

 

[8] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  54. L’intervento di fattori religiosi – come ipotizzato da Löffler – non deve fare pensare che questi già non dominino nella fase primordiale, in cui vige il semplice potere privato di vendicare l’offesa. Tutto è sacro, nella sfera privata e in quella pubblica. Le regole di condotta sono dettate dalla religione: la distinzione tra diritto e religione non appartiene alle culture giuridiche antiche. La svolta epocale nella storia del diritto penale moderno è segnata proprio dalla sua secolarizzazione, cioè dal passaggio dall’equazione “reato = peccato” all’equazione “reato = fatto dannoso per la società”. Questa svolta, preparata dall’opera pionieristica dei giusnaturalisti, che caldeggiano uno Stato secolarizzato, guardiano della pace esteriore, viene consolidata dall’Illuminismo. É grande merito di Cesare Beccaria (Dei delitti e delle pene, edizione a cura di Franco Venturi, Milano 1991, che riproduce la quinta edizione, detta di Harlem, 1766), avere integralmente distinto il concetto di delitto da quello di peccato. Sulla secolarizzazione del diritto penale, MARINUCCI G. – DOLCINI E., Corso di diritto penale, 1, Milano 2001, III ed.,  429 ss. Sulla connessione, esistente fin dai primordi, tra ermeneutica giuridica e teologica, DAHM G., Zur Rezeption des romisch-italienischen Strafrechts, Darmstadt 1955,  28.

 

[9] Su questa sanzione, FIORI R., Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996. Secondo PERTILE A., Storia del diritto italiano, II ed., vol. V (Storia del diritto penale), rist. anast. Bologna 1966,  1, «Due sentimenti connaturali all’uomo formarono la base del diritto penale nella prima età d’ogni popolo: il sentimento della vendetta e quello dell’espiazione».

 

[10] BISCARDI A. – CANTARELLA E., Profili di diritto greco antico, II ed., Milano 1974, passim.

 

[11] Nell’Atene classica in generale la dimensione inquisitoria pubblica appare pressoché inesistente. Perfino quando la parte presumibilmente lesa è lo Stato, sono pur sempre dei cittadini a prendere l’iniziativa. I giudici devono quasi sempre stare alle valutazioni delle parti, a tal punto che sono le parti stesse a dover produrre le leggi ritenute rilevanti per la sentenza. 

 

[12] CANTARELLA E., «Moicheia» e omicidio legittimo in diritto attico, in Labeo, 18, 1972, 78 ss.

 

[13] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  53-54.

 

[14] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  55.

 

[15] Nella dottrina penalistica, LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  55-56 e in quella romanistica, PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte, 17 Band, 1896,  235 ss., che accenna anche al danneggiamento, il cui risarcimento era doppio quando doloso. Parla brevemente della punizione dell’omicidio in Grecia e specialmente nell’Attica, IMPALLOMENI G.B., L’omicidio nel diritto penale, II ed., Torino 1900,  243-245, che assume a sua volta come fonte THONISSEN J.J., Le droit pénal de la République athénienne, Bruxelles 1875. Oltre alle informazioni che già si ritrovano in Löffler, con la distinzione tra omicidio volontario (punito con la pena di morte) e involontario (punito con l’esilio), Impallomeni  menziona il tentativo e il concorso di persone. Quanto al tentativo di omicidio, esso rileva ed è punito col bando e la confisca dei beni, mentre in tema di concorso di persone, i complici soggiacciono alla stessa pena dell’autore principale. Il rigore delle leggi viene comunque temperato dalla facoltà dei giudici di infliggere pene straordinarie. Il profilo soggettivo non viene – sempre secondo quanto riportato da Impallomeni – approfondito: dalle fonti si ricava solamente che la volontarietà non è esclusa da un intervallo di tempo anche lungo tra l’azione e la morte.

In generale sul tema, CANTARELLA E., Studi sull’omicidio in diritto greco e romano, Milano 1976.

 

[16] A questa varia terminologia non risponde comunque – secondo Löffler – una differenza di trattamento.

 

[17] PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  242, sulla base di esempi tratti da Demostene.

 

[18] Leggi, IX, 8, 864-865.

 

[19] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  56-57.

 

[20] HORN C., Antike Lebenskunst: Glück und Moral von Sokrates bis zu den Neuplatonikern, München 1998, ed. it. a cura di E. Spinelli,  L’arte della vita nell’antichità. Felicità e morale da Socrate ai neoplatonici, Roma 2004,  154.

 

[21] HADOT P., La philosophie comme manière de vivre. Entretiens avec J. Carlier et A.I. Davidson, Paris 2001,  95 e 148.

 

[22] La tradizione socratica risponde alla questione relativa agli ostacoli a una condotta di vita ben riuscita con il biasimare i difetti nella razionalità di una persona. Osserva dunque HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  138, che «al giorno d’oggi, al posto di uno statico ideale di autoperfezionamento psichico, si è certamente più inclini a un modello che concepisce la condotta di vita come un processo aperto. All’interno di tale processo agiscono esperienze di vita mutevoli, casi fortunati e disgrazie, incontri e scoperte, influenzandolo in maniera del tutto imprevedibile; la ragione è dunque solo un attore fra i tanti».

 

[23] JAEGER W., Paideia. La formazione dell’uomo greco, Milano 2003,  818 ss.

 

[24] La tripartizione dell’anima (psyche) è rappresentata nel Fedro (246 a-b) attraverso il mito della biga alata, tirata da due cavalli, uno bianco (anima irascibile o emotività) e uno nero (anima concupiscibile o istinto), e guidata da un auriga (anima razionale). Sui tre aspetti dell’anima, “facoltà razionale”, “facoltà appetitiva” e “facoltà passionale”, SEVERINO E., La Filosofia Antica, cit.,  101-102.

 

[25] MELLING D.J., Understanding Plato, Oxford 1987, trad. it., Bologna 1994,  90 ss.

 

[26] Nel prosieguo si fa riferimento a PLATONE, Tutte le opere, a cura di G. Pugliese Carratelli, Firenze 1974.

 

[27] ABBAGNANO N., Storia della filosofia, vol. I: La filosofia antica, IV ed., Torino 1993, par. 60.

 

[28] La mancanza di autocontrollo (akrateia) viene indicata nelle Leggi (734b) come “involontaria”; è vero che si può pur sempre “soccombere” a piacere e dolore, così come ad altre passioni, ma anche qui si tratterebbe, in modo immutato, di una carenza di carattere cognitivo (Leggi, 863b ss. e 902a ss.).

 

[29] Sulla concezione di giustizia, di recente, AA.VV., L’idea di giustizia da Platone a Rawls, a cura di S. Maffettone e S. Veca, Torino-Bari 1997.

 

[30] Platone prosegue nello stesso passo dicendo che «il legislatore deve guardare appunto a questo e avere l’occhio attento a queste due cose, all’ingiustizia e al danno; e questo deve, per quanto è possibile, ristorare mediante le leggi, recuperando il perduto, rilevando ciò che da qualcuno è stato abbattuto, riparando le uccisioni o le ferite; e così mediante le compensazioni deve sempre cercare nelle leggi di volgere dal dissidio all’amicizia colui che fa e colui che patisce un danno». Ulpiano secoli dopo dirà (D. 1,1,10,1): «Iuris praecepta sunt haec: honeste vivere, alterum non laedere, suum cuique tribuere». Questa regola suprema della Roma pagana – che si ispira alla tradizione filosofica che va da Platone a Seneca e trova punti di contatto con l’etica cristiana – non comporta peraltro per i Romani una valutazione morale intrinseca della norma positiva. Paolo, nell’unico passo del Digesto che si occupi della distinzione tra diritto e morale, avverte: “non omne quod licet honestum est” (D. 50,17,144). Vedi sul punto, ALBERTARIO E., Etica e diritto nel mondo classico latino, in Studi di diritto romano, V, Milano 1937,  3 ss.

 

[31] PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  236 ss.

 

[32] Metaf. VI, 1, 1025 b 3 ss.

 

[33] Sulla filosofia dell’azione in Aristotele, ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, Oxford 1981, traduzione italiana di Paolo Crivelli, Bologna 1993,  220 ss. Ackrill è membro della “Aristotelian Society” di Oxford, nella quale hanno lavorato i maggiori filosofi inglesi del novecento, trattando di qualsiasi argomento filosofico, nella convinzione che tutta la filosofia abbia a che fare con Aristotele.

 

[34] Ci si riferirà di qui in avanti sempre all’edizione dell’Etica Nicomachea con introduzione, traduzione e commento di M. ZANATTA, Milano 2002.

 

[35] ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, Torino 1971, voce Etica,  360.

 

[36] ABBAGNANO N., voce Etica, cit.,  363 ss., riconduce a tale concezione il pensiero di Epicuro, Hobbes, Spinosa, Locke, Leibniz, Hume e Kant.

 

[37] CERQUETTI G., La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, Torino 2004,  293 ss. Sul tema KARGL W., Der strafrechtliche Vorsatz auf der Basis der kognitiven Handlungstheorie, Frankfurt am Main 1993,  32 ss.

 

[38] Per “intellettualismo morale” si intende la tesi che la razionalità sia sufficiente, già di per sé, a realizzare una condotta di vita felice e virtuosa. Nel mondo moderno - afferma HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  167 – sussiste un fondamentale scetticismo riguardo alla possibilità di far fronte razionalmente a eventi fortuiti, desideri e passioni, a meno che non si paghi il prezzo di una radicale autoimmunizzazione.

Sempre HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  154, osserva che il tema del conflitto psicologico, sviluppato in particolare da Aristotele, si trova anche nella tragedia, in particolare in Euripide. Nella Medea, Euripide fa dire al suo protagonista: «Il male mi vince. Conosco il misfatto che sto per compiere. Ma il furore dell’animo (bouleumata) che spinge i mortali alle più grandi colpe è più forte di me e di ogni altro volere (thymos)».

 

[39] REALE G., Storia della filosofia greca e romana, vol. 4: Aristotele e il primo Peripato, Milano 2004,  189.

 

[40] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  70.

 

[41] Per descrivere la reputazione di cui Aristotele godeva, è sufficiente ricordare la definizione che di lui dà Dante, nel canto XI dell’Inferno (vv. 79-84): il “maestro di color che sanno”.

Quanto poi all’influsso in tema di elemento soggettivo la Glossa precisa, e i giuristi approvano, che non è la simplex cogitatio ad avere rilievo ma solo la voluntas deliberata, che si ha quando voluntas concurrit cum cogitatione e che si può provare perché concretizzata in azioni. Su questa idea di ‘volontà rafforzata’, che pare richiamare la proairesis aristotelica, nel diritto comune e in particolare in Tiberio Deciani, PIFFERI M., Generalia Delictorum. Il Tractatus Criminalis di Tiberio Deciani e la “parte generale“ di diritto penale, Milano 2006,  238.

 

[42] Aristotele è il primo a riconoscere e ad apprezzare l’importante contributo che elementi extrafilosofici forniscono all’educazione alla virtù, in particolare la famiglia, le predisposizioni naturali, le tradizioni culturali e l’ambiente sociale. Così HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  144, che cita a conforto della tesi anche altri Autori (Sherman e Nussbaum).

 

[43] Valutazione morale, valutazione religiosa e valutazione giuridica hanno del resto proceduto affiancate, quando non compenetrate, per lunghi periodi storici. Sarà solo il pensiero illuministico-liberale (a partire da Cesare Beccaria) a perseguire lo scopo politico-criminale di distinguere nettamente tra imputazione morale e imputazione giuridica, tra religione e diritto. Per un’introduzione al tema dell’evoluzione della responsabilità penale e della concezione di colpevolezza, MANTOVANI F., Diritto Penale. Parte generale, IV ed., Padova 2001,  293 ss.

 

[44] L’anima è sostanza che informa e vivifica un determinato corpo: essa è definita come «l’atto primo di un corpo che ha la vita in potenza». Sul concetto di anima (psyche) in Aristotele, ABBAGNANO N., Storia della filosofia, cit., par. 80. Sull’impostazione del problema mente-corpo e sui modi in cui i fatti fisici si collegano con le attività psicologiche, ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  98 ss.

[45] HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  168. Le filosofie morali antiche e moderne si distinguono innanzitutto perché nell’antichità l’attenzione è focalizzata principalmente sul soggetto agente, mentre i filosofi moderni si concentrano sul giudizio morale di determinati comportamenti. Nella terminologia di ANNAS J., Ancient Ethics and Modern Morality, in Philosophical Perspectives, 6, 1992,  124, l’etica antica procede «incentrata sul soggetto agente» (agent-centred), mentre l’etica moderna è progettata per essere «incentrata sull’azione» (act-centred).     

 

[46] Osserva EUSEBI L., Il dolo nel diritto penale, in Studium Juris, 2000,  1072, che il rilievo attribuibile al dolo nella teoria del reato ha come presupposto la peculiarità tipica delle azioni umane coscienti e volontarie, che si sostanzia nel loro essere psicologicamente cagionate dalla prospettiva di realizzare un certo risultato, cioè nel loro orientarsi in senso finalistico. L’Autore aggiunge che «Una condotta, infatti, può dirsi dolosa agli effetti penali quando si realizza il caso per così dire ordinario in cui la medesima abbia dato luogo alla conseguenza in vista della quale sia stata posta in essere, sempre che tale conseguenza, ovviamente risulti significativa nell’ambito di una norma incriminatrice … Fattore identificativo della responsabilità dolosa è quindi il volere che abbia avuto per oggetto, proiettandosi al di là della condotta, l’accadimento antigiuridico da quest’ultima cagionato». Per un approccio alla problematica del dolo anche dal punto di vista del più recente dibattito scientifico, EUSEBI L., Il dolo come volontà, Brescia 1993 e CERQUETTI G., La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, cit., passim.

 

[47] DIHLE A., The Theory of Will in Classical Antiquity, Berkeley 1982; HORN C., Augustinus und die Entstehung des philosophischen Willensbegriff, in Zeitschrift für philosophische Forschung, 50, 1996,  113 ss.

 

[48] HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  169.

 

[49] ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Spontaneità,  833.

 

[50] Di questo concetto naturalistico e causale sono considerati “fondatori” Beling e von Liszt, anche se già in Carrara esso vi si trova espresso. Su di esso e sugli ulteriori concetti, finalistico e sociale, elaborati dalla dottrina penalistica, ROMANO M. (Commentario sistematico del codice penale, I (art. 1-84), III ed., Milano 2004,  418 ss.). L’Autore, di fronte alle impostazioni nichilistiche e rinunciatarie di parte della dottrina, ritiene (soluzione largamente dominante) un concetto superiore unitario di azione, prima che utile, fondato e legittimo, e lo ricostruisce partendo dalla considerazione che l’azione e l’omissione, l’azione e l’omissione dolose e colpose, prima ancora che essere valutate come dolose o colpose, sono qualificabili come comportamento umano (actus humanus non semplicemente actus hominis) se e in quanto siano dominate o almeno dominabili dalla volontà. Propone dunque un’integrazione-superamento del concetto classico con una dimensione esterna, obiettiva e in questo senso sociale: «una definizione di esso come concetto penale-costituzionale di azione è in grado di segnalarne a un tempo l’aspetto normativo-positivo, non ontologico, e la rispondenza al “quadro dell’uomo” voluto dalla nostra Costituzione (soprattutto art. 2, 25, 27)». La conclusione dell’Autore è che nel codice vigente la coscienza e volontà di cui all’art. 42 comma 1 esprime in forma ridondante (la volontà presuppone sempre la coscienza) il “coefficiente di umanità” minimo perché un fatto fuoriesca dal novero dei fenomeni naturali e il diritto penale lo possa prendere in considerazione.

 

[51] Il concetto di scelta – osserva ABBAGNANO N. (Dizionario di filosofia, cit., voce Scelta,  766) – in termini più generici, è continuamente presente a Platone che, nel mito di Er, fa dipendere il destino dell’uomo dalla scelta che ciascuno opera del proprio modello di vita: «Non c’era nulla di necessariamente preordinato per l’anima perché ciascuna doveva cambiare secondo la scelta che essa faceva» (Rep. X, 15, 618 b). Platone accenna all’idea che solo l’autonomia di una scelta comportamentale è quella a cui si può collegare la responsabilità di chi agisce, ma il mito di Er non contiene però un concetto di volontà avvicinabile a quello di origine giudaico-cristiano abbozzato nel testo. Anche il Platone della vecchiaia non pare abbia affrontato il problema morale e giuridico della responsabilità: ritiene HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  170, che è vero che Platone nelle Leggi distingue tra delitti volontari e involontari ma resta inspiegato il motivo per cui si è autorizzati ad attribuire a qualcuno la responsabilità del suo comportamento sbagliato.

 

[52] Per Aristotele le virtù si distinguono in virtù dianoetiche, che riguardano l’esercizio dell’intelligenza, e virtù etiche, che invece riguardano il rapporto dell’intelligenza con la sensibilità e con gli affetti. In quanto sensitiva, e dunque in quanto non è di per sé stessa razionale, l’anima può obbedire o disobbedire a quella parte di sé che è l’attività razionale. Vi è allora – conformemente alla filosofia platonica – una “virtù etica”, che consiste nel sottomettere le tendenze sensitive e appetitive alla tendenza razionale dell’anima, e una “virtù dianoetica” che consiste nel portare e mantenere l’anima razionale al culmine delle sue possibilità. Questo culmine è costituito dalla saggezza (phronesis). Al riguardo, SEVERINO E., La Filosofia Antica, cit.,  151-152.

 

[53] La virtù morale deve unirsi – secondo Aristotele – alla saggezza pratica (phronesis), virtù della ragion pratica. Questa consente all’uomo, in ogni situazione, di deliberare intorno a cosa sia onesto, gentile o generoso, insomma che cosa sia giusto fare. Sul tema e in particolare sui criteri in base ai quali l’uomo che possiede la saggezza pratica può deliberare, ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  215 ss.    

 

[54] «Essendo le cose giuste e ingiuste quelle che noi abbiamo descritto, si commette ingiustizia e si agisce giustamente quando si compiono quelle azioni volontariamente; ma quando si agisce involontariamente, non si compie né un atto di ingiustizia né un atto di giustizia, se non per accidente, nel senso che si compiono azioni cui accade di essere giuste o ingiuste. Ma che un atto sia definito ingiusto e giusto dipende dal fatto che sia volontario o involontario: quando infatti è volontario, viene biasimato, e nello stesso tempo, ma allora solamente, è anche un atto di ingiustizia. Cosicché sarà qualcosa di ingiusto ma non ancora un atto di ingiustizia, se non si aggiunge la volontarietà» (Eth. Nic., V, 10, 1135 a 15 ss.). Secondo ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  230, Aristotele pone le basi per la discussione e l’analisi delle condizioni della responsabilità e della giustificazione.

 

[55] Afferma DOLCINI E., Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000,  865, che «il principio di colpevolezza rappresenta, a garanzia del cittadino, uno dei principi cardine di ogni sistema penale moderno e a tale principio ricollega una duplice esigenza, relativa non solo all’an ma anche al quantum della responsabilità: nessuno deve essere punito in assenza di colpevolezza, né deve essere punito con una pena eccedente la misura della colpevolezza».  Sul punto, ancora DOLCINI E., La commisurazione della pena, Milano 1979,  258 ss., e nella letteratura tedesca, ACHENBACH H., Historische und dogmatische Grundlagen der Strafrechtssystematischen Schuldlehre, Berlin 1974,  4 e 10 ss.

 

[56] ABBAGNANO N., Storia della filosofia, cit., par. 81. L’Autore osserva che in Aristotele sulla giustizia è fondato il diritto. «Aristotele distingue il diritto privato dal diritto pubblico che concerne la vita associata degli uomini nello stato e distingue il diritto pubblico in diritto legittimo (o positivo), che è quello stabilito nei vari stati e il diritto naturale, che conserva dappertutto il suo valore, anche se non è sancito da leggi. Dal diritto egli distingue l’equità, che è una correzione della legge mediante il diritto naturale, resa necessaria dal fatto che non sempre nella formulazione delle leggi è stato possibile contemplare tutti i casi, onde la loro applicazione risulterebbe talvolta ingiusta.»

 

[57] Si è parlato a proposito dell’effetto che discende dalla differenza tra fatto volontario e involontario di una sorta di “diritto penale binario” (“zweigliedrige Strafrecht”) in Aristotele (DEBRUNNER M.K., Das zweigliedrige ‘Strafrecht’ des Aristoteles: Geschlagene Amtsträger und unfreiwillige Rechtsbeziehungen, in ZSS, 105, 1988,  680-694) . Ciò anche in relazione a un’altra distinzione posta da Aristotele in rapporto al soggetto attivo e a quello passivo: «Se infatti è chi detiene una magistratura ad avere inferto colpi, non si deve colpirlo di contraccambio, e se si ha percosso un magistrato non soltanto si deve essere percossi, ma anche puniti» (Eth. Nic. V, 8, 1132 b 30).

 

[58] ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  237. Secondo Ackrill, meno felice pare Aristotele sulla questione più profonda della giustificazione del biasimo e della punizione, di contro alla loro efficacia.

 

[59] Aristotele non si sofferma particolarmente sulla forza maggiore, sui casi di costrizione fisica, perché qui è in realtà già fuori luogo la nozione stessa di un “agente” e di una “azione”. Si sofferma invece sull’analisi di “azioni miste”, situazioni cioè in cui minacce, compensi o pressioni di vario genere possono influenzare l’agente e scusare o addirittura giustificare ciò che fa, come per esempio nel caso del capitano della nave nel mare in tempesta che per salvare l’equipaggio ordina di gettare dalla nave il carico. Queste azioni sono – secondo Aristotele – più simili alle azioni volontarie che a quelle involontarie. Sono volontarie, per quanto in senso assoluto forse sarebbero involontarie: “nessuno infatti di per sé vorrebbe compiere nessuna di esse” (Eth. Nic. III, 1, 1110 a 11-19). Osserva ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  232, che Aristotele avrebbe potuto dare una spiegazione migliore e più sofisticata, se avesse usato una gamma di aggettivi e avverbi più ricca. Infatti la complessità della situazione psicologica sarebbe stata resa più efficacemente distinguendo tra “intenzionalmente” e “volentieri”. La parola greca έκούσιον suggerisce l’idea di propensione. Più in generale l’Autore afferma ( 230-231) che i termini έκούσιον e άκούσιον sono solitamente tradotti con “volontario” e “involontario”, seppur nella trattazione aristotelica siano impiegati in un significato per cui sarebbe preferibile la traduzione “intenzionale” e “non intenzionale”. 

 

[60] Secondo Arth. KAUFMANN, Die Parallewertung in der Laiensphäre. Ein sprachphilosophischer Beitrag zur allgemeinen Verbrechenslehre, München 1982,  4-5, affermare, così come si fa tradizionalmente, che Aristotele avrebbe posto la regola “error iuris nocet, error facti non nocet” è nella sua assolutezza inesatto. Con il termine άκούσιον («d.h. nicht zurechenbar», dice Arthur Kaufmann) Aristotele indica infatti sia i casi di error facti, nei quali cioè l’agente agisce non conoscendo esattamente le concrete circostanze di fatto, sia le ipotesi di error iuris: tuttavia a questa ignoranza del precetto l’agente non può appellarsi quando essa è evitabile, quando cioè si tratta di disposizioni la cui conoscenza è generalmente supposta. Una soluzione non dissimile – come vedremo nel testo - da quella accolta nella sentenza 364/88 della nostra Corte costituzionale. Cfr. sul tema dell’errore di diritto nell’ottica aristotelica, WELZEL H., Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, 4. aufl., Göttingen 1962,  35 ss. e SCHROTH U., Vorsatz und Irrtum, München 1998,  14.

 

[61] Ritiene oggi MORSELLI E., Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova 1989,  73 (e nota 110) che il problema della rilevanza o meno dell’errore di diritto si riduca in definitiva a un problema di accertamento della buona o della mala fede criminosa nel soggetto agente; in sostanza il problema della rilevanza della coscienza dell’antigiuridicità, e del correlativo errore di diritto, si riassume, secondo l’Autore, in un problema di accertamento della sussistenza dell’animus nocendi, o malafede criminosa. Un concetto non dissimile dalla “malvagità” dimostrata attraverso l’ignoranza di cui parla Aristotele.

 

[62] «E intendo per volontario, come si è detto anche prima, quell’atto, tra gli atti che dipendono da lui, che uno compie in piena avvertenza, e cioè non ignorando né la persona, né il mezzo, né il fine: ad esempio, chi percuote o con che cosa o a quale fine; e ciascuno di questi aspetti dell’azione non è né accidentale né forzato (per esempio, se qualcuno prende la mano di un altro e picchia un terzo, il secondo non agisce volontariamente, perché l’atto non dipende da lui). Può capitare che l’uomo picchiato sia suo padre, e che egli sappia sì che è un uomo ed è uno di quelli che gli stanno intorno, ma ignori che è suo padre. Una distinzione simile si può fare anche nel caso del fine e nel caso dell’intero svolgimento dell’azione.» (Eth. Nic., V, 10, 1135 a 25 ss.)

 

[63] Oggi nella dottrina penalistica si afferma, a proposito dell’oggetto del dolo, che l’agente doloso vuole realizzare un fatto, del quale si rappresenta tutti gli elementi necessari e sufficienti a fondarne la corrispondenza alla fattispecie criminosa. PULITANO’, Diritto penale, cit.,  350, osserva, richiamando il passo aristotelico citato nel testo, che la conoscenza delle “circostanze particolari nelle quali e in relazione alle quali si compie l’azione” è criterio di identificazione dell’azione volontaria già nella riflessione sull’etica del maggior filosofo dell’antichità.

 

[64] Questo concetto si ritroverà poi, in chiave teologica, in Tommaso d’Aquino, che chiamerà actio humana quella specifica per l’uomo, in quanto modalità cosciente dell’essere attivo (Sth., I-II, 1, 1). Vedi SCHÖNBERGER R., Thomas von Aquin zur Einführung, Hamburg 1998, trad. italiana a cura di P. Kobau, Bologna 2002,  125.  

 

[65] Peraltro si osserva oggi che sul terreno del reato commissivo doloso l’azione è sempre caratterizzata dalla partecipazione effettiva della coscienza e volontà: anzi, in questo senso, i presupposti dell’esistenza di un’azione cosciente e volontaria finiscono col rimanere assorbiti da quelli normativamente richiesti per la configurazione del dolo: «azione cosciente e volontaria» e azione «dolosa» finiscono, dunque, col coincidere. Così FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, IV ed., Bologna 2001,  192-193. Sul punto, fondamentale MARINUCCI G., Il reato come azione. Critica di un dogma, Milano 1971,  200 ss. e 239 ss.

 

[66] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  70, rende in tedesco il termine προαίρεσις con überlegt Vorsatz (“dolo di proposito“). Chi agisce invece con dolo d’impeto compie sì un’azione ingiusta ma non è egli ingiusto e malvagio.

 

[67] REALE G., Aristotele e il primo Peripato, cit.,  190.

 

[68] Osserva ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  224, che questa affermazione non implica necessariamente che alcuni obiettivi non possano assolutamente essere oggetto di deliberazione (e quindi scelti o rifiutati), ma implica soltanto che ogni caso particolare di deliberazione deve dare per scontato qualche scopo, fine o principio. Non posso cioè deliberare allo stesso tempo su come arricchirmi e se adottare come obiettivo la ricchezza.

 

[69] Riassume così ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Deliberazione,  217: «La deliberazione è la considerazione delle alternative possibili che una certa situazione offre alla scelta. Questo vuol dire Aristotele quando parla dei limiti della deliberazione ed esclude dall’ambito di essa non solo il necessario (che non può non essere) ma anche il fine. Infatti, osserva Aristotele, il medico non si domanda se si propone o non di guarire il malato né l’oratore si domanda se si propone o non di persuadere o l’uomo politico di istituire una buona legislazione. Piuttosto, una volta posto il fine, si esamina come e per quali vie si potrà attingerlo; e su queste vie o mezzi, per conseguenza, verterà la deliberazione. La deliberazione si conclude e culmina nella scelta». Conclude Abbagnano che queste determinazioni aristoteliche sono rimaste classiche.

 

[70] La deliberazione o ragionamento pratico dovrebbe concludersi con una scelta razionale e un’azione appropriata al fine. La deliberazione permette all’uomo di vedere che cosa deve fare per conseguire i propri obiettivi. Di regola egli fa proprio questo: se non lo fa occorre una spiegazione. L’akrasia è il non fare ciò che si sa di dover fare o il fare ciò che si sa di non dover fare. L’agire contro ragione è un problema che già era stato posto da Socrate e Platone e che Aristotele tratta con una certa ampiezza. Lo Stagirita si chiede se e in che modo l’uomo acratico “sa” che ciò che sta facendo è male. A questo proposito traccia alcune distinzioni che danno conto dei meccanismi - ancora oggi attuali - che portano al compimento delle azioni biasimevoli o punibili. In primo luogo distingue il sapere disposizionale (cioè un sapere che l’uomo acritico possiede ma a cui non sta pensando) dal sapere attualizzato. Poi differenzia due tipi diversi di akrasia: la debolezza (non attenersi alla conclusione o alla decisione raggiunta) e l’impetuosità (non fermarsi affatto a riflettere). Sul concetto di akrasia in Aristotele,  ACKRILL J. L., Aristotle the Philosopher, cit.,  224 ss.

 

[71] Osserva ABBAGNANO N. (Dizionario di filosofia, cit., voce Scelta,  766) che la determinazione secondo la quale la scelta concerne solo le cose possibili viene poi esplicitamente sottolineata da S. Tommaso, che ripete sostanzialmente l’analisi aristotelica. Sul punto anche SCHÖNBERGER R., Thomas von Aquin zur Einführung, cit.,  130 ss.

 

[72] Aristotele esamina e caratterizza, tra le altre, passioni quali desiderio, ira, paura, ardimento, invidia, gioia, affetto, brama, gelosia e pietà (Eth. Nic., II, 4, 1105 b, 20ss.). L’ampiezza e la precisione della presentazione è motivata – ad avviso di HORN C., Antike Lebenskunst, cit., , cit.,  143 – dal suo volere analizzare e differenziare il contesto situazionale e l’elemento cognitivo di ciascuna delle passioni. Secondo la concezione aristotelica, aggiunge Horn ( 144), le emozioni sono una parte irriducibile della personalità morale.

 

[73] Sull’importanza di questa distinzione e sull’influsso attraverso lo stoicismo nel diritto penale romano, LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  71 ss.

 

[74] ABBAGNANO N., Storia della filosofia, cit., par. 81. Aristotele chiama libero ciò che ha in sé il principio dei suoi atti o è «principio di sé stesso» (Eth. Nic., III, 5, 1112b, 15-16).  L’uomo è libero proprio in questo senso: in quanto è «il principio e il padre dei suoi atti come dei suoi figli» (Eth. Nic., III, 7, 1113b, 10 ss.); e sia le virtù che i vizi sono manifestazioni di questa libertà.

 

[75] REALE G., Aristotele e il primo Peripato, cit.,  192-193 e 289-290. Nello stesso senso, KAHN C., Discovery of the Will: from Aristotle to Augustine, in J.M. DILLON, The Question of Eclecticism, Berkeley 1988,  234 ss.

 

[76] ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Volontà,  924. In termini ancora più concisi questo medesimo concetto sarà espresso da Bernardo di Chiaravalle (S. Cant.,81, IV, 9): «Dove c’è volontà, c’è anche libertà» («porro ubi voluntas, et libertas»). Sull’influsso di Agostino sul concetto di volontà e sulla distinzione posta da Agostino tra volontà e libero arbitrio, HORN C., Antike Lebenskunst, cit.,  172-173. Ad Agostino risale anche la precisazione che, in senso proprio, può diventare oggetto del volere solo ciò che è stato precedentemente conosciuto: «nil volitum nisi cognitum».

 

[77] Il rapporto tra colpevolezza  e libertà del volere è posto in questi termini, oggi, da ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, cit.,  327: «la colpevolezza presuppone una libertà di agire dell’uomo, una libertà del volere; non necessariamente un libero arbitrio inteso come a-causale, a-motivata spontaneità e creatività, sì invece una libertà come capacità dell’uomo, seppure entro certi limiti, di autodeterminarsi, di assumere decisioni, di optare tra più alternative, di scegliere se adeguarsi o ribellarsi al diritto». Per una interessante rivisitazione del tema alla luce delle acquisizioni delle moderne scienze cognitive, LAMPE E.J., Willensfreiheit und strafrechtliche Unrechtslehre, in ZStW (118), 2006,  1 ss. Cfr. dal punto di vista delle neuroscienze, GAZZANIGA M.S., The Ethical Brain, New York – Washington, D.C., 2005, in particolare  87 ss.

 

[78] Secondo ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Volontà,  924, entrambi questi significati del termine “volontà” sono propri sia della filosofia tradizionale sia della psicologia ottocentesca, perché sono collegati con la nozione di facoltà o poteri originari dell’anima che si combinerebbero assieme per produrre le manifestazioni dell’uomo. Ma né la filosofia né la psicologia contemporanee interpretano in questo modo la condotta dell’uomo. Le nozioni di “comportamento” e di “forma” nonché l’indirizzo “funzionalistico” della psicologia non consentono – conclude l’Autore – di parlare di “principi” dell’attività umana e pertanto la classificazione intelletto-volontà o quella intelletto-sentimento-volontà hanno perso il loro significato letterale. Abbagnano riconosce comunque che il termine volontà viene conservato, ma per indicare certi tipi di condotta o certi aspetti della condotta. Così deve ritenersi avvenga – sia consentito osservare – nel diritto penale, dove il termine “volontà” ancora oggi viene usato per identificare e definire la vera essenza del dolo. Il richiamo a questo contenuto del dolo, contro le tentazioni oggettivistiche nella definizione e soprattutto nell’accertamento di esso, è esplicito già nel titolo di uno dei più significativi recenti contributi in tema di dolo: EUSEBI L., Il dolo come volontà, cit.

 

[79] REALE G., Aristotele e il primo Peripato, cit.,  292.

 

[80] ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Volontà,  924.

 

[81] ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Volontà,  925.

 

[82] DEWEY J., Human Nature and Conduct: an introduction to social psychology, New York 1948,  44.

 

[83] Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988,  686 ss., con nota di PULITANO’ D., Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza.

 

[84] Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit.,  699. Pulitanò ( 691) rileva come fra le funzioni di fondamento e di limite della reazione punitiva, che nel dibattito dottrinale vengono proposte per il principio di colpevolezza, la Corte costituzionale pone in primo piano proprio la funzione di limite, di garanzia “di libere scelte d’azione”. In un altro precedente lavoro, PULITANO’ D., L’errore di diritto nella teoria del reato, Milano 1976,  105 – citando HART H.L.A., Punishment and responsability, Oxford 1968,  44 – ritiene che «la certezza legale dell’azione individuale – coinvolgendo il momento soggettivo delle scelte d’azione – implica necessariamente la delimitazione dell’intervento legale a ciò che può essere riferito alla scelta soggettiva … In questa prospettiva, il fondare la responsabilità penale (anche) su momenti soggettivi è necessario a completare la funzione di garanzia per cui è posto il principio di legalità. E’ in questa funzione, dunque, che il principio di colpevolezza trova il suo  nucleo materiale, come “diritto di protezione” nei confronti dello Stato. Dando rilievo a scusanti soggettive, il sistema legale viene costruito come “choosing system”, come sistema aperto di scelte d’azione “in cui gli individui possono trovare, almeno in termini generali, i costi che hanno da pagare se agiscono in determinati modi”».

 

[85] DOLCINI E., Responsabilità oggettiva e principio di colpevolezza, cit.,  866.

 

[86] Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit.,  711-712. Osservano FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto penale, cit.,  360, che anzi la compenetrazione psicologica fatto-autore cresce quanto più l’agente sia in grado di cogliere la carica antigiuridica del fatto commesso.

 

[87] Corte cost. 24 marzo 1988, n. 364, cit.,  713. Il riferimento espresso alla libertà come presupposto della responsabilità è tradizionale nel diritto penale italiano. Già secondo PESSINA E., Elementi di diritto penale, Napoli 1880,  159-160 e 313- 314, il dolo è volizione del maleficio («voluntas sceleris»). Requisiti di struttura del dolo sono che «il fenomeno della negazione del Diritto sia stato preveduto dall’essere operante e come negazione del Diritto e come conseguenza, sia certa o sia probabile, di un movimento spontaneo del suo organismo» e che «l’essere operante abbia voluto quel movimento del suo organismo, dal quale come effetto da cagione, deriva il fenomeno della negazione del Diritto». Il dolo, dunque, in quanto volizione del maleficio, è opera di intelligenza e di libertà: «maleficio è dunque l’azione della libertà umana che infrange il Diritto». Ne deriva ( 29-30) che la società «deve incriminare tutte quelle azioni che, movendo dalla libertà umana, violano un’attenenza giuridica in maniera da rendere impossibile l’attrazione in forma positiva, relativamente al fatto che si è compiuto». Sul dolo (e in particolare sul rapporto con l’imputabilità) nel diritto penale dell’ottocento, SANTAMARIA D., Interpretazione e dommatica nella dottrina del dolo, Napoli 1961, ora in Scritti di diritto penale, a cura di La Monica, Milano 1996,  105-106.

 

[88] FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto penale, cit.,  360-361.

 

[89] Alla c.d. teoria della colpevolezza si contrappone la c.d. teoria del dolo (Vorsatztheorie), secondo la quale la coscienza dell’antigiuridicità si pone invece accanto alla rappresentazione e volizione quale elemento fondamentale del dolo. La contrapposizione tra la Vorsatztheorie e la Schuldtheorie pare essersi conclusa con il definitivo e generale successo di quest’ultima, che ha ispirato le soluzioni del problema dell’ignorantia legis in pressoché tutti i più recenti codici. Sia la Vorsatztheorie, sia la Schuldtheorie partono dal presupposto che oggetto del dolo (e dell’errore) è quel fatto costitutivo del reato, il quale si identifica con il concetto sistematico di “fatto tipico” (Tatbestand) E’ però il contenuto del “fatto tipico” a differenziarsi nelle due concezioni e a motivare le relative impostazioni. Per la Vorsatztheorie (più vicina alla tesi della bipartizione nella struttura del reato) essendo il “fatto” l’Unrechtstatbestand (la fattispecie illecita), la quale contiene in sé come elementi negativi della sua tipicità le scriminanti, il dolo, in quanto implica conoscenza del fatto, si estende alla sua illiceità (non penalistica) e quindi viene meno in caso di errore (anche se colpevole) sull’antigiuridicità. Per la Schuldtheorie, che è la concezione storicamente più vicina alla teoria sistematica della tripartizione, il “fatto” è solo indizio dell’antigiuridicità e la sua presenza costituisce un’occasione (“Anlass”) per coglierne l’illiceità o, quantomeno, per interrogarsi su di essa; in questa concezione fatto e antigiuridicità sono realtà distinte, e il dolo non implica la coscienza dell’illecito e l’errore sull’antigiuridicità non fa venire meno il dolo. Sulla ragione politico-criminale che porta al successo la Schuldtheorie in tema di errore sulla legge penale, MARINUCCI G., Politica criminale e codificazione del principio di colpevolezza, in Riv. it. dir. proc. pen., 1996,  424-425.

 

[90] La stessa Corte costituzionale nella sentenza citata ( 705) segnala come in tutti i lavori preparatori relativi al primo comma dell’art. 27 Cost. il termine “fatto” venisse sempre usato come comprensivo anche di un minimo di requisiti subiettivi, oltre a quelli relativi alla coscienza e volontà dell’azione.

 

[91] Corte cost. 13 dicembre 1988, n. 1085, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990,  298 (con nota di VENEZIANI P., Furto d’uso e principio di colpevolezza,  299 ss.).

 

[92] PULITANO’ D., Una sentenza storica che restaura il principio di colpevolezza, cit.,  705-706.

 

[93] MARINUCCI G. – DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale. Parte Generale, Milano 2004,  99.

 

[94] Così individuano la logica che sta alla base di questo requisito del dolo, MARINUCCI G. – DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale, cit.,  184, i quali aggiungono che, per converso, la rilevanza dell’errore sul fatto discende proprio dall’impossibilità che il soggetto venga trattenuto dall’agire.

 

[95] PEDRAZZI C., Tramonto del dolo?, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000,  1267.

 

[96] «Eine der schwierigsten und umstrittensten Fragen des Strafrechts», definisce WELZEL H. (Das Deutsche Strafrecht. Eine systematische Darstellung, 11 Aufl., 1969,  69) la delimitazione dei confini tra dolo eventuale e colpa cosciente.

 

[97] FRANK R., Das Strafgesetzbuch für das deutsche Reich, 18 Aufl., Tübingen 1931,  190. Con la prima formula, si afferma l’esistenza del dolo eventuale quando si accerti che l’agente, qualora avesse previsto come sicuro il verificarsi dell’evento, avrebbe agito ugualmente; con la seconda formula si ritiene presente il dolo eventuale se l’agente si è detto: le cose possono stare o andare in questo modo o altrimenti, in ogni caso io agisco.

 

[98] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit.,  443.

 

[99] FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto penale, cit.,  330.

 

[100] MANTOVANI F., Diritto penale, cit.,  325.

 

[101]  PULITANO’ D., Diritto penale, cit.,  357.

 

[102] ENGISCH K., Untersuchungen über Vorsatz und Fahrlässigkeit im Strafrecht, Berlin 1930 (rist. Aalen 1964),  177.

 

[103] ROXIN C., Zur Abgrenzung von bedingtem Vorsatz und bewuβter Fahrlässigkeit, cit.,  53 ss.; ID., Zur Normativierung des dolus eventualis und zur Lehre von der Vorsatzgefahr, in Festschrift Rudolphi, Neuwied 2004,  255 ss.; ID., Strafrecht. Allgemeiner Teil. Band I. Grundlagen. Der Aufbau der Verbrechenslehre, 4 Aufl., München 2006,  445 ss.; HASSEMER W., Einführung in die Grundlagen des Strafrechts, München 1981,  206 ss.; ID., Kennzeichen des Vorsatzes (in Armin Kaufmann – GS, 1989), trad. it. di Canestrari S., in Indice pen., 1991,  488-489; PHILLIPS L., Dolus eventualis als Problem der Entscheidung unter Risiko, in ZStW, 1973,  27 ss.; KÖHLER M., Die bewusste Fahrlässigkeit. Ein strafrechtlich-rechtsphilosophische Untersuchung, Heidelberg 1982,  330 ss.; FRISCH W., Vorsatz und Risiko. Grundfragen des tatbestandsmäβigen Verhaltens und des Vorsatzes. Zugleich ein Beitrag zur Behandlung aussertatbestandlicher Möglichkeitsvorstellungen, Köln – Berlin – Bonn – München 1983,  46 ss.; ZIEGERT U., Vorsatz, Schuld und Vorverschulden, Berlin 1987,  84 ss. e 142 ss.; RUDOLPHI H.J., in SKStGB, 5 aufl., 1988, § 16, n. 39; BRAMMSEN J., Inhalt und Elemente des Eventualvorsatzes – Neue Weg in der Vorsatzdogmatik?, in JZ, 1989,  79; STRATENWERT G., Strafrecht. Allgemeiner Teil. I, Die Straftat, IV ed., Köln – Berlin – Bonn – München 2000,  145 ss.

 

[104] SCHMIDHÄUSER E., Die Grenze zwischen vorsatzlicher und fahrlässiger Straftat («dolus eventualis» und «bewusste Fahrlässigkeit»), in Jus, 1980,  250; CANESTRARI S., Dolo eventuale e colpa cosciente. Ai confini tra dolo e colpa nella struttura delle tipologie delittuose, Milano 1999,  71.

 

[105] PROSDOCIMI S., Dolus eventualis. Il dolo eventuale nella struttura delle fattispecie penali, Milano 1993,,  32-33. Concorda con la posizione di Prosdocimi, CERQUETTI G., La rappresentazione e la volontà dell’evento nel dolo, cit.,  283, a condizione che di questi assunti «si valorizzi e si precisi quello secondo cui il dolo eventuale è contrassegnato – rispetto alla colpa con previsione – dal “grado di adesione psicologica al fatto”».

 

[106] PROSDOCIMI S., Dolus eventualis, cit.,  33.

 

[107] LIBERATI G., Mommsen e il diritto romano, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 6, 1976,  283. Sul tema GNOLI F.,  voce Diritto penale nel diritto romano, in Dig. disc. pen., IV, Torino 1990,  46-47. Sull’inadeguatezza degli schemi dogmatici e concettuali odierni per la comprensione del diritto penale romano, BASSANELLI SOMMARIVA G., Proposta per un nuovo metodo di ricerca nel diritto criminale (a proposito della sacertà), in BIDR, 1986,  327. Pone in guardia da possibili schematismi e genericità, ARCHI G.G., Introduzione al Congresso “Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano”, in Atti del Deuxième Colloque de Philosophie Pénale, Cagliari, 20-22 aprile 1989, a cura di O. Diliberto, Napoli 1993. Secondo questo Autore, infatti, è la natura stessa del diritto penale, così legata al contingente di ogni periodo storico, che impone al ricercatore una sensibilità storica maggiore che in altri settori. 

 

[108] MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, Bari 1997,  26 ss.

 

[109] Scrive MOMMSEN in una pagina della prefazione all’Abriss des römischen Staatsrecht, citata da MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit.,  28: «Se un ordine acconcio è la chiave di ogni intelligenza delle cose, qui ci si parano dinnanzi difficoltà straordinarie. In una misura ancora più grande di quel che non avvenga nel diritto privato noi siamo qui abbandonati a noi stessi; nel diritto pubblico non è a noi pervenuto dall’evo antico una esposizione che ci dia approssimativamente idea del sistema. Ma anche nella materia stessa insorgono ostacoli. I singoli istituti sono germogliati sul terreno storico, quindi “illogici”; ogni istituto si deve così abbracciare nella sua individualità, come dichiarare nelle sue funzioni politiche spesso assai varie». Nel Römisches Strafrecht, Mommsen avverte perciò con chiarezza che “la costruzione di un diritto penale romano, concetto che la scienza giuridica romana stessa non ha stabilito, non può essere realizzata senza un certo arbitrio“ (MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, rist. Aalen 1990,  525). 

 

[110] Riguardo alla possibilità di individuare categorie sistematiche nel diritto penale romano, secondo ZUCCOTTI F., «Furor» e «eterodossia» come categorie sistematiche della repressione criminale romana, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit.,  276, non sembra potersi utilmente negare che il diritto penale romano, pur nella sua spiccata contingenza fattuale e nella pressoché caratteristica assenza di precise teorizzazioni costruttive, potesse tuttavia strutturarsi implicitamente secondo certune “categorie sistematiche”, intendendole quantomeno come schemi classificatori mediante i quali la mentalità antica individuava e provvedeva a impedire determinati comportamenti ritenuti illeciti. L’Autore ritiene peraltro (281-282) che nel campo dell’ordinamento criminalistico romano sembra quasi mancare qualunque virtuale comunanza di concetti costruttivi che permetta di collocare gli istituti repressivi antichi nei possibili quadri classificatori propri della sistematica del diritto penale moderno. Cfr. GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano, Torino 1970,  26-27, per il quale i giuristi romani conoscono gli istituti di parte generale dell’attuale diritto penale (come il dolo) ma li trattano casisticamente, non costruendovi intorno un sistema. L’Autore afferma che la lettura delle opere dei giuristi romani suggerisce anzi l’idea di un diritto penale progredito, soprattutto quando in età più tarda essi creano un’articolazione di norme connettendo leges, costituzioni imperiali e senatoconsulti. Gioffredi segnala infine un tentativo (peraltro modesto) di sistemazione generale che si trova in un lungo frammento del giurista Claudio Saturnino (probabilmente del II sec. d.C) tratto dall’opera De poenis paganorum e conservato in Digesto 48,19,16.

 

[111] Così già MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, cit.,  4 ss.

 

[112] GNOLI F., Diritto penale nel diritto romano, cit.,  46. Viene infatti osservato da PUGLIESE G., Diritto penale romano, in Il diritto romano. La costituzione. Caratteri, fonti. Diritto privato. Diritto criminale (Guide allo studio della civiltà romana, 6), Roma 1980,  249, che essendo il potere punitivo una “manifestazione del potere politico di guida e di governo”, gli organi della repressione e le forme di essa furono a Roma nettamente influenzati dalla organizzazione politica della collettività.

 

[113] Afferma MOMMSEN nel Vorwort al Römisches Strafrecht: “Strafrecht ohne Strafprozess ist ein Messergriff ohne Klinge und Strafprozess ohne Strafrecht eine Klinge ohne Messergriff” (“Il diritto penale senza il processo penale è un [manico di] coltello senza lama e il processo penale senza il diritto penale è una lama senza [manico di] coltello”). Secondo MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit.,  40-41, la nota metafora esprime efficacemente l’idea di uno stretto intreccio tra la realtà normativa rappresentata dal reato e quella istituzionale rappresentata dal tribunale corrispondente. L’interconnessione, prosegue Masiello, è resa esplicita da Mommsen con l’affermazione che la legge istitutiva di una quaestio (tribunali stabili, creati con legge, che diventeranno l’organo ordinario della repressione criminale dell’ultima età repubblicana e dei primi tempi dell’impero) istituisce anche il reato e il tasso di pena.

Il fondamento processuale dello sviluppo del diritto criminale romano è affermato anche da BRASIELLO U., Note introduttive allo studio dei crimini romani, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 1946,  149-150.  Brasiello sostiene che lo studio del diritto penale romano, essendo uno studio storico, è uno studio non di semplice costruzione ma di ricostruzione: esso pertanto deve procedere in modo diverso da quello del diritto penale odierno. I vari campi vanno valutati dunque in quest’ordine: 1) il processo, 2) le pene; 3) i crimini; 4) la parte generale; 5) infine si potrà tentare di assurgere a una valutazione del pensiero latente dei romani su singoli aspetti di teoria generale, come per esempio il dolo.

 

[114] GIUFFRE’ V., La repressione criminale nell’esperienza romana, Napoli 1998,  XII dell’introduzione. Nello stesso senso GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano, cit.,  26. Secondo BRASIELLO U., voce Delitti (dir. romano), in Enc. dir., XII, Milano 1964,  6-7, il carattere eminentemente processuale del diritto penale romano è più evidente in età classica, perché «l’unità del crimine istituito dalla legge è data non tanto dalla sua natura sostanziale, quanto dal fatto che tutte le ipotesi sono da assoggettarsi alla stessa procedura, e sboccano nella stessa pena»; la situazione muta, peraltro solo parzialmente, in epoca imperiale, dato che con la cognitio extra ordinem «si ha un diritto penale di contenuto sostanziale, con figure criminose che vengono represse con un tipo di processo più semplice ed elastico».

 

[115] PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  227.

 

[116] Questo giudizio di Mommsen, espresso nella prolusione zurighese del 1852, deve però ritenersi superato al momento della pubblicazione del Römisches Strafrecht nel 1899, quando invece ravvisa in taluni momenti dell’esperienza criminalistica romana, «un’etica di garanzia dei diritti di libertà individuali»: così MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit.,  75. Sulle motivazioni politiche sottese a un tale cambiamento di opinione, GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  73.

 

[117] CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, Lucca 1891, VI ed.,  99. Carrara in un’altra parte del Programma (Parte generale, vol. II, Del giudizio criminale, VIII ed., Firenze 1897,  498-499 in nota) dice: «Sarebbe opera lunga e faticosa lo enumerare i funestissimi effetti che produssero nella dottrina penale durante i tempi di mezzo le argomentazioni dommaticamente desunte dal Giure romano. Già il Giure romano in sé stesso non mancava di gravissimi errori nel diritto criminale, derivanti o da certe prische durezze delle leggi regie e delle dodici tavole, o dalle feroci leggi di Silla, o dei più feroci editti di alcuni imperatori di Oriente. Ma a questi vizi radicali si aggiunse poi l’altro che colmò la misura e fu quello di adattare alle materie penali certe generalità che i giureconsulti Romani avevano dettato per le materie civili.»

 

[118] Così Cesare Beccaria, nella premessa “A chi legge” del Dei delitti e delle pene, descrive l’eredità normativa dei secoli passati: «Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio, sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbero reggere le vite e le fortune degli uomini.» Come osserva Franco Venturi (curatore dell’edizione Mondadori del Dei delitti e delle pene, Milano 1991,  27 nota 2), la polemica contro il diritto romano, contro l’imperatore Giustiniano, che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, contro la tradizione degli interpreti medievali, è fondamentale in Beccaria, così come è largamente diffusa in tutto il nostro Settecento. Ancora più dura la condanna della giurisprudenza romana e del medioevo da parte degli Illuministi francesi (in particolare Voltaire e Condorcet), nel quadro della complessiva condanna da essi affermata della storia, di tutta la storia, in nome degli ideali di libertà e di uguaglianza insopprimibili nella natura umana. Sul punto, CALASSO F., Medioevo del diritto. I. Le fonti, Milano 1954,  9-10, il quale riporta come agli occhi di Condorcet anche l’unica scienza di cui l’umanità si sentiva debitrice, la giurisprudenza romana, aveva origini impure, perché nata in funzione dell’astuzia dei detentori del potere e avrebbe approfittato del rispetto del popolo per le istituzioni allo scopo di imbrigliarne la volontà: di qui la stridente contraddizione in cui cadde – secondo l’Illuminista francese - la giurisprudenza romana, di affermare da un lato l’esistenza di un diritto naturale, dall’altro di impedirne il trionfo con i suoi formalismi tirannici.

 

[119] Mantovani F., Diritto penale, cit.,  25.

 

[120] L’espressione è di ARCHI G.G., Scritti di diritto romano, Milano 1981-1995, III,  1496 n. 20. Così DAHM G., Deutsches Recht, Stuttgart und Köln 1951,  99 (e anche in ID., Zur Rezeption des romisch-italienischen Strafrechts, cit.,  24): «Die Römer waren nicht Systematiker, sondern Empiriker des Rechts» e prosegue sostenendo che nel diritto ravvisavano non una scienza ma un’arte di vita («eine Lebenkunst»).

 

[121] PERNICE A. Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  231.

 

[122] Su questa involuzione dei sistemi di garanzia del cittadino romano, GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  69 e 155 ss. L’Autore riporta ( 129) le seguenti osservazioni di SCHULZ F. (Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968): «Alla fine del II secolo si verificò una accentuata decadenza delle quaestiones, e il diritto e la procedura penale al di fuori delle quaestiones erano così indefiniti, arbitrari e autoritari, che ogni costruzione giuridica di concetti e di principi sarebbe stata priva di significato pratico».

 

[123] GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano, cit.,  14-15. Per il diritto penale strettamente inteso – afferma l’Autore - non si può pertanto parlare di giurisdizione: anche nei casi in cui il magistrato amministra la giustizia da solo (coercitio), egli non pone in essere una regola di diritto (come invece avviene nelle questioni private), ma una sanzione (o una assoluzione); quando poi è il populus a decidere, è ancora più difficile parlare di ius dicere, perché la sua non è una pronuncia formale e solenne, ma una votazione. Lo stesso Autore ritiene peraltro – in contrasto con l’impostazione di Mommsen prima citata e dominante in dottrina – che il profilo penalistico raggiunge, a un certo punto dello sviluppo storico, autonomia scientifica: ciò sarebbe avvenuto verso la fine della repubblica, quando l’istituzione delle quaestiones perpetuae testimonierebbe come il diritto penale si stesse avviando in direzione di una certa autonomia. Sugli inizi della repressione criminale, SANTALUCIA B., Diritto e processo penale nell’antica Roma, II ed., Milano 1998,  1 ss.

 

[124] GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano, cit.,  66-67.

 

[125] GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano, cit.,  64 ss.

 

[126] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  12.

 

[127] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,  15. Secondo LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  66, l’originario sviluppo del diritto romano nel campo della colpevolezza ha luogo sotto la spinta del diritto sacrale.

 

[128] MELIS C.A., ‘Arietem offerre’. Riflessioni attorno all’omicidio involontario in età arcaica, in Labeo, 38, 1988,  135 ss.

 

[129] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  64, ritiene che la bipartizione dell’omicidio in doloso e non doloso – posta da queste antiche leggi – risponda a uno stadio di sviluppo del diritto penale comune anche agli altri popoli. All’interno dell’omicidio non doloso ricadono ancora ipotesi da riferire, come in seguito avviene, più correttamente al casus.

 

[130] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  60-61; IMPALLOMENI G.B., L’omicidio, cit.,  245-246.

 

[131] GROSSO G., Storia del diritto romano, V ed., Torino 1965,  28. Più che con le astrazioni – aggiunge Grosso a proposito poi della costituzione repubblicana (232-233) – gli antichi operano con termini concreti, incarnazioni vive dei problemi e dei concetti giuridici: essi assurgono alla rappresentazione e personificazione dello Stato, della res publica, come ordinamento sovrano, attraverso il populus romanus, cioè lo stesso ordine dei cittadini, incarnato nella comunità organizzata. Di qui l’uso di populus romanus là dove noi tradurremmo come “Stato”.

 

[132] GIOFFREDI C., I principi del diritto penale romano, cit.,  65.

Questo non significa peraltro l’abbandono del diritto di vendetta, ancora presente in tarda epoca repubblicana, in particolare nei confronti di adulteri e ladri scoperti in flagranza.

 

[133] MOMMSEN Th, Römisches Strafrecht, cit.,  85.

 

[134] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione storica e dottrinale, in Enciclopedia del diritto penale italiano, a cura di E. Pessina, vol. I, Milano 1905,  40. Gli esempi di esili per omicidio involontario trovano ragione in una sorta di espiazione verso la collera della divinità, comunque offesa dalla soppressione di un essere umano.

 

[135] Molto si è disputato sul significato della formula “paricidas esto”. Messa da parte l’interpretazione che paricidas indichi l’autore dell’omicidio, giacchè appare più verosimile che una norma concreta si riferisca alla sanzione, l’interpretazione può oscillare – ad avviso di GROSSO G., Storia del diritto romano, cit.,  149-150 – tra un significato passivo, nel senso che l’uccisore deve essere parimenti ucciso, e un significato attivo, nel senso che deve esservi un vendicatore, un paricidas. Secondo entrambe le interpretazioni la norma afferma il valore religioso della vendetta, che deve appunto gravare sul gruppo familiare. L’interpretazione che attribuisce significato passivo alla formula è già proposta da CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit.,  181 ss. Vedi anche TONDO S., Leges regiae e paricidas, Firenze 1973,  186 ss.

 

[136] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  65.

 

[137] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  66. L’Autore poi (nota 33,  66-67) riporta e contesta la tesi di un autore, Brunnenmeister, secondo la quale dolus malus e Vorsatz sono per natura concetti diversi. Secondo Brunnenmeister il concetto di dolus malus reca l’impronta dell’immoralità e della riprovevolezza sotto il profilo etico, mentre al concetto di Vorsatz è connaturale la coscienza dell’antigiuridicità. Löffler ritiene invece che l’immoralità dei motivi non rappresenti elemento concettuale del dolus malus.

 

[138] Sull’origine della formula, CANCELLI F., voce Dolo (dir. rom.), in Enc. dir., XIII, Milano 1964,  718. Osserva FERRINI C., Dir. pen. rom. Esposizione, cit.,  42, che l’epiteto “malo” può essere venuto in uso poi, nella fioritura pleonastica della terminologia repubblicana. Secondo CORDERO F. (Criminalia. Nascita dei sistemi penali, Roma – Bari 1986,  222 in nota) «Detto da locutori piuttosto esatti, quali sono i romani, ‘malus’ non costituisce pleonasmo, né epiteto «verstärkend» (“rafforzativo”): o squalifica l’atto astuto o non significa niente; supponendo un sostantivo «tadelnd» (“riprovatore”), l’aggettivo diluirebbe l’effetto».

 

[139] CANCELLI F., Dolo, cit.,  716. Peraltro tale derivazione – stando a PECORARO ALBANI A., Il Dolo, Napoli 1955,  3, nt. 1    non è scontata: alcuni filologi moderni infatti ipotizzano, attraverso lo studio di antiche radici linguistiche, che l’originario significato del termine sia quello di “intenzione”, “prendere di mira”.  

 

[140] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung. Eine Untersuchung über die rechtmäßige Handlung und die Arten des Delikts, II, 2, 2. Aufl., Leipzig 1916,  640 ss. Più precisamente Binding ( 644-645) distingue due differenti concetti di dolo: il primo originario e più ristretto da ricondurre alla nozione di astuzia diretta all’illecito; il secondo concetto, proprio specialmente del diritto penale dell’età classica, identifica invece l’aspetto volontario del comportamento malizioso e della vis. Sul tema, peraltro, già PERNICE A. Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  205, il quale segnala in particolare l’influsso greco sulla nozione di dolo come “bewusste Absicht“.

 

[141] Per la critica alla concezione di Binding, CANCELLI F., Dolo, cit.,  719-721. L’Autore oltre a fornire prove testuali, rileva ( 720) che «è noto che per i primitivi nel più si contiene il meno: la malizia, l’astuzia, l’artificio non escludono pur l’atto volontario quando questo fosse indirizzato ad un’azione comunque riprovata dal costume, dalla religione e dal diritto».

Ciò che il concetto di dolus rappresenta nel settore degli illeciti privati, è riprodotto nel campo del diritto criminale dalla figura – repressa extra ordinem – dello stellionatus (da stellio, specie di rettile), consistente in qualsiasi comportamento truffaldino, che già non rientri in una specifica previsione di reato. Nel Digesto si citano a titolo di esempio la vendita come beni liberi di cose vincolate in garanzia, oppure gli inganni (imposturae) e le collusioni a danno di altri, o ancora la fraudolenta sostituzione di cose vendute.

 

[142] La distinzione tra crimina e delicta non coincide in nessun momento dell’evoluzione del diritto romano con la distinzione moderna tra “illecito penale” e “illecito civile”. Nell’ottica romana anche la responsabilità che deriva dal danno aquiliano è responsabilità penale, perché per i giuristi romani l’azione è penale in quanto miri a una sanzione e indipendentemente dalle forme in cui questa sanzione è irrogata o in cui la responsabilità è accertata. Sul tema VOCI P., Risarcimento e pena privata nel diritto romano classico, Milano 1939,  94 ss.

 

[143] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,  89 ss.

 

[144] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,  97.

 

[145] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,  98 ss. Osserva l’Autore che le questiones disposte per plebiscito, essendo istituite con il voto dell’assemblea, non pongono quel problema di legalità costituzionale che invece sollevano quelle per senatusconsulta: queste ultime infatti – che non suscitano problemi quando riguardano la persecuzione di socii italici – iniziano a riguardare anche cittadini romani, violando così il principio che l’unico giudizio legittimo contro un cittadino romano accusato di un delitto capitale è quello del popolo riunito in assemblea centuriata. Così quaestiones come quella relativa allo scandalo dei Baccanali e quella contro i seguaci di Tiberio Gracco devono ritenersi vere e proprie usurpazioni dal punto di vista costituzionale, e in particolare l’ultima dà luogo a una decisa reazione popolare che conduce all’abolizione di tutte le questiones che non siano stabilite per atto legislativo.  

 

[146] Il termine quaestio, che originariamente designa l’attività del magistrato investito del compito di indagare (quaerere), passa poi a indicare, con l’introduzione delle corti permanenti, anche il procedimento davanti alla giuria, per contrassegnare infine lo stesso tribunale presieduto dal magistrato.

Anche di altri termini è interessante analizzare l’etimologia (GIOFFREDI C., I principi, cit.,  16). Il termine reatus ha in principio valore processuale e designa la condizione di accusato (reus) e passa poi a indicare il titolo dell’accusa e perciò il fatto criminoso. Reus è termine che si riferisce anche alla materia civile (da res, oggetto della controversia), indicando sia l’attore che il contenuto del processo, e, fuori del processo, chi è obbligato. La parola crimen, essendo imparentata con cerno, si rifà al concetto di discernere e decidere. Infine delictum (etimologicamente “mancamento”) designa (così FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  18-19) la mancanza eticamente riprovevole: forse in origine l’omissione di quanto è doveroso fare in contrapposizione all’atto colpevole positivo (maleficium, facinus). Più semplicemente, secondo CARRARA F. (Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, vol. I, Del delitto, della pena, VIII ed., Firenze 1897,  61, riprendendo BUCCELLATTI, Guida allo studio del diritto penale, Milano 1865) la parola delitto viene comunemente ricondotta a derelinquere, abbandonare: e cioè “abbandono” di una legge.

 

[147] Per la persecuzione di tali abusi non esiste in origine una via ben definita. Vi sono punti di contatto con le cause private per danni patrimoniali, ma per la qualità di chi ha commesso il fatto (il magistrato) e per la particolare posizione del danneggiato (gli abitanti delle province) queste cause non possono essere affidate alla giurisdizione privata del praetor né sottoposte alla coercitio del console o del pretore. Si giunge dunque alla lex Calpurnia (149 a.C.), che stabilisce una commissione permanente (quaestio) per le repetundae. Sull’origine del nuovo sistema di repressione, GROSSO G., Storia del diritto romano, cit.,  305 ss.; SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,  103 ss.; GIOFFREDI C., I principi, cit.,  17 ss.

 

[148] Su tale evoluzione, GNOLI F., Diritto penale nel diritto romano, cit.,  56-58.

 

[149] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  18. Nello stesso senso BRASIELLO U., Note introduttive allo studio dei crimini romani, cit.,  163, il quale – così come afferma MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, cit.,  667, per il falso – ritiene possa dirsi che il contenuto del diritto penale delle quaestiones sia processuale. «I dieci o dodici crimini che costituiscono la repressione repubblicano-augustea, sono dieci o dodici processi, sia pure in gran parte simili; le leggi istitutive sono tutte, come la lex Acilia, che possediamo, leggi processuali». Le leggi regolano dettagliatamente la procedura da seguire, fanno l’elenco dei fatti punibili, ma non distinguono in materia di sanzione; la pena, in sostanza, ha una parte secondaria, è considerata una delle tante determinazioni relative alla procedura (aestimatio litis): il che comprova, secondo Brasiello ( 165 in nota), che essendo essa predeterminata, non viene messa in particolare rilievo, e la sentenza viene guardata solo come affermazione (o negazione) di responsabilità.

 

[150] PIFFERI M., Generalia Delictorum, cit.,  172-173.

 

[151] MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, cit.,  55 ss. Il principio di legalità – afferma Mommsen ( 523 ss.) – perderà terreno sotto il principato, per il lento affermarsi dell’arbitrio del sovrano.

 

[152] VON JHERING R., Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, II, 1894,  45 ss., citato da MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit.,  62-63.

 

[153] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  73 ss. In particolare quanto ai dubbi sulla natura della provocatio ad populum,  79. L’Autore sostiene però ( 83 ss.) che le carenze di legalità e garantismo (secondo la nostra mentalità) della repressione criminale romana non costituiscono deviazioni, ma sono invece insite nel sistema stesso e sono da mettere in rapporto con la configurazione che i romani hanno in generale del ius publicum (nell’ambito del quale si inserisce in qualche modo il diritto penale) sino all’inoltrato principato: «lasciato alla capacità delle iniziative e dei gesti imperiosi delle autorità di imporsi ed avere ‘effettività’; affidato a ‘precedenti’ che non erano sempre mos o divenivano consuetudo; solo sporadicamente ed eccezionalmente regolato da prescrizioni legislative; insomma, affidato ai ‘fatti’. Sicché, da questa angolazione, può dirsi che il “ius (publicum romanorum) ex facto oritur”».  

 

[154] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  76-79. Il passo ciceroniano riportato dall’Autore è il seguente: “Voi (giurati), nel sentire trattare di crimini, siete abituati a pretendere dal difensore la loro totale confutazione, nel senso cioè che ritenete di non dover concedere all’accusato per la sua salvezza più di quanto il suo difensore avrà potuto dimostrare per scrollargli di dosso i crimini e convincere con la sua parola”. A mitigare questa situazione contribuiscono comunque – secondo Giuffrè – le gravi sanzioni che colpiscono chi propone una accusatio infondata e più in generale una serie di fattori sociali e latamente politici che fungono da ammortizzatori tra il civis e una repressione criminale arbitraria: la fiera concezione repubblicana della libertas, il controllo costante da parte dell’opinione pubblica, il rispetto per la tradizione e la constantia, che – secondo il giudizio di SCHULZ F. riportato da Giuffrè ( 87) – avrebbe “creato in fatto quella sicurezza del diritto che giuridicamente mancava”. 

 

[155] Il testo della legge Cornelia ci viene riferito, tra gli altri, da Marciano in D. 48.8.1 pr. (14 inst.): “Lege Cornelia de sicariis et veneficis tenetur, qui hominem occiderit: cuiusve dolo malo incendium factum erit: quive hominis occidendi furtive facendi causa cum telo ambulaverit: quive, cum magistratus esset publicove iudicio praeesset, operam dedisset, quo quis falsum indicium profiteretur, ut quis innocens conveniretur condemnaretur. Praeterea tenetur, qui hominis necandi causa venenum confecerit dederit: quive falsum testimonium dolo malo dixerit, quo quis publico iudicio rei capitalis damnaretur: quive magistratus iudexve quaestionis ob capitalem causam pecuniam acceperit, ut publica lege reus fieret.”

Si potrebbe tradurre così: «È tenuto in base alla Legge Cornelia sui sicari e gli avvelenatori chi uccide un uomo: o chi provoca dolosamente un incendio: ovvero chi, per commettere un omicidio o un furto, va armato: o chi, essendo magistrato o presiedendo ad un pubblico giudizio, opera in modo che qualcuno faccia false dichiarazioni per condannare chi è innocente. Inoltre è tenuto [scil. in base alla legge Cornelia] chi prepara o somministra veleno per uccidere un uomo: ovvero chi dolosamente dica falsa testimonianza, così da far condannare qualcuno alla pena capitale in un pubblico processo: ovvero chi, magistrato o giudice per una causa capitale accetti denaro per far accusare taluno per legge pubblica».

 

[156] Nella lex Cornelia vengono punite - osservava FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  94 - «siccome reati formalmente perfetti … varie forme di reato materialmente imperfetto». L’opinione di Ferrini - già propria di CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit.,  336 – è condivisa anche da IMPALLOMENI G.B., L’omicidio, cit.,  247.

 

[157] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  68.

 

[158] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  68-69. Non solo però nei secoli bui. Le prime lecturae di ius criminale sono organizzate secondo lo stile del commento di alcuni titoli del Digesto o del Codice: esempio tra i più importanti il corso sulla lex Cornelia de sicariis tenuto da Ippolito Marsili nel 1519 a Bologna. Sul punto, e in generale sull’istituzione delle cattedre di criminalia, PIFFERI M., Generalia Delictorum, cit.,  65 ss.

 

[159] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  68 ss. Secondo TALAMANCA M., Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, in La filosofia greca e il diritto romano, Atti del colloquio italo-francese, Roma 14-17 aprile 1973, II, Roma 1977,  3, nell’ambito della letteratura romanistica il rapporto tra la filosofia greca e il diritto romano si risolve più concretamente nei rapporti tra il pensiero filosofico greco e le singole personalità scientifiche dei giuristi romani. La filosofia greca entra in Roma con il sorgere della letteratura latina (seconda metà del III sec. a.C.): sul tema, GARBARINO G., Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo A.C., I, Torino 1973,  1 ss.

 

[160] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  73. Per Löffler non tutti gli elementi aristotelici assumono però la stessa importanza: infatti non è la nozione di “scelta” (προαίρεσις, che l’Autore traduce propositum) ad assumere il ruolo principale, ma il concetto di voluntas, sviluppato in particolare da Seneca.

In realtà la nozione latina di voluntas non ha nella lingua greca un corrispettivo che ricopra la stessa area concettuale (REALE G., Storia della filosofia greca e romana, vol. VI: Scetticismo, eclettismo, neoaristotelismo e neostoicismo, Milano 2004,  305). Max POHLENZ (La Stoa. Storia di un movimento spirituale, trad. it., II, Firenze 1967,  89-90) sottolinea la carica concettuale prettamente latina del concetto di voluntas: «Seneca, come non l’ha fatto per la coscienza, non inserisce la volontà in un sistema psicologico. “Nessuno può dire quale sia l’origine della sua volontà” (Epist. 37, 5). In ogni caso, essa non è un fatto dell’intelletto: velle non discitur. La volontà del bene prorompe dalla profondità dell’anima e occorre un assiduo lavoro perché essa pervenga ad una chiara visione del fine e si tramuti in buona intenzione». Vi è un passo della Costanza del saggio (7, 4) che dimostra quanto Seneca si sia spinto nella nuova ottica della volontà: «Uno può diventare malfattore, senza aver inflitto del male. Se uno sta con sua moglie, pensandosi con la moglie altrui, sarà adultero, anche se la donna non è adultera. Uno mi dà il veleno, ma quello, mescolato con il cibo, perde tutta la sua forza: egli, dando il veleno, si è reso colpevole di delitto, anche se non ha nuociuto. Non è meno assassino quel tale la cui arma è stata neutralizzata dalla resistenza del mio vestito. Tutti i delitti, anche prima dell’esecuzione materiale, sono già completi negli elementi costitutivi di colpa». Quest’ultima parte, “Omnia scelera etiam ante effectum operis, quantum culpae satis est, perfecta sunt”, messa a confronto con l’enunciato del Discorso della montagna “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Matteo 5, 28) segnerebbe la contiguità dell’etica stoica e di quella cristiana.

Diverso dal concetto di voluntas è in Seneca quello di iudicium. Secondo la nota dottrina stoica dell’assenso (synkatathesis), una sensazione o una disposizione d’animo nascono da un impulso (impetus), ma devono poi essere oggetto di una comprensione concettuale mediante l’assenso, cioè tramite un atto di giudizio (iudicium). Questo passaggio è descritto così nel de Clementia (II, 2, 2): “ut quod nunc natura et impetus est fiat iudicium”. La comprensione concettuale mediante l’assenso, quella cioè che Seneca chiama iudicium, è nozione che pare dunque richiamare la προαίρεσις aristotelica.

 

[161] In generale sull’influenza aristotelica sul diritto romano, VILLEY M., La Philosophie Grecque Classique et le Droit Romain, in Leçons d’Histoire de la Philosophie du Droit, Paris, Sirey, 1962,  23 ss.

 

[162] Il più esteso ed esplicito riferimento al tema della funzione della pena che sia dato riscontrare nella riflessione latina è contenuto nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio. Sul tema DILIBERTO O., La pena tra filosofia e diritto nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit.,  121 ss. L’Autore al termine dell’analisi delle fonti gelliane trae alcune conclusioni. In primo luogo egli constata come il dibattito sulla funzione della pena sia abbastanza radicato nell’ambiente intellettuale romano: a tale dibattito partecipano sia filosofi che giuristi. In questa discussione sembra coesistano differenti causae poeniendis peccatis, correlate funzionalmente – ciascuna nel proprio ambito – a differenti tipologie criminali. Nonostante tale coesistenza sembra – secondo Diliberto – che gli autori interessatisi al tema tendano a far prevalere sulle altre la concezione preventiva e intimidatoria della pena, ritenuta, in definitiva, la più utile per la tutela degli interessi della collettività. Con riferimento al pensiero di Seneca, BONGERT Y., La philosophie pénale chez Sénèque, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit.,  95 ss. Sullo stato della letteratura romanistica in materia di funzioni della pena, BONINI R., Alcune considerazioni sulle funzioni della pena nelle Novelle giustinianee, in Il problema della pena criminale tra filosofia greca e diritto romano, cit.,  400. 

 

[163] In termini moderni e nell’attuale quadro costituzionale, il rapporto tra finalità della pena e principio di colpevolezza è posto tra gli altri da MARINUCCI G. e DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale, cit.,  7 e 10. Gli Autori sostengono che il principio di colpevolezza è strettamente legato alla funzione generalpreventiva della pena. Se il fine della comminatoria legale è quello di orientare le scelte di comportamento dei consociati, questi effetti motivanti possono essere raggiunti solo se il fatto vietato è il frutto di una libera scelta dell’agente. Quanto allo stadio giudiziale, qualsiasi prospettiva di rieducazione del condannato risulterebbe in parte frustrata se il condannato avvertisse la pena che gli viene inflitta come un’incomprensibile vessazione: ciò che inevitabilmente accadrebbe se gli venisse applicata una pena sproporzionata per eccesso rispetto alla propria colpevolezza.

 

[164] Secondo LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  67, suona come un cosciente risalto del contrasto tra passato e presente il passo delle Pauli Sententiae, V, 23,3: “Qui hominem occiderit, aliquando absolvitur, et qui non occidit, ut homicida damnatur: consilium enim uniuscuiusque, non factum puniendum est. Ideoque qui, cum vellet occidere, id casu aliquo perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is, qui casu iactu teli hominem imprudenter ferierit, absolvitur.” Questo frammento potrebbe essere tradotto così: «Chi uccide un uomo, talvolta è assolto e chi non uccide è condannato come omicida: si deve infatti punire l’intenzione di ciascuno non il fatto. Perciò chi, volendo uccidere, e per una qualche ragione non ha potuto farlo, viene punito come omicida: e chi invece per caso ferisce con un dardo [una arma da getto] involontariamente un uomo, viene assolto».

 

[165] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  67. L’Autore porta a sostegno di ciò (oltre al passo – già citato - delle Pauli Sententiae, V, 23,3, riprodotto anche nella Collatio legum mosaicarum et romanarum, 1,7,1) il noto rescritto adrianeo (Digesto 48,8,14) secondo il quale “in maleficiis voluntas spectatur non exitus”. Di questo rescritto analizzeremo in seguito il dubbio significato.

 

[166] Ciò porta a sostenere – sembra isolatamente - che la legge sillana avrebbe colpito “il fatto materiale della morte di un uomo”: così POLARA G., Marciano e l’elemento soggettivo del reato. Delinquitur aut proposito aut impetu aut casu, in BDR, 1974,  113. In senso esattamente opposto ritiene LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  68, che si intenda punire con la medesima pena del delitto consumato la volontà malvagia quale si manifesta nelle condotte indicate nella lex. Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  48 assume come indubitabile che, lungi dall’essere irrilevante, il dolus è sottinteso. La mancata menzione si spiega con la particolare natura di legge sull’”ordine pubblico” della lex Cornelia, dove l’omicidio è solo uno dei possibili sviluppi criminosi dell’ambulare/esse cum telo hominis nefandi furtive faciendi causa ed è previsto più che altro per esigenze di completezza testuale. Inoltre a ragionare diversamente si dovrebbe ammettere una totale cesura nella disciplina dell’omicidio dal momento che già l’antichissima legge di Numa distingue chiaramente l’omicidio volontario da quello involontario. Sul punto SPERANDIO M.U., Dolus pro facto. Alle radici del problema giuridico del tentativo, Napoli 1998,  133-135. 

 

[167] Si potrebbe tradurre così: «Nella legge Cornelia il dolo è assunto nel fatto. In questa legge una colpa grave non rientra nel dolo. Perciò se uno si butta dall’alto e cade su un altro e lo uccide, o un potatore, facendo cadere un ramo da un albero, non avvisa e uccide un passante, non è soggetto alla repressione di questa legge».

 

[168] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  78-79. Sulla base di analoghe esigenze di ordine pubblico il portare armi in pubblico rappresenterà crimen vis anche nelle disposizioni statutarie del medioevo. La genericità della categoria del crimen vis è in quell’epoca egualmente funzionale a una sua applicazione elastica contro i comportamenti pericolosi per la pace e la sicurezza della comunità. Così SCHAFFSTEIN F., Vom Crimen vis zur Nötigung. Eine Studie zur Tatbestandbildung im Gemeinen Strafrecht, 1976, ora in Abhandlungen zur Strafrechtsgeschichte und zur Wissenschaftsgeschichte, Aalen 1986,  156-166.  

 

[169] SANTALUCIA B., Diritto e processo, cit.,  147-148.

 

[170] CANCELLI F., Dolo, cit.,  720. A proposito delle espressioni dolus e dolus malus, ritiene FALCHI G.F., Diritto penale romano. Dottrine generali, Treviso 1930,  90-91, che il dolus malus sia l’elemento psichico consueto dei reati dolosi e si sostanzi nella “volontà nociva deliberata”; l’espressione dolus malus non comprenderebbe la nozione più limitata del semplice dolus, che indicherebbe volontà del fatto che costituisce reato: questa nozione – fin dall’età più antica – varrebbe per i reati che ammettono la figura colposa (es. omicidio). 

 

[171] MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, cit.,  85 ss. Mommsen parlando del dolo in senso lato ( 87) sottolinea che questa nozione comprende la frode consapevole alla legge, la fraus legi, e aggiunge che in questo concetto di dolo, che risale agli albori della Repubblica, si rivela per la prima volta con precisione tecnica il fondamento morale sia del diritto in generale che del diritto penale in particolare. Questa concezione normativa della volontà intenzionale, che poi si specializza come animus (relazione naturalistica tra volontà e fatto) nei singoli delitti, viene ritenuta da MASIELLO T., Mommsen e il diritto penale romano, cit.,  116-117, non si attagli bene al momento soggettivo del reato, meglio espresso dalla causalità naturalistica tra volontà, fatto ed evento. L’insistenza di Mommsen sulla fraus legi come elemento soggettivo del reato si fonda sia sul rilevante valore che egli attribuisce alla legge come fondante il reato (“il reato è la violazione della legge penale” si legge nel Römisches Strafrecht,  4) sia sull’esigenza di giustificare la punizione di fatti moralmente indifferenti. L’avere incardinato il sistema legale su quello morale costringe Mommsen, dal momento che una corrispondenza perfetta tra i due sistemi non è possibile, a rivestire di sostanza morale, la fraus legi appunto, ciò che, essendo moralmente indifferente, potrebbe legittimare, come ultima istanza, la disobbedienza civile. L’impostazione normativa condiziona logicamente anche la riflessione di Mommsen ( 95) sul fatto come elemento costitutivo del reato: se il fatto è la manifestazione della volontà delittuosa e quest’ultima è quella contraria alla legge, anche il fatto deve essere contrario alla legge, deve cioè avere una sia tipicità normativa (“gesetzwidrige That”).   

 

[172] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  45. Anche nella dottrina romanistica recente (GIOFFREDI C., I principi, cit.,  75-76) si riconosce difficile assegnare significati diversi a questi termini: «essi vogliono in vario modo indicare la cosciente volontà dell’atto, il proposito, l’intenzione, il desiderio, la consapevolezza, il sentimento, la disposizione, la deliberazione, il disegno, il divisamento, opponendosi a quanto viene compiuto per ignoranza, per passione, irriflessivamente o addirittura senza colpa». In senso parzialmente diverso dall’idea livellatrice del Ferrini, CANCELLI F., Dolo, cit.,  722, ritiene che, siccome l’elemento intenzionale si compone di vari aspetti, che sono la volontà criminosa, la risoluzione, l’intenzione, le varie espressioni utilizzate dai Romani designano or l’uno or l’altro di questi aspetti dell’elemento soggettivo del reato. Peraltro lo stesso Autore riconosce che, sul piano meramente giuridico, è difficile stabilire quali conseguenze ne derivassero, data la ampia discrezionalità del funzionario giudicante.

 

[173] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  76. 

Quanto all’errore di fatto, GIOFFREDI C. (I principi, cit.,  87-88) indica come esso sia noto – e per i crimina e per i delicta – alle fonti giuridiche classiche, come già lo è, su imitazione del pensiero greco, alle scuole di retorica. Non risponde di adulterio la donna che, credendo morto, per errore scusabile, il marito passi a nuove nozze (D. 48,5,12,12); né di rapina chi credendo propria la cosa se ne impadronisca con violenza (Inst. Iust. 4,2,1); né si risponde di incesto, se ciò avvenga per errore (Coll. Leg. Mos. rom. 6,5,1); non risponde di furto chi, come erede, si appropri di cosa di persona che creda morta (D. 47,2,84) o chi faccia propria la cosa che ritiene cedutagli dal proprietario (D. 47,2,46,7); né di iniuria chi colpisca un uomo libero ritenendolo proprio schiavo (D. 47,10,3,4).

Il problema dell’errore di diritto è più complesso (GIOFFREDI C., I principi, cit.,  88-90). Il diritto classico sembra ammettere l’ignoranza del diritto solo quando sia dimostrata la buona fede e si tratti di norme del tutto particolari che possono non essere conosciute dal trasgressore: mancano però fonti che si riferiscano specificamente al diritto penale. Nel diritto postclassico e in quello giustinianeo, data la struttura autoritaria dell’ordinamento, il problema è più sentito e non mancano enunciazioni generali, che si riferiscono sia al diritto privato sia al diritto penale, le quali affermano che non è lecito ignorare le leggi.

Sul tema dell’errore, nella dottrina romanistica, VOCI P., L’errore nel diritto romano, Milano 1937; ID., voce Errore (Diritto romano), in Enc. dir., XV, Milano 1966,  229 ss.; ZILLETTI U., La dottrina dell’errore nella storia del diritto romano, Milano 1961, in particolare  164 ss.; DE MARTINO F., L’’ignorantia iuris’ nel diritto penale romano, in Diritto economia e società nel mondo romano. Diritto pubblico, II, Napoli 1996,  1 ss.

Nella dottrina penalistica, compie brevi annotazioni sulla distinzione tra error facti ed error iuris nel diritto romano, con riferimento particolarmente a Cicerone, Arth. KAUFMANN, Die Parallewertung in der Laiensphäre, cit.,  5: secondo Arthur Kaufmann, Cicerone riprende la dottrina di Aristotele sull’irrilevanza dell’errore sul diritto naturale, in quanto errore su un’idea connaturata nello spirito di ogni uomo; chi pertanto non dovesse essere a conoscenza di un precetto del diritto naturale meriterebbe la qualifica di “iniustus” (Cicerone, De legibus, I,15,42). Sul punto anche WELZEL H., Naturrecht und materiale Gerechtigkeit, cit.,  45 ss. Un breve cenno alla disciplina dell’errore di diritto nel diritto romano è contenuto nella sentenza 364/88 della Corte costituzionale: dopo avere affermato che la storia del principio dell’irrilevanza dell’ignoranza di diritto coincide con la storia delle sue eccezioni, si cita il caso del diritto romano classico, per il quale era consentito alle donne e ai minori di venticinque anni di «ignorare il diritto».

 

[174] Cfr. FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  54, il quale ritiene peraltro che comunque mai si esca dal concetto tradizionale di dolo.

 

[175] Secondo CANCELLI F., Dolo, cit.,  722, «questa materia fu, se altra mai, oggetto di assai povera riflessione scientifica: e per la natura stessa che governa il diritto criminale, poco si poteva fare, prima sotto il rigido sistema delle questiones perpetuae e poi sotto il regime più o meno assoluto dell’arbitrio del principe e indi del dominus».

 

[176] Pone tale eccezione, data la particolare natura dello stellionatus, BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  649. Su di esso, GAROFALO L., La persecuzione dello stellionato in diritto romano, Padova 1992.

 

[177] Tra i tanti autori per i quali ai Romani è ben chiara la distinzione tra il dolus del diritto civile e il dolus del diritto penale, PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.  205 e FERRINI C., Diritto penale romano. Teorie generali, Milano 1899,  77 ss. Secondo PECORARO ALBANI A., Il dolo, cit.,  4-5 nt. 2, alla confusione dei due concetti contribuisce forse la mancanza di un vero e proprio diritto penale presso i Romani. Inoltre va tenuto presente, prosegue l’Autore, che l’actio doli introdotta da Aq. Gallo a tutela dei raggiri nel commercio giuridico civile ha originariamente natura penale e che si giunge a una equiparazione tra dolo contrattuale e delictum; questo potrebbe portare a sostenere che è il concetto penalistico di dolo a venire esteso al campo civile e non viceversa, nel senso che l’actio doli ripete il nome dolus nel suo significato di volontà cattiva di ledere, e l’inganno non rappresenta altro che il mezzo dell’azione del deceptor. «Che poi questo mezzo sia giunto a identificarsi con l’idea stessa del dolo - determinando la confusione accennata – è da attribuirsi, a nostro modesto criterio, alla prevalente fioritura che ebbe nel diritto romano l’jus privatum». Cfr. dal punto di vista civilistico, VITA A., voce Dolo (Diritto romano e diritto moderno), in N. Dig. It., V, Torino 1938,  141 ss. 

 

[178] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  74 ss. Anche per BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  639, il dolo per i Romani è più un concetto etico che un concetto strettamente giuridico.

 

[179] Il passo completo è il seguente: “Prima verba ostendunt, eum demum ex hoc plecti, qui dolo malo violavit. Si igitur dolus absit, cessabit edictum. Personae igitur doli non capaces, ut admodo impuberes, item omnes, qui non animo violandi accidunt, excusati sunt”. Nello stesso senso, per indicare la capacità di discernimento (dolus come animus violandi), un passo delle Istituzioni di Gaio (III, 208): “Plerisque placet, quia furtum ex adfectu consistit, ita demum obligari eo crimine impuberem, si proximus pubertati sit, et ob id intellegat se delinquere”.

 

[180] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  78, fa comunque presente che spesso con eguale significato viene invece adoperato nelle fonti il termine malitia. Cfr. BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  672 ss.  (in particolare  688).

 

[181] PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.  206 ritiene l’espressione dolus malus (e le altre equivalenti) un’espressione artistica (Kunstausdruck), che significherebbe “intenzione, malevola, immorale“ (die böswillige, unsittliche Absicht).

 

[182] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  78.

 

[183] CORDERO F., Criminalia, cit.,  224 (in nota).

 

[184] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  78-79. Osserva CORDERO F., Criminalia, cit.,  224-225 (in nota), che, nel senso accresciuto (rispetto al dolo come circumventio) dolo malo denoti un evento psichico definibile ‘intenzione’, risulta dai sinonimi proposito, consilio, consulto, prudens, data opera, sciens prudensque, e che riferimenti ancora più netti emergono dal sintagma animus …, dove un gerundio evoca l’atto delittuoso, ad esempio occidendi, furandi, violandi sepulchri, iniuriae facendae.

 

[185] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  70 ss.

 

[186] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  46. Osserva l’Autore che i retori comprendono sotto il nome di “impetus” i casi in cui è turbato il giudizio e “precipitata la risoluzione”, in cui cioè “la parte affettiva prevale su quella cogitativa”. Nello stesso senso LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  80 ss., secondo il quale l’impetus non caratterizza il rapporto tra rappresentazione e volizione e l’evento ma rappresenta uno stato d’animo del quale tenere conto in sede di commisurazione della pena. 

 

[187] Oltre le opere di Cicerone, la principale fonte in tema di elemento soggettivo è costituita, verso l’ultimo secolo della Repubblica, dalla Rhetorica ad Herennium. L’Auctor ad Herennium precisa in più passi della sua opera, che ci si può difendere da un’accusa non negando il fatto, ma negando che di essa si debba rispondere per avere ricevuto un ordine legittimo, per avere agito in stato di necessità, perché ricorre un caso fortuito o perché si è in errore. Su queste citazioni, GIOFFREDI C., I principi, cit.,  74-75.

 

[188] Riguardo a questo passaggio, GROSSO G., Storia del diritto romano, cit.,  411 ss.; GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  93 ss.; SANTALUCIA  B., Diritto e processo, cit.,  213 ss. Fatta eccezione per la limitata (ai senatori e alle persone di pari rango) cognitio senatus – la quale segue nelle grandi linee le regole in uso nei processi ordinari (salva la possibilità di ripetute intromissioni da parte del princeps), ed è formalmente condizionata da un’accusa, presentata ai consoli e da questi rimessa al consesso – la procedura extra ordinem finisce con l’acquisire un carattere inquisitorio. Quanto alle prove, il funzionario non deve attenersi – come invece i giudici delle quaestiones – soltanto a quelle fornite dall’accusatore e dall’accusato, ma può ricercarle e assumerle liberamente; può citare tutti i testi ritenuti necessari e disporre l’interrogatorio con tortura non solo nei confronti degli schiavi, ma anche delle persone libere di bassa origine.

 

[189] GNOLI F., Diritto penale nel diritto romano, cit.,  59.

 

[190] GNOLI F., Diritto penale nel diritto romano, cit.,  60-61. Per quanto riguarda le sanzioni, nel rito delle quaestiones  la pena applicata in seguito al giudizio di responsabilità – espresso con votazione della giuria – è per la maggior parte dei reati la pena capitale, di solito ineseguita  e sostituita dall’interdictio aquae et ignis. Con la repressione extra ordinem la pena di morte viene effettivamente applicata, graduandone le modalità di esecuzione alla condizione sociale del condannato e alla gravità del fatto: oltre alla decapitazione, compaiono la crocifissione, la damnatio ad bestias, la vivicombustione. Vengono poi introdotte nuove pene, come la damnatio in metallum, la damnatio in opus publicum, i combattimenti gladiatori, la deportazione in insulam, la relegazione, l’interdizione del soggiorno in determinate località e l’esilio. 

 

[191] Secondo una parte della dottrina in questa fase e in questa prospettiva di discrezionalità si viene enucleando la figura del tentativo: GENIN J. C., La répression des actes de tentative en droit criminel roman. Contribution à l’etude de la subiectivité répressive à Rome, Lyon 1968,  243 ss.

 

[192] Che, nel tracciare questa ripartizione, Marciano sia stato influenzato dalle dottrine platoniche e aristoteliche è opinione di LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit., nota 71  80-81. Secondo IMPALLOMENI G.B., L’omicidio, cit.,  250, i Romani chiamavano delitti ex proposito “quelli commessi con la intenzione diretta ad una determinata infrazione, e richiedente uno stato di coscienza normale” e delitti ex impetu “quelli che importavano una intenzione di nuocere indeterminata e dipendentemente da uno stato di coscienza anormale (per ebrietatem)”.

Un’altra affermazione generale è contenuta nel frammento D. 47,2,54pr. (Paulus libro trigesimo nono ad edictum): Qui iniuriae causa ianuam effregit, quamvis inde per alios res amotae sint, non tenetur furti: nam maleficia voluntas et propositum delinquentis distinguit (si potrebbe tradurre: «Chi ha abbattuto una porta per recare offesa, anche se di là da altri siano stati portati via i beni, non è tenuto per furto: infatti la volontà e il proposito di chi delinque distinguono i delitti»). L’affermazione viene ritenuta probabilmente glossematica; l’ipotesi formulata è quella della non attribuibilità di un furto, avvenuto a opera di terzi, a chi aveva semplicemente (e non in concorso) buttato giù iniuriae causa la porta dalla quale il ladro si era introdotto: caso questo che conferma piuttosto – secondo GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  146 - che la problematica del nesso causale era ignota ai Romani.

 

[193] Imperator Marcus Antoninus et Commodus filius rescripserunt: ‘Si maritus uxorem in adulterio deprehensam impetu tractus doloris interfecerit, non utique legis Corneliae de sicariis poenam excipiet.’ nam et divus Pius in haec verba rescripsit Apollonio: ‘Ei, qui uxorem suam in adulterio deprehensam occidisse se non negat, ultimum supplicium remitti potest, cum sit difficillimum iustum dolorem temperare et quia plus fecerit, quam quia vindicare se non debuerit, puniendus sit. sufficiet igitur, si humilis loci sit, in opus perpetuum eum tradi, si qui honestior, in insulam relegari.’

 

[194] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  80: per esempio in caso di incendio (D. 47,9,9) si ha la conferma che casus sta appunto a indicare non il caso fortuito, ma quello che noi consideriamo fatto colposo. Secondo CORDERO F., Criminalia, cit.,  224 (in nota), nella sfera del casus, antipode di dolus, ricadono gli atti incolpevoli, essendo fortuito l’evento, e i colposi. CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit.,  99, dopo aver detto che “il giure romano non è sempre sicura guida nelle materie penali”, aggiunge che “i romani ebbero idee varianti anche sul significato della parola caso” e che ( 100) “grandissima è la confusione che regna nel giure romano in proposito della teorica della colpa e del caso”. Infatti “la formula caso fortuito si trova usata talvolta nei frammenti Romani in senso di negligenza”. Carrara condivide il dubbio “se mai si stabilissero dai Romani penalità nello interesse pubblico contro i fatti colposi”. Sul pensiero di Carrara sul dolo, DE FRANCESCO G., La concezione del dolo in Francesco Carrara, in Riv. it. dir. proc. pen., 1988,  1351 ss.

 

[195] Così GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  145, secondo il quale l’impetus si colloca nel mezzo tra casus e propositum ed è sinonimo di “imprudentia” e “negligentia”, ovvero più tardi di culpa, nel senso proprio moderno di imprudenza e negligenza, ma anche di imperizia e dell’agire non secondo leggi, regolamenti, ordini o discipline. Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  47, giudica però un errore assumere l’impetus sotto la nozione della mera colpa, rappresentando esso, insieme al propositum, una forma di dolo. In quest’ultimo senso anche LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  82.

 

[196]  FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  47 e 51, il quale osserva inoltre che l’equazione “casus idest neglegentia” si trova anche nei Digesti. In senso contrario LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  83, ritiene che il diritto penale romano classico ripartisca le azioni umane sotto due concetti, dolus e casus; in quest’ultimo settore rientrano di volta in volta azioni la cui mancata punizione pone dubbi sotto un profilo politico-criminale e vengono pertanto perseguite in via straordinaria. L’Autore conclude anzi che il diritto romano non conosce mai una pena pubblica per i casi più lievi di colpa (se non in rari casi in tema di disciplina militare).  Una sintesi del problema è tracciata da GIOFFREDI C., I principi, cit.,  80, per il quale casus è quanto avviene per disavventura, il che non esclude però l’imprudenza, e quindi in teoria attenua ma non elimina la responsabilità, anche se può talvolta portare all’assoluzione (cfr. Coll. leg. mos. et rom. 1, 7, 1: … et is qui casu iactu teli hominem imprudenter ferierit, absolvitur). Casus – prosegue l’Autore - è quanto si oppone, insieme ad altre ipotesi, al determinato proposito: con esso insomma i Romani più che indicare la componente di colpevolezza che è nel fatto colposo, indicano la componente di fortuità  e disavventura. Sul punto già BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  650 ss., afferma che la spontaneità della decisione non è per i Romani necessaria per l’esistenza del dolo ma della colpevolezza: la necessitas che spinge un soggetto a fare od omettere qualcosa esclude la colpevolezza. Necessitas e vis major sono forme del casus.

 

[197] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  83 ss. A proposito dei fatti dettati da lascivia, BINDING K. (Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  369 e  752 ss.) sostiene che la conseguenza messa in conto dall’autore di un’azione di per sé illecita è contrassegnata dalla presenza del dolus eventualis. Cfr. LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  103-104.

 

[198] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  86.

 

[199] Così definisce la nozione penalistica di dolus, PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  205: „die bewuste Absicht bei der verbrecherischen That, welche die eigentliche Unsittlichkeit der rechtswidrigen Handlung ausmacht“.

 

[200] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  51.

 

[201] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit.,  434. Poche pagine dopo ( 437), peraltro, l’Autore definisce la limitata concezione romanistica del dolo come “dolo di proposito”. In realtà le odierne sfumature concettuali di dolo intenzionale, dolo diretto e dolo di proposito non sono riproponibili nel pensiero romano, la cui nozione di dolo ricomprende tutte queste varianti.

 

[202] KLEE K., Der dolus indirectus als Grundform der vorsätzlichen Schuld, Berlin 1906,  4; VON BAR L., Gesetz und Schuld im Strafrecht, Bd. 2, Berlin 1907,  275-276; DAHM G., Das Strafrecht Italiens im ausgehenden Mittelalter, Berlin-Leipzig 1931,  258 („Nötig war ein unmittelbares Wollen der Rechtswidrigkeit“) . Che i Romani col termine dolus – peraltro usato anche nella vita non giuridica – intendessero riferirsi alla volontà antigiuridica, alla intenzione di cagionare un’offesa, è sostenuto nella dottrina italiana anche da PECORARO ALBANI A., Il dolo, cit.,  3 nt. 2, il quale osserva peraltro, sulla scia di THONISSEN J.J. (Études sur l’histoire du droit criminel des peuples anciens, Bruxelles 1869) che i diritti antichi non hanno avuto una chiara nozione della volontà colpevole.

 

[203] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  651.

 

[204] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  107.

 

[205] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  78-79. In altro punto ( 106) Löffler, sulla scia di Pernice, esclama: „ohne animus occidendi keine Subsumtion unter die Lex Cornelia!” e in Pernice (Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  225) si trova inoltre: „mit animus wird auch die bloss versuchte Tödtung schlechtin bestraft“.

 

[206] A ben vedere, i Romani non pensano questi casi come forme di allargamento del dolo, ma - senza porsi il problema dell’elemento soggettivo - li puniscono per motivi di ordine pubblico. Dunque, più che di un allargamento del concetto di dolo si tratta di una estensione della sfera di responsabilità. Sono stati proprio i casi in cui la nozione di dolo appariva meno nitida a costituire la base nel medioevo per lo sviluppo delle teorie del dolo generale, del dolo indiretto, del dolo indeterminato e del dolo eventuale. Su ciò infra (5.5).

 

[207] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  86; BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  720 ss.

 

[208] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  720 ss.

 

[209] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  747.

 

[210] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  757 nt. 10. Ancora recentemente, per una valorizzazione del concetto di Gleichgültigkeit (“indifferenza”), JAKOBS G., Gleichgültigkeit als dolus indirectus, in ZStW (114), 2002,   584 ss.

 

[211] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  55. Tale esplicita esclusione è contenuta nel già citato frammento D. 48,8,7 (Paulus libro singulari de publicis iudiciis) in cui si trova affermato che “In lege Cornelia dolus pro facto accipitur. neque in hac lege culpa lata pro dolo accipitur. quare si quis alto se praecipitaverit et super alium venerit eumque occiderit, aut putator, ex arbore cum ramum deiceret, non praeclamaverit et praetereuntem occiderit, ad huius legis coercitionem non pertinet.”.

 

[212] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  56.

 

[213] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  51.

 

[214] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  720 ss.; FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  52.

 

[215] E già prima tra i penalisti da PECORARO ALBANI A., Il dolo, cit.,  3, nt. 2, secondo il quale «L’indagine sullo svolgimento storico del dolo nel diritto romano, malgrado si siano ad essa dedicati forti intelletti, presenta non poche confusioni e incertezze».

 

[216] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  147.

La chiave di lettura che emerge dalle osservazioni finora compiute potrebbe però essere un’altra: semplicemente i Romani non hanno avvertito l’esigenza di precisare meglio le categorie, innanzitutto per la loro mentalità concreta e poi perché di fatto le sfumature concettuali non avrebbero avuto modo di esprimersi nel sistema processuale a quei tempi vigente.

 

[217] GIOFFREDI, I principi, cit.,  76-77. E’ da ritenere pertanto un proprio approccio interpretativo moderno e non lo schema proprio dei Romani quello adottato da BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  650 ss. e 669 ss., basato sulla struttura attuale del dolo e dunque sulla distinzione tra Willens-Moment e Bewusstseins-Moment. Più in generale Binding ( 638) distingue tre forme di colpevolezza: il dolus malus, la culpa dolo proxima e la culpa “schlechthin” (semplicemente); l’Autore riconosce però che all’interno del concetto di culpa tout court si può distinguere una forma levis e una lata e che solo il dolus malus e la culpa levis hanno ricevuto una elaborazione concettuale compiuta.

 

[218] CANCELLI F., Dolo, cit.,  723.

 

[219] I rescripta sono direttive elastiche o disposizioni di carattere vincolante, che rappresentano lo strumento più duttile con cui i giuristi del consilium principis e della cancelleria imperiale, che ne sono i veri ispiratori, lentamente adeguano il sistema dell’ordo iudiciorum publicorum alle nuove esigenze della cognitio, introducendo importanti innovazioni circa la graduazione delle pene, la configurabilità di nuove fattispecie criminose, la rilevanza delle circostanze e la valutazione dell’elemento intenzionale. Su queste statuizioni e sulle altre poste dall’imperatore (edicta, mandata, epistulae e decreta), GROSSO G., Storia del diritto romano, cit.,  387 ss.

 

[220] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  76-77 e GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  147-148.

 

[221] I passi che contengono questi significati sono i seguenti.

Il primo è 1,6,1: Distinctionem casus et voluntatis in homicidio servari rescripto Hadriani confirmatur. Verba rescripti: ‘Et qui hominem occidit absolvi solet, sed si non occidendi animo id admisit: et qui non occidit, sed voluit occidere, pro homicida damnatur’. Potrebbe tradursi così: «E’ certo che la distinzione tra caso e volontà nell’omicidio è tenuta in considerazione nel rescritto di Adriano. Parole del rescritto: “è ammesso che venga assolto colui che uccida un uomo ma solo se non c’è intenzionalità nell’uccidere: e chi non ha ucciso ma voleva uccidere sia condannato come omicida”».

Il secondo è 1,7,1: Qui hominem occidit, aliquando absolvitur et qui non occidit ut homicida damnatur: consilium enim uniuscuiusque, non factum puniendum est. Ideoque si cum vellet occidere, casu aliquo perpetrare non potuit, ut homicida punitur: et is, qui casu iactu teli hominem imprudenter ferierit, absolvitur. La traduzione potrebbe essere questa: «Chi uccide un uomo, talvolta è assolto e chi non uccide è condannato come omicida: si deve infatti punire l’intenzione di ciascuno non il fatto. Perciò, se volendo uccidere, per una qualche ragione non ha potuto farlo, viene condannato come omicida: e quello stesso che per caso ferisce con un dardo [una arma da getto] involontariamente un uomo, viene assolto».

 

[222] SPERANDIO M.U., Dolus pro facto, cit.,  106 ss. L’Autore porta a sostegno della sua tesi altri testi, tra cui Inst. 4,18,5, dove è contenuta una lunga digressione dedicata alla definizione di telum, comprensiva di tutto ciò che può essere lanciato con la mano (et lapis, et lignum et ferrum), e che lascia chiaramente intendere la rilevanza della fattispecie (in termini moderni, di pericolo) contenuta nella lex Cornelia di qui hominis occidendi causa cum telo ambulant, vale a dire di quanti si aggirano armati con l’intenzione di uccidere.

Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  98, sostenitore della tesi della punizione in diritto romano del solo reato consumato, segnala un uso “strumentale” del primo caput della lex Cornelia da parte di retori, filosofi e anche giureconsulti che vogliono trovarvi una riprova delle loro teorie etiche, per cui la “malizia” sta nella volontà peccatrice e non nel fatto esteriore. Un altro esempio, indicato alla dottrina (GIOFFREDI C., I principi, cit.,  79), di accentuata valutazione dell’elemento intenzionale, frutto delle dottrine allora vigenti, è il passo del Digesto 48,8,7 (Paulus libro singulari de publicis iudiciis) in cui si afferma che “In lege Cornelia dolus pro facto accipitur” e con cui forse si vuole alludere alla circostanza che il dolo è presunto in questa legge in alcuni fatti non equivoci. Già nel testo si è però rilevato come non si tratti di presunzione di dolo quanto piuttosto di autonoma punizione per motivi di ordine pubblico di alcune condotte “pericolose”. Sull’interpretazione dell’espressione dolus pro facto accipitur, SPERANDIO M.U., Dolus pro facto, cit.,  146-147.

 

[223] Secondo CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit.,  529, i Romani, che non conoscono la distinzione tra omicidio preterintenzionale e omicidio colposo, annoverano l’omicidio preterintenzionale «non tra gli omicidii dolosi ma tra quelli colposi».

 

[224] FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  48. Peraltro altra parte della dottrina riconosce vero questo assunto per le ipotesi del rescritto e in generale solo con l’affermarsi della cognitio extra ordinem, mentre per quanto riguarda la lex Cornelia de sicariis sembra doversi concludere per la punizione anche dell’omicidio preterintenzionale, perché essa intende il dolo «solo come volontarietà dell’atto, anziché come volontarietà dell’evento», sicché è da presumersi che, se la morte della vittima si fosse verificata quale conseguenza non voluta di un’azione criminosa consapevole e volontaria, essa sarebbe egualmente addossata alla responsabilità dell’agente. In questo senso PUGLIESE G., Linee generali dell’evoluzione del diritto penale pubblico durante il principato, in Scritti giuridici scelti, II, Napoli 1985,  761; CANCELLI F., Dolo, cit.,  723; SPERANDIO M.U., Dolus pro facto, cit.,  138-139.

 

[225] GIOFFREDI C., I principi, cit.,  83. La punizione dell’imperizia del medico è citata nel frammento D. 1,18,6,7 (Ulpianus libro primo opinionum): Sicuti medico imputari eventus mortalitatis non debet, itaque quod per imperitiam commisit imputari ei debet: praetextu humanae fragilitatis delictum decipientis in periculo homines innoxium esse non debet.

 

[226] Già Cicerone (De legibus, I,5,15) afferma, contro la tendenza del suo tempo a ridurre il ius a una disciplina praticistica, che la scienza del diritto deve trarsi dal cuore della riflessione filosofica: «penitus ex intima philosophia hauriendam iuris disciplina».

 

[227] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  667, ritiene che il momento volitivo rimane impresso completamente nel concetto di dolus malus proprio attraverso la nozione di animus, cioè di scopo che provoca l’evento antigiuridico come tale.

 

[228] Afferma POHLENZ M., La Stoa, cit.,  83 ss.: «Determinante sul piano morale, qui come in ogni altra cosa, non è l’azione materiale, ma lo spirito con cui viene compiuta … Nel De beneficiis, ispirandosi a un’opera di Ecatone, Seneca trapiantò in terreno romano questa concezione schiettamente greca … Chi non ha l’intenzione o la coscienza di recare danno non merita pena; invece chi, volendo avvelenare un altro, adopera per sbaglio un mezzo innocuo è, cionondimeno, un avvelenatore. Tutti i delitti sono già compiuti, prima dell’esecuzione materiale, nello spirito di chi li concepisce».

In generale, lo stoicismo pone tra i suoi capisaldi la dottrina che come l’animale è guidato infallibilmente dall’istinto, l’uomo è guidato infallibilmente dalla ragione. Con Aristotele lo stoicismo condivide la nozione di volontà come scelta, definendola (Diogene Laerzio) “appetizione razionale”. Così Cicerone (Tusc. 4,6,12) riferendosi a queste dottrine afferma: «la voluntas è un desiderio conforme a ragione, mentre il desiderio che è opposto alla ragione o troppo violento per essa è la libidine o cupidigia sfrenata che si trova in tutti gli stolti».

La dottrina stoica, accanto a quella aristotelica, è la filosofia che ha avuto maggiore influenza nella storia del pensiero occidentale (ABBAGNANO N., Dizionario di filosofia, cit., voce Stoicismo,  836).

 

[229] Cfr. CORDERO F., Criminalia, cit.,  226 (nota 48). Secondo CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. I, cit.,  66-67, i Romani avevano idee confuse in tema di prova del fatto. In particolare “confusero la prova del materiale dell’omicidio con la prova dello speciale”, cioè che “di questa morte sia stato causa volontaria il fatto ingiusto dell’uomo” ( 60). Peraltro Carrara afferma ( 88-89) che al fine di dichiarare doloso l’omicidio, l’animo di uccidere può essere sia esplicito (“dolo determinato”) che anche implicito (“dolo indeterminato”), “cioè quando si usarono mezzi che per loro natura dovette prevedersi che avrebbero potuto recare la morte, quantunque questa non si volesse come resultato necessario dei proprii atti”.

 

[230] «Qui telum tutandae salutis causa gerit, non videtur hominis occidendi causa portare. tel, autem appellatione non tantum ferrum contineturi sed omne quod nocendi causa portatum est.» La possibile traduzione è: «Chi porta un’arma per difendersi non sembra che la porti per uccidere una persona. Ma non soltanto il ferro è contenuto ma tutto ciò che si porta per fare del male».

 

[231] Nella dottrina penalistica tedesca, HRUSCHKA J., Über Schwierigkeiten mit dem Beweis des Vorsatzes, in Gössel-Kaufmann (Hrsg.), Strafverfahren im Rechtsstaat. Festschrift für Theodor Kleinknecht, München 1985,  195-196, cita altri significativi esempi di come le circostanze esterne, e in particolare i mezzi utilizzati, siano elementi decisivi per l’accertamento del dolo. Essenziale D. 48,8,1,3: «Divus Hadrianus rescripsit eum, qui hominem occidit, si non occidendi animo hoc admisit, absolvi posse, et qui hominem non occidit, sed vulneravit, ut occidat, pro homicida damnandum: et ex re constituendum hoc: nam si gladium strinxerit et in eo percusserit, indubitate occidendi animo id eum admisisse: sed si clavi percussit aut cuccuma in rixa, quamvis ferro percusserit, tamen non occidendi animo. leniendam poenam eius, qui in rixa casu magis quam voluntate homicidium admisit”. Dallo strumento utilizzato, una spada o un paiolo si induce la presenza o meno dell’animus occidendi. L’inciso “ex re” che si ritrova nel frammento descrive la tecnica di accertamento del dolo che dalle circostanze esterne risale direttamente allo stato psichico. Essa è confermata in altri frammenti citati da Hruschka, come D. 44,4,1,2 («An dolo quid factum sit, ex facto intellegitur») e C. 2,20,6 («Dolum ex indiciis perspicuis probari convenit»). L’Autore afferma ( 196) che questo sistema di prova del dolo è stato professato fino al XIX secolo. A questi frammenti si ispirò Von WEBER, (Ueber die verschiedenen Arten des Dolus, in Neues Archiv des Criminalrecht, Bd. 7, 1825,  549 ss.) per la sua figura del dolus ex re.

 

[232] GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  146.  

 

[233] Con il concetto (di origine canonista) di dolus generalis si allarga il concetto di dolo, cosicché esso non richiede più il riferimento della volontà a un determinato particolare evento, ma diviene sufficiente che l’autore “in genere” abbia agito con dolo, potendo il dolo essere diretto anche a un evento non consentito diverso da quello verificatosi. Così SCHAFFSTEIN F., Die Allgemeinen Lehren vom Verbrechen. In ihrer Entwicklung durch die Wissenschaft des gemeinen StrafrechtsBeiträge zur Strafrechtsentwicklung von der Carolina zur Carpzov, Darmstadt 1973, Neudruck der Ausgaben Berlin 1930-1932,  110, seguendo ENGELMANN W., Die Schuldlehre der Postglossatoren, cit.,  74 e 103-104.

 

[234] Si potrebbe tradurre: «L’Imperatore Antonino Augusto ad Aurelio Herculano e agli altri soldati. Vostro fratello farà bene se si metterà a capo della provincia; se gli sarà possibile dimostrare di non aver ucciso intenzionalmente, rigettata l’accusa di omicidio, si pronuncerà un giudizio secondo la disciplina militare».

 

[235] Così la possibile traduzione: «L’Imperatore Alessandro ad A. Aurelio Flavio e agli altri soldati. Se, nel modo in cui si è reclamato nel libello, ha causato una morte senza dolo non tema affatto. Infatti si commette un crimine se c’è anche la volontà di uccidere. Del resto ciò che capita per caso improvviso piuttosto che per cattiva azione, è da imputare alla fatalità e non alla colpa». 

 

[236] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  79-80.

 

[237] La differenza tra le diverse forme di dolo è così espressa da MARINUCCI G. – DOLCINI E., Manuale di Diritto Penale. Parte generale, Milano 2004,  188 ss.: “Il dolo intenzionale si configura quando il soggetto agisce allo scopo di realizzare il fatto”; “Il dolo diretto si configura invece quando l’agente non persegue la realizzazione del fatto, ma si rappresenta come certa o come probabile al limite della certezza l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione”; “Il dolo eventuale si ha infine quando il soggetto si rappresenta come seriamente possibile (non come certa) l’esistenza di presupposti della condotta ovvero il verificarsi dell’evento come conseguenza dell’azione e, pur di non rinunciare all’azione e ai vantaggi che se ne ripromette, accetta che il fatto possa verificarsi”.

 

[238] Anche CORDERO F., Criminalia, cit.,  224 (in nota), osserva che nelle fonti troviamo modelli a cui sfuggono fenomeni importanti come il dolo eventuale.

 

[239] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  66.

 

[240] In questo concetto sembra presente un’ascendenza platonica, dato che per Platone il giudizio negativo sul movente contribuisce ad attribuire la qualifica di volontaria all’azione e la rende pertanto illecita (Leggi, IX, 10, 869/870).

 

[241] GROSSO G., Storia del diritto romano, cit.,  462-463. Nella dottrina penalistica, già CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, vol. II, Del giudizio criminale, cit.,  293 Il metodo inquisitorio trae il suo nome dai quaesitores, che sono in origine cittadini incaricati eccezionalmente dal senato di investigare certi speciali delitti. Le basi del processo inquisitorio come forma ordinaria vengono però gettate – secondo Carrara - da Diocleziano.

Nella dottrina romanistica si preferisce talvolta parlare anziché di sistema inquisitorio e di sistema accusatorio, di sistema unilaterale e di sistema bilaterale, per rimarcare l’esigenza di evitare fraintendimenti con altre esperienze storiche estranee alla realtà romana, e per sottolineare che l’inquisitore è anche giudice (sul punto GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  48). L’Autore osserva peraltro ( 52) che il sistema accusatorio, che in altre esperienze giuridiche ha dato buona prova, nella Roma repubblicana non si rivelò affatto una garanzia per il prevenuto (a meno che – aggiunge Giuffrè – non fosse assistito dal Perry Mason dell’epoca: come dire, un Marco Tullio Cicerone).

 

[242] In questo quadro nemmeno Giustiniano apporta un progresso. Sulla compilazione giustinianea, in generale, GROSSO G., Storia del diritto romano, cit.,  489 ss., e con riferimento specifico agli aspetti penalistici, GIUFFRE’ V., La repressione criminale, cit.,  173 ss.; in particolare sulla comprensione delle figure tradizionali che si ritrovano nel diritto giustinianeo, BRASIELLO U., Note introduttive allo studio dei crimini romani, cit.,  171-172.

Quanto ai Digesta, essendo compilazione di iura, non possono contenere di per sé rilevanti e nuove aperture o sistematiche originali. La materia criminale è collocata in due libri della parte finale (il quarantasettesimo e il quarantottesimo, i c.d. libri terribiles), e si è rilevato come gli interventi dei compilatori siano decrescenti (forse per stanchezza) a mano a mano che ci si avvicina alla fine. Nel nuovo ordinamento degli studi giuridici, il diritto penale non ha grande spazio: conosciamo un solo autore di opere penalistiche, l’antecessor Kobidas, mentre gli esperti in diritto civile sono numerosissimi. E’ ovvio dunque che il quarto e ultimo libro delle Institutiones dedichi solo una asciutta appendice ai publica iudicia e rinvii al Digesto. Quanto alla riedizione del Codex, esso riserva l’intero libro nono al diritto e alla procedura penale: ma mentre molta attenzione viene data ai problemi processuali, assai meno rilevante è la parte dedicata al diritto sostanziale, con qualche novità solo in tema di concorso di persone. Le Novellae  dedicano sì più spazio al diritto sostanziale, ma nel senso dell’introduzione di nuove fattispecie ( es. la bestemmia o la celebrazione di cerimonie religiose in luoghi inadatti al culto) e non nell’approfondimento di temi di teoria generale. Viene notato che in realtà le compilazioni non hanno grande incisività, come appare dalla loro scarsissima risonanza nelle opere coeve e che forse anche per ciò, subito dopo l’opera di compilazione e nonostante essa, si manifesta, in tutta la sua entità, una generalizzata disfunzione del sistema della repressione penale.

 

[243] CALISSE C., Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, in Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, a cura di E. Pessina, II, Milano 1906,  243.

 

[244] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit.,  436.

 

[245] Peraltro Carrara (nei prolegomeni al Programma del corso di diritto criminale. Parte generale, vol. I, Del delitto, della pena, cit.,  42)  del quale abbiamo sopra riportato i giudizi negativi sul “Giure romano”, attribuisce con orgoglio alla “scuola italiana” il merito che traspare da queste parole: «La scuola italiana, che bevendo ai sommi principii della latina filosofia nell’argomento penale, seppe col presidio del cristianesimo appurarli dalla nebbia pagana, e rivendicarli dal guasto delle ferocie orientali e dei nordici pregiudizi, che li avevano con successiva guerra manomessi e corrotti».

 

[246] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  783 e in generale sul decisivo influsso delle fonti romane sulla concezione tedesca di colpevolezza,  781 ss.

 

[247] JESCHECK  H.H. – WEIGEND T., Lehrbuch des Strafrechts. Allgemeiner Teil, 5. Aufl. Berlin 1996,  292.

 

[248] Osserva infatti DAHM G., Zur Rezeption des romisch-italienischen Strafrechts, cit.,  24, che i concetti non sono espressi nella decisione dei casi ma rimangono in certo qual modo latenti. A tale proposito l’Autore cita il frammento del Digesto (D. 50,7) che reca: «non ex regula ius sumatur, sed ex iure quod est, regula fiat».

 

[249] Per tutti, BRASIELLO U., Note introduttive allo studio dei crimini romani, cit.,  148 ss.

 

[250] Con riferimento alla realtà odierna, “i problemi probatori decidono della stessa sopravvivenza del dolo, come forma di colpevolezza distinta dalla colpa”: così MARINUCCI G., Finalismo, responsabilità obiettiva, oggetto e struttura del dolo, in Riv. it. dir. proc. pen. 2003,  377. Sull’intreccio tra aspetti strutturali e probatori del dolo, HASSEMER W., Kennzeichen des Vorsatzes, cit.,  481. 

 

[251] MOMMSEN Th., Römisches Strafrecht, cit.,  400 e 435-436.

 

[252] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  68. Forse più esattamente DAHM G., Zur Rezeption des romisch-italienischen Strafrechts, cit.,  27 riconosce ai Romani il grande merito di avere affermato il principio di colpevolezza, ma riserva invece ai Commentatori quello di avere sviluppato una teoria finita del concetto di colpevolezza, distinguendo le diverse forme di essa. 

 

[253] PERTILE A., Storia del diritto italiano. Dalla caduta dell’impero romano alla codificazione, II ed., vol. V: Storia del diritto penale, rist. anast. Bologna 1966,  61 (il quale peraltro dà per scontata la mancanza di sistematicità del diritto penale romano, affermando a pag. 75 che «il diritto romano non ha nella materia penale massime uniformi per tutti i reati»); DEL GIUDICE P., Diritto penale germanico rispetto all’Italia, in Enciclopedia del Diritto Penale Italiano, a cura di E. Pessina, I, Milano 1905,  463; CALISSE C., Svolgimento storico del diritto penale in Italia dalle invasioni barbariche alle riforme del secolo XVIII, cit.,  243.

 

[254] KANTOROWICZ  H., Il «Tractatus criminum», in Per il cinquantenario della «Rivista penale» fondata e diretta da Luigi Lucchini, Città di Castello, 1925, ora in Rechtshistorische Schriften, Karlsruhe 1970,  273 ss.

 

[255] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit.,  443.

 

[256] E’ utile ricordare che secondo IMPALLOMENI G.B., L’omicidio, cit.,  250, i Romani chiamavano delitti ex proposito «quelli commessi con la intenzione diretta ad una determinata infrazione, e richiedente uno stato di coscienza normale» e delitti ex impetu «quelli che importavano una intenzione di nuocere indeterminata e dipendentemente da uno stato di coscienza anormale (per ebrietatem)».

 

[257] FIANDACA G.- MUSCO E., Diritto penale. Parte generale, cit.,  291 e 307.

 

[258] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  74 ss.; BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  639.

 

[259] Oggi come sempre i criteri di attribuzione della responsabilità, adottati dagli ordinamenti penali, derivano da schemi di valutazione del comportamento ricorrenti nella vita quotidiana, elaborati da una data cultura, e acquisiti dai normali processi di socializzazione degli individui in quella data cultura. Il problema della colpevolezza, del “rimprovero”, non è dunque esclusivo del diritto, ma pervade l’intera dimensione “normativa” dell’esistenza: etica, religiosa, del costume. Fermo questo assunto, PULITANO’ D., Diritto penale, cit.,  332-333, ritiene necessario distinguere il problema della giustificazione morale dei precetti legali, dal problema della giustificazione dei criteri del rimprovero di colpevolezza, in sé considerati. Per una concezione “secolarizzata” del diritto, qual è quella odierna, la distinzione tra colpevolezza etica e giuridica è fondamentale, ed è fondata sul riferimento ai diversi sistemi normativi, rispettivamente giuridico ed etico: il giudizio giuridico non è dunque legittimato a caricarsi di significati etici che vadano oltre la riaffermazione dell’ordinamento positivo di comportamenti e rapporti sociali. L’eticità del giudizio di colpevolezza può essere però assunta sotto un altro profilo: con riguardo cioè al fondamento del criterio di attribuzione di responsabilità penale, sul piano dei valori o ragioni ispiratrici del sistema giuridico. Questa visione consente di dare una struttura “moralmente corretta”, “giusta”, ai presupposti del rimprovero su cui poggia l’attribuzione di responsabilità penale: la “morale”, qui, non significa altro che istanza critica o ricostruttiva del diritto.

Nella prospettiva accennata dall’Autore la “moralità” dei criteri della colpevolezza diventa una esigenza fondamentale sul piano della politica del diritto penale anziché implicare un giudizio morale definitivo sui casi di responsabilità penale. Va però ricordato che l’identificazione tra colpevolezza penale e colpevolezza morale, propria delle origini del concetto di colpevolezza e in particolare del dolo, riguardava fatti (“delitti naturali”) il cui rimprovero anche oggi non può ritenersi proprio del solo diritto ma investe «l’intera dimensione normativa dell’esistenza», e dunque anche la sfera etica, religiosa e del costume.

 

[260] MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica , in Riv. it. dir. proc. pen., 1991,  97-98. Agli inizi del diciannovesimo secolo si parla in Germania (BORST, Über den Beweis des bösen Vorsatzes, in Neue Archiv des Criminalrechts, 2, 1818, citato da VOLK K., Begriff und Beweis subjektiver Merkmale, in 50 Jahre Bundesgerichtshof. Festgabe aus der Wissenschaft - Bd. IV, Strafrecht, Strafprozessrecht, München 2000,  744) di un böse Vorsatz, che può essere inferito solo da un bösen Tat e dalle circostanze di esso. Per un riferimento anche oggi alla “cattiva volontà”, HASSEMER W., Kennzeichen des Vorsatzes, cit.,  484.

 

[261] ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte generale, XVI ed., a cura di L. Conti, Milano 2003,  360. MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, cit.,  106, significativamente conclude il suo lavoro citando un antico brocardo dei canonisti: «in maleficiis animus et voluntas spectatur, non autem exitus».

 

[262] MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, cit.,  98 e per la sua concezione dell’atteggiamento interiore, o animus nocendi, quale elemento costitutivo del fatto tipico, Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, Padova 1989,  55 ss. L’Autore (L’elemento soggettivo del reato,  99) ritiene giunto il momento per la dogmatica giuridico-penalistica di non fare più affidamento né sul senso comune, né sul comune uso del linguaggio, né sulla psicologia c.d. empirica, per la ricostruzione dei concetti e degli istituti giuridici. Oggi le scienze psicologiche e sociali vertenti sul fenomeno della criminalità avrebbero raggiunto secondo Morselli uno sviluppo tale da fornire quelle risposte univoche che invece un tempo negavano ai numerosi interrogativi sollevati dalla dogmatica. In questo quadro, egli ritiene che in tema di elemento soggettivo meriti di essere privilegiata, e pertanto seguita sul terreno prettamente dogmatico, la risposta offerta dalla psicologia c.d. dinamica, o del profondo, che ha per matrice la psicoanalisi di ortodossa derivazione freudiana. Attraverso questa scienza è possibile individuare nel dolo «un atteggiamento interiore di cosciente adesione ai propri meccanismi intrapsichici antisociali», che altro non sarebbe che quell’aspetto affettivo o emozionale del fenomeno del dolo che i classici – e ancora oggi una buona parte delle legislazioni e delle dottrine dei vari paesi, e persino la giurisprudenza – usavano mettere in evidenza sotto i termini, già visti, di animus nocendi, prava voluntas, mala fides criminosa, ecc. (L’elemento soggettivo del reato,  100). Per dolo dunque – ad avviso di Morselli – si deve intendere non già la formale, razionale e anodina «previsione e volizione dell’evento», bensì l’atteggiamento interiore antisociale esternato dal soggetto nella sua condotta delittuosa; esattamente quello che in seno alla dottrina tedesca si suole connotare col pregnante termine Gesinnung, sul quale fece leva Franz von Liszt (maestro di Löffler) per fondare su di esso la teoria della colpevolezza. L’Autore conclude (Il ruolo dell’atteggiamento interiore,  53) che «mentre nei reati colposi il soggetto realizza l’evento in buona fede, in quelli dolosi si verifica esattamente quella situazione emozionale che, nell’uso corrente, si è soliti, volta per volta, denominare: malafede, malanimo, animosità, cattiveria d’animo, animadversione, cattiva intenzione, cattiva volontà, malevolenza, gravità, malvagità, ostilità, etc.; peraltro con la doverosa avvertenza che, per assumere carattere di disvalore rilevante per il diritto penale, tali stati affettivi devono rivestire la qualifica della “criminosità” (quindi malafede criminosa, etc.)».    

 

[263] MORSELLI E., Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit.,  72.

 

[264] BINDING K., Die Normen und ihre Übertretung, cit.,  667. Secondo l’Autore, l’animus rappresenta «Die Ausprägung (“la coniatura“) des Willens-Momentes bei dem dolus malus».

 

[265] MORSELLI E., L’elemento soggettivo del reato nella prospettiva criminologica, cit.,  104-105. Secondo l’Autore, un dolo inteso come atteggiamento interiore potrebbe svolgere in seno alla teoria generale del reato un triplice ruolo: a) la funzione di tramite tra la dogmatica e la criminologia; b) la funzione di portatore del significato antisociale del fatto, e quindi di nucleo centrale e indice-base del disvalore personalistico della condotta, e quindi del fatto delittuoso; 3) la funzione di criterio fondamentale per la individuazione della fattispecie e della conformità a essa del fatto concreto. Morselli ritiene che questa impostazione valga a risolvere numerosi problemi di teoria generale, e tra questi ne elenca principalmente tre: 1) il problema della distinzione tra autore e partecipe, da risolvere con la teoria degli animus; 2) il problema dell’inizio dell’attività punibile nel tentativo; 3) il problema dell’errore sulla legge penale, risolto dalla Corte costituzionale (sent. 364/88) proprio facendo leva sulla «intrinseca natura del dolo». A quest’ultimo riguardo, l’Autore, precisa, in un altro contributo (Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit.,  77 ss.), che la duplice soluzione della irrilevanza dell’errore di diritto nei c.d. delitti naturali da un lato, e la escusabilità dello stesso nei reati di mera creazione legislativa dall’altro, trovano il loro unico fondamento psicologico in un dolo sganciato dalla colpevolezza, appartenente al fatto, e concepito, in chiave assiologica, come dolus malus. Per la Corte questo concetto non implica la coscienza razionale dell’antigiuridicità, ma deve essere piuttosto inteso secondo quella che è la sua intima struttura emotivo-affettiva. Nella motivazione della sentenza,  Morselli ritrova elementi che lo portano a considerare questa «una pietra miliare nel processo di recezione dei moderni portati, vuoi della teoria finalistica dell’azione, vuoi della psicologia scientifica».

 

[266] VENEZIANI P., Motivi e colpevolezza, Torino 2000,  148 ss.

 

[267] CARRARA F., Programma del corso di diritto criminale, Parte speciale, vol. III, V ed., Lucca 1888,  90 ss.

 

[268] CRIVELLARI G. – SUMAN G., Il Codice Penale per il Regno d’Italia, vol. VII, Torino-Milano-Roma-Napoli, 1896,  1096.

 

[269] FLORIAN E., La teoria psicologica della diffamazione. Studio psicologico-giuridico, II ed., Torino 1927,  18 e ID., Ingiuria e diffamazione, in Sistema dei delitti contro l’onore secondo il codice vigente, Milano 1939,  232 ss.; ALTAVILLA E., Delitti contro la persona. Delitti contro la integrità e la sanità della stirpe, in Trattato di diritto penale, coordinato da E. Florian, IV ed., Milano 1934,  291 ss.  

In tema di diffamazione, la Corte di Cassazione (Cass. pen., sez. V, 23 febbraio 1998, n. 5767, in Giust. pen., II, 1999, 183) chiarisce che, se è vero che la configurabilità del delitto prescinde dall'"animus diffamandi", essendo il reato punibile a titolo di dolo generico, è anche vero che il "dolus bonus", quale l'"animus defendendi", può essere sintomatico di una posizione psicologica inconciliabile con la coscienza di ledere e mettere in pericolo il bene protetto.

 

[270] Per tutti, GALLO M., Il dolo. Oggetto e accertamento, in Studi urbinati, Milano 1951-1952,  267-268 e BRICOLA F., Dolus in re ipsa, Milano 1960,  18-19. VENEZIANI P., Motivi e colpevolezza, cit.,  152, dopo avere dimostrato come anche la giurisprudenza si sia attestata su posizioni analoghe a queste dottrinali, afferma: «Quando il dolo è generico e non risulta tipizzato un motivo, ovvero uno scopo ulteriore rispetto ai riflessi subiettivi del fatto materiale – come può avvenire, in particolare elevando a fine della condotta incriminata il motivo o scopo soggettivo, oppure ricorrendo a una tecnica di formulazione che renda necessaria la presenza del dolo intenzionale – andare alla ricerca di atteggiamenti ulteriori non contemplati dal dettato normativo, nel convincimento che solo in presenza dei medesimi possa dirsi integrata la fattispecie criminosa, è operazione in buona sostanza arbitraria».

 

[271] Von BAR L., Dolus eventualis?, in ZStW, 18, 1898,  550.

 

[272] Von BAR L., Dolus eventualis?, cit.,  551.

 

[273] MASUCCI M., ‘Fatto’ e ‘valore’ nella definizione del dolo, Torino 2004,  25. Cfr. MORSELLI E., Il ruolo dell’atteggiamento interiore nella struttura del reato, cit.,  103, ad avviso del quale anche quando dell’animus nocendi non venga per nulla fatto cenno in sede giudiziale, in effetti ogni istruttoria e ogni dibattimento ruotano, in primis, intorno all’indagine sull’atteggiamento interiore.

 

[274] Pronunciandosi sulla vicenda di un soggetto che, nel tentativo di arrestare alcune persone che avevano cercato di introdursi nella sua abitazione, le aveva inseguite sparando in aria una serie di colpi di arma da fuoco, e, infine ne aveva colpito una alla testa, la Cassazione (Cass. sez. IV, 10 ottobre 1996, in Cass. pen., 1998,  808) ha confermato la condanna per omicidio colposo pronunciata dal giudice di merito, in quanto lo scopo di arrestare soggetti in fuga sarebbe incompatibile con la volontà di causarne la morte: tra i due eventi sussisterebbe un rapporto definito non di “accessorietà” ma di “alternatività”. Nel caso di specie, osserva MASUCCI M. (‘Fatto’ e ‘valore’ nella definizione del dolo, cit.,  27-28, che trova poi analogie tra questo caso e altri discussi nella dottrina tedesca), l’univoca volontà dell’imputato di limitarsi a costringere i fuggitivi a fermarsi è stata desunta da una serie di circostanze quali la durata prolungata dell’inseguimento, nonché l’esplosione di nove colpi, a minore distanza dalla vittima, prima di quello mortale. «Sennonché – continua Masucci – a fronte dei saldi insegnamenti delle sezioni unite della Cassazione sulla prova del dolo in contesti caratterizzati dall’uso di armi da fuoco in prossimità della vittima, sarebbe lecito domandarsi quale differenza corra tra il rapinatore che spara all’inseguitore da pochi metri per potergli sfuggire, al quale viene attribuito un dolo diretto, e il derubato che spara all’inseguito per poterlo catturare, cui viene addossata una semplice colpa, se non il diverso giudizio sull’autore e sulla sua personalità: giudizio puntualmente trasfuso nell’addebito del fatto a titolo di dolo o di colpa».  Cfr. Cass. pen., sez. un., 18 giugno 1983, in Cass. pen., 1984,  493; Cass. pen., sez. un., 6 dicembre 1991, in Cass. pen., 1993,  14 ss.; Cass. pen., sez. un., 15 dicembre 1992, in Cass. pen., 1993,  1095 ss.; Cass. pen., sez. un., 12 ottobre 1993, in Cass. pen., 1994,  1186 ss., Cass. pen., sez. un., 14 febbraio 1996, in Cass. pen., 1996,  2505 ss.

 

[275] VENEZIANI p., Dolo eventuale e colpa cosciente, in Studium Juris, 2001, 78. Anche secondo PULITANO’ D., Diritto penale, cit.,  359, al fine di accertare se vi sia stata o no “l’accettazione dell’evento” – formula che l’Autore ritiene adeguata a caratterizzare il dolo come volontà del fatto tipico – occorre avere riguardo al contesto in cui la scelta di agire si colloca. Pulitanò spiega in questo modo e ritiene in gran parte fondate le applicazioni giurisprudenziali che ascrivono all’ambito della colpa violazioni anche consapevoli e molto gravi di regole di diligenza, se relative ad attività lecite (come la circolazione stradale), mentre ascrivono tendenzialmente al dolo eventuale i casi in cui il rischio accettato si iscrive in un contesto d’azione radicalmente illecito (come nei casi giurisprudenziali citati dall’Autore relativi alla morte della persona sequestrata, a chi per sfuggire all’arresto si faccia scudo di un ostaggio rappresentandosi l’eventualità che questo venga colpito a morte dalla reazione della forza pubblica, al riconoscimento del dolo eventuale di omicidio in capo al venditore di eroina verosimilmente tagliata con sostanze venefiche, e al lancio di sassi dal cavalcavia su automobili con esito mortale per i conducenti di esse). Sul fatto che nel giudizio di responsabilità incide l’esito fausto o infausto dell’azione, vedi recentemente SUMMERER K., Contagio sessuale da virus HIV e responsabilità penale dell’Aids-carrier, in Riv. it. dir. proc. pen., 2001,  319-320.

 

[276] MASUCCI M., ‘Fatto’ e ‘valore’ nella definizione del dolo, cit.,  28. Secondo l’Autore questo processo potrebbe assimilarsi a un “labelling approach”, temperato da criteri di giustizia sostanziale di cui il giudice si rende interprete, così potenzialmente garantendo l’equa misura di un “fair labelling”. Sulla presenza di sentenze che imputano il medesimo evento a soggetti diversi ora a titolo di dolo eventuale ora di colpa cosciente sulla base della personalità del reo, anche BRAMANTE G., Sviluppi giurisprudenziali in tema di dolo eventuale, in Indice pen., 1995,  735.

 

[277] MASUCCI M., ‘Fatto’ e ‘valore’ nella definizione del dolo, cit.,  26.

 

[278] Così ancora MASUCCI M., ‘Fatto’ e ‘valore’ nella definizione del dolo, cit.,  26, che considera questa posizione frutto della riflessione della più autorevole dottrina italiana (in particolare di Delitala). Per evitare la sovrapposizione tra dolo e moventi, VENEZIANI P., Motivi e colpevolezza, cit.  147-148, propone di non considerare il motivo isolatamente ma in una prospettiva più ampia. Egli sostiene che dovrebbe essere l’analisi del momento psicologico (in termini sia di rappresentazione che di volontà) interno al coefficiente soggettivo a sorreggerne la qualificazione sub specie di dolo, ma detta analisi andrebbe compiuta mettendo a confronto e operando una sorta di bilanciamento tra, da un lato, la ragione che spinge ad agire (accettando il rischio della verificazione dell’evento lesivo, nel caso del dolo eventuale), e, dall’altro, i fattori motivanti di segno opposto. Solo così – prosegue l’Autore – potrà emergere l’effettivo disvalore della decisione potenzialmente contraria al bene giuridico, disvalore che emergerà attraverso il ricorso a parametri esterni, riconducibili a due possibili coordinate, che paiono porsi come punti di riferimento costanti in rapporto al giudizio sui motivi: da un lato un criterio di osservazione che fa leva sulla maggiore o minore intensità del dato psichico, e dall’altro lato un criterio incentrato sul valore etico-sociale, da riempire di contenuto, in definitiva, in base alle “norme di cultura” rinvenibili nel contesto sociale di riferimento.

 

[279] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  87.

 

[280] SCHAFFSTEIN F., Die allgemeinen Lehren vom Verbrechen, cit.,  107.

 

[281] DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit.,  434-435. Peraltro Delitala non concorda con Schaffstein e con altri autori tedeschi sull’interpretazione data da Bartolo ai passi citati.

 

[282] La lex Cornelia de sicariis et veneficiis punisce chi per togliere la vita a un uomo avesse fatto, o venduto, o avuto presso di sé veleno. Il paragrafo 1, che precede quello di cui al testo recita: “Viene applicata la pena della medesima legge a colui che avesse venduto pubblicamente cattivi medicamenti o li avesse avuti presso di lui al fine di uccidere qualcuno”. La traduzione del paragrafo 2 potrebbe essere la seguente: «Questa aggiunta poi di ‘cattivo veleno’ dimostra che vi sono veleni [= medicinali] anche non cattivi. Dunque è un nome [quello di veleno] neutro entro il quale si comprende sia ciò che serve per curare, sia ciò che serve per uccidere, e anche ciò che è definito come amatorio. In quella legge si accenna soltanto a colui che lo ha per uccidere un uomo. Tuttavia in forza del Senatoconsulto è stato ordinato di relegare colei che, non con cattiva intenzione, ma a cattivo esempio ha dato un medicamento per concepire, a causa del quale colei che lo abbia preso sia morta».

 

[283] Così la possibile traduzione: «Coloro che danno pozioni abortive o amatorie, anche se non lo facciano con dolo, tuttavia, poiché la cosa è di cattivo esempio, se di umile condizione vengono condannati alla miniera, e se di condizione elevata vengono relegati in un’isola, con la perdita di una parte dei beni. Se poi la donna o l’uomo morì, essi vengono puniti con sommo supplizio».

 

[284] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der Postglossatoren und ihre Fortentwiklung, 2. Auf. (Leipzig 1885), rist. Aalen 1965,  85-86.

 

[285] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der Postglossatoren, cit.,  109.

 

[286] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der Postglossatoren, cit.,  105.

 

[287] PERNICE A., Der verbrecherische Vorsatz im griechisch-römischen Rechte, cit.,  251.

 

[288] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  88; DELITALA G., Dolo eventuale e colpa cosciente, cit.,  434. Già FERRINI C., Diritto penale romano. Esposizione, cit.,  53, peraltro sostiene l’estraneità del frammento D. 48,19,38,5 al tema dell’elemento soggettivo del reato.

 

[289] Potrebbe tradursi: «In base a questa legge è tenuto anche colui il quale, radunati degli uomini, abbia usato violenza in modo che alcuno venisse battuto o percosso, benché [l’uomo] non sia rimasto ucciso».

 

[290] La possibile traduzione è: «Parimenti [sarà condannato] colui i cui servi, cosciente egli di ciò, presero le armi per ottenere o recuperare il possesso».

 

[291]Legis Corneliae de sicariis et veneficis poena insulae deportatio est et omnium bonorum ademptio, sed solent hodie capite puniri, nisi honestiore loco positi fuerint, ut poenam legis sustineant: humiliores enim solent vel bestias subici, altiores vero deportantur in insulam” (D. 48,8,3,5, Marcianus libro quarto decimo institutionum). Si potrebbe tradurre in questo modo: «La pena della legge Cornelia sui sicari e gli avvelenatori è la deportazione in un’isola e la confisca di tutti i beni; ma oggi si suole punire con pena capitale, se non sono di nobile condizione, per cui siano dispensati dalla pena della legge; quelli di più umili condizioni si suole esporre alle fiere e quelli di più elevata condizione vengono deportati in un’isola».

 

[292] La traduzione potrebbe essere questa: « Chi durante un processo risulta avere commesso una violenza manifesta, sia punito non più con l’esilio o la deportazione in una isola, ma subisca la pena capitale, né, concesso un appello, si sospenda la condanna che contro di lui è stata pronunciata, poiché molte azioni sono racchiuse sotto l’unico nome di violenza, come nel caso di chi tenta di usare violenza, o di chi respinga con sdegno le percosse e le uccisioni spesso risultano ammesse. Per cui si è deciso che se qualcuno, o dalla parte del possessore o dalla parte di chi ha tentato di violare il possesso, sia stato ucciso, è condannato al supplizio chi ha tentato di fare violenza e si offre all’altra parte il bene oggetto della controversia (la causa dei mali) [il risarcimento del danno]».

 

[293] Si potrebbe intendere così: «Se qualcuno con violenza ha occupato il fondo altrui, sia condannato a morte. E se qualcuno o dalla parte di chi tenta di usare violenza o dalla parte di chi cerca di respingere l’offesa, viene ucciso, sia condannato colui che con violenza voleva privare l’altro del possesso».

 

[294] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  89.

 

[295] Si potrebbe tradurre così: «Poiché molti misfatti sono compresi sotto l’unico nome di violenza, volendo gli uni fare violenza, altri resistendo con sdegno, spesso sono inflitte percosse e uccisioni, si è del parere che, se mai sia stato ucciso qualcuno o da parte del possessore o da parte di colui che temerariamente cercò di ottenere per sé il possesso, sia inflitto il supplizio a colui che tentò di fare violenza e diede a una delle parti occasione del male e non sia più punito colla relegazione o deportazione in un’isola, ma sia stabilito un supplizio capitale e non sia sospesa la sentenza, che contro di lui sia stata pronunziata, per interposto appello (provocatio)».

 

[296] Così LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  89, sulla scorta dell’interpretazione data dai romanisti tedeschi ivi citati nella nota 90.

 

[297] LÖFFLER A., Die Schuldformen des Strafrechts, cit.,  89.

 

[298] ENGELMANN W., Die Schuldlehre der Postglossatoren, cit.,  79-80; SCHAFFSTEIN F., Die allgemeinen Lehren vom Verbrechen, cit.,  109.

 

[299] CORDERO F., Criminalia, cit.,  276.