N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

Luisa Bussi

Università di Sassari

 

I diritti d’uso pubblico nella dottrina di Flaminio Mancaleoni fra interpretazione e creazione del giurista

 

 

 

Poco più di un secolo ci divide ormai da quando Flaminio Mancaleoni fu chiamato quale professore straordinario di diritto romano nell’Ateneo sassarese.

Da allora la nostra scienza è stata investita da qualcosa di simile a un vento di tempesta. Con un giuoco di parole si potrebbe dire che lo storicismo non ha giovato alle scienze storiche, le quali si sono trovate, come Alice, impigliate nel gioco di specchi di un relativismo di cui l’affinamento stesso della loro metodologia ha contribuito a moltiplicare gli effetti.

E non minore crisi ha attraversato e sta attraversando il mondo del diritto, coinvolto nella profonda trasformazione della società la cui vita è teso a regolare. Secondo le pessimistiche previsioni del Savigny[1], l’aureo sistema della codificazione sembra andato in frantumi[2]. Si sono appannati i lineamenti degli istituti che da molti secoli costituivano, al suo interno, il fondamento del diritto privato (la proprietà, la famiglia), e stiamo assistendo, nello sconcerto generale, allo sfumare interno e internazionale di quella che consideravamo la sua fonte di produzione: la sovranità dello Stato. Sicchè quel tempo, quel tempo a noi vicino, si è fatto già lontano, è divenuto oggetto di storia, si lascia avvicinare attraverso lo stesso filtro metodologico necessario per lo studio di qualunque altro tempo.

A un tale avvicinamento, per la verità, io mi propongo di contribuire nei limiti di un aspetto molto particolare dell’attività dello studioso per ricostruire il cui itinerario scientifico siamo qui riuniti: le servitù d’uso pubblico. Su questo tema è incentrato uno degli ultimi studi di Mancaleoni, comparso negli “Studi sassaresi” del 1923, con il titolo Sulla natura dei diritti d’uso pubblico in relazione ai modi d’acquisto, e visibilmente collegato con una controversia che opponeva ad un privato il comune di Sennori, delle cui ragioni il Mancaleoni fu vittoriosamente avvocato sia in appello che in cassazione.

A dare lo spunto all’articolo è dichiaratamente la pubblicazione dell’ultima monografia del corso di diritto civile del Bianchi[3], ove non si teneva conto dei nuovi orientamenti della suprema Corte in tema di modi d’acquisto dei diritti d’uso pubblico. Di tali nuovi orientamenti il Mancaleoni rivendicava la paternità, per cui si era sentito spinto – come egli scrive – «a esporre, richiudendole in conciso ragionamento» le considerazioni che gli parevano decisive in materia.

Un tale genere di approccio, di per sé, attira subito la nostra attenzione, perchè si lega al delicato rapporto della dottrina con la produzione del diritto. Una produzione che dai trionfi della communis opinio, la serrata dello Stato moderno, suggellata dalla rivoluzione francese, aveva formalmente ridotto al rigido monopolio dello Stato. Quelli di Mancaleoni, erano gli anni di uno Stato garantista e controllore, gli anni della onnipotenza della Legge, arbitro – per definizione neutrale – del vivere civile[4].

Da questo punto di vista, l’apertura dell’articolo è sorprendente: Mancaleoni sembra parlare, invece, di un diritto che va oltre il puro testo della legge, un diritto che abbisogna di una particolare opera maieutica che non si confonde con la sola interpretatio del giudice e che fa già vacillare il primato della statualità.

E’ naturale, a questo punto, essere indotti a rivolgere la nostra attenzione al caso che ha fornito lo spunto allo studio di cui si tratta. Come si è accennato, questo vede opporsi da un lato il comune di Sennori, dall’altro il proprietario di un fondo, sito nel territorio dello stesso Comune, in contrada Crabiolu; fondo nel quale esisteva una fonte, cui da tempo i cittadini del Comune usavano attingere acqua. Il proprietario del fondo aveva cinto con un muro il terreno, incorporando la fonte e impedendo così ai cittadini di usarne. Il Comune di Sennori aveva assunto la difesa del diritto dei suoi cittadini, sostenendo che la fonte era soggetta a servitù d’uso pubblico, e quindi il proprietario del fondo era tenuto a garantirvi l’accesso.

Gli interessi contrapposti si inserivano, come si può intuire, in un contesto spinoso.

Sul piano concreto, il rapporto con il suolo rappresentava ancora, nel nostro Paese (e soprattutto in Sardegna), la più importante fonte di ricchezza. Sul piano del diritto, bisogna tenere conto del fatto che all’epoca della formazione del codice francese, sul quale si modellò il nostro, la risistemazione teorica e normativa della proprietà (che si volle concepire come le pouvoir juridique le plus complet d’une personne sur une chose[5]) trascinò con sé la profonda modificazione dell’istituto delle servitù, che conobbero un drastico dimagrimento. E’ appena il caso di ricordare che l’ancien régime aveva ereditato dall’età di mezzo un ben altro tipo di proprietà: a parte la distinzione fra fondi nobili e fondi plebei, il diritto faceva largo spazio a oneri reali che gravavano i proprietari dei fondi. Ovunque, le popolazioni del contado cercavano di trarre qualche vantaggio dal fondo del signore spigolandovi, cogliendovi erba o legna, o portandovi le greggi a pascolare.

 

Quae consuetudo – scriveva il De Luca – videtur fere universalis per Europam ipsi iuri naturae, seu naturali rationi innixa et quodammodo necessaria ne cives et incolae inermem vitam ducant[6].

 

Questi diritti – che oggi qualifichiamo come usi civici[7] – dalla dottrina di diritto comune erano stati collocati fra le servitù, poiché quella dottrina utilizzava, il più delle volte deformandole, le figurae del diritto romano[8]. Grande però era stato lo sforzo per individuarne la specificità. La scuola del diritto naturale aveva addirittura fatto sorgere una presunzione di esistenza di usi civici, presunzione che aveva contribuito non poco a renderli invisi[9] e a trascinarli nel generale rifiuto di tutto quanto avesse il vecchio sapore del feudalesimo, anche quando ciò si scontrava con le reali esigenze della società[10]. Erano ancora vivi, in Sardegna, i segni lasciati dalla cosiddetta legge delle chiudende[11]. L’odio per qualunque onere reale che gravasse la proprietà affiora ancora nei lavori preparatori del Codice del 1865, perchè la Commissione bocciò con sei voti contro quattro l’art. 633 del progetto Cassinis che ammetteva si potesse stabilire un diritto d’uso a carico di una proprietà privata e a favore di una collettività[12].

La lite per la fonte Crabiolu rimbalzò con una rapidità per oggi purtroppo impensabile (ma per la procedura civile del tempo, domine della lite erano le parti[13]) per vari gradi di giudizio. Il Tribunale rigettò la domanda del Comune, la Corte d’appello l’accolse dichiarando essere la fonte sottoposta all’uso pubblico per prescrizione ultratrentennale. Ma la corte di Cassazione di Roma, nel 1915, ritenne fondate le obiezioni del proprietario del fondo. Quali erano queste obiezioni? A parte alcuni rilievi di specie (non avere il Comune accertato se gli abitanti di Sennori esercitavano la servitù in questione uti singuli o uti cives) esse avevano posto una questione giuridica di indole generale: che il concetto della servitù, come era fornito dal Codice Civile, non si attagliava ai diritti di uso pubblico di una proprietà privata, dal momento che della servitù mancava l’elemento essenziale, il fondo dominante, a meno che non si volesse concepire che il fondo dominante fosse il pubblico. Tali diritti d’uso, a ben vedere, erano dei veri diritti in re aliena: per essi non occorreva il fondo dominante, nè si estinguevano come le servitù personali, giacché interessavano intere popolazioni. Perciò in tali diritti, comunque denominati, doveva ritenersi sempre prevalente il concetto della proprietà privata, mentre d’altro lato, pur non essendo specificamente previsti dal codice, e non trovandosi nella legislazione dei regolamenti speciali, essi dovevano attingere per la loro regolamentazione alla figura giuridica che a loro si avvicinava di più, cioè quella delle servitù prediali. Ma se così era, bisognava tenere conto del fatto che tali diritti d’uso erano discontinui e dunque era inammissibile per essi l’acquisto per prescrizione[14].

Va a questo punto ricordato che, in tema di servitù, il codice civile italiano del 1865 conosceva una partizione teorica e generale fra servitù continue e discontinue (art. 617). Quanto poi alla loro costituzione, l’art. 630 recitava testualmente:

 

Le servitù continue non apparenti e le servitù discontinue, siano o meno apparenti, non possono stabilirsi che mediante un titolo. Il possesso, benché immemorabile, non basta a stabilirle.

 

Le radici della norma risalivano all’art. 691 del Codice Napoleonico[15], recepito poi dall’art. 649 del Codice per gli Stati di S. Maestà il Re di Sardegna[16]. Il secondo comma di quest’ultimo era, nel 1865, divenuto materia dell’art. 21 delle disposizioni transitorie per l’attuazione dello stesso codice civile. Tale articolo stabiliva che le servitù, le quali al giorno dell’attuazione fossero state acquistate col possesso secondo le leggi anteriori, venivano conservate[17]. Questo faceva sì che si discutesse sovente se una servitù discontinua (ad esempio quella di cui si trattava nella causa che ci interessa) fosse o meno stata acquistata prima che il codice civile fosse attuato, e la discussione si faceva particolarmente complessa quando non regnava l’accordo circa l’identità della legge anteriore al codice del 1865.

La regola per distinguere l’una dall’altra categoria veniva vista in ciò: che il contenuto delle servitù continue implicasse sempre uno stato di fatto, mentre quello delle discontinue si esaurisse in una attività del titolare. In sostanza venivano ritenute continue o discontinue le servitù, a seconda che fosse o meno necessario, per il loro esercizio, il fatto attuale dell’uomo[18]. L’argomento, come vedremo, non era nuovo.

La servitù di attingere acqua da una fonte posta in fondo altrui o nel corso perenne che vi trascorra (servitus haustus) era una figura giuridica che discendeva da quel diritto romano di cui Mancaleoni era maestro. L’aquae haustus si distingue dall’acquedotto perchè consiste nel diritto di estrarre acqua dal fondo servente andando ad attingerla[19], così che nell’haustus è compreso l’iter, cioè l’aditus ad fontem[20]. Secondo i romanisti del tempo, tale figura giuridica si doveva ritenere sopraggiunta a lato di quelle che avrebbero rappresentato svolgimenti e concrete applicazioni del primitivo aquaeductus[21]. I problemi sorgevano riguardo alla sua costituzione. Come di norma, anche nelle servitù prediali si distingueva in proposito fra diritto classico e diritto giustinianeo; e nel diritto classico fra fondi italici e fondi provinciali[22]. Ma dei diversi possibili modi di acquisto, l’usucapione era il più problematico. Ammessa, secondo l'opinione oggi dominante, dal diritto più antico proprio per le servitù rustiche[23], era stata poi abolita da una lex scribonia della fine della Repubblica[24]. Alcuni[25] ammettevano che già in epoca classica fosse stato riammesso, ma i testi che ne facevano menzione[26] erano stati contestati proprio in forza di quel metodo interpolazionistico cui Mancaleoni fu uno dei primi ad aderire[27]. Certamente l’usucapione delle servitù tornò in vigore in periodo giustinianeo, perché ad esse venne estesa la praescriptio longi temporis[28].

Il tema – oggi superato[29] – venne molto discusso in dottrina, a partire da Ascoli[30], Bonfante[31], Perozzi[32], Albertario[33]. Minori discussioni suscitava invece ormai, sul piano storiografico, la distinzione fra servitù continue e servitù discontinue[34], che la critica testuale aveva dimostrato non avere le sue radici nel diritto romano.

La partizione, in realtà, era sorta per opera dei giuristi dell’età intermedia. Già Azzone distingue, a proposito del termine necessario per l’usucapione, fra le servitù che hanno continuam causam e le altre[35], e il requisito assume rilievo anche per la Glossa[36], affermandosi particolarmente in forza dell’interpretazione della lex foramen[37]. In realtà, la norma romana richiedeva che la servitù rispondesse ad una causa giuridica suscettibile di durare nel tempo[38]. La distinzione fra servitù continue e discontinue era dunque una creazione del diritto comune che, come si sa, fu un diritto di formazione sapienziale[39]. Stravolgendo le leggi romane per farle seguire ai bisogni di una diversa società, quel diritto ci addita quali fossero tali bisogni, con tanta maggior evidenza quanto più accentuata è la stortura da esso operata rispetto a quelle.

Così se la Glossa alla predetta lex chiarisce che le servitù ivi indicate non habent perpetuam causam cum omnes manu fiant e più avanti precisa quod manu fiat ille usus cuius servitus manu exercetur[40], con Cino da Pistoia la distinzione diviene funzionale ai fini della prescrizione:

 

Quinto quaeritur quanto tempore habeant praescribi servitutes? Breviter distinguo: quaedam sunt servitutes quae habent usum discontinuum, ut est servitus eundi et aquam portandi et tales praescribuntur a tempore a quo non exstat memoria, ut ff de aqua quoti. et aestiv. l. hoc iure § ductus aquae. Quaedam vero sunt quae habent usum continuum, ut est servitus altius non tollendi, et aquam ducendi. Et tales longo tempore praescribuntur, ut 10 ann. inter praesentes, 20 ann. inter absentes, ut infra eo. l. pen. et fin. et de serv. urba. praed. l. foramen[41].

 

E più avanti:

 

Quaedam sunt servitutes quae habent usum continuum ut est servitus altius non tollendi et aquam ducendi. Et tales longo tempore praescribuntur ut 10 ann. inter praesentes, 20 ann. inter absentes...servitus quae habet usum discontinuum tollitur spacio temporis a quo non extat memoria, hoc est centum annorum[42],

 

ma lo stesso Cino avvertiva che la questione era ancora controversa e che lo stesso Jacques de Revigny aveva lasciato il problema insoluto.

E’ soprattutto da Bartolo in poi che la distinzione delle servitù in continuae et apparentes e discontinuae et non apparentes diventa determinante in rapporto al loro modo di acquisto e alla loro perdita.

 

Servitus, quae non habet causam continuam, non potest adquiri tempore et causam continuam non habet omnis servitus, ad cuius usum factum hominis requiritur et damnum, quod ex servitute non iure debita contingit venit in actione damni infecti[43].

 

Bartolo suggerisce anzi una regola pratica per riconoscere quali servitù avessero e quali non avessero causa continua:

 

qualiter autem cognoscens utrum servitutis habeat causam continuam aut non, do tibi regulam infallibilem. Si quidem ad usum servitutis requiratur factum hominis numquam dicitur habere causam continuam; quam homo non potest operari continue. Si vero non requiritur factum hominis dicitur habere causam continuam vel quasi[44].

 

Secondo tale teoria, quindi[45], unicamente le servitù continue erano soggette alla prescrizione acquisitiva di dieci o venti anni (fra presenti o fra assenti) potendosi invece le discontinue acquistare solo con il possesso immemorabile, il quale, come è noto, presenta dei caratteri che lo distinguono nettamente dalla usucapione[46]. Sul punto si era affermata una solida opinio communis. Ancora Gotofredo notava in proposito:

 

Servitutes non habentes perpetuam causam, vel quasi, non usucapiuntur neque praescribuntur nisi tanto tempore cuius non extat memoria[47].

 

Nella dottrina di impronta umanistica, che applicava anche allo studio del diritto gli strumenti offerti dalla critica testuale, la concezione di Azzone e di Bartolo perse, come si può ben capire, terreno. Se Cuiacio avverte: Servitutes non aestimantur ex continuo usu sed ex causa perpetua[48]. Donello[49] parla di vulgaris error, e come lui anche Duareno[50], Pothier[51] e la dottrina successiva ragionano in termini di prescrittibilità di tutte indistintamente le servitù, suscettibili o no di continuo e ininterrotto esercizio di fatto[52].

Ma nei Paesi con una forte impronta del mos italicus si continuò a seguire prevalentemente la dottrina dei giuristi medievali[53] e, con riferimento alla distinzione fra servitù continue e discontinue si affermò che mentre le prime necessitavano della praescriptio longi temporis cui si doveva unire la scientia e patientia del proprietario del fondo servente, le seconde si acquistavano con l’immemorabile; e così pure accadde nell’ambito dell’usus modernus in Germania[54].

Anche nella prassi dei nostri tribunali, la distinzione aveva mantenuto un predominio pressocchè indisturbato, probabilmente perchè a tale soluzione veniva riconosciuto un contenuto di ordine sociale che giustificava tale diverso trattamento. Se il Pecchio[55] manifesta i suoi dubbi circa la sua correttezza teorica, per Cepolla[56], De Luca[57], Capobianco[58], la distinzione era universalmente accolta dalla curia[59]. E d’altra parte, come ci attesta il prezioso Repertorio del Merlin[60], la stessa cosa è da dirsi della prassi dei tribunali francesi. Questi, sia nei paesi di diritto scritto sia in quelli di diritto consuetudinario continuarono generalmente a considerare rilevante la distinzione e a richiedere l’immemorabile per le servitù discontinue.

Si potrebbe dunque pensare che con la sentenza della Corte di Cassazione del 1915 la causa per la fonte Crabiolu fosse decisa, ma così non fu. La sentenza, in realtà, si allontanava dall’orientamento che si andava affermando nella Suprema Corte romana, teso a tornare a dare rilievo, all’interno delle servitù prediali, ai diritti d’uso esercitati da una comunità e ad affermare che si dovesse distinguere questi da quelli che venivano esercitati da un privato[61].

 

«Liberati ormai dal pregiudizio che niuna forma di proprietà collettiva sia utile, dobbiamo invece salvarne le reliquie, ricostituire i demani comunali, educare gli individui al godimento sociale dei beni»;

 

così, nel 1914, scriveva Brugi nelle sue Istituzioni di diritto civile[62].

Fondamentale a tal fine era stata la vertenza che aveva opposto al principe Borghese il popolo di Roma, a proposito dell’uso di quest’ultimo di passeggiare per la Villa Borghese. In una celebre comparsa, poi pubblicata, Pasquale Stanislao Mancini[63], avvocato del Comune di Roma, aveva polverizzato l’obiezione per la quale o si trattava d’uso del passeggio, che non poteva che essere personale - e quindi mancava la necessaria perpetuità - o si trattava di servitù prediale - e quindi mancava la coesistenza dei fondi - avanzando l’idea che si fosse in presenza di un diritto diverso: non si tratta - aveva argomentato il Mancini - di servitù privata, ma del possesso più che notorio di un uso pubblico (a favore della universalità degli abitanti di una città), che è di affatto differente natura, sia che si qualifichi uso civico e diritto reale sui generis, sia che si qualifichi servitù non di diritto privato, ma di utilità pubblica[64].

Pur ammettendo la carenza, nel codice vigente, di norme atte a regolare tale specie di diritti, si era giunti ad affermare che questo ne contemplava però l’esistenza rinvenendovi le pur non frequenti ricorrenze dell’espressione "uso pubblico", e richiamando in vita l’istituto degli usi civici per invocare lo ius civitatis che essi implicavano. Era stato egualmente merito del Mancini l’avere suggerito che la regolamentazione di questa nuova categoria di diritti non andasse cercata nel diritto privato ma nel pubblico.

L’opinione dominante, a questo punto, rispecchiava l’esigenza che simili diritti, nati a favore della cittadinanza per soddisfare così bisogni materiali come anche artistici o culturali, dovessero venire assicurati nella maniera più efficace. Essi venivano qualificati dal Giorgi come usi civici che non consistevano in una partecipazione ai prodotti del fondo, bensì «nella servitù di passo pubblico, nella facoltà di prendere acqua, aria, giocare, passeggiare in qualche fondo privato; nell’accesso pubblico in qualche biblioteca, galleria o museo privato per goderne i tesori artistici che vi stanno rinchiusi»[65].

Il problema era come costituire tali diritti ex novo. Per l’uso di passeggiare per la Villa Borghese del popolo di Roma, il Mancini aveva potuto invocare l’immemorabile. E una parte autorevole della dottrina – capeggiata dal Venezian – negava che gli stessi differissero dalle servitù irregolari, se non per il fatto che queste venivano costituite a favore di una persona singola, quelli invece a favore di persone collettive; mentre il Fadda proponeva una teoria ingegnosa, che attribuiva al complesso degli abitanti di un determinato territorio la qualità di fondo dominante[66].

E’ a queste argomentazioni che Mancaleoni si riconnette per ottenere ragione sia nel giudizio di rinvio (che ha tutta l’aria di aver utilizzato in larga misura le sue suggestioni), sia nella definitiva sentenza della Cassazione a sezioni unite del 1917: egli sostiene qui che le servitù d’uso pubblico costituiscono diritti reali sui generis dettati da speciali contingenze della vita sociale, in armonia con i principi generali del diritto[67]. Ma sostiene inoltre che, in mancanza di norme specifiche, non era dato disciplinare tali servitù altrimenti che valendosi del dettato dell’art. 3 delle disposizioni preliminari del codice civile (del 1865) ricorrendo cioè all’analogia[68]. Una tale analogia, però, andava cercata non già nella norma che vietava l’acquisto per usucapione delle servitù non continue (norma da considerarsi eccezionale) bensì nel principio generale per cui la prescrizione trentennale era riconosciuta come mezzo di acquisto per tutti i diritti tanto reali quanto personali.

Richiamandosi ai “principi generali del diritto” Mancaleoni rinviava a un problema di cui già Brugi aveva denunciato l’attualità, rilevando essere il diritto codificato solo a metà, e, pel rimanente, affidato allo ius receptum (talora ius controversum) e alle analogie di legge. Per supplire alle lacune, il Brugi proponeva di attuare il sogno di Filippo Serafini: servirsi del diritto romano per correggere e completare il Codice civile[69]. Da altri, la soluzione veniva invece intravista nel ricorso all’unitarietà e stabilità dei principi[70]. In effetti, la necessità del rinvio ai principi generali del diritto era nata con le codificazioni, quando ci si era posti, di fronte alla gloriosa tradizione giuridica europea, in un rapporto di riflessione qualificato in senso nazionale e politico. Ma ciò aveva significato al medesimo tempo creare una frattura con quella stessa tradizione, isterilendone la funzione integrativa. A una tale funzione dovevano provvedere ora i “principi”, i quali potevano essere utilizzati per dare regolamentazione a casi cui non corrispondevano norme specifiche. L’espressione, tuttavia, lasciava impregiudicata la definizione del contenuto sostanziale dei principi stessi. Così l’Allgemeines Landrecht prussiano del 1749, § 49 aveva fatto rinvio ai “principi generali accolti nel codice”, mentre l’ABGB del 1811 al § 11 aveva fatto rinvio ai “Principi del diritto naturale”. In questo senso li avrebbe concepiti Giorgio del Vecchio in un suo noto lavoro del 1921[71]. Ma mentre buona parte della dottrina riteneva che un tale diritto naturale si potesse ritrovare nello ius gentium romano[72], la formulazione dell’art. 3 comma 2 delle disp. prel. del codice civile del 1865 rinviava piuttosto al modello prussiano. Tale articolo infatti recitava:

 

Qualora una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del diritto[73].

 

Ma per Mancaleoni era chiaro che l’indicazione di positività connessa al riferimento all’ordinamento giuridico dello Stato non poteva essere letta come rinvio all’insieme disorganizzato delle disposizioni legislative vigenti, ma alla conoscenza complessiva di esse nella sistemazione datane dalla dottrina sulla scorta dell’esperienza.

La sentenza della Cassazione a sezioni unite che seguì[74] riprese questa linea di pensiero e la sviluppò al punto da volgere al contrario le stesse argomentazioni che due anni prima erano state efficacemente usate dalla parte avversa a Mancaleoni: il diritto in esame non poteva classificarsi né fra le servitù prediali nè fra quelle personali, e doveva considerarsi come un diritto autonomo di natura particolare, appartenente in gran parte al diritto pubblico. Perciò era ai «recenti progressi di tale diritto» che si doveva guardare senza cercare di trarre dal diritto privato la disciplina di istituti che appartenevano ad un altro ramo della scienza giuridica. Dunque non poteva applicarsi la regolamentazione delle servitù e in particolare l’art. 630.

Si veniva così delineando una categoria teorica che per la sua natura collettiva serviva, da un lato, a riconoscere ai diritti d’uso pubblico una natura giuridica propria e differenziata rispetto alle servitù prediali, dall’altro ad escludere l’applicabilità di norme a carattere cogente come il già citato art. 630. La giurisprudenza in sostanza andava così riconoscendo che al di là dei rapporti interprivati sussistevano situazioni reali improntate a collettività che perciò solo prescindevano dalle strettoie poste dal diritto moderno agli iura in re aliena.

Sul punto, venne poi ritenuto che la norma di carattere generale che consentiva questo tipo di operazione fosse l’art. 2 (art. 11 del cod. vigente) laddove disponeva che «i comuni ...godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico». Attraverso il richiamo di questa norma veniva ad essere legittimato un principio che era di pura elaborazione giurisprudenziale, un principio secondo il quale le comunità di abitanti acquistano diritti collettivi a carattere reale su beni privati in virtù dell’uso protratto nel tempo (necessario ad usucapire) senza essere soggette alle norme limitative poste dal codice in materia di diritti reali[75].

Nell’articolo pubblicato successivamente, Mancaleoni ribadisce questi concetti: si deve abbandonare l’attribuzione dei diritti d’uso pubblico alla categoria delle servitù personali, giacché si tratta di diritti che escono dalla sfera del diritto privato e, se pure gravano sopra una cosa di proprietà privata, la gravano come una limitazione pubblica[76]. Dunque – egli conclude – si tratta di diritti reali di demanio pubblico su cosa altrui.

Il Mancaleoni contribuiva così insieme al Mancini, al Giorgi, al Ranelletti[77] e altri alla creazione di una categoria giuridica speciale[78], le cui coordinate si distaccano dalle servitù come ne erano stati staccati gli usi civici ormai in via di estinzione, con i quali condivide il carattere collettivo dell’imputazione. Ma mentre gli usi civici hanno ad oggetto il godimento dei frutti o prodotti del fondo sul quale gravano, e non ammettono costituzioni ex novo, gli usi pubblici riguardano solo l’uso del bene, e grazie all’accoglimento della teoria di Mancaleoni possono essere usucapiti[79]. E se la categoria degli usi civici, aveva ormai perso l’interesse della dottrina (se si eccettua il Venezian che le aveva dedicato il discorso inaugurale per l’anno accademico 1887 nella Università di Camerino[80] e, nel 1910, una memoria critica sugli interventi legislativi in progetto[81]), quella degli usi pubblici mostrava una vitalità e una tendenza definitoria straordinarie, tanto da far pensare che fosse proprio a questi modelli che Mancaleoni pensava scrivendo di evoluzione regressiva degli istituti giuridici. Per Mancaleoni l’istituto regressivo è in rapporto dialettico con l’istituto progressivo. «Bisogna – egli scrive – cercare di non confondere gli elementi decadenti e quelli ascendenti soprattutto per valutare l’importanza che essi hanno nella interpretazione analogica e nella estensione della norma come di ius comune o di ius singolare».

Attraverso vicende come queste, la visione borghese di un diritto "neutrale" pura silloge di testi normativi, si frantuma già di fronte alle pressioni dell’esperienza concreta e al riconoscimento del carattere normativo della fattualità filtrata dalla dottrina. Come nota Grossi, «Demitizzati il codice e il diritto romano, resta una sola salvaguardia per l’ordine giuridico, ed è l’interpretazione»[82]. L’interprete si porrà sempre di più come un mediatore fra la legge immobile e la società in corsa, e tenderà a tornare un protagonista.

Di questa funzione il Mancaleoni era acutamente consapevole. Lo si vede chiaramente nella prolusione al corso di diritto romano tenuta a Napoli il 5 febbraio 1920[83], ove al contempo egli accenna alla frattura lasciata dalla guerra appena conclusa, lasciando trasparire timori profetici per l’immediato e più che mai validi ancor oggi:

 

«Gli avvenimenti che hanno sconvolto il mondo hanno pure sconvolto le menti e, nella frattura tellurica della crosta storica delle genti si è perduto il senso della continuità della vita sociale, si è perduta la via larga e si tentano i viottoli per riprendere il cammino dell’Umanità. E i viottoli sono le ideologie e gli apriorismi, le fedi mistiche nelle instaurazioni arbitrarie della giustizia e del diritto, che trascurano i procedimenti storici di adattamento e di modificazione graduale, perchè il presente carico di nebbie fumiganti toglie non solo la conoscenza esatta dello stato attuale, ma ha cancellato la visione del passato, e sembra a moltissimi che il presente sia esso stesso inizio di cose nuove senza precedenti e non continuazione di cose vecchie che si rinnovano e devono rinnovarsi secondo le leggi delle trasformazioni storiche. Ricondurre le menti a queste leggi è togliere le aberrazioni e ridare calma agli animi, riprendere la sicura coscienza di sé e delle condizioni nelle quali si è vissuto, si vive e si vivrà».

 

 



 

[1] Fondatore, come è noto, della scuola storica, Savigny affermava che il diritto non può essere liberamente posto, ma va fondato sulla moralità, la fede, il sentimento, le tendenze intellettuali di ciascun popolo. Pertanto esso si sviluppa organicamente insieme col popolo cui appartiene, la parte essenziale dell’ordinamento dovendo restare di natura consuetudinaria e arbitrio divenendo, di conseguenza, ogni intervento dello Stato sull’articolarsi della struttura sociale, arbitrio suscettibile di conseguenze nefaste sulla sfera della certezza e dell’oggettività. Vedi F.C. Savigny, La vocazione del nostro secolo per la legislazione e la giurisprudenza, Verona 1857, 104-105; ma anche A.F.J. Thibaut-F.C. Savigny, La polemica sulla codificazione (a cura di G. Marini), Napoli 1982, 162. Cfr. FIORAVANTI, Giuristi e costituzione politica nell’ottocento tedesco, Milano 1979, 118.

 

[2] Ha ormai più di un quarto di secolo la monografia di N. IRTI, L’età della decodificazione, Milano 1979.

 

[3] Si tratta del Corso di codice civile italiano di Francesco Saverio BIANCHI, edito dalla UTET, e consistente di nove monografie; l’ultima delle quali, Retroattività delle leggi, di Donato FAGGELLA, pubblicata nel 1922, è quella che il Mancaleoni cita, per contrastarla.

 

[4] Che, però, la consapevolezza della crisi dello Stato liberale già circolasse nella coscienza dei giuristi più sensibili emerge lucidamente dalle pagine di P. GROSSI, Scienza giuridica italiana. Un profilo storico 1860-1950, Milano 2000, 149 ss.

 

[5] C. aubry-C.H. rau, Cours de droit civil français d’après la méthode de Zachariae, II, Paris 1869, §190, 169.

 

[6] J.B. DE LUCA, Theatrum veritatis et iustitiae, l.IV, De servitutibus praedialibus, usufructu et utroque retractu, disc. 37, n. 4, Romae 1669, 98-99. Al tempo stesso era interdetto al signore di chiudere i fondi o procedere alle cosiddette «inforestazioni» allo scopo di escluderne l’uso delle popolazioni locali. In tal senso stava la prammatica napoletana di re Ferdinando (1483), tesa a vietare la chiusura dei terreni e la istituzione di nuove foreste absque nostra concessione: vedi Alfeno Vario, Pragmaticae, edicta, decreta, interdicta regiaeque sanctiones regni neapolitani, Neapoli 1772, IV, prag. I, f. 2 §9.

 

[7] La letteratura in tema di usi civici è assai cospicua. Vedi per tutti U. Petronio, Usi e demani civici fra tradizione storica e dogmatica giuridica, in La proprietà e le proprietà (Atti del Convegno di Pontignano, 30 settembre – 3 ottobre 1985), a cura di E. Cortese, Milano 1988; Idem, voce Usi civici, in Enciclopedia del diritto, XLV (1992), 930 e ss.; L. Bussi, Terre comuni ed usi civici: dalle origini all’alto Medioevo, in Storia del Mezzogiorno, III, Alto medioevo, Napoli 1990; P. Grossi, Un altro modo di possedere, Milano 1977; G. Astuti, Vecchi feticci in tema di usi civici, in La giurisprudenza italiana, CVI (1954); Idem, A proposito di vecchi feticci in tema di usi civici, in L’italia agricola, XII (1955); Idem, Una curiosa polemica a proposito di usi civici, in Rivista di diritto agrario, XXXV (1956), ora (come i primi due) in Idem, Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli 1984; G.I. Cassandro, Storia delle terre comuni e degli usi civici nell’Italia meridionale, Bari 1943, ora in Idem, Lex cum moribus, II, Bari 1994.

 

[8] La Glossa parla in proposito di dominium: vedi gl. et si qua alia a Ist. II.1, ed . Lugduni 1558, 107; altrettanto fa il Commento (vedi Bartolo in D. novi, de acquirenda possessione, ad l. si quis vi, § differentia (D. 41.2.17 n.14), ed. 1537, f. 159 v.; Luca da Penne qualifica invece tali diritti come servitù prediali, avendo riguardo al vantaggio che ne traevano i fondi: vedi Lucae de Penna, In tres posteriores libros codicis Iustiniani, in C. X.10.3, ed. Lugduni 1582, 43a; ulteriori riferimenti in O. von Gierke, Das deutsche Genossenschaftsrecht, Graz 1954, III, 210-211. Per M. Caravale, Ricerche sulle servitù prediali nel Medio Evo, I. L’età romano-barbarica, Milano 1969, 21, i diritti germanici non conoscono le servitù come tali. Certamente in età barbarica, diritto ed esercizio dello stesso si confondono, con prevalenza del secondo sul primo. Così, nella lex Romana Burgundionum, 17.2-3 e nella Lex Romana Raetica Curiensis, 23.23 l’espressione usus si sostituisce, nelle servitù rustiche, sia a servitus sia a jus.

 

[9] Vedi I.F. CAPOBIANCO, Tractatus de iure et officio baronum erga vassallos et burgenses, Neapoli 1711, 279. L’a. riporta la celebre prammatica di Carlo V de baronibus (1535) con cui si stabilì che la difesa o chiusa dei terreni non potesse costituirsi se non quando vi fosse l’assenso di tutti i cittadini e l’approvazione sovrana. La giurisprudenza affermò poi il principio che gli usi civici fossero inalienabili e imprescrittibili. Circa le ripetute violazioni che tuttavia subiva tale principio vedi G. RAFFAGLIO, Diritti promiscui, demani comunali e usi civici, Milano 1905, 54 ss.

 

[10] Nel Regno di Napoli, erano state tali esigenze, nonostante l’eversione della feudalità (che aveva comportato la ripartizione come proprietà privata nonché dei territori feudali anche dei demani promiscui e comunali), e quasi come atto riparatore, a sancire con la legge del 12 dicembre 1816 (art. 188) che le terre demaniali addette all’uso civico avrebbero dovuto essere sempre riservate a tale destinazione. Vedi Raffaglio, op. cit., 103. Ma già il Codice napoleonico (art. 648) aveva stabilito che il proprietario potesse liberarsi dall’onere del compascolo chiudendo i terreni ad esso destinati.

 

[11] L’editto, pubblicato il 4 aprile 1823, era diretto, come asserisce il proemio, a «favorire le chiusure dei terreni principalissimo mezzo d’assicurare ed estendere la proprietà e... promuovere l’agricoltura». Vedilo in C. SOLE, La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, Cagliari 1967, 353-364.

 

[12] «Si può altresì stabilire il diritto di passaggio, nonché quello di attingere o far decorrere l’acqua in un fondo a favore di un Comune, di un villaggio, di una borgata». Vedi Progetto di revisione del codice civile albertino proposto dalla Commissione nominata con decreti del Ministro di grazia e giustizia (Cassinis) in conformità di relazione per esso presentata alla Camera dei Deputati nella tornata del 13 giugno, al senato nella tornata del 21 giugno 1860, s.l. (1860), 24.

 

[13] Vedi L. Mortara, Commentario del Codice e delle Leggi di Procedura civile, III, Milano 1905, 551: «Esso (il sistema processuale vigente) conferisce alle parti la piena facoltà di provvedere all’istruzione della lite e di sottoporla a decisione definitiva quando reputino di aver esaurito tale compito».

 

[14] Vedi Foro italiano, 1915, col. 1128: Veccia (avv.nSechi) contro Comune di Sennori (avv. Mancaleoni).

 

[15] L’articolo 691 del Codice del Regno d’Italia: recitava: «Le servitù continue non apparenti e le servitù discontinue siano o non siano apparenti, non possono stabilirsi che mediante titolo. Il possesso, benchè immemorabile, non basta a stabilirle, senza che però si possano attualmente impugnare le servitù di questa natura acquistate di già col possesso in quei Paesi ove potevano in tal modo acquistarsi». In ciò, il dettato della tradizione francese era molto diverso dal codice austriaco. Questo ammetteva (§ 480): «Il titolo di servitù si fonda nel contratto, nella disposizione di ultime volontà, o nella sentenza di un giudice pronunziata sulla divisione di un fondo comune, o finalmente nella prescrizione». G. Basevi, Annotazioni pratiche al codice civile austriaco, Milano 1852, 175, nota come il Codice austriaco non parli di quella specie di servitù legale che dipende dalla situazione dei luoghi (defluenza naturale delle acque dai fondi superiori agli inferiori): «E da che in questo paragrafo si dice che il titolo della servitù si fonda nella prescrizione, ciò induce a credere che siasi voluto mantenere la massima del diritto comune, escludendo la necessità del titolo per l’intrinseca ragione che l’esercizio di una servitù non concessa né da contratto né da sentenza, si fonda piuttosto nella perdita fatta dal proprietario di parte del suo dominio, che nell’acquisto che se ne sia da altri fatto».

 

[16] «Le servitù continue non apparenti e le servitù discontinue, siano o non siano apparenti, non possono stabilirsi che mediante un titolo. Nulla dimeno le servitù di passaggio per servizio di certi determinati fondi possono anche acquistarsi col possesso di trent’anni, purchè non possa tale passaggio rivelarsi abusivo; e sarà considerato abusivo sempre che esista altro passaggio sufficiente per servizio degli stessi fondi. Quanto alle altre, il possesso, benchè immemorabile, non basta a stabilirle, senza che però si possano impugnare le servitù di questa natura, acquistate di già col possesso».

 

[17] Dunque era con tali leggi anteriori che doveva fare i conti l’eventuale usucapione, a meno che la fattispecie non ricadesse nell’art. 542 c.c.: «Il proprietario della sorgente non può deviarne il corso quando la medesima somministri agli abitanti di un comune o di una frazione di esso l’acqua che è loro necessaria: ma se gli abitanti non ne hanno acquistato l’uso, o non l’hanno in forza di prescrizione, il proprietario ha diritto ad una indennità» I codici francese, napoletano, albertino ed estense avevano stabilito negli stessi termini.

 

[18] Cfr. L.V. BERLIRI, Sulla distinzione delle servitù in continue e discontinue, in Archivio giuridico CVI, fasc. II, (IV serie 22, fasc. II); e CVII, fasc. I (IV serie, 23, fasc. I), 99 dell’estr. Nelle conclusioni del suo studio, l’a. inoltre notava che: «L’essenza, il criterio discriminante, della distinzione fra servitù continue e discontinue sta nella suscettibilità o meno di esercizio ininterrotto. La ragione del differente regime giuridico delle due categorie sta nella rispettiva continuità o discontinuità del peso imposto al fondo servente, con la conseguente maggior probabilità di aderenze del fatto al diritto nel primo caso e non nel secondo» (il corsivo è nel testo).

 

[19] Ancora in periodo tardo repubblicano e classico sembra che si conoscesse una configurazione alternativa per il diritto di attingere acqua su fondo altrui: cioè il proprietario del fondo dominante sarebbe stato anche proprietario della fonte. Vedi M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 456.

 

[20] D. VIII.3.3.3; Vedi C. Ferrini, Manuale di Pandette, Milano 1900, 489.

 

[21] Così E. Costa, Storia del diritto romano privato. Dalle origini alle compilazioni giustinianee, Torino 1925, 244: gli interdetti de fonte o de fonte reficiendo proteggevano la servitù di aquae haustus come quella pecoris adpulsus con la connessa facoltà di riattare e ripulire il fons, lacus, puteus, piscina. In tal senso (Ulp.) D. 43.22.1.

 

[22] Per il diritto classico, le servitù sui fondi italici si costituivano iure civili, mediante mancipatio (se rustiche) e mediante in iure cessio (tanto se rustiche, quanto se urbane); inoltre, iure pretorio si costituivano mediante quasi traditio ex iusta causa. Esse si potevano costituire anche: mediante deductio nell’atto in cui mancipatione, vel in iure cessione venisse alienato il fondo sul quale si volevano costituire; mediante legatum per vindicationem; mediante aggiudicazione per usucapione. Sui fondi provinciali, come non si poteva acquistare un vero e proprio dominio, così neppure si potevano costituire vere e proprie servitù. Pertanto, a tale scopo, si utilizzavano espedienti indiretti come un patto rafforzato dalla stipulatio poenae; in seguito dovette essere utilizzata anche qui la quasi traditio. Vedi G. Pacchioni, Corso di diritto romano, Torino 1920, II, 456.

 

[23] Ma lo sarebbe stata invece per le urbane per A. Corbino, voce Servitù (dir. rom.), in Enc. del diritto, 42, 251; cfr. Tomulescu, Sur la loi Scribonia de usucapione servitutum, in RIDA, 1970, XVII, 330 e ss. Non si pronuncia Talamanca, op. cit., 465.

 

[24] Vedi A. Ascoli, La usucapione delle servitù nel diritto romano, in Archivio giuridico 38, 1887, 16. La legge è di data incerta. Secondo Talamanca, op. cit., 468, sarebbe del 50 a.C. Ce ne dà notizia proprio Cicerone (Pro Caecina, 26). Sulla ratio della lex Scribonia vedi D. 8.1.14: Servitutes praediorum rusticorum etiamsi corporibus accedunt, incorporales tamen sunt et ideo usu non capiuntur: vel ideo quia tales sunt servitutes ut non habeant certam continuamque possessionem: nemo enim tam perpetuo, tam continenter ire potest, ut nullo momento possessio eius interpellari videatur, idem et in servitutibus praediorum urbanorum observatur. Cfr. D. 41.3.4.28.

 

[25] G. Pacchioni, Corso, cit., 457. L’Ascoli (op. cit., 51 e segg.), ad esempio, sembra propendere per la classicità della praescriptio. A sostegno della propria tesi, egli richiama C. III.34.2 che parla di servitus tempore quaesita e D. 8.5.10 che sembra decisamente riferirsi ad uno ius aquae acquistato diuturno usu et quasi longa possessione. Quest’ultima lex (un passo di Ulpiano) recita: Si quis diuturno usu et quasi longa possessione ius aquae ducendae nactus sit, non est ei necesse docere de iure quo aqua constituta est, veluti ex legato, vel alio modo, sed utilem habet actionem, ut ostendat per annos forte tot usum se non vi non clam non precario possedisse. Agi autem hac actione poterit non tantum cum eo, in cuius agro aqua oritur, vel per cuius fundum ducitur, verum etiam cum omnibus agi poterit, quicumque aquam non ducere impediunt, exemplo ceterarum servitutum et generaliter quicumque aquam ducere impediat, hac actione cum eo experiri potero. Vedi P. Bonfante, La praescriptio longi temporis delle servitù, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, XVI, 1893, 177, ora in Id., Scritti giuridici vari, II, 956 ss.

 

[26] D. 8.5.10; C. III.34.1-2; D. 39.3.2.3-5-8; D. 43.20.3.4.

 

[27] Nonché a contribuirvi: vedi Mancaleoni, Contributo allo studio delle interpolazioni, in Il Filangieri, 2, 1901, ove studia l’uso del termine pecunia al plurale.

 

[28] Come l’Albertario, S. Perozzi, Scritti giuridici vari, II, 956 ss., considerava l’istituto della praescriptio longi temporis, applicato alla servitù, come un istituto di origine giustinianea, al pari della quasi possessio e della quasi traditio. Secondo Perozzi, laddove la giurisprudenza classica non ammetteva usucapione di servitù, e soltanto riteneva che il lungo esercizio (vetustas) facesse prova che la servitù era stata validamente costituita, Giustiniano ammise la prescrizione acquisitiva. Il Bonfante (op. loc. cit.) si trova d’accordo con il Perozzi e con l’Albertario nel ritenere che la praescriptio longi temporis sia, per la servitù, un istituto che non esisteva nel diritto classico. Egli, tuttavia considera in massima parte genuini i testi che i due studiosi consideravano interpolati, e vede in essi un embrionale precedente, che sarebbe consistito nell’applicare la vetustas all’acquedotto e nel concedere una actio utilis a chiunque avesse posseduto una servitù per lungo tempo nec vi nec clam nec precario.

 

[29] Vedi Corbino, voce Servitù, cit., 258.

 

[30] Ascoli, op. cit., 51 ss.

 

[31] Bonfante, op. cit., 956 ss.

 

[32] S. Perozzi, I modi pretori di acquisto delle servitù, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 23.I, 1897.

 

[33] E. Albertario, La protezione pretoria delle servitù romane, in Il Filangieri, 37, 1912, 207.

 

[34] In particolare, Ascoli, op. cit., 58 ss., dimostra l’infondatezza della relazione fra usucapione della servitù e natura discontinua e continua delle stesse.

 

[35] Azzone, Summa codicis, a C. III, De servitutibus, 34.3, ed. Augustae Taurinorum 1966, 232: Sed videtur contra ff eo.servitutes praediorum et ideo quidam glossaverunt longi id est longissimi, hoc est eius cuius non extat memoria: ut ff. de aqua pluvia arcenda l. 1 § ult. et l. 2 § antepenultimo. Vel inhaerens verbo intellige de longo tempo X vel XX ann. et dic quod praedicte leges locum habent in servitute quae non habent continuam causam, ut in itinere et similibus. Anche più avanti, precisando che la scientia domini est necessaria in usucapienda servitute, Azzone, alla possibile obiezione posta da ff de aqua cot. et aestiva, ribatte: sed hic loquitur quando duxit de possessionem privati: aliud si de fonte publico, vel ibi non ducebatur aqua continuo et ita non habet continuam causam quia si haberet sufficeret longum.

 

[36] Vedi gl. quaesisti a C. III.34.2, ed. Lugduni 1604, col. 651. La Glossa riprende le argomentazioni di Azzone: il requisito della causa perpetua è quello che consente l’usucapione decennale – fra presenti – o ventennale – fra assenti; in assenza di tale requisito si richiede l’immemorabile.

 

[37] La distinzione sembrava venir fuori da D. VIII.2.28: (Paulus, libro quinto decimo ad Sabinum) Foramen in imo pariete conclavis vel triclinii quod esset proluendi pavimenti causa, id neque flumen esse, neque tempore adquiri placuit. Hoc ita verum est, si in eum locum nihil ex coelo aquae veniat. Neque enim perpetuam causam habet quod manu fit: at quod ex coelo cadit et si non adsidue fit, ex naturali tamen causa fit et ideo perpetuo fieri existimatur. Omnes autem servitutes praediorum perpetuas causas habere debent: et ideo neque ex lacu neque ex stagno concedi aquae ductus potest. Stillicidii quoque immitendi, neturalis et perpetua causa esse debet. Per S. PEROZZI, Istituzioni di diritto romano, I, Roma 1928, 767, il passo andava interpretato nel senso che non si potesse derivare acqua che da una fonte viva, cioè alimentata da sorgente. Un’acqua simile i Romani avrebbero chiamato perennis, dicendo di essa che habet perpetuam causam, ossia che ha carattere perenne. Quindi si poteva condurre acqua da un fiume o da un lago perenne, non da un torrente o da una cisterna. Tale a. riteneva dovesse essere sciolto così un requisito che non si sapeva come interpretare per renderlo consentaneo alle fonti.

 

[38] A. Burdese, Gli istituti del diritto privato romano, Torino 1962, 265.

 

[39] E. BUSSI, Lineamenti di un sistema del diritto comune, Milano 1949, 52; ma vedi anche, dello stesso a., Intorno al concetto di diritto comune, Milano 1935, 35. La visione del diritto comune quale “diritto senza Stato” è stato ultimamente sostenuta da in P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Bari 1995, 151 ss.

 

[40] Vedi la glossa Fit in D. VIII.2.27, ed. Venetiis 1584, 991. Ma anche la glossa Forte in D. 8.5.10 (ed. cit., 1035) precisava: Sed quod? Responde X inter praesentes, et XX inter absentes, exemplo rerum immobilium ut C de servitutibus et aqua l. 2 (C. III.34.2) habet enim perpetuam causam ut supra de servitutibus urb. praed. l. foramen § fin (D. VIII.2.28). Alii dicunt: tanto tempore quod non extet memoria: ut argu. infra de aqua plu. arcenda l. 1 § pen. (D. 39.3.1.23). Sed prima verior est. Item contrainfra de aqua quot. et aest. l. hoc jure § ductus (D. 43.20.3). Sed ibi in ea quae non habet perpetuam causam: et hic sic. Vel ibi in ea quae ex flumine publico: hic ex loco privato.

 

[41] Cino da Pistoia, In codicem et aliquot titulos primi pandectarum tomi id est digesti veteris commentaria, ad l. si quas (C. III.34.1) ed Francofurti ad Moenium 1578 = Torino 1964, 175.

 

[42] Cino da Pistoia, ad l. si aquam, (C. III.34.2), ed. cit., 175-176.

 

[43] BartolO, Prima in digestum vetus commentaria, ad l. foramen (D. VIII.2.28), ed. Lugduni 1555, 228. Vedi pure, dello stesso Bartolo, il commento alla l. si quas (C. III.2), ed. Roma 1966, VII, 127: Servitus quae habet causam continuam acquiritur longo tempore nisi fuerit interrupta... In his ergo qui causam continuam non habent non currit praescriptio nisi eius temporis cuius initio memoria non existit, ut d. §ductus aquae. Sed contra hac opponitur omnis actio praescribitur 30 vel 40 annis lex sicut et l. cum notissimi de praescriptio triginta annorum. Si igitur negatoria tollitur 30 annis, ergo 30 annorum requiritur servitus. In effectu glossa dat duas solutiones, ista est vera...quia ad hoc ut praescribatur servitus quaeritur quasi possessio servitutis sed ista quasi possessio nihil aliud est quam adversarii patientia, ut l. pen. ff eo. haec atque patientia non potest esse nisi duobus concurrentibus quod ego utar et ipse sciat. Merito scientia requiritur.

 

[44] Bartolo, ad l. 2, C. 3, 34, nn. 3, 4. In tema vedi E. Bussi, La formazione dei dogmi di diritto privato nel diritto comune, Padova 1937, 115.

 

[45] Quaero quottuplex est dominium...scilicet duo sunt... et probo per l. 1 in fine supra de aqua pluvia arcenda ubi per usucapione acquiritur utilis servitus eadem ratione sicut ponimus servitutem directam et utilem. Vedi Bartolo, In D. novi, de acquirenda possessione, ad l. Si quis vi, § Differentia, (D. 41.2.17 n. 14), ed. 1537, fol. 159 v.

 

[46] Sul punto si espresse, insieme al Bensa, proprio quello che viene ritenuto fra i maestri di Mancaleoni. Vedi Fadda, Note alle Pandette del Windscheid, vol. IV, note ss , tt al libro II, rist. Torino 1926, 681.

 

[47] Vedi Gotofredo, in D.8,1,14, ed. Lugduni 1612, 975.

 

[48] Cuiacio, In tit. II de servitutibus, l. VIII Digestorum, ad l. XXVIII, ed. Prati 1860, III, col. 314.

 

[49] Vedi Hugoni Donelli, Opera omnia commentariorum, III, Maceratae 1829, 333: De usucapione servitutum. Non aliquas tantum, ex his usucapi posse, sed omnes tam rusticorum praediorum quam urbanorum. Et refutatus hic vulgaris error dividentium servitutes in continuas et discontinuas: in illis usucapionem recipientium, in his repudiantium. Omnes servitutes continuas possessionem habere; omnes pariter usucapi.

 

[50] Vedi Francisci duareni, Opera omnia, Lucae 1765, I, 346.

 

[51] Trattato de’ feudi, I, 4, 1.

 

[52] Per le vicende della tanto discussa distinzione vedi L.V. Berliri, Sulla distinzione delle servitù in continue e discontinue, in Archivio Giuridico, 106-107, 1931. Si era venuto così chiarendo che era lo stesso fondamento logico posto a sostegno della distinzione a non essere adatto a sostenerla. Come si poteva, infatti, ammettere che soltanto nelle servitù continue la causa fosse continua, se il possesso retinetur solo animo? Così acutamente W. BIGIAVI in una nota a sentenza in tema di Servitù discontinue negli Stati ex pontifici e possesso immemorabile, in Il Foro Italiano, LXI, 1936, fasc. IV.

 

[53] Vedi H. COING, Europäisches Privatrecht, München 1989, II, 316.

 

[54] La dottrina dell’usus modernus in Germania presenta caratteri peculiari tanto che si parla di servitus iuris germanici. Questa dottrina elaborò una concezione più duttile della categoria delle servitù prediali, ricomprendendovi figure come il dir. di pesca e di caccia su fondo altrui, praticati per via consuetudinaria. Vedi A. Mazzacane, Scienza logica e ideologia nella giurisprudenza tedesca del sec. XVI, Milano 1971, 112 n. 45.

 

[55] F.M. PECCHI (1618-93), Tractatus de servitutibus, Florentiae 1839: l’a. riguarda il problema nell’ottica umanistica del ritorno alle fonti nel loro significato genuino, e pertanto lega la distinzione fra servitù all’uso che può essere continuo o discontinuo. Vedi op. cit., q. XV, n. 81, 66. Anche altrove il Pecchi parla di falsa distinctio continuarum et discontinuarum servitutum, che sarebbe stata in uso, sostenendo di essere contrariae sententiae servitutes non dici continuas vel discontinuas ab illarum exercitio, sed a sua causa, a qua dependent.

 

[56] Per la prescrizione acquisitiva, il Cepolla riteneva necessari l’animus, la bona fides (non necessaria in caso di longissimus tempus); il decorso del tempo (qui interveniva la distinzione fra servitù continue e discontinue) la scientia e la patientia del titolare del fondo serviente e infine la proprietà del fondo dominante. Vedi B. CEPOLLA, Tractatus de servitutibus tam urbanorum quam rusticorum praediorum, Coloniae Allobrogum 1794, cap. XX, 192-194.

 

[57] De Luca, Theatrum, cit., 82 (Romana putei pro ducissa laterae Sabella Farnesia cum Paulo Maccarano): ...magis communem et in Curia receptam opinionem esse, huiusmodi servitutes habentes causam discontinuam, potissime vero ubi actus de sui natura ad jus precarium seu facultativum referri potest, exigere praescriptionem immemorabilem iuxta plene deducta decisio 101 par. 4 rec. tom.2 canonizata in Romana servitutis 29 Ianuarii 1666 coram Cerro, et de qua causa habetur supra disc. 33; nel disc. 33 (Mutinensis aquae haustus) ancora una volta De Luca ribadisce: Quod servitus habens causam discontinuam exigat tempus immemorabile: Vel quod in omnem eventum, tamquam in servitute, habente causam discontinuam quia nemo potest diu noctuque ac semper aquam haurire, requiruntur praescriptio immemorabilis, iuxta magis communem opinionem quam etiam sequitur Rota, reassumendo in hoc quaestionem ab alto, atque cum magno cumulo allegationum, referendo auctoritates pro utraque opinione, atque tam ob auctoritatum numerum, quam ob rationes, summo studio probare curando hanc esse magis communem et veram, itaut cuilibet parum experto tale responsum inspicienti, illud videntur nimium doctum et elaboratum, ibidem 85.

 

[58] Capobianco, Tractatus, cit., 280 n. 37.

 

[59] Berliri, op. cit., 30 ss.

 

[60] Vedi P.A. Merlin, Dizionario Universale, ossia repertorio ragionato di giurisprudenza e questioni di diritto, tr. it. F. Carillo, Venezia 1842, XIII, 187.

 

[61] La giurisprudenza aveva cioè cominciato a sostenere che quando il codice parlava di servitù stabilite per pubblica utilità (art. 533), affidandole a speciali leggi e regolamenti, non intendeva riferirsi alle sole servitù legali, ma anche a quei diritti d’uso pubblico menzionati in speciali leggi e regolamenti, e che la servitù contemplata nell’art. 542 era da considerarsi uno di questi diritti: allorché tale norma limita il diritto del proprietario d’una sorgente che somministra l’acqua agli abitanti di un Comune o di una frazione e vieta che egli ne possa deviare il corso. Vedi. Cass. Firenze, 1 marzo 1917, in Foro italiano, I, 1, col. 655.

 

[62] B. BRUGI, Istituzioni di diritto civile italiano, Milano 1914, 287.

 

[63] Vedi P.S. Mancini, Il diritto del popolo romano sulla Villa Borghese in giudizio di reintegrazione in grado di appello, Roma 1885. La causa viene ricordata anche da E. Conte, Intorno a Mosè. Appunti sulla proprietà ecclesiastica prima e dopo l’età del diritto comune, in A Ennio Cortese, I, Roma 2001, 359.

 

[64] Ivi, 35.

 

[65] G. Giorgi, La dottrina delle persone giuridiche e corpi morali esposta con speciale considerazione del diritto moderno italiano, 2a ed., Firenze 1900, 263.

 

[66] C. Fadda, Servitù, Napoli 1914, 54-55.

 

[67] La sentenza ricorda come nel Progetto Cassinis fra i componenti la Commissione di coordinamento del codice civile si fosse disputato se si dovesse mantenere l’art. 33 del progetto, che accordava il diritto di passaggio e di condurre o attingere acqua su fondo privato a favore di un comune, di un villaggio o di una borgata. Secondo Mancaleoni la Commissione avrebbe votato con sei voti contro quattro la soppressione dell’art. 633 del progetto Cassinis per il Codice civile, «sul riflesso che quest’articolo accenna ad una vera servitù prediale, la quale si potrebbe perciò stabilire senza che occorra un apposito articolo». Vedi F. Mancaleoni, Sulla natura, cit., 5.

 

[68] L’art. 3 del c.c. del 1865 disponeva: «Nell’applicare la legge non si può attribuirle altro senso che quello fatto palese dal proprio significato delle parole secondo la connessione di esse e dalla intenzione del legislatore.

Qualora una controversia non si possa decidere con una precisa disposizione di legge, si avrà riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe: ove il caso rimanga tuttavia dubbio, si deciderà secondo i principi generali del diritto».

 

[69] B. Brugi, Diritto romano classico, diritto giustinianeo, diritto romano comune, in Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, 1904.

 

[70] La critica sociale aveva capovolto le certezze offerte dal codice: già a partire dagli anni ottanta il nuovo codice era dichiarato vecchio. Su ciò G. Cazzetta, Critiche sociali al codice e crisi del modello ottocentesco di unità del diritto, in Codici. Una riflessione di fine millennio, Milano 2002, 323.

 

[71] G. Del Vecchio, Sui principi generali del diritto, ora in Studi sul diritto, I, Milano 1958, 210. Che la tesi fosse in dissonanza con le posizioni della prevalente dottrina viene rilevato da P. Grossi, Scienza giuridica, cit., 135.

 

[72] Su ciò S. Schipani, Principia iuris potissima pars principium est. Principi generali del diritto. Schede sulla formazione di un concetto, in Nozione, formazione e interpretazione del diritto dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, III, Napoli 1997, 660.

 

[73] La materia è divenuta oggetto della previsione normativa dell’art. 12 del codice attuale. Benchè nell’avvento della Costituzione repubblicana si sia visto il ridimensionato di tale problema (vedi S. Bartole, voce Principi del diritto (dir. cost.), in Enciclopedia del diritto, xxxv, 502), i “principi generali” sembrano indicare un rinvio ai principi stessi d’organizzazione dell’ordinamento o a elementi che caratterizzano l’ordinamento stesso (vedi G. GAIA, Principi del diritto (dir. internaz.), in Enciclopedia del diritto, XXXV, 533). Sicché la previsione dell’art. 12 potrebbe intendersi estesa ai cosiddetti principi istituzionali cioè a quelli rivelatisi attraverso la concreta configurazione e maniera d’essere delle singole istituzioni e dello Stato medesimo.

 

[74] Cass. Roma (Sez. Un.), 14 aprile 1917, in Foro italiano, I, 1, col. 751.

 

[75] In tema vedi P.S. Mancini, Del diritto d’uso pubblico del comune e del popolo di Roma sulla Villa Borghese, in Il Filangieri, 1886, I, 1, 49, 119; M. D’Amelio, Servitù pubbliche, I, Servitù amministrative, in Digesto Italiano, XXI, pt. III, sez. I, 1895-1902; Beneduce, I diritti d’uso pubblico, Napoli 1905.

 

[76] F. Mancaleoni, Sulla natura, cit., 9.

 

[77] Ranelletti, Concetto, natura e limiti del demanio pubblico, in Giurisprudenza italiana, 1897, IV, 325 e seg., 1898, IV, 113 e seg.

 

[78] Su cui vedi V. Cerulli Irelli, Proprietà pubblica e diritti collettivi, Padova 1983, 169.

 

[79] V. Cerulli Irelli, voce Uso pubblico, in Enciclopedia del diritto, xlv, 959.

 

[80] G. Venezian, Reliquie della proprietà collettiva in Italia. Discorso letto il giorno 20 novembre 1887 per l’inaugurazione degli studi nella Università di Camerino, ora in Opere giuridiche, II, Studi sui diritti reali e sulle trascrizioni, le successioni, la famiglia, Roma 1930. Tema ereticale e dissacrante lo definisce, in rapporto allo spirito dell’epoca P. GROSSI, Scienza giuridica, cit., 27. Sul Venezian vedi anche, dello stesso a., La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Milano 2002, 34.

 

[81] G. Venezian, Del disegno di legge sugli usi civici e sui domini collettivi, Bologna 1910.

 

[82] P. GROSSI, Scienza giuridica, cit., 18.

 

[83] Si tratta di F. Mancaleoni, L’evoluzione regressiva negli istituti giuridici, in Studi sassaresi, II serie, I, 1921, 1 (dell’estr.).