N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

Francesco Paolo Casavola

Presidente emerito della Corte Costituzionale italiana

 

Mommsen nella romanistica italiana

 

 

 

 

 

Or sono cento anni, il 1° novembre 1903, Teodoro Mommsen moriva. Appena dieci mesi dopo, nel settembre 1904, usciva per i tipi della casa editrice milanese di Francesco Vallardi, la traduzione italiana del Disegno del diritto pubblico romano[1], curata da Pietro Bonfante, allora professore nell’Università di Pavia. Il Disegno è opera di sintesi della monumentale trattazione del Römisches Staatsrecht[2] edito per la prima volta nell’aprile del 1876, per la seconda nell’agosto del 1887. Indugiamo in questa cronologia per sottolineare che l’Abriss des römischen Staatsrechts[3] esce nel maggio 1893, quando il suo autore aveva 76 anni, e a lui consigliata, come egli si esprime nella prefazione, da «persona autorevole» desiderosa di un’opera che «bastasse ai giuristi, che non sono in pari tempo filologi».

«Opera senza pretese», la dichiara il Mommsen, «magro riassunto», eccezione alla regola che non si deve dare al pubblico «asserzioni discompagnate da prova», giustificata dal fatto che nel suo caso per le prove si poteva rinviare ad opera più ampia, cioè al Römisches Staatsrecht.

Ma nelle ultime battute della breve prefazione Mommsen rivela che si è giovato «della brevità imposta da questo compendio» per dare risalto al «nesso sistematico» dei cinque libri in cui raccoglie popolo, Stato, magistrati, comizi e senato, più di quanto non gli fosse stato possibile nell’opera maggiore dominata dall’apparato filologico.

La distanza di oltre un quarto di secolo tra la Staatsrecht e l’Abriss rivela una nascita in Mommsen di quell’intelligenza sistematrice ch’egli riteneva propria del giurista e peculiare della vocazione sua al diritto più che alla filologia e alla storia. Egli rifletteva nelle vicende personali il travaglio della cultura accademica germanica che aveva tenuto separate discipline filologiche e storiche e giuridiche, che aveva isolato epigrafia e numismatica rispetto alla storiografia. E anche tra i giuristi, la separazione tra diritto privato e diritto pubblico aveva lasciato a quello la scienza e conservato questo nell’erudizione antiquaria. Nel discorso per il cinquantesimo anniversario della sua laurea, Mommsen si riconosce il merito di avere abbattuto questi innaturali confini. Nel comporre diritto e storia, dominando egli da sovrano l’immenso territorio delle fonti antiche, non ebbe alcuno nel suo secolo che potesse essergli pari. E tuttavia Julius Beloch, Gaetano de Sanctis e Vittorio Scialoja gli riconoscevano un primato del giurista sullo storico, perché la costruzione di categorie e di concetti comprensivi lo attraeva più che non la osservazione del divenire dei processi storici. Anche Pietro Bonfante, nella prefazione alla sua traduzione dell’Abriss, definisce Mommsen «giurista nell’anima». A quel giurista Bonfante riconosce il merito di avere superato la dicotomia di diritto pubblico e privato, ma rimprovera la inclinazione «a sviluppare invece l’antitesi tra il diritto dello Stato e il diritto del singolo». Sfugge a Bonfante la radice ideologica di quell’antitesi, che si nasconde nelle vicende del liberalismo e del costituzionalismo tedesco, di cui Mommsen era stato fin dalla giovinezza un promotore militante. L’antitesi stato-individuo, che nel Disegno avrebbe condotto lo storico a separare la natura delle famiglie e delle genti da quella della città, era una proiezione nel remoto passato di Roma della complessa dialettica dell’avanzante civiltà liberale nell’Europa ottocentesca tra mondo dei privati e mondo dello Stato. Bonfante ha di mira soltanto la costruzione mommseniana delle strutture originarie di Roma, opposta alla sua propria concezione «politica» della famiglia romana, fondata non solo sul vincolo di sangue, ma sulla soggezione a un’autorità che ha scopi d’ordine e di difesa, e dunque su un vincolo politico. Con ciò riconoscendo una identità di natura a famiglia, gens e Stato. Malgrado il rispetto del traduttore per il testo dell’autore, Bonfante si consente, e lo preannuncia nella prefazione, note assai critiche «rare e succinte là dove era sfuggita all’autore qualche proposizione poco felice che poteva trarre in abbaglio, e là dove per altri motivi la sua visione in un dato rapporto [mi] parve assolutamente errata»[4].

Proviamo ad esaminare alcune di queste note che valgano a cogliere almeno qualche profilo della ricezione di Mommsen in Italia.

Mommsen fondava la famiglia romana sul vincolo di sangue giuridicizzato nel matrimonio. L’acquisto della potestas del padre su tutti i componenti della famiglia era nient’altro che manifestazione della proprietà. Tra i vari argomenti, Mommsen impiega anche quello della assoluta subordinazione della donna, non mitigata ma indurita nel corso del tempo fino a quando l’influenza della vita ellenica nel tardo Impero non si fece valere anche in questo campo. Mommsen è qui contestato da Bonfante non solo per la concezione della patria potestas come emanazione del diritto di proprietà, ma per la posizione della donna «elevatissima in Roma, assai più che non nella colta società dell’Ellade, che il Mommsen mette a riscontro, e forse così elevata come in nessun’altra società umana dei tempi passati». Quanto ai filii familias essi potevano adire le più alte cariche dello Stato. Non proprietario dunque il pater, che non significa genitore, ma signore, e che esercita il ius vitae et necis, potere identico al ius necis vitaeque civium, «espressione suprema e simbolo della sovranità pubblica»[5].

Questa nota è più un colpo di spada che non un’osservazione in punta di penna. La costruzione bonfantiana della natura politica del potere del pater dà ragione in altra nota dell’acquisto della cittadinanza da parte dello schiavo manomesso.

E invero debole è la congettura del Mommsen che la resistenza romana alla concessione della cittadinanza a stranieri cedeva dinanzi allo schiavo, il che si spiegherebbe «con la lieve estimazione originaria della cittadinanza nelle sfere patrizie»[6].

Quanto alla centuria dei proletari che sarebbero censiti capite come padri di prole, corregge Bonfante che proletarius deriva forse meglio da proletum, popolo, ed ha il senso di «uno del popolo», citando Bréal[7].

Altra nota riguarda le Vestali che, secondo Mommsen, sarebbero potute essere plebee per non avere rappresentanza dello Stato verso la divinità. Bonfante obietta che il requisito richiesto per esse di essere patrimae e matrimae[8] allude, secondo Servio[9], alla nascita da nozze confarreate e la confarreatio è rito patrizio[10]. Anche qui è insidiata la filologia di Mommsen, di cui si sarebbe semmai dovuta discutere la rigidità della categoria, assunta per ordinare i sacerdoti patrizi e plebei, della cosiddetta rappresentanza dello Stato.

Il libro secondo intitolato a La magistratura si apre con l’assioma che la volontà del singolo si annulla nella volontà generale del populus, e proprio questo caratterizza il vincolo dell’associazione statuale. Bonfante obietta che ciò si verifica in ogni associazione e che l’esempio adottato dal Mommsen per le curie e il Senato non è valido perché qui si tratta sempre di organi dello Stato.

L’antitesi volontà singola e volontà generale si manifesta invece pienamente nel collegium magistratuale[11].

Mommsen sosteneva che l’origine del ius civile fosse nei magistrati e non nei pontefici. Bonfante dissimula a fatica la sua riprovazione per questa tesi: «Forse l’esagerazione ed anche l’imprecisione sono dalla parte di Mommsen». E la nota descrive il passaggio dai pontefici in giuristi laici quale è a tutt’oggi acquisito dalla nostra storiografia, con una incidentale correzione enfatizzata da un punto esclamativo «ius honorum (e non propriamente civile!) è quello dei magistrati»[12].

Più oltre, a proposito della nomina del magistrato da parte del predecessore, Mommsen sosteneva che essa sarebbe stata introdotta nell’ordinamento repubblicano per compensare il magistrato supremo della perduta durata vitalizia della carica, abbandonandosi così la nomina da parte dell’interrex come usava nella monarchia arcaica. Bonfante è di tutt’altro avviso. La nomina con dilazione era già possibile nel regno, perché è paragonabile alla designazione del successore nel testamento. La designazione è riscontrabile in tutte le monarchie fino al finire del medioevo quando si stabilizza la successione del primogenito.

In più Bonfante torna a ribadire che tale istituto non nasce né nel diritto privato né nel diritto pubblico, ma è espressione della funzione originaria del trapasso della sovranità[13].

In tema di collegialità, Bonfante rimprovera Mommsen di abusare di un criterio metodologico, che è quello di dimostrare un principio di diritto con il ricorso ad una invenzione pragmatica. La collegialità non è introdotta con il regime repubblicano, come voleva Mommsen. Scrive Bonfante: «Siamo in presenza di un concetto originalissimo e fondamentale del diritto romano, che è la più splendida confutazione dei creatori logici di costituzioni e la più magnifica prova che la storia, come la natura, se obbedisce a leggi fatali nel suo svolgimento, consacra sovente nelle sue creazioni l’assurdo. Se si volesse infatti costruire a priori un sistema inverosimile di governo, non si riuscirebbe a idearne uno così sorprendente come la collegialità romana, non tanto per la pluralità dei sovrani (il che non appare certo un’ideale forma del potere esecutivo), quanto pel modo con cui è intesa questa pluralità che riesce ad un vero nichilismo di stato; il dissenso dei pareri sull’agire in un modo o nell’altro non si risolve nemmeno col criterio della maggioranza, non si risolve in nessun modo, bensì arresta l’azione e può arrestare tutta la macchina dello Stato». Bonfante conclude che la collegialità «deve avere radice nell’intima essenza della società romana, e richiamarsi allo spirito e alla logica primitiva delle istituzioni»[14].

Altre tesi mommseniane sono contraddette da Bonfante, come quella che attribuisce alla Repubblica la distinzione del processo in due fasi in iure e apud iudicem[15]. Ma ricorrente è in genere la censura su deduzioni razionalistiche. Significativo è questo monito: «[…] pericoloso il trasportare nell’età primitiva le nostre categorie della potestà legislativa, elettorale, ecc. Il vizio del concetto [scil. della legge] risulta già dal fatto che il Mommsen lo applica alle relazioni internazionali e ai comizii giudiziarii; o perché non allora ai comizii elettorali, se non fosse che qui l’assurdo è evidente? Gli esempi sono infelici quanto mai: l’arrogazione e il testamento non vanno dinanzi al popolo perché deviazioni dall’ordine regolare e legislativo, ma per essere atti di importanza grave per la famiglia, non altrimenti che pel comune l’aggregazione di un territorio o la nomina di un magistrato»[16].

Malgrado le note, la traduzione di Bonfante ebbe il merito di far conoscere al pubblico italiano l’opera di Mommsen, che nel 1907 usciva in Germania in seconda edizione. Esaurita l’edizione italiana e non facilmente reperibile la seconda in tedesco, Adolfo Omodeo chiese a Vincenzo Arangio-Ruiz di curare una nuova edizione della traduzione bonfantiana, per la sua Biblioteca Storica. Arangio aderì all’invito con consapevole motivazione: «sembra infatti particolarmente utile - egli scrive, nella Introduzione del 1942 – in questa epoca di profonda revisione e rimeditazione politica, che il punto di vista romano sia rimesso sotto gli occhi degli studiosi in questa esposizione severamente giuridica eppure tutta quanta percorsa da un senso vive e partecipe delle esigenze politiche». Omodeo e Arangio ritennero di riutilizzare la traduzione «già apprestata dal più forte pubblicista fra i romanisti della passata generazione» che loro appariva «per adeguatezza di espressione tecnica, per dignità di stile e per fedeltà all’originale difficilmente superabile». Ma Arangio, oltre a ritocchi stilistici, decide di omettere le note polemiche di Bonfante, per essere queste dovute alle idee che caratterizzano le originali ricostruzioni storiche di questo capofila della nuova romanistica italiana, e nelle sue opere ampiamente sviluppate e a portata di mano di ogni romanista. Arangio preferisce invece nella sua introduzione restituire Mommsen a quel secolo XIX «del quale egli ha sentito potentemente i grandi problemi, dall’affermarsi dei liberi ordinamenti alla costituzione dell’Impero germanico»[17]. Ma egli vede nello Staatsrecht una somiglianza con il Lehrbuch des Pandektenrechts[18] di Bernhard Windscheid, con la differenza che il pandettista costruiva un sistema da valere per il presente, impiegando tesi manipolate dai maestri beritesi, dai compilatori di Giustiniano, e poi dalla tradizione europea dai Glossatori a lui, mentre Mommsen attingeva dalla diretta documentazione delle fonti letterarie ed epigrafiche per costruire concetti come li avrebbe formulati un romano scientificamente educato.

Così Mommsen edificava il suo Staatsrecht come un sistema perfettamente razionale, andando incontro alla obiezione fondamentale di Gradenwitz se si possa «subordinare l’intera empiria della storia a concetti comprensivi», accolta da Arangio, che aggiunge: «In verità, un sistema che ha l’ambizione di valere per tutti i tempi della storia di Roma, dalle origini ai Severi, è una specie di quadratura del circolo; e già le commessure fondamentali scricchiolano paurosamente sotto la pressione della multiforme realtà che dovrebbe contenere»[19]. La tricotomia, magistratura assemblea senato, «non sembra capace di contenere tutte le istituzioni che nel millennio si sono succedute. […] quando nel terzo libro troviamo in testa all’elenco delle magistrature il regno e in calce il principato e i suoi funzionari, e non sospettare che ciò avvenga a scapito del concetto stesso di magistratura»[20].

Non è essenziale alla magistratura la temporaneità insieme alla elezione popolare, l’una e l’altra fondanti la libertas repubblicana in negazione del Regnum? Queste domande, scrive Arangio, Mommsen se le è poste, ma vi ha risposto «più con un atto d’impero che con una dimostrazione». L’atto d’impero è costituito dall’affermazione che il magistrato ha creato il popolo e non viceversa. Il magistrato riceve il mandato dal suo predecessore non dal popolo, la volontà del popolo non è di per sé efficace, affermazione quest’ultima evidente petizione di principio.

Se occorre concedere molta elasticità allo schema mommseniano per ricomprendere nella magistratura anche il re arcaico, «quello che nessuno sforzo umano – scrive Arangio – può costringere a star nello schema è il regime fondato da Augusto; o piuttosto esso vi può stare soltanto se considerato nella sua struttura giuridica formale di prosecuzione della repubblica, cioè se ci si rassegna a considerare il princeps come un elemento estraneo. […] il capitolo XI del libro terzo, destinato ad inscrivere nello schema il principe stesso, sembra annaspare intorno ad una verità irraggiungibile»[21]. Arangio ricorda come nel 1930 Pietro De Francisci abbia dimostrato conclusivamente che malgrado sia cittadino romano e titolare di magistrature repubblicane, il principe è «fuori dello Stato, autorità superiore e quasi divino che vigila sulla republica Romanorum allo stesso modo che i re protettori dell’ellenismo hanno vigilato sulle città greche formalmente sovrane»[22]. Arangio misura la distanza tra l’età mommseniana che aspirava alla perfezione tecnica del dogma giuridico e quella novecentesca che tende alla maggiore adeguazione alla varietà delle costituzioni romane. Non dunque principi ideali raggiunti per via di astrazione, ma strutture e funzioni come apparivano agli occhi dei contemporanei, questo è l’obiettivo della ricerca storica del nuovo secolo. Arangio ritiene che la formulazione giuridica dei risultati della ricerca storica «dovrà accostarsi il più possibile al modo in cui la vita dello Stato, coi suoi fini e i suoi organi e le sue funzioni, si presentava alla meditazione degli antichi»[23].

La introduzione di Arangio si chiude con una intonazione di presagio: «Aspirazioni vaghe, che se tali non fossero avrei già scritto io stesso il libro che vado auspicando, o almeno sarei in grado di scriverlo. Forse chi sarà in grado non è ancora nato; o forse è un ingegno che in qualche parte del mondo si va maturando attraverso le angosce dei terribili tempi in cui viviamo. Ma ingegno sovrano dovrà essere perché possiamo aspettarcene un’opera degna di essere posta accanto al purissimo diamante che oggi ripresentiamo al lettore italiano»[24].

Quell’ingegno auspicato da Arangio-Ruiz si sarebbe rivelato di lì a poco. E sarebbe stato considerato il Mommsen italiano. E’ Francesco De Martino che con la sua Storia della costituzione romana[25] ha dato di Roma, dall’età arcaica al tardo Impero, una descrizione tutt’affatto diversa da quella raccolta negli schemi mommseniani o nella storiografia giuridica e generale della prima metà del Novecento. Il primato dei fatti, la molteplicità dei fattori in campo nei processi storici, la sostanza economica degli assetti sociali, i rapporti di classe sottesi agli ordinamenti politici fanno il telaio complesso della Storia di De Martino, come i dogmi giuridici facevano quello dello Staatsrecht e dell’Abriss di Mommsen. Ma come ben vedeva Arangio sono due età diverse del mondo. Quella del Mommsen fu del travaglio liberale per un cittadino libero dallo Stato e contemporaneamente rappresentato nello Stato e dallo Stato. Era inevitabile che Mommsen cercasse nella Storia del diritto pubblico romano un modello di stabilità giuridica cui aspirava la civiltà liberale, e in quelle egli stesso, per equilibrare la libertà del singolo e l’autorità dello Stato. Nella seconda metà del Novecento restava aperta l’antitesi tra lotta di classe e ordinamento politico della società di classi, rendendo anacronistica una visione dogmatica delle strutture di potere dello Stato.

De Martino è attento alle tendenze e ai processi di trasformazione piuttosto che a descrizioni di categorie ancorate a quadri di stabilità.

Si veda questo passaggio sul principato augusteo: «la tendenza augustea era dunque di trasformare la costituzione cittadina in una costituzione, nella quale l’elemento monarchico fosse accettato, mediante l’accentramento di poteri di governo nelle mani del princeps, ma non fossero cancellati gli organi dello stato repubblicano, né tanto meno fosse cancellato il rapporto tradizionale civitas-libertas e sostituito da un nuovo rapporto di totale subordinazione del suddito al monarca. I tratti fondamentali del nuovo regime corrispondevano dunque alla teoria del governo misto, entro il quale l’equilibrio si era modificato a vantaggio dei nuovi organi di potere nei confronti di quelli tradizionali. Da questo aspetto Augusto era anche un tutor rei publicae, ma l’idea della funzione protettiva non si era tradotta in concrete forme costituzionali e restava come uno degli elementi ideologici del nuovo regime»[26].

E per la costituzione dell’Impero, dopo Augusto fino a Diocleziano e Costantino, la linea guida della storia demartiniana è quella di «penetrare l’arcano della costituzione sostanziale, la quale non può essere compresa se non mediante lo studio degli atti di governo, delle vicende politiche e del rapporto tra lo stato e la società nel suo insieme»[27].

Una rotazione totale si è compiuta da Mommsen a noi nella romanistica giuspubblicistica italiana. Ma veniamo ad un’altra grande opera mommseniana il Römisches Strafrecht edito nel 1899, e sei anni dopo l’Abriss.

La sequenza temporale può forse dare ragione della convenzione di Mommsen che il diritto penale si collochi in «un posto intermedio tra il diritto e la storia», com’egli si esprime nella Prefazione[28]. In una penetrante nota del suo Processo penale e società politica nella Roma repubblicana[29] Carlo Venturini collega questa professione metodologica con quella tematica, che la precede nella prefazione mommseniana, e cioè che «il diritto penale senza la procedura penale è come un manico di coltello senza lama e la procedura penale senza il diritto penale come una lama di coltello senza manico». Venturini vede bene che Mommsen allude a due bersagli polemici, contro August Wilhelm Zumpt, che con il suo Der Criminalrecht der römischen Republik[30] del 1865-1868 aveva ridotto il diritto a procedura, e contro l’esposizione analitica dei singoli crimini, esemplare e tradizionale nelle opere di Wilhelm Rein, Das Kriminalrecht der Römer von Romulus bis auf Justinian[31] del 1844, e di Ferdinand Walter, Geschichte des römischen Rechts bis auf Justinian[32], dello stesso anno, tradotto in italiano da E. Bollati nella edizione torinese del 1851.

Continuando ad utilizzare la utile concisione della nota di Venturini, è da ricordare che il Diritto penale romano[33] di Contardo Ferrini è considerato da Gian Gualberto Archi «quasi un completamento» del coevo Strafrecht mommseniano. E Ferrini non fa che trattare la teoria generale del reato aggiungendovi una parte speciale sui singoli crimini. La considerazione sembra dettata da una corrispondenza tra le due opere, la mommseniana e la ferriniana, con le esigenze e le vedute della Scuola classica del diritto penale in Italia e in Germania. Insomma la storia in funzione del diritto. Si ripeterebbe per il diritto penale quel piegare la storia al dogma, come era accaduto con la massima possibile perfezione nella Pandettistica, e per quel che tocca Mommsen, nello Staatsrecht e nell’Abriss?

Per una risposta soddisfacente e complessa a questa domanda troppo rudimentale, non basterebbe esplorare la letteratura romanistica italiana novecentesca che, secondo una osservazione di Orestano, per quanto riguarda il diritto e la procedura penale, usa Mommsen secondo le utilità del contraddittorio accademico. Del resto, gli studi di insieme in questo settore non sono comparabili con quelli dedicati al diritto privato e al diritto costituzionale, fatta eccezione per l’organica trattazione del Diritto e processo penale nell’antica Roma[34] di Bernardo Santalucia del 1989. Abbiamo la fortuna di una ricerca penetrante su Mommsen e il diritto penale romano del 1995, di un allievo di Mario Bretone, Tommaso Maniello.

Tralasceremo la parte di questa ricerca che riguarda il metodo mommseniano di coniugazione di filologia e diritto, di storia e sistema. Sono particolarmente significativi alcuni tratti per intendere la costruzione mommseniana. Mommsen fonda l’intero organismo del diritto penale sulla legge: «la legge designa obbiettivamente gli atti immorali contro i quali si deve intervenire in nome della comunità […]; la legge organizza la procedura d’inchiesta nella sua forma positiva; la legge fissa per ciascun delitto la pena conveniente» (Strafrecht 56)[35].

«Il diritto penale abbraccia in un sol tutto i doveri morali dell’uomo sia nei riguardi dello Stato cui appartiene sia nei riguardi di altri uomini. Questa unità non è conosciuta né poteva esserlo dalla scienza giuridica romana […] e tuttavia non si può rinunciare a considerare il diritto penale nel suo insieme, la violazione della legge morale e la repressione ch’essa reclama da parte dello Stato sono nozioni fondamentali che uniscono intimamente i due rami del diritto penale» (Strafrecht 4)[36]. Alla legge sono sottoposti sia i magistrati sia il popolo. Dunque l’idea dello Stato di diritto specie nell’età repubblicana domina la vita romana fino a quando lentamente nell’Impero non rinasceva l’arbitrio del sovrano, quasi un ritorno alla coercizione illimitata del re arcaico.

«Entrambe le leggi [scil. la legge morale e la legge penale] sono instabili; quella morale, in quanto espressione dello sviluppo dei popoli, è un perpetuo movimento ondulatorio, fatto di ascese e di cadute; quella penale è la risultante di prescrizioni esterne e precisamente delle norme morali che in un’epoca determinata sono imposte da una comunità politicamente organizzata al singolo individuo […]» (Strafrecht 523)[37].

La legge penale deve razionalmente non discostarsi dalla legge morale, e quando si tratti di leggi dettate dall’opportunità politica, le pene comminate non debbano mai essere eccessive perché non troverebbero consenso nella coscienza individuale. E’ questa l’estrema garanzia di quella libertà del singolo che nel liberalismo militante di Mommsen è l’altro polo rispetto a quello della forza rappresentativa dello Stato.

La conoscenza che abbiamo oggi delle scritture di Mommsen e della biografia, ch'egli avrebbe voluto tenere celata ai posteri, consente di illuminare ogni interferenza tra il suo pensiero e i contesti culturali e politici nei quali si svolse la sua vita intellettuale e pratica. La databilità di Mommsen nel cuore della civiltà liberale europea del XIX secolo non esclude la sopravvivenza dell’opera e della figura sua nell’età successiva che è ancora la nostra. Ma paradossalmente egli sopravvive come nelle sue opere escono da ogni strenger Schematismus le forze storiche disobbedienti alla logica di un sistema e perciò irrazionali.

Testimone egli stesso della delusione per quanto si attendeva dalle premesse e promesse etico-politiche del liberalismo in una nuova Germania: «Ich wünste ein Bürger zu sein».

 

 



 

[1] P. Bonfante, Disegno del diritto pubblico romano, Milano 1904.

 

[2] T. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Leipzig 1876.

 

[3] Id., Abriss des römischen Staatsrechts, in Systematisches Handbuch der Deutschen Rechtbswissenschaft unter Mitwirkung der Professoren H. Brunner… [et al.], herausgegeben von Karl Binding, Leipzig 1893.

 

[4] P. BONFANTE, op. cit., IV-XV.

 

[5] Ibid., 3-4, nt. 1 [P.C. Tacitus, Hist., 3.68].

 

[6] T. MOMMSEN, op. cit., 26.

 

[7] P. BONFANTE, op. cit., 39, nt. 1 [M. Bréal, in Journal des Savants (1902), 599].

 

[8] A. GELLIUS, Noctes Acticae, lib. I.12.

 

[9] S.M. HONORATUS, Servii Grammatici qui ferunt in Vergilii Bucolica et Georgica commentarii/recensuit Georg Thilo, Hildesheim 1986, 1.31.

 

[10] P. BONFANTE, op. cit., 45, nt. 1.

 

[11] Ibid., 92, nt. 1.

 

[12] Ibid., 111, nt. 1.

 

[13] Ibid., 121 sg., nt. 1.

 

[14] Ibid., 140.

 

[15] Ibid., nt. 289.

 

[16] Ibid., nt. 375.

 

[17] V. ARANGIO-RUIZ, Introduzione del curatore, in TH. MOMMSEN, Disegno del diritto pubblico romano, trad. di P. Bonfante, Milano 1943 [riv. anast. CELUC (1973)], 10.

 

[18] B. WINDSCHEID, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt a. Main 1882.

 

[19] V. ARANGIO-RUIZ, op. cit., 13.

 

[20] Ibid., 14.

 

[21] Ibid., 16.

 

[22] Ibid., 17.

 

[23] Ibid., 18.

 

[24] Idem.

 

[25] F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, Napoli 1958-1972.

 

[26] Ibid., IV, 307.

 

[27] Ibid., 309.

 

[28] T. MOMMSEN, op. cit., Strafrecht VII.

 

[29] C. VENTURINI, Processo penale e società politica nella Roma repubblicana, Pisa 1996, 13, nt. 1.

 

[30] A.W. ZUMPT, Das Kriminalrecht der römischen Republik, Berlin 1965-1968.

 

[31] W. REIN, Das Kriminalrecht der Römer von Romulus bis auf Justinian, Leipzig 1844.

 

[32] F. WALTER, Geschichte des römischen Rechts bis auf Justinian, Bonn 1840; tr. it. Storia del diritto di Roma sino ai tempi di Giustiniano, Torino 1851.

 

[33] C. FERRINI, Diritto penale romano: teorie generali, Milano 1988.

 

[34] B. SANTALUCIA, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1998.

 

[35] T. MASIELLO, Mommsen e il diritto penale romano, Bari 1995, 61.

 

[36] Ibid., 65.

 

[37] Ibid., 75.