N. 5 – 2006 – Note & Rassegne

 

Il presente e il futuro della legge sulle società in Italia[1]

 

Antonio Serra

Università di Sassari

 

 

 

 

1. – Nell’ordinamento italiano non si può parlare – come a tutti noto – di una legge sulle società di capitali, in quanto la disciplina di tali società è contenuta all’interno del sistema codicistico, che contempla sia le società personali sia le società di capitali. La distinzione, articolata per tipi di società (tre tipi di società personali a fronte di tre tipi di società di capitali) ed integrata dalla disciplina delle società mutualistiche e consortili, è stata confermata anche nella recente riforma del diritto societario italiano, la quale ha riguardato esclusivamente le società di capitali (società per azioni, società in accomandita per azioni e società a responsabilità limitata) e le società cooperative.

Pertanto, in questa sede, si farà riferimento alle disposizioni della riforma (d.legvo 17 gennaio 2003, n. 6) per tracciare un quadro della disciplina vigente in Italia e delle sue prospettive, con espressa esclusione dell’esame relativo alla disciplina delle società con azioni quotate (d. leg.vo 24 febbraio 1998, n. 58) ed a quella delle cooperative.

 

2. – L’obiettivo della riforma è consistito nel «favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese» in un rinnovato quadro legislativo, che valorizzi le peculiarità dei diversi tipi sociali, con particolare riguardo al modello della società azionaria (spa) ed a quello della società a responsabilità limitata (s.r.l.)

Effetto di questa impostazione è, innanzi tutto, la netta contrapposizione fra società azionarie e società a responsabilità limitata, in modo da fare di questo secondo tipo sociale  un modello assolutamente distinto dalla spa, non più configurato (e configurabile) come una “piccola spa”, ma caratterizzato da un’autonoma struttura organizzativa, che veda al suo centro la «persona del socio» e, quindi, renda utilizzabili per tale tipo sociale anche regole e principi sinora propri ed esclusivi delle società personali.

All’interno del tipo spa viene posta la distinzione fra società che si rivolgono al mercato del capitale di rischio (c.d. società aperte, fra le quali rientrano anche le società con azioni diffuse fra il pubblico in misura rilevante ovvero quotate nei mercati regolamentati, a loro volta destinatarie di una disciplina speciale contenuta nel testo unico sulla finanza) e società “chiuse” (in quanto non riconducibili nell’ambito delle società aperte).

 

3. – Il mezzo per perseguire l’obiettivo di crescita e di efficienza dell’impresa societaria è individuato nell’autonomia privata (e, più specificamente, nell’autonomia statutaria), intesa come strumento di adeguamento della struttura organizzativa alle esigenze di investimento e di redditività dei soci e del mercato. Agli operatori economici ed agli investitori è offerto un modello organizzativo di impresa – strutturato nella forma della società di capitali – non più sostanzialmente unico e contraddistinto da profili di rigidità e di inderogabilità delle regole che lo governano, ma – al contrario – viene offerta una pluralità di modelli plasmabili secondo le esigenze dei soci e, in definitiva, del mercato.

Alla tradizionale impostazione per cui «in materia di società di capitali la norma imperativa è la regola e l’autonomia privata è l’eccezione», succede – nell’ordinamento italiano – un’impostazione in cui l’autonomia negoziale (che trova la sua fonte non necessariamente nel contratto sociale, ma «nella volontà del socio e/o dei soci» o, meglio, nel loro potere di autoregolamentazione dei propri meritevoli interessi economici) si traduce nell’atto di disponibilità ad avvalersi della forma organizzativa della società di capitali come di una qualsiasi forma organizzativa di impresa. Il ruolo dell’autonomia dei privati – al di là delle specifiche osservazioni che seguiranno – può essere colto in tutti i momenti di vita dell’organizzazione, dalla fase della costituzione della società a quella dello svolgimento del rapporto sociale fino alla fase dello scioglimento, intesa come momento dissolutivo sia dell’intero rapporto sia del rapporto del singolo socio rispetto alla collettività. Così, per limitarsi ad alcuni cenni, sono consentiti rapporti partecipativi con terzi; sono consentiti regimi di gestione deliberativi sostanzialmente estranei all’organizzazione corporativa propria della società di capitali persona giuridica; è consentita la costituzione della società senza termini di durata e, quindi, il venire meno al rapporto sociale (anche nella sua interezza) per determinazione  dei singoli soci.

Restano, comunque, fermi due momenti essenziali e storicamente propri della società di capitali, quale che sia la forma giuridica rivestita di spa o di s.r.l. Tutte le società di capitali sono persone giuridiche; in tutte le società di capitali, in linea di principio, la società (e soltanto la società) risponde delle obbligazioni assunte con il suo patrimonio.

 

4. – Nella prospettiva qui sintetizzata, il ruolo assegnato dalla riforma all’autonomia negoziale consente, innanzi tutto, di affermare che la forma di organizzazione di impresa societaria corrispondente a quella della spa e della s.r.l. è disponibile da parte di qualsiasi soggetto dell’ordinamento e non è esclusiva di una collettività (pluralità) di soci.

La possibilità che la società possa essere costituita con atto unilaterale si traduce, infatti, nella «definitiva caduta del tabù della società unipersonale» e del correlato mito della responsabilità illimitata e personale nel caso di impresa gestita unipersonalmente.

Senza dubbio questa è stata una (se non la prima) delle grandi scelte della riforma: l’ampliata autonomia negoziale concessa agli operatori economici «investe, nel nuovo testo, non solo il contenuto ma l’esistenza stessa del contratto sociale nel suo rapporto con l’impresa e con la responsabilità per l’impresa». Ed infatti «nella riforma ha trovato pieno riconoscimento, accanto alla società che nasce da contratto, la società unipersonale» (originaria o sopravvenuta), rispetto alla quale soltanto convenzionalmente può continuare a parlarsi di «società» e di «unico socio».

Restano, comunque, significativi tratti comuni così alla “società” unipersonale come alla società pluripersonale. In particolare resta in comune l’esercizio dell’impresa, inteso come esercizio di attività economica a fine lucrativo; resta la personalità giuridica nella duplice valenza del termine, quale centro autonomo di imputazione degli effetti giuridici connessi allo svolgimento dell’attività e quale indice della limitatezza della responsabilità; resta l’organizzazione dell’impresa, pur sempre articolata nelle forme proprie della società-persona giuridica, che certamente impedisce di configurare la società unipersonale come impresa individuale, in considerazione dei suoi profili fondamentali attinenti – rispettivamente – alla responsabilità patrimoniale (delle obbligazioni sociali non risponde in alcun caso il socio con il proprio patrimonio) ed al governo dell’attività, perché il singolo non può esercitare personalmente i poteri gestori se non tramite gli organi sociali.

 

5. – Un altro indice della rilevanza assegnata all’autonomia negoziale (più che statutaria) può ravvisarsi nell’espressa disciplina destinata ai patti parasociali (per stabilizzare assetti proprietari o il governo delle società). La sua collocazione, nelle sezioni dedicate alle disposizioni generali, suona non soltanto esplicito riconoscimento della validità di tali accordi (problema, del resto, superato) ma anche, e soprattutto, ha lo scopo di individuare la stessa nozione di patti parasociali e la loro possibile incidenza sulla vita sociale (almeno nelle società “aperte”).

Resta il problema dell’efficacia esterna da attribuire ai patti stessi, efficacia che, anche intuitivamente, non può esaurirsi negli effetti meramente obbligatori e circoscritti ai soli patiscenti, già ammessa prima della riforma.

In questa prospettiva, può ancora ricordarsi la nuova disciplina della trasformazione.

La trasformazione diviene istituto di carattere generale, che consente non solo il cambiamento del tipo sociale (con conseguente passaggio dall’uno all’altro modello organizzativo societario), ma anche la modificazione del rapporto sociale in un rapporto diverso. Qualsiasi ente, istituzione od anche stato di comunione di beni può pertanto essere trasformato in società di capitali e viceversa: in altri termini è resa disponibile dall’autonomia negoziale la stessa causa (lucrativa, mutualistica, ideale) per il cui perseguimento la società (o l’ente: associazione, fondazione, comunione di azienda) era stata costituita.

 

6. – Venendo ora più specificamente ai profili della riforma, per quanto riguarda le spa – nel quadro sinora tracciato – una significativa linea di intervento riguarda lo spazio assegnato all’autonomia statutaria ed i suoi conseguenti riflessi.

L’ampliamento dell’autonomia si riflette – come è naturale – in primo luogo sull’organizzazione interna dei rapporti fra i soci, per quanto riguarda la possibilità di «consentire ai soci di regolare l’incidenza delle rispettive partecipazioni sociali sulla base di scelte contrattuali».

L’indicazione è stata percepita – fermo il divieto di emissione di azioni a voto plurimo (eventualità che pur poteva ritenersi consentita) – come affrancamento dell’autonomia privata «dai limiti derivanti dal tradizionale principio della tendenziale corrispondenza e proporzionalità tra conferimenti, da una parte, e diritti patrimoniali e amministrativi dall’altra parte».

In questa prospettiva, mentre appare conciliabile con  l’impostazione della riforma la possibilità di emissione di azioni senza valore nominale, suona invece quasi come innaturale l’affermazione di principio per la quale «ogni azione attribuisce un voto», quando si legga l’elenco di eccezioni e limitazioni che segue l’enunciato principio (potendosi infatti emettere azioni senza diritto di voto, con diritto di voto limitato o subordinato e potendosi attribuire il diritto di voto a terzi non soci, portatori di strumenti finanziari).

 

7. – A fronte di queste innovazioni, la cui utilizzazione può indubitabilmente favorire la separazione fra proprietà e controllo; accrescere o ridurre la leva finanziaria a disposizione del capitale di rischio; introdurre elementi personalistici nella struttura capitalistica dell’impresa si può osservare che il riconoscimento dell’autonomia statutaria non dovrebbe poter andare a scapito del principio dell’uguaglianza contrattuale e della parità di trattamento. Anzi, la correlazione rischio – responsabilità – potere gestorio, modellata sull’uguaglianza intesa come proporzionale attribuzione dei vantaggi e degli svantaggi contrattuali, sembra essere tuttora la regola che meglio riflette «lo spirito del capitalismo» e l’essenza della società di capitali.

Così, peraltro, non pare essere stato nell’attuazione delle linee della riforma.

In via riassuntiva ed esemplificativa si può ricordare che le azioni possono assegnarsi in numero non proporzionale ai conferimenti e non avere valore nominale; possono attribuirsi diritti diversi per quanto riguarda gli utili e per quanto concerne l’incidenza delle perdite; possono attribuirsi diritti correlati ai risultati in un determinato settore dell’attività.

 

8. – Come da altri è stato osservato «aumentare il tasso di autonomia significa» (…) ridurre quello di tipicità «sia funzionale (legata alla causa del contratto, quale definita dall’art. 2247 c.c.) sia organizzativa (legata alle modalità organizzative, che può assumere la comune attività imprenditoriale)».

La scelta del legislatore ha immediati riflessi in materia di finanziamento dell’attività sociale e della limitatezza della responsabilità.

Sotto il primo profilo risulta radicalmente sovvertito il regime precedente, imperniato sulla distinzione fra capitale di rischio e capitale finanziario (o di prestito).

La possibilità di emissione di strumenti finanziari partecipativi propone infatti (per la prima volta) la concorrenza di terzi (non soci) nell’acquisizione dei risultati di gestione tipicamente riservati ai soci nonché nell’esercizio di diritti amministrativi (escluso il voto nell’assemblea generale degli azionisti) agli stessi non meno tipicamente riservati.

Allo stesso modo, la possibilità di costituire «patrimoni separati» (o destinati) ovvero di stipulare «contratti di finanziamento» collegati ad uno specifico affare non soltanto incide per i profili ora detti sui diritti propri dai soci (intesi come diritti scaturenti dal contratto/rapporto sociale) ma crea una «separazione patrimoniale» e una «limitazione di responsabilità» rimesse allo stesso debitore.

L’applicazione della disciplina in materia di patrimoni separati è destinata a dar luogo a non pochi problemi, alcuni dei quali mi limito semplicemente ad elencare:

a) essendo pacifico che il patrimonio può essere costituito con apporti di terzi, è legittimo domandarsi se tale apporto possa essere totale (in tal caso, permanendo la titolarità dell’attività in capo alla società, si avrebbe esercizio di impresa senza rischio proprio; effetto che non pare agevolmente conciliabile con i principi del nostro ordinamento); b) in caso di insolvenza del patrimonio separato o di quello destinato al singolo affare, è da individuarsi il relativo regime al fine di stabilire se, in materia, sia applicabile il regime societario ovvero il regime proprio dell’insolvenza (legge fallimentare).

 

9. – Una seconda linea di intervento (quanto meno sotto il profilo dell’efficienza e della snellezza dell’azione sociale) riguarda misure di snellimento delle procedure e la redistribuzione delle competenze tra gli organi sociali, con tendenza a trasferire dall’assemblea ai più agili e snelli organi amministrativi, (sfruttando anche lo sdoppiamento di questi derivante dall’eventuale adozione del sistema dualistico), un nutrito numero di attribuzioni (approvazione del bilancio; emissione di obbligazioni; ipotesi minori di fusioni e modificazioni dell’atto costitutivo).

Per quanto riguarda le misure di snellimento, fra le altre, si possono ricordare – in materia di assemblea – le nuove formalità per la convocazione, la partecipazione all’assemblea anche avvalendosi di mezzi informatici, l’espressione del diritto di voto anche per corrispondenza.

Alle norme destinate a rendere più agevoli e meno onerosi i processi deliberativi corrispondono regole dirette a garantire la stabilità delle decisioni assunte e degli atti compiuti.

Conseguentemente è stata riscritta la disciplina sulla nullità della società, le cui cause sono ridotte a tre: mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico; oggetto illecito; mancata indicazione nell’atto costitutivo della denominazione, dei conferimenti del capitale e dell’oggetto, nonché ne è stata prevista la generale sanabilità con eliminazione della causa di invalidità.

Soprattutto è stata radicalmente modificata la disciplina dell’invalidità delle deliberazioni assembleari per quanto riguarda sia l’annullabilità sia la nullità delle deliberazioni.

L’azione di annullamento è stata trasformata in azione collettiva, nel senso che l’azione può essere promossa soltanto dai soci assenti dissenzienti ed astenuti purchè gli stessi rappresentino una determinata aliquota del capitale sociale (diversamente determinata a seconda che la società sia fra quelle che si rivolgono al mercato del capitale di rischio o meno); il singolo socio – come tale – può chiedere soltanto il risarcimento del danno direttamente patito.

Discutibile, per le sue intuibili conseguenze, e non certo conforme all’interesse dei soci (primi interessati alla regolarità della gestione sociale), appare la norma che subordina  la prosecuzione del giudizio di impugnazione della delibera alla sussistenza della percentuale del possesso azionario per tutta la durata del processo.

Anche la disciplina dell’azione di nullità ha subito profonde modifiche ed è stata sospinta verso una criticabile assimilazione all’azione di annullamento. Conclusione che trova riscontro nella prescrittibilità dell’azione, nella sanabilità dei vizi, nel regime speciale a cui sono assoggettate le deliberazioni assunte in determinate materie (fra cui approvazione del bilancio, aumento e riduzione del capitale).

 

10. – Sempre per quanto riguarda la struttura organizzativa, massima discrezionalità è riconosciuta ai soci per la scelta del regime di amministrazione.

Al tradizionale sistema “latino”, si affiancano il sistema dualistico (consiglio di gestione e consiglio di sorveglianza) di origine tedesca e quello monistico (consiglio di amministrazione e comitato di controllo per la gestione) più vicino all’esperienza anglosassone.

La nuova disciplina è diretta ad evidenziare come agli accresciuti poteri non solo gestori degli amministratori (ad essi esclusivamente spetta comunque la gestione) debbano corrispondere una più intensa tutela dei soci ed una più incisiva accentuazione dei doveri di correttezza e di informazione. Si è così introdotta un’azione di responsabilità promuovibile da una minoranza qualificata e si è commisurato il grado di diligenza degli amministratori alla natura dell’incarico ricoperto ed alle loro specifiche competenze; si è altresì vietato che essi possano evitare ogni responsabilità a seguito di autorizzazione ricevuta dall’assemblea ovvero rimettendo ai soci decisioni in materia di gestione.

Non altrettanto significative appaiono le innovazioni in materia di controlli (collegio e revisore contabile o società di revisione), la cui disciplina rimane allineata su modelli, della cui efficienza e funzionalità è opportuno riservarsi ogni valutazione.

 

11. – Sotto il titolo di direzione e coordinamento di società, la disciplina novellata introduce il principio della responsabilità della “capogruppo” per violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale nei confronti dei soci della controllata e dei creditori sociali della medesima. E’ la prima risposta, in termini di disciplina positiva, ad un fenomeno economico unitario che, sotto il profilo giuridico, continua ad essere caratterizzato dal fatto che ciascuna società del “gruppo” continua ad essere, rispetto alle altre, autonomo centro di imputazione giuridica e, quindi, autonomo soggetto ai fini della responsabilità.

 

12. – Per quanto riguarda le s.r.l., dalla lettura del testo della riforma discende netta la sensazione di un affrancamento della s.r.l. dal modello della spa. Anzi, la sensazione è che il legislatore abbia appieno condiviso l’orientamento per cui il mancato sviluppo della srl nel nostro paese debba essere ascritto alla sua rigida coincidenza con il modello della spa (come si avvertiva soprattutto nella disciplina delle strutture organizzative e nel trasferimento delle partecipazioni).

Nella s.r.l. il ruolo ascritto all’autonomia statutaria è innanzi tutto diretto a liberalizzare i conferimenti, nel senso che, da un lato, possono essere conferiti tutti gli elementi dell’attivo suscettibili di valutazione economica e, dall’altro, il versamento dei conferimenti in denaro può essere sostituito dalla stipula di fidejussione bancaria o di polizza assicurativa (analoga previsione vale per i conferimenti d’opera o di servizi a favore della società). Anche in queste società rimane la derogabilità del principio di proporzionalità e viene prevista la possibilità di attribuzione ai soci di particolari diritti in materia di gestione e di partecipazione agli utili.

In secondo luogo – ed è certamente l’innovazione più rilevante – all’autonomia statutaria è consentito espungere dalla disciplina tutti i vincoli che non siano diretti alla tutela dei terzi e dei creditori sociali, con conseguente superamento dell’organizzazione corporativa (in questa ottica unico “organo” necessario della società risulta essere l’organo gestorio, nei termini di cui si dirà qui di seguito).

Il modello evolve così, invece che verso le società di capitali, verso il modello delle società personali, con un netto accostamento  alla società in nome collettivo (superamento dell’assemblea; possibilità di impiego del sistema di gestione della s.n.c. ai sensi degli artt. 2257 e 2258 c.c.; ingresso nello statuto di cause di risoluzione del rapporto sociale per recesso ed esclusione).

 

13. – Nella s.r.l. ai caratteri di snellezza e competitività dell’impresa garantiti dalla “personalizzazione” dell’attività di gestione e deliberativa, propria di una concezione che identifica i soci come portatori diretti dell’interesse di imprenditore, corrisponde una previsione di impresa incompatibile con l’investimento di terzi. Di qui il divieto di raccogliere capitale di rischio, anche indirettamente, mediante appello al pubblico risparmio e la possibilità di emettere titoli di debito sottoscrivibili soltanto da investitori qualificati.

Sinteticamente può dirsi che per questo tipo di società la riforma ha perseguito l’obiettivo di consentire l’esercizio dell’impresa secondo le esigenze organizzative dei soci «senza imporre loro la responsabilità illimitata e, in caso di crisi dell’impresa, il fallimento personale».

 

14. – La riforma dell’ordinamento italiano è frutto anche dell’armonizzazione del diritto societario nell’Unione Europea, sicchè gli eventuali adeguamenti che l’applicazione della legge potrà suggerire sono almeno in parte legati all’evoluzione degli indirizzi comunitari in materia. In proposito è appena il caso di ricordare che ha ormai trovato attuazione il modello della società europea, plasmato su quello della società per azioni (o più in generale, della società di capitali) e nel quale la presenza dei lavoratori – in forme diverse, ma orientate a garantire la loro partecipazione nel controllo della gestione – è ormai un dato acquisito.

Al di là dell’esperienza comunitaria, il futuro della società di capitali sembra – allo stato – tracciato all’insegna di un incisivo ruolo attribuito all’autonomia negoziale dei soci nonché del rafforzamento dei poteri attribuiti agli organi di gestione rispetto all’organo deliberativo (assemblea).

In altre parole la crescita dell’impresa – in termini di produttività e di efficienza – pare non poter prescindere sia dalla snellezza dell’organizzazione, garantita dalla possibilità per i soci (azionisti) di adeguare i modelli legislativi alle esigenze di finanziamento e di operatività imposte dal mercato sia dalla compressione dei diritti dei soci di partecipare alla gestione ed al controllo della società.

Al riguardo ci si è domandati se non si debba raffigurare ormai la “nuova” società per azioni, ma discorso non troppo diverso può farsi per le società di capitali in generale, come un qualsiasi modello legale di organizzazione dell’impresa, selezionabile non in funzione dell’accordo dei soci ma in funzione della fruibilità da parte di chiunque (di qui la possibilità della società di capitali unipersonale) di un modello organizzativo per l’esercizio dell’attività economica, che garantisca – attraverso l’attribuzione della personalità giuridica – limitazione di responsabilità per gli investitori e potestà decisionale per gli amministratori (nella spa in via esclusiva).

Una risposta definitiva al quesito così formulato è oggi prematura. Non vi è dubbio che l’attuale disciplina tenga correttamente ferme ancora talune distinzioni – prima fra esse quella fra società che si rivolgono al mercato dei capitali e società “chiuse” – che presuppongono l’intervento della legge a tutela di quei soci (investitori e risparmiatori) che, in quanto portatori di interessi parcellizzati e diffusi, non possono tutelarsi da sé o  possono farlo a costi non ragionevoli.

Da questo punto di vista la disciplina contiene interventi significativi – pur non mancando regole di segno opposto – sia per quanto riguarda i diritti di voice sia quelli di exit (diritti di partecipazione, minoranze di blocco, azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, diritto di recesso). Vero è, però, che queste regole, proprie del trattamento destinato alle minoranze nelle società per azioni aperte, sono divenute in buona parte di generale applicazione così di gran lunga attenuando la distinzione fra società aperte e società chiuse, in cui operano e governano pochi «soci imprenditori», ognuno (ritenuto) custode vigile dei propri interessi e, pertanto non bisognevole di norme specifiche a tutela della sua posizione di socio, ancor quando socio di minoranza  (l’osservazione vale in particolare per il diritto di recesso).

La prospettiva del diritto delle società di capitali può essere allora suggerita proprio da queste ultime considerazioni. Ferma la libertà di chiunque di adottare lo schema organizzativo del tipo sociale ritenuto più rispondente ai propri interessi, appare opportuno che – in tale contesto –  il diritto delle società per azioni rimanga il diritto della grande impresa e, quindi, un complesso di regole idoneo a garantire l’efficienza produttiva dell’impresa peraltro nel rispetto dei diritti di tutti coloro che all’impresa forniscono (in varia veste: investitori, risparmiatori, nuovi finanziatori) le risorse finanziarie  per la sua costituzione e la sua crescita. In quest’ottica – tale pare oggi l’orientamento – alla funzionalità dell’impresa possono anche essere sacrificati l’esercizio dei diritti di intervento e di controllo diretto nella gestione, altrimenti propri dei soci, e le forme di tutela reale che tale esercizio postula (in primo luogo il diritto di impugnativa delle decisioni sociali) a favore di forme di tutela essenzialmente risarcitoria. Tale sacrificio deve peraltro essere compensato da rigide regole di responsabilità nei confronti dei titolari del potere gestorio (primi fra essi gli amministratori), di trasparenza della gestione e, quindi, di informazione completa ed agevolmente accessibile sulle vicende sociali, nonché da assoluto rispetto delle regole del mercato garantito da autorities istituite a tal fine.

All’interno delle garanzie di libertà anzi dette, compito di ogni legge sulle società di capitali è garantire che tanto lo schema organizzativo della spa quanto quello della s.r.l. risultino idonei a consentire l’esercizio dell’impresa, nel rispetto della funzioni essenziali e tipiche, alle quali deve rispondere l’organizzazione dell’impresa capitalistica societaria: la separazione fra il soggetto titolare dell’attività (la società) e chi ad esso da vita (i soci) come conseguenza dell’attribuzione della personalità giuridica e la conseguente separazione – ai fini della limitazione della responsabilità del socio esclusivamente alla quota di capitale sottoscritta – fra il patrimonio sociale ed il patrimonio del singolo socio.

 

 



 

[1] Relazione svolta al convegno China and World: International Summit of Company Law Reform (Pechino, 18 aprile 2006).