N. 5 – 2006 – Contributi

 

Il relativismo dei valori e gli squilibri del terrore

 

Virgilio  Mura

Università di Sassari

 

 

 «Dopo tutto è mettere le proprie congetture a ben alto prezzo,

il voler, per esse, far arrostire vivo un uomo».

 (Montaigne, Saggi, l. III, XI)

 

 

Sommario: 1. Visioni «monoteistiche» e guerra globale. – 2. Origine e natura dei valori. – 3. Il relativismo. – 4. Laicismo e mitezza. – 5. Conflitto e ordine mondiale.

 

 

1. – Visioni «monoteistiche» e guerra globale

 

Gli squilibri del terrore: questa icastica espressione, come chiarisce Michelangelo Bovero nell’Introduzione al presente volume[1], designa il connotato principale dell’attuale situazione internazionale, segnala, cioè, per antitesi la differenza fondamentale che esiste rispetto alla situazione precedente, l’epoca della guerra fredda e del bipolarismo, caratterizzata appunto dal cosiddetto «equilibrio del terrore». Un’epoca in cui il terrore era un deterrente della potenziale guerra nucleare, non un componente della guerra in atto. Il riferimento è a quella che ormai viene comunemente indicata come la guerra globale contro il terrorismo transnazionale[2], che, però, come tutte le guerre – e con intensità e intenzionalità crescenti a  partire dalle fasi finali del secondo conflitto mondiale – non risparmia le popolazioni civili né si preoccupa di seminare in esse il terrore.

Molti osservatori concordano nel ritenere che gli elementi portanti del «nuovo ordine mondiale» comincino a profilarsi all’indomani del crollo dell’Unione Sovietica, come conseguenza della fine dell’equilibrio bipolare[3]. E’ da allora che si avviano i processi di ristrutturazione del quadro delle relazioni internazionali, in funzione della globalizzazione dei mercati e del ruolo egemonico che gli Stati Uniti d’America rivendicano nella cura degli affari planetari, in quanto unica (o superstite) superpotenza economica, militare e tecnologica. L’attentato terroristico alle Twin Towers innesca il detonatore della guerra globale. Ma la guerra globale non è una «risposta» specifica e circoscritta ad un caso specifico e circoscritto (l’eccidio dell’11 settembre 2001), bensì una soluzione strategica generale, lo strumento più idoneo che i teorici neoconservatori individuano per difendere l’interesse nazionale e garantire la sicurezza interna degli Stati Uniti, che, ovviamente, tendono a identificare tout court con l’interesse e la sicurezza del «mondo libero»[4]. L’idea della guerra globale e preventiva, come prodotto di decisioni unilaterali e della pretesa di assoluta indipendenza rispetto a possibili condizionamenti di organismi internazionali formalmente deputati ad intervenire in caso di conflitti armati, abbisogna infatti di una base giustificativa più ampia di quella che può offrire la difesa dell’interesse nazionale, a meno che, appunto, l’interesse nazionale non venga fatto coincidere con la difesa dei valori della civiltà occidentale dalla minaccia del fondamentalismo islamico. Non a caso l’apparato argomentativo-persuasivo impiegato a giustificazione della guerra globale non può prescindere dal ricorso alla retorica della missione salvifica dell’umanità dalle forze del male. In fin dei conti si tratta di proteggere valori ritenuti universali, assoluti, e – perché no?, se è vero che sono «veri» – anche di imporli ai ciechi, ai sordi o, più in generale, ai recalcitranti, perfino con la violenza. In questo modo, un’elementare catena argomentativa salda insieme la giustificazione dell’ineluttabilità della guerra globale e la giustificazione del ruolo guida, da superpotenza imperiale, che gli Stati Uniti rivendicano in funzione della salvaguardia dei valori occidentali, in base ai quali andrebbe rimodellato il nuovo ordine mondiale. Da una parte, la coalizione delle forze del bene, dall’altra l’asse del male, i nuovi barbari. Ma la prospettiva ha anche il suo rovescio: da una parte i difensori della vera fede e dei valori autentici dell’autentico islam; dall’altra gli aggressori occidentali, i nuovi crociati. Unendo le prospettive, la visione è più che desolante: la guerra globale assorbe, da una parte e dall’altra, gli umori settari e intolleranti del fondamentalismo religioso e, perciò, viene configurandosi sempre più non tanto (o non soltanto) come lo scontro di civiltà, preconizzato da Huntington[5], quanto come l’anacronistico remake della guerra santa, prevista, teorizzata e prescritta dai testi sacri sia della tradizione giudaico-cristiana sia della fede islamica[6]. Un’incredibile e stupefacente regressione culturale ad uno stadio di primitiva e ottusa ferinità dei rapporti internazionali, che l’evoluta civiltà occidentale sembrava essersi lasciato definitivamente alle spalle.

Se questo è il quadro, sia pure dipinto in forma semplificata, allora si possono capire le nostalgie che alcuni nutrono per il periodo caratterizzato dall’equilibrio bipolare. Una situazione che potrebbe riproporsi in un prossimo futuro, anche se in una versione  inedita, se la Cina continuerà ad avere, come è prevedibile, gli attuali indici di crescita e di sviluppo economico. Ma è dubbio che questo possa essere considerato un evento augurabile o che possa fornire elementi di consolazione ai nostalgici del bipolarismo. Il punto è che in un mondo attraversato da profonde disuguaglianze e caratterizzato da plurime appartenenze identitarie, dalla diversificazione delle culture, delle fedi religiose e delle credenze etico-politiche, la stabilità risulta precaria e la soluzione pacifica dei conflitti rimane una chimera, se l’ordine che dovrebbe regolare la convivenza fra diversi (Stati e popolazioni) è imposto con la forza delle armi. E, sotto questo profilo, poco cambia se ad imporlo è una sola superpotenza oppure se, previa equa spartizione delle zone di rispettiva influenza, le superpotenze tornano ad essere due. La soluzione, perciò, va ricercata altrove, abbandonando la falsa credenza nel «monoteismo dei valori» e, con essa, l’esiziale tentazione dell’uniformazione «forzosa» di un sistema mondiale geneticamente complesso, culturalmente differenziato e, dunque, refrattario per definizione, proprio perché  multipolare, alla logica ipersemplicistica della  reductio ad unum.

 

2. – Origine e natura dei valori

 

Si è fatto cenno alla falsa credenza nel «monoteismo dei valori». La credenza è, ovviamente, falsa sul piano descrittivo, giacché su quello normativo le proposizioni non sono né vere né false. «Falsa» sul piano descrittivo significa non corrispondente o contraria alla realtà effettuale, che è invece caratterizzata dalla molteplicità delle culture, delle opzioni etico-politiche, delle fedi religiose, in una parola, da quel che Max Weber, sulle orme di John Stuart Mill, chiama il «politeismo dei valori»[7]. Il politeismo dei valori è dunque un fatto, come ognuno può constatare. Un fatto, innanzitutto, da capire e da spiegare. Le ipotesi di tipo metafisico che postulano la trascendenza ontologica dei valori, quali entità oggettive la cui «esistenza» non dipende dall’esperienza umana, sono indubbiamente suggestive e, perfino, rassicuranti, ma non portano lontano. L’obiezione principale che può essere loro mossa è che non sono in grado di «dimostrare» quel che affermano, cioè la natura oggettiva di valori. E neppure sono in grado di spiegarne l’origine, che non va ricercata nell’empireo dove albergano le fumisterie delle ipostasi metafisiche, bensì, molto al di sotto di quella rarefatta dimensione, nel mondo fisico e storico che produce la grezza materia dei bisogni umani[8].

Il bisogno denota una mancanza e reclama di essere soddisfatto. Ciò che soddisfa il bisogno ha un valore. Dunque non ci sono, propriamente parlando, valori, ma cose alle quali attribuiamo un valore[9] in quanto sono in grado di soddisfare i nostri bisogni e che perciò eleviamo ad oggetto dei nostri desideri. Quel che chiamiamo «valori» sono pertanto «esemplificazioni di qualità», «entità ideali», sorte (o costruite) per astrazione dal mondo dei nostri bisogni, che fungono da criterio per le nostre scelte e costituiscono il metro per giudicare (valutare) il nostro e l’altrui comportamento[10]. Non desideriamo la giustizia e la libertà perché sono dei valori, come sostengono le concezioni oggettivistiche, bensì giustizia e libertà sono valori soltanto perché noi le desideriamo[11].

Se, quindi, si assume che sono legati ai bisogni storici degli esseri umani, i valori, per quanto  riguarda l’origine e la natura, si rivelano soggettivi e relativi, nel senso che si configurano in relazione a bisogni individuali o di gruppo che mutano col mutare delle situazioni storiche, dei contesti socio-culturali, delle latitudini geografiche. Ne discende che non si può parlare di valori oggettivi nel significato pieno del termine, ma di valori (più o meno) comuni, condivisi, diffusi, generali (o generalizzabili); né si può parlare di valori assoluti (o eterni), ma di valori (più o meno) ricorrenti e  costanti  sul piano storico.

Il politeismo dei valori è un fatto, ma i valori non sono dei fatti, che possano essere empiricamente accertati. Sono astrazioni idealizzanti, costruzioni mentali elaborate per esprimere la scala delle nostre preferenze in relazione alla scala dei nostri bisogni (o desideri). In quanto tali, non sono, in senso stretto, né veri  né falsi. Questo significa che nel campo dei valori non agisce la logica dell’accertamento empirico in funzione verificante o falsificante, né la logica dimostrativa della matematica, bensì la logica della giustificazione. I due modi di giustificare i valori – deducendoli da valori primi o considerandoli come strumentali rispetto a valori ultimi – non sono però applicabili né ai valori primi né ai valori ultimi, che si potrebbe convenire di chiamare, sulla falsariga di quanto suggerisce Felix E. Oppenheim, «valori intrinseci»[12]. Per quanto possa apparire paradossale, i valori intrinseci, che consentono la giustificazione dei valori derivati e dei valori strumentali, non possono, a loro volta, essere giustificati. In altre parole, i valori intrinseci non si giustificano, si assumono, esattamente come la kelseniana Grundnorm, che fonda l’ordinamento giuridico, ma non può essere a sua volta fondata. «Proposte etiche», per dirla con Dario Antiseri, che «non si fondano né si confutano», ma che, semplicemente, «si accettano o si respingono»[13]. Inutile aggiungere che tale assunzione-accettazione, che poggia, in ultima analisi, su basi di tipo emotivo, si configura come una scelta arbitraria, una decisione che scaturisce da una preferenza soggettiva immotivabile[14]. Ma questo non è l’unico limite che la ragione incontra nel trattare i valori intrinseci. Non esiste infatti una procedura razionale per risolvere il disaccordo su questi valori. E questo spiega perché, in caso di contrasto, si ricorra abitualmente  non alla forza della ragione, ma alle ragioni della forza.

A differenza dei valori intrinseci, i valori strumentali possono essere formulati in termini descrittivi e la proposizione che li contiene può essere sottoposta a verifica come se fosse un enunciato fattuale[15]. Parimenti, possono essere espressi in un linguaggio descrittivo anche i «giudizi di valore caratterizzanti», i quali, secondo Ernest Nagel, rappresentano «stime tecniche» basate sull’applicazione di un modello standard di valutazione precedentemente e stipulativamente definito[16]. Ad esempio, l’espressione «la Costituzione italiana è una buona costituzione» è un’espressione che contiene una valutazione e, in quanto tale, non è suscettibile di essere sottoposta ad una giudizio di verità  o falsità. Ma se si dispone di un modello standard, del tutto convenzionale, per definire le caratteristiche della «buona costituzione», allora l’espressione può essere trattata come descrittiva, volta, cioè, ad accertare se la fattispecie «Costituzione italiana» possiede le caratteristiche indicate nel modello. In questo caso il modello non è vero né falso, mentre il riscontro delle proprietà è di tipo fattuale e dunque la proposizione può essere vera o falsa.

In sintesi: i valori derivati e quelli strumentali sono giustificabili (anzi, per definizione, giustificati, se il procedimento della loro inferenza è corretto); le proposizioni contenenti valori strumentali e valori caratterizzanti possono essere ‘trattate’ come delle proposizioni fattuali; i valori intrinseci, il cui fondamento è puramente emotivo, sfuggono invece ad ogni tipo di ‘controllo’ razionale. Ma, se non vi è valore strumentale e derivato che non possa essere incastonato in uno schema logico-argomentativo perfettamente coerente, questo significa che tutti i valori strumentali e derivati hanno il medesimo titolo di validità per quanto attiene alla loro possibilità di giustificazione. Ma, riguardo almeno al fondamento delle loro procedure giustificative, significa anche che sono tutti ugualmente deboli.

Nonostante l’imponenza degli edifici logico-argomentativi innalzati in funzione persuasiva per giustificare questo o quel sistema di valori, le fondamenta di tali edifici risultano, quindi, assai fragili e precarie. E’il carattere arbitrario dei valori intrinseci a rendere deboli le ragioni addotte per giustificare i valori strumentali e derivati. E la mancanza di un fondamentum inconcussum fornisce, da un lato, elementi per la spiegazione e costituisce, dall’altro, una conferma indiretta del politeismo dei valori, ovvero del pluralismo etico-politico.

Come constatazione di un fatto, l’esistenza del fenomeno del pluralismo etico-poltico può essere giudicata positivamente o negativamente, oppure, anche, può essere considerata in maniera ‘neutra’ se la si accetta, puramente e semplicemente, come un carattere ‘strutturale’ del mondo reale, che sarebbe mistificante ignorare o velleitario contrastare, esattamente con la stessa ‘indifferenza’ con la quale in maniera del tutto ragionevole ci si può accostare al fenomeno della molteplicità delle lingue.

Se il giudizio è positivo, l’atteggiamento che ne consegue nell’affrontare la questione della pluralità dei valori diversi è ispirato, coerentemente, al principio pratico della tolleranza. Ne deriva che la tolleranza può essere assunta a norma di condotta non in quanto il pluralismo è un fatto (si cadrebbe altrimenti nella fallacia naturalistica), ma in quanto al fatto del pluralismo è attribuita una qualificazione positiva, dal momento che può essere considerato una ricchezza culturale da rispettare e tutelare. Viceversa, l’intolleranza, come atteggiamento pratico, parte dal presupposto opposto, da una valutazione negativa del pluralismo etico-politico, inteso come fattore di anarchia morale e di disorientamento sul piano politico. Entrambi gli atteggiamenti sono possibili alla condizione che esista il fenomeno del pluralismo. La scelta effettiva tra i due principi pratici e la misura della loro applicazione dipendono, invece, dal valore o dal disvalore che, a seconda delle circostanze e in relazione agli specifici contesti etico-politici, ciascuno attribuisce al fenomeno del pluralismo. Rettamente intese, tolleranza e intolleranza non si prestano, dunque, ad essere assolutizzate. Oltre un  certo limite la tolleranza può divenire sinonimo di nichilismo o di qualunquismo morale, o, addirittura, tradursi in una pratica autolesionistica se si estende indiscriminatamente anche agli intolleranti; mentre l’intolleranza senza limiti può divenire sinonimo di fanatismo e costituire la fonte di tutte le persecuzioni.

 

3. – Il relativismo

 

La natura soggettiva dei valori, che è alla base del pluralismo etico-politico, solleva la questione della loro commensurabilità. Altrimenti detto: esistono criteri certi, condivisi, in base ai quali stabilire, fra sistemi di valori diversi, quale sia il migliore? Se i valori potessero essere distinti in veri o falsi, la risposta sarebbe facile e ampiamente scontata: il criterio della verità. Ma la dimensione assiologica, per parafrasare il titolo di un noto libro di Uberto Scarpelli, è «senza verità»[17]. Ovvero: «l’etica non è scienza»[18], per la semplice ragione, giusta l’indicazione di Max Weber, che non è possibile una scienza dei fini ultimi[19]. L’unica distinzione possibile fra i valori derivati e strumentali riguarda, quindi, la loro validità, ossia la correttezza, sul piano logico, delle procedure deduttive da o della relazione strumentale con i valori intrinseci. Ovviamente, i sistemi di valori si differenziano anche in rapporto alla qualità degli apparati argomentativo-persuasivi di cui sono dotati. Ma, a parità di correttezza logica e di tecnica argomentativa, come determinare la «superiorità» di un sistema sugli altri? Lo stesso  principio kantiano dell’universalità delle massime morali o la sua variante in chiave utilitaristica proposta da R.M. Hare («l’universalità soverchiante»)[20] non rappresentano criteri di giudizio incontestabili, né appaiono sicuri ed infallibili, e neppure dirimenti di fronte a sistemi etico-politici, diversi per contenuti, ma uguali nella pretesa all’universalità[21]. Per fare un esempio: un sistema di valori «fondato» sul principio d’autorità può superare il «test di universalizzazione» altrettanto agevolmente di un sistema  incardinato sul principio opposto della libertà.

Del resto, quale principio etico o valore non ambisce all’universalità, non si rivolge alla classe indifferenziata degli esseri umani? Ma l’aspirazione all’universalità, non equivale a dire che la loro portata sia realmente universale. Ancora una volta, soccorre la distinzione fra giudizi di fatto e giudizi di valore, fra un’asserzione e una prescrizione. Una proposizione universale di tipo fattuale che enunci che «tutti gli uomini sono bipedi», è un’ipotesi generale che può essere assunta come vera fino a prova del contrario, cioè fino a che, secondo il paradigma popperiano, non venga falsificata da un’osservazione di carattere particolare che la contraddica. Una proposizione del tipo «tutti gli uomini devono essere considerati e trattati come uguali» è invece una massima (una prescrizione) che non ha un contenuto di verità ed ha un carattere universale solo sul piano logico formale, dal punto di vista delle regole della sintassi (comincia infatti con le parole «tutti gli uomini…»), ma niente di più, salvo riconoscere che l’aspirazione dell’emittente è quella che possa trovare un’applicazione di tipo universale. In questo caso l’universalità della proposizione non dipende dal contenuto del suo enunciato, ma, in primo luogo, dal suo carattere formale e, secondariamente ed eventualmente, da condizioni e da circostanze che sono esterne al suo contenuto normativo. Ne discende che quando si parla di valori universali, il significato di «universale» non possa essere quello di un enunciato descrittivo, a meno che, negando ogni distinzione fra fatti e valori, si aderisca a quelle ipotesi di tipo metafisico sulla natura dei valori che ne postulano la trascendenza ontologica, come erano appunto, per fare un esempio familiare, le ipotesi giusnaturalistiche. Attribuire ai valori il medesimo carattere universale che hanno le proposizioni descrittive del tipo «ogni S è P» (dette, in logica, appunto, affermative universali) rappresenta uno stratagemma retorico-persuasivo di indubbia efficacia per favorirne l’accettazione, ma è anche un modo alquanto surrettizio per reintrodurre la presunzione della loro assolutezza, cioè per additare di soppiatto, attraverso la deriva dell’universalismo, la credenza nell’esistenza di valori assoluti.

E, allora? Il fatto è che per dirimere il confronto o lo scontro fra valori diversi non esiste un punto di vista «imparziale» o «impersonale», per la semplice ragione che non esiste un metro di giudizio «esterno» rispetto a qualsiasi sistema di valori. Giudichiamo gli altrui valori sulla base dei nostri, anzi, dall’alto dei nostri, che riteniamo superiori solo perché nostri.

Il pluralismo etico-politico è dunque rivelatore di un’altra caratteristica dei valori: la loro relatività. Una caratteristica connaturata al pluralismo, niente affatto nascosta, ma spesso obliterata o rimossa. E non senza un motivo. Parlare della relatività dei valori equivale, infatti, a infrangere una sorta di tabù presente nella cultura occidentale, che pure vanta in proposito, a cominciare dagli Essais di Montaigne, una nobile tradizione, sebbene alquanto pavida e «ritenuta», per paura forse degli anatemi della gerarchia ecclesiastica, nel denunciare che le persecuzioni religiose o ideologiche nascono, tutte, dalla credenza che i valori siano verità assolute e, come tali, da imporre ai dissidenti anche con la violenza.

Il relativismo, lungi dall’essere una teoria normativa che indica quel che dovrebbe essere, è un orientamento che nasce dalla constatazione di un fatto – l’esistenza del pluralismo etico-politico – e dall’acquisizione cognitiva dell’impossibilità logica di dotare i valori di un fondamento assoluto. Un orientamento che, come nota Gian Paolo Prandstraller, sul finire del secolo scorso si è tradotto in costume sociale, in fatto pratico, assumendo la forma di una mentalità che ha inciso profondamente sul ‘senso’ della vita e ha introdotto notevoli mutamenti nelle sfere dell’economia, della politica e dell’etica all’interno di società complesse, altamente differenziate, sempre più secolarizzate e refrattarie al richiamo del monismo  o alla seduzione della trascendenza[22].

Eppure, ancora oggi, intellettuali laici di grande finezza analitica confondono, per inveterato pregiudizio, il relativismo con l’indifferentismo, se non addirittura con il nichilismo[23]. Al contrario, una prospettiva relativistica non solo non costituisce ostacolo all’assunzione responsabile di valori, ma ne costituisce un presupposto necessario, perché è l’unica che consente di esercitare pienamente l’autonomia della scelta morale. Come peraltro aveva notato Hans Kelsen in un saggio del 1955-56, affermando appunto che:

 

«una teoria dei valori relativistica non nega l’esistenza di un ordine morale e perciò non è – come talvolta si sostiene – incompatibile con la responsabilità morale o giuridica. Essa nega l’esistenza di un unico ordine che possa pretendere di essere riconosciuto valido e, quindi, universalmente applicabile. Essa asserisce che vi sono parecchi ordini morali diversi l’uno dall’altro e che, di conseguenza, deve essere fatta una scelta fra loro. In tal modo il relativismo impone all’individuo il difficile compito di decidere da sé ciò che è giusto e ciò che è errato, il che implica certamente una responsabilità molto seria, la responsabilità più seria che un uomo possa assumere»[24].

 

Il relativismo, dunque, non come impedimento alla scelta, ma come consapevolezza del limite. Premesso, infatti, che i valori intrinseci si «fondano» su una preferenza immotivata; che le procedure giustificative dei valori derivati e strumentali sono, tutte, ugualmente deboli; che i criteri di giudizio dei valori sono relativi, cioè «interni» al sistema di valori del soggetto giudicante, ne consegue la vanità di ogni tentativo di «dimostrare» l’oggettiva superiorità dei propri valori, nonché l’arbitrarietà di ogni pretesa di imporli agli altri, tanto più se si ricorre all’uso della violenza. Il che non è irrilevante ai fini della pacifica convivenza.

Non a caso, lo stesso Kelsen aveva chiarito lo stretto legame funzionale esistente fra democrazia e relativismo:

 

«che i giudizi di valore abbiano una validità soltanto relativa, uno dei principi fondamentali del relativismo filosofico, implica che gli opposti giudizi di valore non sono, né logicamente né moralmente, impossibili. Il rispetto dell’opinione politica altrui è uno dei principi fondamentali della democrazia, poiché tutti sono uguali e liberi. Tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e di pensiero, così tipiche della democrazia, non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede nei valori assoluti»[25].

 

La correlazione è così chiara e netta che non ha bisogno di chiose o commenti. Si potrebbe forse aggiungere che solo una diffusa cultura politica improntata alla concezione relativa dei valori, più che qualsiasi espediente giuridico-costituzionale, impedisce alla maggioranza di abusare del proprio potere e consente ad una minoranza di divenire a sua volta maggioranza. Qui risiede la quintessenza della democrazia, che è pur sempre un sistema di governo, giova ricordarlo, e dunque un sistema imperniato su relazioni di potere. La stessa regola di maggioranza, che non ha alcun fondamento assiologico, ma è una mera sublimazione della forza bruta – «sta alla spada come la cartamoneta sta alla riserva aurea», aveva icasticamente osservato Edoardo Ruffini[26] –, sarebbe uno strumento che si presterebbe ad un uso scriteriato e pericoloso per le libertà se non fosse applicata in un contesto culturale fondato sulla concezione relativistica dei valori e non fosse dunque accompagnata dal senso del limite delle proprie opzioni assiologiche.

 

4. – Laicismo e mitezza

 

Niente, dunque, è più estraneo alla prospettiva relativistica del precetto agostiniano del «compelle intrare», dell’ispirazione messianica, dell’anelito fanatico per le crociate, della spinta alla colonizzazione culturale. Niente è più arbitrario, secondo tale prospettiva, dell’imporre con la forza il proprio punto di vista, del costringere a credere, dell’esportare forme di governo a suon di bombe, ammesso, e non concesso, che la guerra sia uno strumento efficace (idoneo allo scopo) Non è invece arbitrario difendere i propri valori, certo non in quanto «assoluti», «veri» o «oggettivamente superiori», ma semplicemente e onestamente, in quanto «propri», in quanto espressione della propria identità.

Sotto questo profilo, è innegabile l’affinità che esiste fra il relativismo e il laicismo. Sul laicismo (il significato del termine, l’origine storica, i presupposti culturali, i valori che incorpora, le prospettive che dischiude, i principi che enuncia) si è discusso molto in Italia nel corso dell’anno passato. Il dibattito, promosso da uno dei più autorevoli e diffusi quotidiani italiani, aveva preso spunto da un fatto contingente: l’interventismo crescente - da taluni condannato come un’indebita ingerenza, da altri accolto come una salutare ‘provvidenza’ - della gerarchia ecclesiastica nelle questioni politiche domestiche, attraverso esplicite raccomandazioni rivolte ai legislatori e tassative indicazioni dirette agli elettori. Era perciò praticamente scontato che si focalizzasse intorno al tema dei rapporti fra Stato e Chiesa, delle rispettive sfere di competenza, dei reciproci doveri da osservare per rispettare l’autonomia funzionale, costituzionalmente sancita, delle due istituzioni. In questo contesto, il significato del termine «laico» è apparso tutt’altro che problematico, anzi affatto condiviso: secondo l’uso consolidato, almeno in Occidente, da una lunga tradizione, laico si oppone a confessionale e come tale identifica il carattere precipuo dello Stato moderno, che, a differenza delle teocrazie, tutela la libertà di culto e, a differenza dello Stato confessionale, non privilegia alcuna religione in particolare. E’ stato perciò agevole da parte di tutti gli intervenuti al dibattito aderire alla parafrasi del celebre detto crociano e identificarsi nel moto «perché non possiamo non dirci laici»[27]. In fondo si trattava, semplicemente, di riconoscere validità alla pericope evangelica «Dai a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio».

Ma restringere il significato di laico ad un carattere o ad una qualificazione dello Stato è estremamente riduttivo perché ne limita l’estensione alla sfera del pubblico e non rivela il nucleo profondo del concetto. In proposito, può aiutare il riferimento alla radice etimologica. «Laico» proviene dal greco «laos», che indicava – originariamente e genericamente – una qualunque persona appartenente al popolo e, perciò, distinta rispetto agli appartenenti alla cerchia esclusiva e ristretta della classe superiore. Transitando attraverso il latino medioevale, nell’epoca del massimo fulgore della Chiesa di Roma, la parola conserva qualcosa del significato originario, cui aggiunge una connotazione ulteriore: designa, in opposizione a chierico, la figura del fedele non appartenente all’ordine ecclesiastico. In questa accezione, indica una condizione all’interno di una gerarchia presente nella comunità dei cristiani, ma coglie una distinzione meramente formale, del tutto esteriore: la differenza di status che intercorre fra chi indossa i paramenti sacri e chi non veste l’abito talare. Il termine «laico» acquista un diverso significato soltanto nell’età moderna, a partire dal secolo dei Lumi, quando la sua opposizione a «chierico» si definisce non sulla base di caratteristiche formali, inerenti a ruoli o funzioni sanciti dal diritto canonico, bensì in relazione a modi distinti (e contrapposti) di accostarsi al problema della conoscenza della «verità». Mentre il chierico è il depositario e il custode di certezze assolute, stabilite ex autoritate, per definizione inconcusse e incontestabili, e, dunque, è il portatore di una visione esclusivista e dogmatica della verità, matrice potenziale del fondamentalismo monistico e dell’integralismo religioso, il laico, al contrario, è guidato dallo spirito critico e dal dubbio sistematico, ricusa il principio d’autorità (l’ipse dixit) nella sfera delle attività intellettuali, cerca la «verità» attraverso il confronto ed è disposto a modificare le proprie certezze se si dimostrano infondate. In questo senso, il laicismo è un habitus mentale, uno stile di pensiero, un modo di accostarsi ai problemi e di ricercarne la soluzione attraverso l’uso della sola ragione. Il che accosta la mentalità laica alla mentalità dello scienziato o, più generalmente, all’attività dello studioso, almeno dello studioso che si ponga come l’erede di quelli che Norberto Bobbio definì negli anni ’50 del secolo scorso «i frutti più sani della tradizione intellettuale europea», vale a dire «l’inquietudine della ricerca, il pungolo del dubbio, la volontà del dialogo, lo spirito critico, la misura nel giudicare, lo scrupolo filologico, il senso della complessità delle cose»[28].

Se il laico, in definitiva, è colui che sottopone costantemente al vaglio critico anche le proprie certezze, che considera niente affatto immuni dal tarlo del dubbio, se è, come osserva Claudio Magris, colui che è «libero dal bisogno di idolatrare e di dissacrare»[29], allora è innegabile che fra relativismo e laicismo vi sia un rapporto di reciproca implicazione. E a questo punto si potrebbe essere tentati, benché il fatto sia insolito, di fare l’elogio del relativismo in quanto orientamento che nasce dalla constatazione della relatività dei valori e che si accompagna, da un lato, al laicismo, inteso come abito mentale (attitudine intellettuale o stile di pensiero) e, dall’altro, alla virtù della mitezza.

Il senso del limite delle opzioni assiologiche, che caratterizza il relativismo, è, infatti, il migliore antidoto contro la costrizione a credere. E il quid proprium della mitezza Bobbio lo individua, riprendendo un’espressione di Carlo Mazzantini, nel moto «lascia che l’altro sia quello che è»[30]. Né remissivo, né cedevole, il mite non è un proselitista. E nell’astenersi dall’interferire pesantemente sulle credenze altrui, mostra che la mitezza è una virtù che mal si concilia con l’esercizio del potere, giacché il persuadere qualcuno a fare o non fare qualcosa, a credere o a non credere in qualcosa, significa esercitare influenza e l’influenza è pur sempre, benché la più blanda (ma non la meno efficace), una forma di potere.

E’ incerto se il relativismo dei valori, il laicismo e la mitezza siano elementi di per sé sufficienti per scongiurare il pericolo delle guerre neo-coloniali o per evitare, almeno, le stragi degli innocenti, quel che però è certo è che l’imporre la propria visione come assoluta, ergersi arbitrariamente a paladini del Bene contro il Male, cedere allo spirito di crociata e sviluppare corsi politici all’insegna dell’arroganza e della protervia sono gli ingredienti basilari per comporre la miscela micidiale che può portare all’esplosione della guerra di tutti contro tutti.

 

5. – Conflitto e ordine mondiale

 

Ma è tempo di ritornare al punto di partenza (quali «rimedi agli squilibri del terrore»?) e cercare di tracciare una conclusione. In un’ottica pluralista e relativista, il nuovo ordine mondiale non può che essere multipolare, rispettoso delle differenze culturali, cioè dei piani esistenziali e dei sistemi di valori che ogni gruppo che popola il mondo dovrebbe avere il diritto (e la libertà) di adottare. Entro questa cornice normativa vanno soppesate le più o meno realistiche ipotesi di edificazione della civitas maxima, la prospettiva di un governo mondiale, si tratti di una federazione di Stati, secondo l’antica ambizione kantiana, o di un inedito plesso organizzativo-istituzionale incardinato sulle idee (per la verità prossime al genere utopistico) della cittadinanza universale e del costituzionalismo globale[31]. Lo stesso discorso vale (e la stessa cautela si impone) nell’affrontare la delicata questione dei diritti dell’uomo (o diritti fondamentali, o diritti universali)[32]. Sul tema dei diritti, proprio perché si tratta di una delle maggiori conquiste (e, come tale, oggetto di legittimo vanto) della cultura politica occidentale, la tentazione di interpretarlo, contro ogni evidenza, in chiave assolutistica si fa particolarmente forte. Al punto da indurre a sottovalutare il fatto, tutt’altro che trascurabile, che trentatré anni dopo la solenne proclamazione della «Dichiarazione universale dei diritti umani», incentrata, come è noto, sull’enfasi posta sulle prerogative dell’individuo, viene firmata la «Carta africana sui diritti umani e dei popoli», in cui l’accento, piuttosto che sui diritti, è posto sui doveri che il singolo ha verso la comunità, custode della morale e dei valori tradizionali che lo Stato ha l’obbligo di promuovere e proteggere. Così come vi è la tendenza a sorvolare sulla circostanza che alla prima Conferenza mondiale sui diritti umani, tenutasi a Vienna nel 1993, fu apertamente contestato, in particolare dai paesi asiatici, la presunta portata universale della dottrina dei diritti fondamentali, considerata, al contrario, alla stregua di una semplice concezione regionale, l’espressione tipica della civilizzazione occidentale e, come tale, incapace di tener conto dei valori e delle tradizioni specifiche presenti in altre culture. Basterebbero queste considerazioni a frenare le tentazioni universalistiche in senso forte. Il guaio è che alla dottrina dei diritti umani – sia che la si intenda in senso assolutistico, come pretesa-dovere di affermare valori ritenuti, per definizione, incontrovertibili, sia che la si intenda in senso relativistico, come diritto di difendere i «propri» valori – è comunque correlata l’idea, per molti versi sconcertante, della «guerra umanitaria».

La guerra è stata considerata per secoli una condizione pressoché «naturale» dell’umanità, una sorta di evento ineluttabile. Un fenomeno talmente pervasivo che forse nessuna cultura – e di certo non quella occidentale – conosce una definizione della pace che non sia costruita, come ha notato Bobbio, in termini negativi: la pace è assenza di guerra, l’intervallo di tempo fra due guerre, la non-guerra[33]. Un accadimento così ricorrente da indurre a congetturare che possa avere una base biologica, come alcuni studi di etologia hanno, del resto, tentato di documentare[34]. La verità è che non la guerra, bensì il conflitto, inteso come relazione antagonistica o oppositiva fra individui e gruppi, è connaturato con l’esistenza umana. Non è difficile il mestiere di vivere, difficile è convivere. E il conflitto è insito nell’ambito della convivenza organizzata e nei rapporti fra organizzazioni di convivenze (comunque le si denomini: gruppi, associazioni, sette, comunità, tribù, chiese, Stati, sistemi politici, ordine internazionale). La convivenza, su qualunque scala, è di per sé un fatto problematico, dato che la compresenza di identità diverse, in contesti caratterizzati dalla scarsità dei beni e dal pluralismo dei valori, ingenera, sì, il confronto ma predispone anche fatalmente allo scontro. Non ha bisogno, quindi, di essere invocato, provocato o innescato artificiosamente: il conflitto è in re, è nelle cose, congenito alla sfera delle nostre relazioni. Occorre, all’opposto, limitarlo, controllarlo, regolamentarlo, in una parola, per evitare l’implosione della convivenza organizzata, occorre imparare a governarlo. Del resto, la politica, lo Stato e l’ordine internazionale hanno un senso e una funzione solo perché esiste il problema della governabilità del conflitto.

La guerra è la forma parossistica che in generale il conflitto può assumere e, allo stesso tempo, un modo particolare per spegnere, per risolvere drasticamente un determinato conflitto. Uno strumento primitivo, assai costoso (in termini di risorse economiche, di perdita di vite umane e di gratuite sofferenze), e, in proporzione, poco remunerativo (cioè non razionale rispetto allo scopo). Basterebbe questa considerazione per chiudere il discorso sulla «guerra umanitaria», la «guerra per i diritti o per la democrazia», sorvolando sulla questione, peraltro non secondaria, dell’intrinseca aporeticità di queste espressioni[35].

Tra i titoli di merito che possono riconoscersi al Vecchio Continente vi è quello di aver finalmente imparato, sulla propria pelle, la dura lezione della storia. Estendendo e rafforzando il sistema dei diritti e delle garanzie entro il quadro della democrazia, che è il punto d’approdo istituzionale di un lento, graduale processo di crescita e di sviluppo di tipo endogeno, non il prodotto di forze esogene che agiscono dall’alto delle loro fortezze volanti, l’Europa ha infatti imparato a risolvere i conflitti in modo pacifico. E questa grande conquista è, a mio avviso, il solo valore che può permettersi di «esportare», con l’esempio, al di là dei confini della propria cultura.

 

 



 

[1] Saggio pubblicato in Gli squilibri del terrore. Pace, democrazia e diritti alla prova del XXI Secolo, a cura di Michelangelo Bovero ed Ermanno Vitale, Rosenberg & Sellier, Torino 2006, 193-210.

 

[2] Sulla nozione di «guerra globale», si vedano  le considerazioni di D. Zolo, Una ‘guerra globale’ monoteista, 2003, in «Jura Gentium», sito rivista del Centro di filosofia del diritto internazionale e della politica globale, (http://dex1.tds.unifi.it/juragentium/it), Sezione «Guerra, diritto e ordine globale». Sull’uso improprio  (o disinvolto) e metaforico della parola «guerra» nell’espressione «guerra globale al terrorismo», cfr. L. Bonanate, La politica internazionale fra terrorismo e guerra, Laterza, Roma-Bari 2004, 86, 88, 93-94.

 

[3] Bonanate, op. cit., 138; Zolo, Una ‘guerra globale’ monoteista, cit.

 

[4] Per una disamina di tali posizioni, definite come «l’ideologia della forza dei finti realisti», cfr. G. Preterossi, L’Occidente contro se stesso, Laterza, Roma-Bari 2004, 57-90.

 

[5] S.P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Garzanti, Milano 2000.

 

[6] Cfr. Zolo, Una ‘guerra globale’ monoteista, cit.

 

[7] M.Weber, Il significato della «avalutatività» delle scienze sociologiche e economiche (1917), in Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 1958, 332 ss. Sulla formula weberiana, come esplicito riconoscimento della insopprimibile molteplicità dei valori, si vedano le considerazioni di P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Einaudi, Torino 1971, 344  ss.

 

[8] N. Bobbio, Introduzione alla filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 1948, 34.

 

[9] Osserva G. Preti (Moralità e democrazia (1962), in In principio era la carne, Angeli, Milano 1983, 124) che «i ‘valori’ sono mere astrazioni: quello che è reale sono le cose aventi valore».

 

[10] Bobbio, Introduzione alla filosofia del diritto, cit., 36 ss.; Preti, Moralità e democrazia, cit., 124-129.

 

[11] Bobbio, Introduzione alla filosofia del diritto, cit., 38.

 

[12] F.E. Oppenheim, Etica e filosofia politica, Il Mulino, Bologna 1971, 40-41, opera una distinzione fra «giudizi di valore estrinseci» e «principi normativi e intrinseci».

 

[13] D. Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, 19.

 

[14] E’ questa, in sostanza, l’intuizione di fondo, nell’ambito del non cognitivismo etico, del cosiddetto emotivismo radicale, rappresentato dall’opera di A.J. Ayer (Linguaggio verità e logica ,1936, tr. it. Feltrinelli Milano 1961), un indirizzo in seguito stemperato dalla teoria dell’emotivismo moderato elaborata da C.L. Stevenson (Etica e linguaggio, 1944, tr. it. Longanesi, Milano 1962). Ma non bisogna dimenticare che l’antesignano delle posizioni emotiviste è David Hume, il “fondatore” dell’empirismo moderno, il quale nel Trattato sulla natura umana (II,III,III) espone i limiti della ragione nel campo della norme che regolano la condotta umana. Sulla metaetica non-cognitivistica cfr. E. Lecaldano, Etica e significato: un bilancio, in C.A. Viano (a cura di ), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino 1990, 59-86.

 

[15] Oppenheim, op. cit., 34 ss.

 

[16] E. Nagel, La struttura della scienza (1961), tr. it. Feltrinelli, Milano 1977, 507 ss.

 

[17] U. Scarpelli, L’etica senza verità, Il Mulino, Bologna, 1982.

 

[18] Antiseri, op. cit., 23.

 

[19] M. Weber, L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904), in Il metodo delle scienze storico-sociali, cit., 53-141. Sul tema Weber ritorna, sviluppandolo, ne Il significato della «avalutatività» delle scienze sociologiche e economiche, cit., e in La scienza come professione (1919), in Il lavoro intellettuale come professione, tr.it. Einaudi, Torino 1966, 5-43.

 

[20] R.M. Hare, Il pensiero morale (1981), tr. it. Il Mulino, Bologna 1989, 135 ss., 223 ss. Id., Come decidere razionalmente le questioni morali, in L. Gianformaggio-E. Lecaldano (a cura di), Etica e diritto. Le vie della giustificazione razionale, Laterza, Roma-Bari 1986, 53 ss. Sulla nozione di «prescrizione universalizzabile soverchiante», cfr. E. Lecaldano, La ragione e l’etica, in «La ragione pratica», 1993,1, 20-31. Per una critica puntuale della posizione di Hare, cfr. A. Ross, Critica del diritto ed analisi del linguaggio, tr. it., Il Mulino, Bologna 1982, 157-75.

 

[21] Solleva alcune fondate obiezioni all’argomento kantiano N. Bobbio, Pro e contro un’etica laica, ora in Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’Ombra, Milano 1994, 176 ss. Su alcuni limiti sul piano applicativo del principio kantiano della «legge universale», cfr. anche S. Blackburn, Essere Buoni. Breve introduzione all’etica (2001), tr. it., Pratiche Editrice, Milano 2003, 143-152.

 

[22] G.P. Prandstraller, Relativismo e fondamentalismo, Laterza, Roma-Bari 1996, VII.

 

[23] L. Ferrrajoli, Diritti fondamentali, Laterza, Roma-Bari 2001, 340-341, ritiene che il relativismo morale sia «una dottrina etica inconsistente logicamente ancor prima che eticamente, dato che equivale all’indifferentismo morale e all’accettazione di qualunque morale, pur se fondate sulla disuguaglianza e sull’oppressione, e quindi alla negazione di qualunque morale». Analoga posizione esprime G. Zagrebelsky, Imparare la democrazia, Gruppo Editoriale l’Espresso SpA, Roma 2005, 25, il quale, dopo aver ribadito la validità della correlazione kelseniana fra relativismo e democrazia, inopinatamente sostiene che «dal punto di vista del singolo, invece, relativismo significa che ‘tutto è relativo’, che una cosa vale l’altra, cioè che nulla ha valore. In questo senso – insisto, dal punto dei vista dei singoli – relativismo equivale a nichilismo o scetticismo». Ugualmente recisa è la condanna di B. Williams, La moralità. Un’introduzione all’etica (1993), tr. it., Einaudi, Torino 2002, 21, il quale considera il relativismo «l’eresia dell’antropologo, forse l’opinione più assurda che sia stata mai avanzata in filosofia morale».

 

[24] H. Kelsen, I fondamenti della democrazia (1955-56), in I fondamenti della democrazia e altri saggi, Il Mulino, Bologna 1966, 194.

 

[25]  Ivi, 193. Richiama l’attenzione su questa posizione kelseniana come carattere precipuo della democrazia Zagrebelsky, op. cit., 25 ss.

 

[26] E. Ruffini, Il principio maggioritario. Profilo storico (1927), Adelphi, Milano 1976, 37.

 

[27] E. Scalfari (a cura di), Dibattito sul laicismo, Gruppo Editoriale l’Espresso, Roma 2005. Ma sul laicismo, cfr. anche il recentissimo G. Preterossi (a cura di), Le ragioni dei laici, Laterza, Roma-Bari 2005.

 

[28] N. Bobbio, Libertà e potere (1955), in Politica e cultura, Einaudi, Torino 1955, 281 (nuova edizione, a cura e con introduzione di Franco Sbarberi, Einaudi, Torino 2005, 240).

 

[29] C. Magris, Laicità e religione, in «Il Corriere della Sera», 6 dicembre 1998 (ora in Le ragioni dei laici, cit., 110).

 

[30] N. Bobbio, Elogio della mitezza e altri scritti morali, cit., 20.

 

[31] Su questi temi, cfr. la documenta analisi di D. Zolo, Cosmopilis. La prospettiva del governo mondiale, Feltrinelli, Milano 1995.

 

[32] La più completa, articolata e argomentata disamina del problema dei diritti universali è quella di L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, cit., 1-40, 120-175, 278-370.

 

[33] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Il Mulino, Bologna 1979, 161-162.

 

[34] Cfr. in proposito J. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra (1979), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1990.

 

[35] Sull’autocontradditorietà di questi concetti, si vedano le considerazioni di M. Bovero, L’intransigenza nell’età dei diritti, in «Teoria politica», XV, nn. 2-3, 1999, 297-311 (spec. pp. 306-11).