N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

Riccardo Fercia

Università di Cagliari

 

Appunti in tema di obbligazioni generiche tra ‘bona fides’ ed ‘aequitas’

 

Sommario: 1. Insufficienza di un ‘dogma’. – I. 2. I problemi posti da Lab. D. 19.2.60.7 ed Ulp. D. 9.2.27.34. – 3. Esegesi di Lab. D. 19.2.60.7. – 4. Segue. Locazione ‘cum definitione personae. – 5. Segue. Locazione ‘sine definitione personae. – II. 6. Sul problema dell’id quod actum est: esegesi di Pomp. D. 19.5.26. – 7. Id quod actum est ed aequitas: esegesi di Pomp. D. 12.1.3. – 8. Estensione del modello’ alla condictio indebiti. – III. 9. Individuazione della specie ed exceptio doli: esegesi di Iav. D. 17.1.52. – 10. Individuazione della specie ed actio de dolo: esegesi di Afr. D. 30.110. – 11. I problemi posti dalla tradizione romanistica: criticità della ‘corrispondenza’ tra gli artt. 664 c.c. e 1178 c.c.

 

1. – Insufficienza di un ‘dogma’

 

È insegnamento costante e diffuso, come si può agevolmente rilevare anche da un semplice sguardo alla nostra manualistica, che «nelle obbligazioni generiche, la scelta spetta, di regola, al debitore: solo in qualche passo si accenna alla possibilità di affidare la scelta al creditore. All’interno del genus il debitore stesso poteva scegliere qualsiasi cosa, anche quella della qualità peggiore: i temperamenti nel senso che si dovesse prestare la cosa di qualità media sembrano, in effetti, dovuti ad interventi postclassici o giustinianei»[1]. Si tratta di un’impostazione che tuttora è debitrice, in linea di massima, dei risultati cui erano pervenuti lo Scialoja[2] e, in particolare, il Vassalli[3], successivamente seguito dall’Albertario[4] che aveva riesaminato l’argomento in polemica con le perplessità manifestate dal De Ruggiero[5], orientato per una soluzione nettamente meno radicale – ma non per questo di per sé più convincente – quanto alla configurazione della disciplina tra diritto classico e diritto giustinianeo.

Ora, se questa ‘regola’ in linea di principio[6] funziona bene ove riferita all’attuazione di rapporti obbligatori di stretto diritto, che in fin dei conti costituiscono il ‘modello’ per la sua configurazione su base casistica[7], quanto meno qualche dubbio deve porsi, a mio parere, per l’‘applicazione incondizionata’ di essa anche nell’ambito dell’attuazione di rapporti obbligatori di buona fede, in cui da un lato la particolare ampiezza della prestazione, dall’altro l’indiscutibile esistenza – almeno a seguire le tesi del Cannata[8] – di specifici doveri di praestare posti a sussidio della sua esatta esecuzione potrebbero condurre, a volte, ad impostazioni che difficilmente consentono di delineare con chiarezza alcuni specifici problemi posti dalle fonti a nostra disposizione.

Un approccio aperto’ alla questione può condurre non tanto a ripensare il dogma’ che consente a qualsiasi debitore di genere, ricorrendo al modello dell’obbligazione di dare in senso tecnico, di consegnare qualsiasi cosa tra quelle individuabili all’interno del genus dedotto in obligatione; quanto piuttosto a percepire come, in realtà, il problema appaia di sicuro più complesso di quanto normalmente si creda: e ciò perché, come esattamente rilevavano sia il Perozzi[9] sia il Grosso[10], il tema dell’esistenza di «limiti e requisiti riguardo alla qualità perché un oggetto possa essere prestato con efficacia liberatoria» costituisce, in primo luogo, «un problema d’interpretazione».

Muovendo da quest’ultima precisazione, la nostra indagine si articolerà lungo tre linee direttrici fondamentali: esamineremo, innanzitutto, un caso in cui si pone un problema di responsabilità contrattuale che Labeone collega ad una valutazione, in termini di culpa, circa l’electio della res da parte del debitore di genere, qualora ne derivi un danno; in secondo luogo, tenteremo l’esegesi di due interessanti passi di Pomponio, in cui il contenuto della prestazione, sulla base di un’interpretazione dell’id quod actum est che appare condizionata dal recepimento di valori determinati da bona fides ed aequitas, non appare limitato al genus in quanto tale, ma comprende altresì una specifica ‘qualitas’ implicitamente determinata dal contenuto della convenzione; infine, verificheremo come alcuni spunti propri di queste soluzioni tendano a proiettarsi’ nella configurazione del contenuto dell’obbligazione di dare in senso tecnico tramite i rimedi pretori de dolo malo.

Avremo modo, infine, di esaminare, seppur per grandi linee, alcuni problemi posti dalla tradizione romanistica e, in particolare, dalla corrispondenza’ che parte della dottrina civilistica, in una prospettiva a mio parere discutibile, tende a riconoscere nel contenuto delle norme previste dagli artt. 664 e 1178 c.c.: al riguardo vedremo, infatti, come risulti necessario, per una piena comprensione della questione, tenere chiara la distinzione, che emerge con chiarezza nelle fonti romane, tra qualità della prestazione da individuarsi secondo l’interpretazione di buona fede[11], e doveri di praestare sussidiari alla sua esecuzione, che – ove violati – possono implicare questioni di responsabilità contrattuale.

 

 

I.

2. – I problemi posti da Lab. D. 19.2.60.7 ed Ulp. D. 9.2.27.34

 

Parte della dottrina ha ipotizzato una possibile divergenza di vedute tra Labeone e Mela[12] in due noti passi, in cui è discussa una casistica in fin dei conti analoga:

 

Lab. 5 post. a Iav. epit. D. 19.2.60.7 Servum meum mulionem conduxisti: neglegentia eius mulus tuus perit. Si ipse se locasset, ex peculio duntaxat et in rem vers[um] <o me> damnum tibi praestaturum dico: sin autem ipse eum locassem, non ultra me tibi praestaturum, quam dolum malum et culpam meam abesse: quod si sine definitione personae mulionem a me conduxisti et ego eum tibi dedissem, cuius neglegentia iumentum perierit, illam quoque culpam me tibi praestaturum aio, quod eum elegissem, qui eiusmodi damno te adficeret.

 

Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.34 Si quis servum conductum ad mulum regendum, commendaverit ei mulum; ille ad pollicem suum eum alligaverit de loro, et mulus eruperit sic, ut et pollicem avelleret servo et se praecipitaret, Mela scribit: si pro perito imperitus locatus sit, ex conducto agendum cum domino ob mulum ruptum vel debilitatum; sed si ictu aut terrore mulus turbatus sit, tum dominum eius [id est muli] et servi cum eo qui turbavit, habiturum legis Aquiliae actionem. <?> Mihi autem videtur et eo casu, quo ex [locato?] <conducto?> actio est, competere etiam Aquiliae.

 

Esaminiamo, innanzitutto, le fattispecie descritte dai due giuristi.

Nel primo passo, in cui – a prescindere dal problema palingenetico[13] – indubbiamente viene riferito quanto meno un nucleo di pensiero labeoniano, Tu è conduttore di un servo mulattiere di Ego; per la negligenza del mulattiere, il mulo di Tu muore. Se è stato il servus a concedere se stesso in locazione, Tu può esperire contro Ego l’a. ex conducto ex peculio dumtaxat et in rem verso[14]; se, invece, è stato Ego a concludere la locatio conductio, egli risponderà dell’evento nei limiti della propria culpa e del dolo. Ad ogni modo, se in quest’ultima configurazione delle modalità di conclusione del contratto le parti hanno dato vita ad una locatio conductio avente ad oggetto un qualsiasi mulio, senza che Tu abbia richiesto in conduzione una persona precisa e spetti, quindi, ad Ego la relativa individuazione, quest’ultimo risponderà anche per quella culpa che potrebbe eventualmente ravvisarsi nella scelta di un soggetto rivelatosi capace di cagionare al conduttore un simile danno.

Nel secondo passo – i cui contenuti mi pare siano stati colti esattamente, in particolare, dalla Piro[15] che, tuttavia, non esamina anche il primo[16]  si fa il caso di una  locazione avente ad oggetto un servus per la precisa finalità di badare ad un mulo, che gli viene affidato in custodia. Il servo si lega al pollice le redini del mulo; l’animale si libera strappandogli il dito e poi cade rovinosamente[17]. Secondo Mela, si può agire ex conducto per i danni occorsi al mulo (‘ob mulum ruptum vel debilitatum’) qualora sia stato concesso in locazione un soggetto inesperto anziché uno esperto; tuttavia, se il mulo si è imbizzarrito per un colpo od uno spavento, sia il dominus del servus che ha perso il pollice, sia il dominus del mulo ruptus vel debilitatus possono agire ex lege Aquilia contro il soggetto che vi ha dato causa.

La frase finale di Ulp. D. 9.2.27.34 crea non pochi problemi; e mi pare destinato a rimanere aperto, in particolare, quello relativo all’individuazione del contenuto dell’argomentazione di Ulpiano.

Chi, infatti, ritenga di poter sostituire il riferimento ad un’a. ex locato con un altro all’a. ex conducto ricordata precedentemente da Mela, può ipotizzare che, secondo il giurista severiano, il conduttore potesse agire anche ex lege Aquilia[18] non solo cum eo qui mulum turbavit, ma altresì contro il dominus servi per i danni occorsi al mulo[19]; chi, invece, congetturi che dopo il termine ‘actionem’ sia caduto un ulteriore sviluppo della quaestio, in cui si sarebbe discusso dell’eventualità e delle condizioni di una tutela contrattuale a favore del dominus servi per il danno occorso al suo schiavo, rimasto mutilato per la perdita di un dito, può considerare un indizio di questa possibile compressione del testo il riferimento, che sarebbe quindi corretto, non già ad un’a. ex conducto, ma semmai all’a. ex locato, che spetterebbe al dominus servi, ancora una volta in concorso con quella aquiliana, contro il dominus muli, conduttore del servus. Questa congettura potrebbe avvalorarsi qualora si ipotizzasse che, nel tratto che potrebbe risultare tagliato’ dai commissari giustinianei, si esaminasse il caso in cui fosse stato proprio il dominus muli, e non un terzo, a far imbizzarrire il mulo, con i conseguenti danni al servus conductus.

Al riguardo, mi limito a prospettare la duplice possibilità di lettura critico-testuale di questo tratto del passo in esame e, nel contempo, a dichiarare il mio esercizio, in questo caso, dell’ars nesciendi.

Non interessa, infatti, in questo lavoro, discutere di questa specifica soluzione di Ulpiano; semmai, si vorrebbe qui approfondire in quale prospettiva la soluzione dell’a. ex conducto indicata da Mela possa ritenersi sovrapponibile alla soluzione labeoniana relativa alla locatio conductio mulionis.

Mi pare del tutto evidente, infatti, che in Lab. D. 19.2.60.7 si discute della diversa impostazione del problema della responsabilità qualora dalla locatio conductio sorga un’obbligazione di specie rispetto all’ipotesi in cui, invece, ne sorga una di genere (quasi certamente di genus cd. limitatum’, se il mulio rientra tra i servi della familia del locatore[20]); mentre in Ulp. D. 9.2.27.34 il punto di vista di Mela, almeno a mio parere, parrebbe esclusivamente quello della configurazione dei presupposti di una responsabilità per inadempimento di un’obbligazione di specie, come ora cercheremo di dimostrare.

Vediamo quindi i problemi che normalmente si pongono nell’approccio esegetico a questi testi.

Secondo il Cannata[21], in Lab. D. 19.2.60.7, a differenza che in Ulp. D. 9.2.27.34, «si dà per assodato che lo schiavo locato è un mulio (servum mulionem conduxisti) e quindi peritus»; sicché «il fatto dannoso deriva dunque da un contingente comportamento concreto dello schiavo, e non da una sua qualità, presente al momento del contratto»[22]. Il Cardilli, nel rilevare e discutere il problema posto dal Cannata, propone una diversa esegesi – per certi versi coincidente con quella della de Falco[23] – ed osserva che, piuttosto, «il criterio di Mela fonda il rimprovero mosso al locatore sul fatto che egli loca un mulione inesperto per esperto. Al contrario Labeone vuole evitare proprio il giudizio sulla idoneità del servus su cui cade l’electio del locatore considerando quest’ultimo, per il semplice verificarsi della scelta stessa, in culpa per il perimento del mulo dovuto a negligenza del ‘servo’-mulio, prescindendo quindi dall’ulteriore valutazione se lo schiavo potesse o meno considerarsi effettivamente peritus»[24].

A mio parere, tuttavia, più che ad una divergenza di vedute tra Labeone e Mela si può configurare una tendenziale omogeneità di valutazione, purché si tenga presente che, se entrambi i giuristi chiariscono, seppur da una diversa angolazione, il problema della responsabilità nel caso di un’obbligazione di specie, solo Labeone esamina – nella seconda parte del passo – un problema riconducibile all’inadempimento di un’obbligazione di genere, che appare di particolare interesse  ove si consideri che la prestazione, in questo caso, non ha ad oggetto il dare in senso tecnico proprio di sponsiones e legati obbligatori – ‘modello’ teorico e metodologico per la ricostruzione normalmente accolta dell’istituto in esame – ma, piuttosto, quanto rientri nell’ambito del ‘quidquid dare facere oportet ex fide bona’.

In quest’ordine di idee, deve essere esclusa, secondo me, la possibilità di sovrapporre’ il problema della culpa nell’individuazione del mulio discussa da Labeone a quello del ‘servum imperitum pro perito locare’ prospettato da Mela: quest’ultima configurazione della questione – come già chiariva il Pothier[25] – corrisponde, piuttosto, al problema che Labeone esamina per primo. Vediamone le ragioni, non prima, però, di aver chiarito il significato del riferimento alla neglegentia del servus nell’argomentazione di Lab. D. 19.2.60.7, che riveste carattere preliminare.

Il testo di Lab. D. 19.2.60.7 contiene, infatti,  un riferimento alla neglegentia del mulio e non, come forse ci saremmo attesi, all’imperitia quale modello’ del giudizio di rimprovero mosso al servus: del resto, che la normale attività tecnica’ di un mulio dia luogo a problemi di imperitia risulta bene da

 

Gai. 7 ad ed. prov. D. 9.2.8.1 Mulionem quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si eae alienum hominem obtriverint, vulgo dicitur culpae nomine teneri…

 

Ai tempi di Gaio è ormai invalso (‘vulgo dicitur’) considerare un’ipotesi di culpa l’eventualità che un mulattiere, ‘per imperitiam’, non risulti in grado di governare l’impetus mularum[26]. A ben vedere, però, l’apporto di Celso, discusso in Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.9.5[27], va riferito non già alla novità in sé della rilevanza dell’imperitia, ma alla sua riconduzione dommatica a culpa[28]; in Lab. D. 19.2.60.7, poi, non si discute di una culpa mulionis, ma di quella che ne potrebbe essere la struttura pratica nella prospettiva dell’individuazione, semmai, di una culpa domini. In sostanza, più che ad una particolare prospettiva culturale’ di Labeone, che potrebbe non aver ancora elaborato l’imperitia come contenuto di una culpa, mi parrebbe forse preferibile non contrapporre’ il modello della neglegentia a quello della imperitia e pensare, piuttosto, che il giurista si riferisse, in termini lati, ad una generica condotta riprovevole[29], tanto più ove si consideri che, in questo caso, non emerge una distinzione – rilevante in altra casistica[30] – tra operazioni tecniche’ e non tecniche’ del mulattiere.

Chiarito, quindi, in quali termini possa consistere il contenuto pratico del giudizio di rimprovero che viene mosso al servus, possiamo procedere a tentare di delineare a quali condizioni questa neglegentia si riverberi sulla costruzione del criterio di responsabilità del locatore.

 

3. – Esegesi di Lab. D. 19.2.60.7

 

Ripercorriamo, innanzitutto, l’intero ragionamento del giurista. In Lab. D. 19.2.60.7 i possibili contenuti del ‘servum mulionem conducere’ vengono analizzati, a mio parere, secondo un ‘topos’ argomentativo configurato in base allo schema ‘genus-species’, normalmente impiegato in funzione classificatoria[31].

Labeone, infatti, distingue innanzitutto l’ipotesi in cui il contratto sia concluso direttamente dal servus[32], con conseguente tutela de peculio et de in rem verso, dall’ipotesi in cui sia stata conclusa, invece, dal dominus, con conseguente tutela ordinaria’. Quest’ultima ipotesi viene ulteriormente distinta in due varianti, la cui differentia è costituita dalla possibilità che il contratto sia stato concluso con o senza una ‘definitio personae[33], vale a dire con l’individuazione di un determinato schiavo al momento del contratto[34].

La differentia è rilevante in quanto, se la locazione è stata conclusa cum definitione personae, grava sul locatore un’obbligazione di mettere a disposizione del primo una cosa determinata nella sua individualità e, quindi, un’obbligazione di specie; mentre, nel caso della locazione – come dice il giurista – ‘sine definitione personae’, si ricade nel problema dell’obbligazione di genere (limitato?) e, di conseguenza, nella necessaria valutazione della condotta strumentale alla electio da parte del debitore, che si riverbera sul piano delle conseguenze della neglegentia mulionis sul contenuto della culpa domini che, per Labeone, è diversamente determinabile nelle due configurazioni della quaestio.

In quest’ordine di idee, l’insistere del giurista sul dato della ‘definitio personae’ quale elemento che consente di individuare soluzioni diverse a proposito del contenuto della convenzione sottesa al locare conducere va inteso nel senso che egli ritenesse necessaria un’indagine sulla comune intenzione delle parti – l’id quod actum est – per determinare il contenuto della prestazione del locatore[35], che nel primo caso deve mettere a disposizione un servo mulattiere già individuato, che non deve essere spacciato’[36] per esperto quando egli possa aver contezza, conoscendolo, del fatto che in realtà non lo è, mentre nel secondo deve mettere a disposizione un qualsiasi mulio, forse tra quelli della sua familia, che comunque, per via della clausola di buona fede, deve essere in grado di realizzare la funzione per cui la conductio è stata conclusa.

Se si considera che quest’ultima ipotesi è introdotta come variante’ rispetto alla prima, è agevole desumere che la regola del ‘non ultra me tibi praestaturum, quam dolum malum et culpam meam abesse’ sia riferibile alla prima suddivisione della quaestio mentre la soluzione che fa leva su una particolare’ configurazione della culpa (‘illam quoque culpam me tibi praestaturum aio’) si riferisca alla seconda suddivisione.

Soffermiamoci, quindi, sul contenuto del criterio di responsabilità.

Nel primo caso, mi pare che possano trarsi indizi utili per comprendere il significato dell’operazione concettuale compiuta dal giurista dall’analisi del riferimento al possessivo ‘mea’ per qualificare la culpa domini in una con il ricorso alla precisazione ‘non ultra praestare’ del locator verso il conductor; nel secondo, credo si debba insistere sul significato che assume la congiunzione ‘quoque’ con cui, come osserva esattamente il Cardilli[37], il giurista «accentua» la particolarità della soluzione proposta.

 

4. – Segue. Locazione ‘cum definitione personae

 

Esaminiamo, quindi, innanzitutto il caso della locazione ‘cum definitione personae’ al momento del contratto (‘sin autem – abesse’). A mio avviso, in questa ipotesi il giurista legge i doveri di praestare del locator in termini restrittivi’, per modo che a quest’ultimo è riferibile esclusivamente una culpa propria.

Labeone, peraltro, non chiarisce quale sia il contenuto di questa culpa in relazione alla neglegentia del servus: un utile riscontro in tal senso può, tuttavia, rinvenirsi nella soluzione di Mela che, in Ulp. D. 9.2.27.34, secondo me concede l’a. ex conducto per l’inadempimento di un’obbligazione di specie, in quanto il locatore che versi in culpa deve risarcire l’interesse del conduttore ad utilizzare ‘ad mulum regendum’ il servus determinato nella sua individualità e, con essa, nella sua capacità tecnica. Vediamo, a questo punto, quali siano i possibili argomenti a favore di questa impostazione del problema.

Quantunque una risposta univoca in tal senso, probabilmente, non possa essere data con sicurezza, a mio parere depone per la costruzione di un’obbligazione di specie, innanzitutto, il riferimento alla specifica funzione che connota l’uti frui (‘mulum regere’, vale a dire tenere a bada un mulo).

Da questo punto di vista, nonostante il linguaggio adoperato nell’argomentazione di Mela, il locatore non deve consegnare un qualsiasi servus, ma piuttosto il servus che risulta individuato per tenere a bada il mulo del conduttore. Condivido, quindi, in questa prospettiva l’esegesi del Cannata che argomenta in un ordine di idee che presuppone la configurazione di una locazione di specie e, di conseguenza, osserva esattamente che il locatore risponde se spaccia’ il servus come peritus quando invece è imperitus[38]: la responsabilità deriva, quindi, a mio parere, da una condotta riprovevole del locatore che, nella cooperazione alla specifica individuazione del servus al momento del contratto, ha il dovere di evitare esiti o circostanze ostative alla realizzazione del programma d’obbligazione[39] e, quindi, di assicurare al conduttore che il servus che gli viene messo a disposizione sia obiettivamente capace di ‘mulum regere’.

In secondo luogo, un problema analogo emerge, a mio avviso, in tema di tutela edilizia del venditore in due frammenti che devono essere riferiti non già, come era orientata parte della più risalente dottrina[40] ed, oggi, il Pastori[41], a casi di vendita di genere ma, piuttosto, come esattamente osserva il Cannata[42], a vendite di specie, in cui il venditore deve praestare non una particolare qualità della res dedotta in obligatione all’interno di un genus, ma piuttosto le qualità di un determinato servus, oggetto del dictum venditoris pronunciato in occasione del perfezionamento del contratto.

Si considerino, infatti, le soluzioni di Gai. 1 ad ed. aedil. cur. D. 21.1.18.1-2 e di Ulp. 1 ad ed. aedil. cur. D. 21.1.19.4:

 

Gai. 1 ad ed. aedil. cur. D. 21.1.18.1 Venditor, qui optimum cocum esse dixerit, optimum in eo artificio praestare debet: qui vero simpliciter cocum esse dixerit, satis facere videtur, etiamsi mediocrem cocum praestet. Idem et in ceteris generibus artificiorum. (2) Aeque si quis simpliciter dixerit peculiatum esse servum, sufficit, si is vel minimum habeat peculium.

 

Ulp. 1 ad ed. aedil. cur. D. 21.1.19.4 Illud sciendum est: si quis artificem promiserit vel dixerit, non utique perfectum eum praestare debet, sed ad aliquem modum peritum, ut neque consummatae scientiae accipias, neque rursum indoctum esse in artificium: sufficit igitur talem esse, quales vulgo artifices dicuntur.

 

Non è possibile, in questo lavoro, riesaminare compiutamente il problema della vendita di genere[43]. Mi limiterei, piuttosto, unicamente ad evidenziare che questi due frammenti, ancora una volta nonostante il linguaggio adoperato, trattano senz’altro di una vendita di specie: con il ‘promittere vel dicere’ il venditore non si obbliga a consegnare all’acquirente un qualsiasi servus tratto dalla classe dei coci, dei peculiati, o più in generale degli artifices; piuttosto, egli assicura (praestat) che il servus oggetto della compravendita – dunque la specie individuata al mercato – è un cocus, un peculiatus o, più in generale, un artifex[44]. In questo caso, il dovere del debitore di consegnare un soggetto ‘ad aliquem modum peritus’, purché in conformità al dictum, implica una sua responsabilità – che riterrei prescindere dal dolo[45] – solo ove sia poi consegnato un servus imperitus, come avviene nella soluzione di Mela in tema di locazione. In quest’ultimo caso, la questione genera un problema di imputazione dell’inadempimento per culpa, di cui il giurista descrive la struttura pratica, in quanto in tale ipotesi la capacità tecnica del servus non rientra in un dicere vel promittere, ma nell’ambito del quidquid dare facere oportet ex fide bona al cui sussidio è posto un dovere di diligentiam praestare.

In sostanza, in Ulp. D. 9.2.27.34 il servus risulta individuato dalle parti in funzione di realizzare lo specifico uti frui del ‘mulum regere’, per modo che solo qualora sia stato locato un servus imperitus, spacciato’ per peritus, al locatore è imputabile – a titolo di culpa – il danno cagionato al mulo che, quindi, costituisce il parametro dell’interesse risarcibile che il conduttore può ottenere mobilitando l’a. ex conducto.

In questa prospettiva, il punto di vista di Labeone in D. 19.2.60.7 e di Mela in D. 9.2.27.34 diverge non tanto per via della parziale diversità della fattispecie (nel primo caso, in cui il mulo ‘perit’, viene locato un mulattiere; nel secondo, in cui il mulo risulta meramente ‘ruptus vel debilitatus’, il compito di generica sorveglianza – ‘commendare’ – affidato allo schiavo fa pensare, piuttosto, ad una sorta di stalliere’)[46], quanto piuttosto perché mentre Mela esamina l’imputazione della responsabilità contrattuale sul piano del suo dato strutturale’, Labeone si orienta direttamente su quello del criterio utilizzabile: in altri termini, il riferimento a ‘servum imperitum pro perito locare’ di Mela descrive semplicemente la struttura pratica del ‘culpam praestare’ richiamato da Labeone nella prima parte di Lab. D. 19.2.60.7[47].

Se ne deve desumere che, in caso di locazione di una specie, riconducibile – in ultima analisi – ad un ‘servus ad aliquem modum peritus’ a seconda del concreto assetto d’interessi, la culpa sussiste solo qualora ‘pro perito imperitus locatus sit’ e che, quindi, solo nel caso della locazione ‘sine definitione personae’, esaminata da Labeone, la neglegentia del servus genera un problema di culpa la cui struttura pratica appare in una certa misura diversa – come ora vorremmo dimostrare – da quella di cui sinora abbiamo discusso.

 

5. – Segue. Locazione ‘sine definitione personae

 

Veniamo, quindi, alla soluzione di Labeone applicabile qualora la locazione sia avvenuta ‘sine definitione personae’. Le conseguenze della neglegentia mulionis sono, anche in questo caso, senz’altro un problema di culpa; il criterio, però, come si accennava, non è inteso in senso restrittivo’ quale mera ‘culpa mea’ – basata sulla struttura del ‘imperitum servum pro perito locare’ esplicitata da Mela – ma si configura come un criterio per così dire autonomo’, che comprende’ a determinate condizioni, diversamente configurate rispetto al caso precedente, i rischi conseguenti alla neglegentia del servus, in quanto l’operazione di individuazione dello schiavo è stata compiuta dal locatore.

Nella (valutazione della) scelta della res da parte del locatore obbligato a dare (in senso atecnico) un (qualsiasi) mulio è, quindi, insita la possibilità di riconoscere altresì un’attribuzione di rischio che è corollario pratico[48] di un particolare dovere di praestare, riconducibile sul piano dommatico ad una prestazione sussidiaria, funzionale ad assicurare l’esatto adempimento[49] ma tendenzialmente distinguibile da quella che configura la struttura pratica del criterio della culpa nel caso dell’obbligazione di consegnare un mulio determinato.

In quest’ordine di idee, la bona fides incide sulla valutazione dell’id quod actum est in quanto per il giurista è implicito, nella convenzione sottesa alla locatio conductio, un dovere di consegnare al conduttore non un qualsiasi servo, anche il peggiore della sua familia, ma un servo idoneo alla funzione che connota il synallagma.

A tale prestazione accessoria’ ed autonomamente azionabile – che rientra, cioè, nell’ex fide bona quale ulteriore ampliamento’ di quanto rientri nel quidquid dare facere oportet[50] – è posto a sussidio un dovere di praestare che, ove violato, rappresenta la struttura pratica della (particolare figura di) culpa esplicitata nel passo, che consiste nel dovere di adoperarsi perché non insorgano esiti o circostanze ostative a realizzare la prestazione principale dovuta determinata ex fide bona, vale a dire mettere a disposizione del conduttore un mulio idoneo alla funzione per cui è stata conclusa la locatio conductio.

È questa, secondo me, la ragione per cui la congiunzione ‘quoque«accentua»[51], come si accennava, la particolarità della soluzione proposta, che va forse letta nel senso che il contenuto del dovere di praestare in questo caso non coincide, sic et simpliciter, con il dovere di diligentiam /peritiam praestare che, normalmente, rappresenta il dato strutturale della culpa contrattuale[52], ma si connota, semmai, come una significativa variante di queste entità concettuali.

Questa culpa, infatti, quantunque – diversamente da quanto ritiene il Cardilli[53] – debba ritenersi un criterio soggettivo di responsabilità (i congiuntivi adoperati depongono per la mera eventualità della sussistenza della violazione di un dovere di praestare), non può essere riferita, come nei casi genuini’ di responsabilità per fatto altrui, alla valutazione di una neglegentia nell’individuazione di un ausiliare del debitore, dato che il servus mulio è oggetto della prestazione e non collaboratore nell’adempimento[54]. Essa giustifica, piuttosto, una particolare responsabilità per la scelta della specie all’interno del genus’ nell’attuazione ex fide bona di un’obbligazione di genere diversa da quella di dare servum in senso tecnico.

Proviamo, a questo punto, a trarre alcune indicazioni da quanto sinora emerso.

Innanzitutto, sul piano della ‘bonae fidei interpretatio’ la soluzione di Labeone appare davvero significativa in quanto, per il giurista, in un rapporto obbligatorio di buona fede quale è la locatio conductio, la qualità della specie non può essere, come normalmente si insegna, anche «quella della qualità peggiore»[55] all’interno del genus dedotto in obligatione[56].

Il ‘dogma’ da cui abbiamo preso le mosse appare, quindi, insufficiente per configurare i termini del problema in esame, tanto più ove si consideri che a sussidio della prestazione di genere così determinata è posto uno specifico dovere di praestare funzionale ad assicurare al creditore la correttezza della electio – che è qui una ‘electio ex fide bona’ – che spetta al debitore. In questa prospettiva, poi, è importante sottolineare non solo come il debitore non possa mettere a disposizione del creditore anche la cosa peggiore tra quelle che rientrino nel genus, seppur contingentemente determinato[57], ma altresì come in tal caso possano porsi problemi di responsabilità.

Ne consegue, a mio avviso, che la sua scelta non è affatto ‘libera’.

In secondo luogo, sul piano del contenuto del criterio di responsabilità non v’è una significativa divergenza di vedute tra Labeone e Mela, purché si accetti l’idea che la soluzione di quest’ultimo non costituisce altro che la descrizione della struttura pratica del ‘non ultra praestare, quam dolum malum et culpam abesse’ che connota la responsabilità del locatore in caso di obbligazione di specie, implicante la consegna di un  servus mulio’ e non già di un servus imperitus.

In altri termini, nel caso della locazione di specie la culpa sussiste – per Labeone come per Mela – solo qualora al locatore possa essere rimproverato di aver spacciato’ per peritus un soggetto, già determinato nella sua individualità, che invece era imperitus, sicché, ove la condotta del locatore sia immune da tale censura, può aver luogo esclusivamente l’azione extracontrattuale nossale[58]; nel caso della locazione di cosa generica, invece, la neglegentia del servus può costituire un rischio per il locatore qualora egli risulti aver violato uno specifico dovere di praestare posto a sussidio di una ben precisa ‘electio ex fide bona’ all’interno del genus dedotto in obligatione, qualificato dalla particolare funzione dell’uti frui che emege dall’indagine sull’id quod actum est[59].

Appare pienamente chiarito e giustificato, infine, il fondamento storico del discorso del Cannata[60] che, nell’analisi del rapporto obbligatorio nel nostro ordinamento privatistico, distingue quattro (rectius, tre, ma confluiti in quattro distinte norme) fondamentali ‘precipitati storici’ – le prestazioni sussidiarie – dell’obbligazione di praestare romana nel Codice civile del 1942.

Accanto al dovere di neglegentiam / imperitiam praestare, confluiti rispettivamente nel primo e nel secondo comma dell’art. 1176 c.c., egli ricorda anche il dovere di custodia di cui all’art. 1177 c.c.[61] ed il dovere di praestare la qualità media nelle obbligazioni di fornire cose determinate solo nel genere ex art. 1178 c.c.[62], in una con la sua ‘eccezione’, indicata nell’art. 1179 c.c., che consente invece la libertà di scelta della garanzia idonea a chi sia tenuto a prestarla. Il ragionamento di Labeone, che distingue un ‘culpam praestare’ inteso in senso ‘generico’ nel caso di consegna di una cosa determinata nella sua individualità da quello inteso in senso ‘particolare’ nel caso in cui deve essere consegnata, invece, una cosa generica che impone al debitore un dovere sussidiario ad un ‘eligere ex fide bona’ rispecchia, con evidenza, il fondamento culturale e pratico della distinzione tra i contenuti del precetto di cui all’art. 1176 c.c. (‘sin autem ipse eum locassem, non ultra me tibi praestaturum, quam dolum malum et culpam meam abesse’) e quelli di cui all’art. 1178 c.c. (‘quod si sine definitione personae mulionem a me conduxisti et ego eum tibi dedissem, cuius neglegentia iumentum perierit, illam quoque culpam me tibi praestaturum aio, quod eum elegissem, qui eiusmodi damno te adficeret’)[63].

In questa prospettiva, come vedremo meglio in occasione dell’analisi dei problemi posti dalla tradizione romanistica[64], l’art. 1178 c.c. rappresenta una prestazione sussidiaria «propriamente detta»[65] che ha un contenuto ‘diverso’ da quello imposto dalla regola di cui all’art. 1176 c.c.: ove violato, il dovere di assicurare la presenza di certe qualità della cosa, implicite nella convenzione che genera l’obligatio, ridonda, infatti, in un ‘particolare’ problema di culpa, che già nel modello labeoniano risulta tale proprio perché il giurista si rende conto del fatto che la propria soluzione, nel momento in cui viene accentuata la peculiarità del giudizio d’imputazione della responsabilità, risulta significativamente diversa da quella utilizzata, al medesimo fine, nel caso della locazione di un servus determinato nella sua individualità.

 

 

II.

6. – Sul problema dell’id quod actum est: esegesi di Pomp. D. 19.5.26

 

Nel passo di Labeone di cui sinora si è discusso il problema della responsabilità del debitore di genere emerge, se così si può dire, incidentalmente’ rispetto al dato centrale’ della interpretazione secondo la comune volontà delle parti: nel caso esaminato dal giurista, infatti, la res, proprio perché individuata nel genus dei servi del locatore (e, tra questi, uno che fosse idoneo a soddisfare le contingenti esigenze del conduttore) cagionava un danno per una propria culpa, aspetto non ravvisabile, ovviamente, qualora la res non sia costituita da un essere umano.

L’indagine impone, a questo punto, un ulteriore approfondimento del tema della determinazione del contenuto dell’obbligazione di genere dal punto di vista dell’interpretazione dell’id quod actum est, che si ripresenta puntualmente, a prescindere da problemi di responsabilità contrattuale, in alcune soluzioni[66] in tema di prestazione di cose fungibili[67].

Passiamo, quindi, ad esaminare innanzitutto il problema del contenuto di un’obbligazione di genere che sorga da una convenzione innominata. Si consideri, infatti,

 

Pomp. 21 ad Sab. D. 19.5.26 (Lenel, Pomp. 685) Si tibi scyphos dedi, ut eosdem mihi redderes, commodati actio est: si, ut pondus argenti redderes quantum in illis esset, tantidem ponderis petitio est per actionem praescriptis verbis, tam boni tamen argenti, quam illi scyphi fuerunt: sed si ut vel hos scyphos vel ut eiusdem ponderis argentum dares, convenit, dicendum est, <si quidem tua est electio, scyphos statim tuos fieri et te mihi dare posse aut scyphos aut argenutm utrum malis: quod si mihi permissum est eligere, scyphos tuos non fieri antequam dixero me eos habere nolle>. (1)

 

(1) rest. Th. Mommsen ex Bas. 20.4.26 (Scheltema, BT 1013, lin. 21-24).

 

Nel caso in cui Ego consegni a Tu delle coppe d’argento con l’intesa circa la loro restituzione, la fattispecie è riconducibile (per Pomponio forse senza problemi[68]) ad un comodato. Se, invece, Ego le consegna con l’intesa che Tu dovrà restituirgli la stessa quantità d’argento – non già lo stesso argento – di cui sono composte, la convenzione è innominata, sicché per la tantidem ponderis petitio gli è concessa un’azione che, secondo il Burdese, è senz’altro l’a. praescriptis verbis[69] modellata su quella commodati[70], mentre secondo il Gallo[71], recentemente seguito dallo Stolfi[72], il riferimento ai praescripta verba indicherebbe semplicemente che sarebbe concessa al dans una particolare applicazione, in via utilis, di una condictio certae rei. In questo caso, ad ogni modo, il giurista precisa che l’argento da consegnare a Ego deve essere della stessa qualità di quello di cui sono composte le coppe.

Nell’ulteriore sviluppo della quaestio, che il Mommsen ricostruiva[73] alla luce del textus Basilicorum, il giurista introduce anche il problema dell’obbligazione alternativa e configura l’ipotesi che Tu debba restituire ad Ego o le coppe o la quantità di argentum di cui sono composte, precisando che, ove l’electio spetti a Tu, la datio rei ha immediatamente (‘statim’, nella ricostruzione del Mommsen) effetto traslativo e quindi quest’ultimo deve trasferire ad Ego la proprietà delle une o dell’altro; nel caso, invece, in cui la scelta spetti ad Ego, la datio rei non ha effetto traslativo sino a quando questi non abbia dichiarato di non volere le coppe ma, piuttosto, l’argentum.

Anche a voler tralasciare – per il momento – una più precisa indagine sulla configurazione e gli effetti della convenzione innominata, è interessante osservare come, qualora Tu debba consegnare l’eiusdem ponderis argentum, il giurista senta la necessità di precisare che sull’accipiens grava un dovere di consegnare argento della stessa qualità di quello di cui erano composte le coppe.

La soluzione mi pare condizionata dalla circostanza che, in questo caso, a mio avviso la prestazione dell’accipiens ha ad oggetto un ‘reddere’ che, a ben vedere, è assimilabile ad un dare in senso tecnico[74] – vale a dire trasferire la proprietà di un determinato quantitativo di argentum – in un rapporto obbligatorio che, diversamente dal caso delle sponsiones e dei legati obbligatori, prevede pur sempre specifici doveri di buona fede. Soffermiamoci, quindi, su questo aspetto che impone di prendere posizione sul problema dell’azione esperibile dal dans contro l’accipiens.

Due considerazioni preliminari, al riguardo, devono essere svolte, l’una in ordine agli effetti della datio rei, l’altra in ordine alla funzione dell’azione concessa al dans.

Quanto al primo aspetto, il complessivo andamento del passo di Pomponio induce a ritenere che la datio degli scyphi abbia sempre – tranne, come vedremo, in un caso – effetto traslativo, e che il relativo problema sia centrato unicamente sul momento in cui tale effetto si verifica. Sul piano palingenetico, del resto, nel libro XXI dell’ad Sabinum il giurista si occupava di problemi connessi alla condictio[75], sicché è quanto meno verosimile che, anche in questo frammento, si ponesse il problema fondamentale dei presupposti per la configurabilità di un dare e, quindi, ove ammessa, delle sue conseguenze in funzione di una (contro)prestazione rimasta inadempiuta.

D’altronde, per un verso, sul piano del linguaggio adoperato, la consegna è qualificata proprio come dare;  mentre, per altro verso, mi sembra significativo che, nella seconda parte del passo, in cui si fa il caso dell’obbligazione alternativa, Pomponio senta la necessità di precisare i presupposti del passaggio della proprietà degli scyphi a favore dell’accipiens: qualora la scelta tra gli scyphi e l’argentum spetti a quest’ultimo l’effetto traslativo della datio è immediato’; nel caso in cui, invece, la scelta spetti al dans, esso risulta mediato’, o viene addirittura escluso, a seconda che, rispettivamente, questi intenda ottenere dall’accipiens l’argentum oppure le coppe.

Sarebbe dunque priva di significato concettuale e pratico, a mio avviso, una discussione in questi termini per il caso dell’obbligazione alternativa se per il giurista l’effetto traslativo della datio rei fosse stato escluso nel caso esaminato per primo: se ne deve dedurre la riconducibilità della fattispecie-base ad un ‘do ut des’ (assai sinteticamente, un ‘do scyphos ut des argentum’, vale a dire un trasferimento della proprietà degli scyphi argentei posto in essere perché sia a sua volta trasferita la proprietà del loro corrispondente peso in argento). A questo punto, l’effetto traslativo della datio degli scyphi implica che l’accipiens non deve ‘restituire’ lo stesso argento di cui essi erano composti, ma che, piuttosto, è obbligato a dare argentum, determinato in un quantitativo pari a quello del peso delle coppe. L’accipiens è, quindi, un debitore di genere, anche se mi pare difficile dire se di genere ‘limitato’ o ‘illimitato’, ove si consideri che egli non deve necessariamente trarre dall’argento ottenuto dalla fusione degli scyphi la specie con cui può validamente adempiere: di qui l’interesse del giurista ad introdurre la precisazione ‘tam boni tamen argenti, quam illi scyphi fuerunt’.

Quanto al secondo aspetto – problema della funzione dell’actio – è decisivo, secondo me, rilevare che l’azione ritenuta esperibile non è concessa per l’interesse alla mera restituzione delle coppe ma, piuttosto, per tutelare quello ad ottenere il quantitativo di argento corrispondente al loro peso: il suo scopo pratico è, quindi, la tutela dell’interesse positivo del dans, che potrebbe avere bisogno di un certo numero di lingotti d’argento per la cura dei propri affari, magari – ad esempio – per soddisfare uno specifico interesse di un proprio creditore per il tramite del ricorso al (valore reale’ del) metallo prezioso inteso quale merce di scambio in luogo del denaro.

Ciò chiarito, una condictio ob rem dati re non secuta sarebbe sicuramente esperibile – tranne – forse –  che nel caso dell’obbligazione alternativa con facoltà di scelta esercitata dal dans a favore degli scyphi – stante l’effetto traslativo della datio rei[76]; tuttavia, mobilitando una condictio, alla luce di quanto sappiamo su struttura formulare (che prevede una condemnatio al ‘quanti ea res est’) e funzione dell’actio (reipersecutoria in senso stretto, in quanto limitata al mero recupero della valore della res trasferita senza giustificazione al momento della litis contestatio), l’accipiens otterrebbe soltanto il valore degli scyphi, cioè qualcosa di meno addirittura dell’interesse negativo[77].

In sostanza, con la condictio il dans non otterrebbe affatto il valore del suo interesse alla trasformazione delle coppe nel loro equivalente in argento, che rappresenta l’interesse positivo cui fa riferimento Pomponio: questo contenuto della funzione reipersecutoria è estraneo, infatti, alla condictio. Il rimedio dell’a. praescriptis verbis, quindi, non può essere ricondotto ad una condictio, seppure in via utilis, in quanto non funzionale al risultato pratico di cui i giurista discute, ma semmai ad una forma di tutela ben più ampia che consenta al dans di domandare l’interesse positivo all’attuazione della (contro)prestazione dipendente dalla datio traslativa.

In quest’ottica, mi convince maggiormente l’impostazione del Burdese rispetto a quella del Gallo[78]. Direi forse di più: alla luce della ricostruzione del problema processuale indicata, da ultimo, dal Cannata[79], riterrei altresì che la formula dell’actio, in questo caso, seppur non necessariamente esemplata su quella dell’a. commodati, contenesse, in luogo della demonstratio prevista nelle formulae che presidiano i rapporti obbligatori di buona fede tipici, la descrizione ‘in factum’ del rapporto intercorso tra le parti[80], con conseguente intentio in ius concepta contenente il riferimento alla bona fides[81].

Siamo in grado di comprendere, a questo punto, la ragione della precisazione in ordine alla bonitas dell’argentum, a torto censurata dal Beretta[82]: Tu – come abbiamo visto – è debitore di genere, ma pur sempre ex fide bona, sicché egli non si libera trasferendo al dans la proprietà di un certo quantitativo di argento di qualsiasi qualità, ma piuttosto di argento della stessa qualità di quello di cui le coppe erano composte.

Anche in questo caso, quindi, la scelta della res all’interno del genus non può considerarsi libera’: essa risulta condizionata, piuttosto, dalla necessità di identificare l’oggetto della prestazione, sul piano dell’id quod actum est, con un genere qualificato’ che è implicito nel contenuto della convenzione innominata. Di conseguenza, quantunque l’accipiens sia obbligato a dare, non può dare qualsiasi cosa, anche la peggiore, individuata all’interno del genus, ma piuttosto deve dare una determinata quantità di argentum che, per via dell’interpretazione di buona fede, deve essere di quella stessa qualitas di quello di cui erano composti gli scyphi.

Ne consegue che, in un rapporto obbligatorio di buona fede, il debitore di genere – che si tratti di un genus (limitato?) di cose infungibili (Lab. D. 19.2.60.7) o di un genus (illimitato?) di cose fungibili (Pomp. D. 19.5.26) – non può «scegliere qualsiasi cosa, anche quella della qualità peggiore»[83] per adempiere l’obbligazione; e che ciò può implicare, come effettivamente avviene nel caso del servus mulio, problemi di responsabilità che, peraltro, devono essere tenuti distinti dalla diversa problematica della determinazione del contenuto della prestazione.

 

7. – Id quod actum est ed aequitas: esegesi di Pomp. D. 12.1.3

 

L’esegesi di questo frammento consente, a questo punto, di meglio comprendere, a mio avviso, il problema della qualità della prestazione di genere nel mutuo. Forse non a caso, infatti, proprio Pomponio è il giurista cui si deve la soluzione, ricordata dal Voci[84], per cui nella prestazione di dare del mutuatario il tantundem eiusdem generis comprende, a prescindere da un cavere in tal senso, anche la bonitas.

Vediamo, quindi, se tra le due soluzioni del giurista è possibile riscontrare qualcosa di più di una mera assonanza strutturale’ e passiamo all’esame di

 

Pomp. 27 ad Sab. D. 12.1.3 Cum quid mutuum dederimus, etsi non cavimus, ut aeque bonum nobis reddetur, non licet debitori deteriorem rem, quae ex eodem genere sit, reddere, veluti vinum novum pro vetere: nam in contrahendo quod agitur pro cauto habendum est, id autem agi intellegitur, ut eiusdem generis et eadem bonitate solvatur, qua datum sit.

 

La ragione per cui, secondo Pomponio, l’obbligazione di dare del mutuatario comprende anche la bonitas è ricondotta espressamente ad un problema di aequitas (‘ut aeque bonum nobis reddetur’): essa, anche in questo caso, a mio avviso «esprime l’esigenza di una disciplina adeguata, nell’ambito di un quadro istituzionale che è sì dato, ma in cui, all’interno del sistema aperto del ius controversum, i prudentes possono variare i valori recepiti, senza che si sentano, però, mai legittimati a sovvertirli bruscamente»[85].

Se, quindi, il riferimento all’aequitas indica l’esigenza di una ‘variazione’ dei valori normalmente recepiti, ciò significa che il ius strictum astrattamente applicabile è ‘iniquo’ perché il mutuatario ben potrebbe, in quest’ordine di idee, liberarsi restituendo res deteriores rispetto a quelle ricevute: ne consegue che il giurista, tramite l’aequitas, ‘corregge’ questa soluzione ritenendo implicita nella convenzione sottesa al mutuo anche la qualitas della res da restituire.

In altre parole, se l’aequitas guida il giurista nell’interpretazione dell’id quod actum est così come lo guidava la bona fides nel caso dell’obbligazione di dare argentum della medesima qualità di quello ricevuto con la datio degli scyphi nel passo esaminato per primo[86], mi pare in linea di principio convincente lo spunto del Vassalli che, al riguardo, osservava come in questo caso «il genus dedotto in obbligazione è precisamente determinato, anche rispetto alla qualità, dalla species che fu data»[87]: l’esegesi dell’insigne Autore va solamente precisata, in quanto per il giurista è, comunque, l’interpretazione secondo aequitas della convenzione sottesa alla datio rei – che in qualsiasi contratto reale configura l’obligatio[88] ad imporre di ritenere determinata la qualitas insieme con il genus, e non la datio in sé.

Di conseguenza, quantunque in questo caso ci si trovi di fronte alla condictio, che presidia un rapporto obbligatorio di stretto diritto[89], la qualità del tantundem non potrà essere deterior, a prescindere da un cavere in tal senso, in quanto nella configurazione del rapporto obbligatorio tale dovere deve intendersi ‘pro cauto’. Nel tantundem eiusdem generis v’è, quindi, ‘aeque’ anche la eadem bonitas, sicché, ancora una volta, la scelta non è libera: il che non significa che la qualità costituisce, di per sé, un naturale negotii[90] nel mutuo, ma che, piuttosto, lo diviene per il tramite della funzione normativa’ dell’aequitas, che a mio avviso svolge il medesimo ruolo della bona fides nella convenzione innominata discussa da Pomponio in 21 ad Sab. D. 19.5.26.

 

8. – Estensione del ‘modello’ alla condictio indebiti

 

Una volta che la qualitas che connota il genus dedotto nell’obbligazione del mutuatario diviene un vero e proprio naturale negotii, non parrà, a questo punto, disagevole riscontrare, nella più recente elaborazione di Paolo, una soluzione sovrapponibile a quella or ora esaminata anche in caso di indebiti solutio: anche in questa ipotesi, quantunque la figura in esame dia luogo, come noto, ad un rapporto obbligatorio acontrattuale presidiato da un iudicium stricti iuris, l’oportere impone comunque all’accipiens, come nel caso del mutuo ed in quello della convenzione che obbliga a dare l’eiusdem ponderis argentum, di restituire res della medesima bonitas di quelle indebitamente percepite.

In Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65.6, a torto un tempo sospettato ed ora, con il Pellecchi[91], da ritenersi invece – a parte il riferimento alla condictio pretii giustinianea – un testo sostanzialmente attendibile, la ‘bonitas’ pare, infatti, ormai definitivamente ricondotta ad un effetto naturale della vicenda che genera il rapporto obbligatorio, per modo che l’accipiens  ha un dovere restitutorio che ha ad oggetto un cose generiche qualificate dalla qualità della specie indebitamente ricevuta:

 

In frumento indebito soluto et bonitas est <?> [et si consumpsit frumentum pretium repetet].

 

Sul piano dommatico, non escluderei dunque che la ‘media sententia’ tradizionalmente ricondotta alla Geistesart giustinianea non costituisca una integrale novità culturale’ propria del VI secolo ma possa avere, piuttosto, una radice classica nell’interazione tra l’indagine dei prudentes nell’ambito delle questioni poste dall’esecuzione di rapporti obbligatori di stretto diritto e quella relativa ai rapporti di buona fede.

 

 

III.

9. – Individuazione della specie ed exceptio doli: esegesi di Iav. D. 17.1.52

 

9. Giungiamo, quindi, alla terza linea direttrice della nostra ricerca per esaminare come, quasi di riflesso, in alcuni casi in cui il dogma’ in esame appare pacificamente applicabile dal punto di vista delle logiche del ius civile, il problema della buona fede nell’individuazione della specie all’interno di un genus emerga comunque e, non a caso, sia presidiata per il tramite dei rimedi previsti dall’editto pretorio in tema di dolo.

In questa prospettiva mi sembra particolarmente significativo un passo di Giavoleno. Si tratta di

 

Iav. 1 epist. D. 17.1.52 [Fideiussorem] <Sponsorem>, si sine adiectione bonitatis tritici pro altero triticum spopondit, quodlibet triticum dando reum liberare posse existimo: a reo autem non aliud triticum repetere poterit, quam quo pessimo tritico liberare se a stipulatore licuit. Itaque si paratus fuerit reus, quod dando ipse creditori liberari potuit, [fideiussori] <sponsori> dare et [fideiussor] <sponsor> id quod dederit, id est melius triticum condicet, exceptione eum doli mali summoveri existimo.

 

Prima di procedere all’analisi del passo, mi pare opportuno ricostruire la fattispecie oggetto della soluzione del giurista.

Lo sponsor[92], qualora a garanzia dell’adempimento di un’obligatio abbia promesso del frumento senza precisarne la bonitas nella conceptio verborum della sponsio, può liberare il debitore principale trasferendo al creditore la proprietà di frumento di qualsiasi qualità: dal debitore, tuttavia, secondo il giurista non potrà ripetere nessun altro tipo di frumento, se non quello, anche di pessima qualità, che sarebbe per lui risultato idoneo ad una valida solutio. Pertanto, qualora il debitore sia disponibile a dare al garante frumento di quella stessa qualità con cui si sarebbe potuto liberare[93], ma quest’ultimo agisca egualmente in rivalsa domandando, piuttosto, frumento di qualità migliore, può essergli opposta l’exceptio doli.

Due considerazioni preliminari s’impongono.

In primo luogo, il condicere di cui parla il giurista  – che non pare, di per sé, implicare una qualificazione dell’actio esperibile – parrebbe semplicemente connotare il riferimento ad un certum petere che, con ogni probabilità, va ricondotto all’a. depensi[94], con cui – secondo la dottrina maggioritaria[95] – lo sponsor può agire in regresso, in questo caso, contro il debitore principale. In secondo luogo, è in questo caso irrilevante il problema della durior condicio, in quanto il contenuto della soluzione di Giavoleno non va a regolare il rapporto tra garante e creditore, ma semmai quello tra garante e debitore principale: anzi, il presupposto del ragionamento del giurista mi pare risieda proprio nella circostanza che il garante risulti obbligato verso il creditore in eandem causam[96].

Ciò chiarito, il passo, a mio avviso, è interessante dal nostro punto di vista per un duplice ordine di ragioni.

Innanzitutto, occorre osservare come, nei rapporti tra sponsor e creditore, nonché tra quest’ultimo e debitore principale, l’obbligazione generica di dare in senso tecnico, dal punto di vista della validità o meno della solutio, risulti senza alcun serio dubbio governata dal dogma’ tradizionalmente accolto[97]: Giavoleno dà, infatti, per presupposto che tanto il garante (‘quodlibet triticum dando reum liberare posse existimo’) quanto il debitore principale (‘si paratus fuerit reus, quod dando ipse creditori liberari potuit, [fideiussori] <sponsori> dare’) possano liberarsi consegnando al creditore frumento di qualsiasi qualità, anche della peggiore.

In secondo luogo, mi pare però davvero significativa la configurazione del rapporto obbligatorio che intercorre, piuttosto, tra sponsor e debitore garantito, che si riverbera sul problema dell’individuazione della specie in quello che intercorre tra garante e creditore.

In quest’ultimo caso, il collegamento – a rigore di logica indefettibile – tra l’efficacia solutoria del datum depensum da un lato e la sua ripetibilità dal debitore principale dall’altro sembra emergere in termini in una certa misura ‘contraddittori’: al riguardo, infatti, si può osservare che, sul piano del ius civile, il debitore non può validamente adempiere nei confronti del garante consegnandogli frumento di qualsiasi qualità, dovendogli piuttosto dare quanto corrisponda esattamente al ‘datum depensum’ a favore del creditore; sul piano del ius honorarium, tuttavia, emerge l’impossibilità, per il garante, di pretendere dal debitore, in rivalsa, frumento di qualità migliore di quella sufficiente ad adempiere, a prescindere dal contenuto del ‘datum depensum’.

Vediamo, quindi, ragioni ed implicazioni pratiche di questa ‘impasse’.

A mio parere, la configurazione dell’individuazione della specie in occasione della solutio del garante nei confronti del creditore, quantunque sul piano delle logiche formali che governano l’efficacia liberatoria dell’adempimento possa cadere su qualsiasi res purché individuata all’interno del genus dedotto in obligatione, finisce per essere comunque condizionata, seppur indirettamente, dalla bona fides che connota l’altro rapporto obbligatorio, vale a dire quello tra garante e debitore.

Da questo diverso punto di vista, di conseguenza, l’individuazione della res non può considerarsi libera’, in quanto una solutio più gravosa di quella che estinguerebbe il rapporto obbligatorio garantito preclude poi allo sponsor, per il tramite dell’exceptio doli, di ‘melius triticum condicere[98] con l’azione di rivalsa.

Se, a questo punto, si considera che l’azione del garante non è qui riconducibile ad un iudicium bonae fidei, ma piuttosto ad un’azione di stretto diritto quale è l’a. depensi, si potrebbe dire che l’exceptio doli proietti’ nel rapporto obbligatorio quanto sarebbe stato automaticamente valutato dal giudice qualora, anziché questa azione, il garante avesse mobilitato l’a. mandati contraria[99]. Infatti, la consegna al creditore, da parte del garante, di frumento di qualità migliore di quella sufficiente a liberarsi non può ricondursi in questo caso ai sumptus bona fide necessarii facti sicché costituirebbe un’ipotesi di eccesso di mandato: egli si rende inadempiente nei confronti del mandante-garantito nel momento in cui pone in essere l’electio del miglior frumento senza alcuna specifica, cogente necessità[100].

Ciò conferma, in ultima analisi, che, nell’adempiere nei confronti del creditore principale, il garante, per via del rapporto di buona fede intercorso con il garantito, non aveva, sul piano del ius honorarium che consente l’inserimento dell’exceptio doli nella formula dell’a. depensi, quella facoltà di scelta nell’individuazione della specie che il ius civile gli riconosce sul piano dell’efficacia liberatoria del pagamento; o, forse meglio, che le conseguenze della scelta di adempiere trasferendo la proprietà del miglior frumento disponibile sul mercato ricadono interamente nella sua sfera patrimoniale e, quindi, vanno a suo danno, in quanto ex fide bona, cioè in forza del rapporto di mandato, egli doveva piuttosto adempiere – sicché da questo punto di vista il dogma’ appare, più che critico, insufficiente per descrivere la complessità del fenomeno in esame – con la prestazione meno onerosa per il debitore principale.

È quasi un’ovvietà, a questo punto, richiamare l’aequitas per giustificare l’exceptio doli: è con essa, però, che il giurista configura un mezzo di difesa che neutralizza’, a favore del debitore, tanto le conseguenze della libera individuazione della specie, ove sia tale da derogare alla bona fides, quanto quelle dalla scelta, da parte del garante, del iudicium stricti iuris piuttosto che di quello bonae fidei. In altri termini, la possibilità di esperire l’a. depensi, che consentirebbe al garante di condicere il miglior triticum oggetto del ‘datum depensum’ e di ottenere, in caso di infitiatio, la condanna addirittura al duplum, non trova protezione sul piano del ius honorarium ove finisca per contrastare con la bona fides[101].

 

10. – Individuazione della specie ed actio de dolo: esegesi di Afr. D. 30.110

 

Su un piano analogo[102] a quello che giustifica l’exceptio doli di Iav. D. 17.1.52 è, secondo me, l’a. de dolo in Afr. 8 quaest. D. 30.110:

 

Si heres generaliter servum quem ipse voluerit dare iussus sciens furem dederit isque furtum legatario fecerit, de dolo malo agi posse ait. [Sed quoniam illud verum est heredem in hoc teneri, ut non pessimum det, ad hoc tenetur, ut et alium hominem praestet et hunc pro noxae dedito relinquat].

 

In caso di legato obbligatorio, avente ad oggetto un ‘generaliter dare servum’ con scelta a favore dell’erede, può essere esperita l’a. de dolo ove quest’ultimo, consapevolmente, trasferisca al legatario la proprietà di un servo fur e questi lo derubi.

L’interpolazione, indicata sia dal Vassalli[103] sia dall’Albertario[104], anche a mio parere è configurabile, anche se mi pare plausibile ipotizzare che la soluzione riportata nel tratto ritenuto spurio non sia altro che una compressione ideologica’ del testo classico che  forse semplicemente descriveva la possibile configurazione del risultato pratico della cd. clausola arbitraria che connota la struttura formulare dell’azione: per evitare la condanna, in altri termini, l’heres avrebbe potuto praestare un altro servus e lasciare pro noxae dedito il fur al legatario[105], così ottenendo l’assoluzione. Non può escludersi a priori, quindi, che il chiaro riferimento ad una disciplina inattuale ai tempi di Africano – che, cioè, preveda automaticamente e senza implicare quanto meno il richiamo all’aequitas, già sul piano del ius civile, la configurazione della qualitas delle cose generiche dedotte in obligatione – possa al limite celare una sorta di eterogenesi’ di un’argomentazione più ampia, forse funzionale a chiarire il fondamento della giustificazione di  quegli specifici doveri che, in conseguenza dell’esperimento dell’azione, incombono sul convenuto, nell’ottica classica, soltanto in attuazione della restitutio arbitrio iudicis.

In sostanza, sul piano formale del ius civile, l’obbligazione di dare in senso tecnico è adempiuta; il dolo dell’heres nell’individuazione del servus, antitetico ad una condotta ex fide bona, è, però, coercibile sul piano del ius honorarium e non può considerarsi, quindi, del tutto irrilevante per l’ordinamento, sulla base dei principî sinora evidenziati. Ciò significa che il rapporto obbligatorio di stretto diritto, in questo come in altri casi, si rivela inadeguato rispetto alle esigenze economico-sociali che il diritto privato deve presidiare e continua ad avere una certa importanza, nell’ambito delle soluzioni dei prudentes così come nelle elaborazioni successive, proprie – come ora immediatamente vedremo – anche della tradizione romanistica, unicamente per via della sua semplicità strutturale che ne fa, a mio avviso, più che altro una fonte di regole dommatiche’ adoperate come modelli concettuali’ per soluzioni più complesse[106]: dal punto di vista della configurazione del rapporto obbligatorio che intercorre tra erede e legatario, la formale inconfigurabilità, sul piano del ius civile, di doveri ex fide bona costituisce un limite che il ius honorarium non può non correggere’.

Anche in questo caso, ‘interferenze’ tra bona fides e ius strictum giustificate dall’aequitas, come quelle sinora esaminate, in una con i difficilmente negabili interventi statual-legalistici della cancelleria imperiale[107], possono aver condotto – specie nel momento in cui vien meno il processo formulare e la distinzione dommatica tra tutela civile e tutela onoraria tende progressivamente a sfumare sul piano del suo risultato pratico – alla progressiva configurazione della media sententia giustinianea, che in linea di principio impone all’erede, in caso di legato di genere, di consegnare al legatario res di qualità non inferiore alla media.

 

11. – I problemi posti dalla tradizione romanistica: criticità della ‘corrispondenza’ tra gli artt. 664 c.c. e 1178 c.c.

 

11. Sarebbe interessante, a questo punto, riesaminare per quali vie i principî sinora emersi siano pervenuti alle moderne codificazioni, in cui il precipitato storico’ della tradizione romanistica compare, sul punto, in termini tendenzialmente uniformi: limitandoci agli esempi più significativi, l’art. 1246 code civil e l’art. 1248 del Codice civile del Regno d’Italia impongono, infatti, al debitore di non dare il pessimum, laddove, in positivo’, fanno riferimento al parametro della qualità media’ l’art. 1167 del Código civil, il nostro art. 1178 c.c. vigente ed il § 243 BGB[108]. L’analisi delle fonti intermedie induceva, invero, l’Astuti a ritenere che «in ordine alla scelta della specie del genere dovuto, ai fini dell’adempimento, le fonti presentavano soluzioni diverse, con riguardo agli obblighi dell’erede onerato da legati, del venditore, dell’obbligato ex stipulatu»; ma che alla fine «gli interpreti accolsero in linea di massima il criterio enunciato dai compilatori, per cui il debitore non può prestare il pessimum, e rispettivamente il creditore non può pretendere l’optimum, ma la scelta deve cadere sulla specie mediae aestimationis»[109]. Questa autorevole lettura delle fonti intermedie giustificherebbe, quindi, come il risultato giustinianeo’ e, con esso, il fondamento culturale e pratico dei contenuti delle norme recepite nelle moderne codificazioni risulti, in fin dei conti, una regola dommatica che si rivela una conseguenza della storia’ sul piano dell’elaborazione concettuale della tradizione romanistica.

Al riguardo, un ulteriore approfondimento della questione è qui improponibile, così come non è possibile un riesame dei problemi posti dall’art. 1378 c.c. («trasferimento di cosa determinata solo nel genere»), da ritenersi, a mio parere, connessi al tema, in parte diverso, dei rapporti tra ‘admensio’ e ‘traditio’ nella vendita di genere che, nelle fonti a nostra disposizione, emerge soprattutto in Alex. Sev. C. 4.48.2 (a. 223)[110].

Vorrei invece soffermarmi, seppur brevemente, quanto meno sul contenuto dell’art. 1178 c.c. («obbligazione generica») dal punto di vista della sua distinzione da quello dell’art. 664 c.c. («adempimento del legato di genere»)[111], in cui si legge che l’onerato «è obbligato a dare cose di qualità non inferiore alla media» (primo comma) e che, ove la scelta spetti ad un terzo o al legatario, «questi devono scegliere una cosa di media qualità» (secondo comma): parte della dottrina, infatti, tende a suggerire che, in fin dei conti, ci troveremmo di fronte a due disposizioni che finirebbero per esprimere una medesima regola, esplicitata quale criterio generale e suppletivo’ dall’art. 1178 e quale criterio speciale’ dall’art. 6641-2 c.c.[112]. Al riguardo, il Masi osserva che «tale formulazione della norma, che riconosce la possibilità per l’onerato di scegliere, nell’ambito del genere indicato, cose di qualità superiore alla media e, quindi, anche la cosa o le cose migliori, corrisponde alla disposizione di carattere generale, in materia di obbligazione generica, dell’art. 1178»[113].

Al di là della particolare giustificazione addotta dal Masi, l’idea della corrispondenza’ tra le due norme trova riscontro, invero, già in una certa misura nella dottrina dei commentatori del code civil, ove si consideri che l’art. 1022, dettato in tema di legato di genere, era inteso come una estensione’[114] del principio stabilito nell’art. 1246 in tema di debito di genere: l’impostazione francese si riflette, quindi, su genesi ed applicazione teorico-pratica del Codice civile del Regno d’Italia nel rapporto tra gli artt. 870 e 1248, in cui si disponeva, in tema di legato di cosa generica (art. 870, corrispondente all’art. 1022 code civil), che l’erede – cui spetta la scelta – «non è obbligato a dare l’ottima, né può offrirla di infima qualità», mentre in tema di «pagamento in genere», vale a dire di adempimento, imponeva che il debitore di cosa generica «per essere liberato non è tenuto a darla della migliore qualità, ma non può darla neppure della peggiore» (art. 1248, corrispondente all’art. 1246 code civil)[115].

Orbene nel sistema’ del codice vigente – così come, del resto, nel code civil ed in quello italiano del 1865, che sul punto ne dipende – risulterebbe comunque singolare, sul piano della Gesetzgebung prima ancora che della ermeneutica legislativa, la scelta dei conditores – che conservano il ricorso alle due norme in occasione della disciplina di analoghi istituti, vale dire legato e adempimento – di esplicitare la regola della qualità media in tema di legato di genere quando alla medesima soluzione si sarebbe potuti giungere invocando la norma dettata in tema di adempimento in generale: una norma speciale è priva di senso qualora abbia il medesimo contenuto precettivo di quella generale. Fra l’altro, con riferimento al Codice del 1942, non può comunque ritenersi casuale – anche se, come vedremo, la stessa intenzione del legislatore’ appare emergere, al riguardo, in termini in larga misura condizionati dal linguaggio del ius commune – che i verba legis affermino, nell’art. 664.1 c.c., che l’onerato «è obbligato» a dar cose di qualità non inferiore alla media, mentre nell’art. 1178 c.c. recitino che il debitore di genere «deve prestare» cose di qualità non inferiore alla media.

A mio avviso, la criticità’ della questione potrebbe forse ravvisarsi in una – invero plurisecolare – mancata percezione del fatto che le fonti romane di cui sinora abbiamo sinora discusso (e che, ovviamente hanno costituito, nei percorsi culturali e pratici del diritto intermedio, il fondamento dell’interpretazione suggerita dall’Astuti) non sovrappongono mai il problema dell’interpretazione del contenuto del quidquid dare facere oportet ex fide bona (o, comunque, quello del contenuto del dare oportere in senso tecnico determinato aequitate) imposto al debitore di genere a quello dell’obbligazione di praestare posta a sussidio della sua esecuzione, ma piuttosto si esprimono nel senso che altro è il dovere di praestare la qualità media della specie individuabile all’interno del genus, altro la determinazione ex fide bona vel aequitate di essa quale contenuto della prestazione esigibile.

La sovrapposizione’ tra qualità della specie a livello di contenuto della prestazione e dovere di assicurare’ la qualità, a questo punto, può ritenersi prodotto culturale del ius commune in cui, se le prestazioni di dare, facere e praestare erano considerate distinte, allo stesso tempo di quest’ultima, già sul piano terminologico, «si era perso il senso», una volta inteso «come “eseguire una prestazione”, attribuendogli così un significato che ripeteva, sintetizzandolo, quello degli altri due verbi»[116]. Non a caso, del resto, il Pothier, a proposito di Lab. D. 19.2.60.7, non distingueva con chiarezza la soluzione della locazione ‘sine definitione personae’ da quella del servo determinato nella sua individualità, trattando l’una e l’altra come un unico problema di culpa rilevante per l’imputazione al locatore del vizio della cosa locata[117].

Le fonti classiche, tuttavia, ove intese secondo l’esegesi qui suggerita ed ove richiamate quale «criterio comprimario di ermeneutica legislativa»[118], possono costituire il punto di partenza per un’ulteriore riflessione sul reale significato di questa duplicità’ di norme che, lungi dal costituire un’anomalia’ nel tessuto normativo del codice, è in realtà una conseguenza dell’immanenza’[119] del diritto romano nel nostro ordinamento, al di là di possibili fraintendimenti che, per quanto plurisecolari, sembrerebbero in fin dei conti conseguenza più dell’acritica recezione di un certo linguaggio che di una sostanziale divergenza dommatica rispetto alle logiche dei prudentes.

In quest’ordine di idee, adoperando la dommatica del Cannata[120], l’art. 664.1 c.c. fa riferimento, a mio parere, al contenuto della prestazione autonomamente azionabile mentre l’art. 1178 c.c. costituisce la disciplina di quella non autonomamente azionabile: la prima, cioè, esplicita il contenuto della prestazione; la seconda i doveri strumentali alla sua esatta esecuzione, configurando di conseguenza le condizioni del giudizio d’imputazione dell’eventuale inadempimento.

Possiamo, tuttavia, essere forse più precisi.

Riguardo la formulazione dell’art. 664.1 c.c., potrebbe forse dirsi che la preoccupazione’ da parte dei conditores di esplicitare una determinazione legale della qualitas dell’obbligazione generica ex testamento sembrerebbe, per certi versi, il frutto di un condizionamento culturale della tradizione romanistica in cui, come è noto, il rapporto obbligatorio che intercorre tra l’erede ed il legatario per damnationem non contiene la clausola di buona fede: la norma, cioè, stabilendo che nel genus delle cose legate dedotto in obligatione rientra ex lege anche la qualità media, non farebbe altro che precisare – come già intuivano i commentatori dell’art. 1246 code civil, pur senza distinguere tra contenuto della prestazione e dovere di assicurarne l’esecuzione[121] – quanto in realtà sarebbe già implicito ex fide bona, stante per l’assenza, nel nostro ordinamento, di rapporti obbligatori di stretto diritto come quelli romani classici una volta recepita nel dettato normativo del codice la clausola generale di cui all’art. 1175 c.c. («comportamento secondo correttezza»).

Se, tuttavia, come osserva argutamente il Cannata, non si può invocare l’art. 1175 c.c. «come una specie di prezzemolo»[122], al di là di questo possibile condizionamento culturale si deve recuperare un senso pratico alla scelta dei conditores di codificare in questi termini il contenuto della prestazione del legatario nel senso che la qualità della specie costituisca, di per sé ed a prescindere da ulteriori indagini, parte integrante di un dovere principale di dare (in senso tecnico) e non un dovere accessorio di buona fede, seppur per altre vie non estranea di certo a questa tipologia di rapporti obbligatori: il che non è distante, sul piano giuspolitico, dalle scelte operate dalla cancelleria imperiale nel VI secolo[123].

A questo punto, in adesione alla tesi del Cannata che, come già ricordato, considera tanto l’art. 1176 c.c. quanto l’art. 1178 c.c. come sede normativa di prestazioni sussidiarie in senso tecnico cui «corrispondono i cosiddetti criteri di responsabilità»[124], ritengo che debbano essere valorizzate, ancorché precisate, alcune riflessioni che – muovendo dall’idea tedesca della Nachbeschaffungspflicht’[125] – ravvisano nell’art. 1178 c.c. o un dovere di «mettere in essere una attività idonea … a mantenere la possibilità di adempimento» di una prestazione avente ad oggetto cose determinate soltanto nel genere[126] od, al limite, una particolare obbligazione complessa’ di facere in fin dei conti strumentale a quella di dare[127].

L’art. 1178 c.c., in sostanza, «è regola – come osserva il di Majo – riguardante l’adempimento, e non l’oggetto dell’obbligazione»[128], quantunque non possa poi ritenersi pienamente condivisibile l’idea che essa contribuisca «a pre-fissare la qualità dell’adempimento, limitando la libertà del debitore»[129]. Piuttosto, come abbiamo già avuto modo di accennare in occasione della valutazione di Lab.  D. 19.2.60.7 come modello concettuale’ di uno specifico problema di responsabilità, l’art. 1178 c.c. è la sede normativa di una prestazione sussidiaria propriamente detta che può configurare la struttura pratica di una particolare’ responsabilità per colpa, qualora risulti imputabile al debitore un danno risarcibile per la violazione del dovere di praestare posto a sussidio della corretta scelta’ della specie all’interno del genus dedotto in obligatione.

Questa prospettiva interpretativa, che mi pare in fin dei conti l’unica capace di distinguere esattamente l’ambito di operatività delle due norme, parrebbe nondimeno evidenziare, come si accennava, una singolare eterogenesi dei fini perseguiti dal legislatore, se si considera che, nel lavori preparatori del Codice civile, si legge che nella formulazione dell’art. 1178 c.c. sarebbe stata utilizzata la parola prestare’ e non dare’ per riferire la norma «a qualunque prestazione e non soltanto a quelle di dare in senso tecnico»[130]: riterrei, al riguardo, che il ricorso a questa terminologia – con cui si vorrebbe, in sostanza, imporre l’applicazione dell’art. 1178 c.c. non solo alle prestazioni di trasferire la proprietà di una cosa, ma a qualsiasi altra che ne preveda la mera consegna – ben possa costituire il riflesso di un momento storico in cui la dottrina romanistica e, con essa, quella civilistica non aveva (e forse tuttora non ha[131]) ancora recuperato, dopo la generalizzazione terminologica’ del diritto comune, la piena percezione del reale significato, nell’esperienza dei prudentes come nella sua tradizione culturale e pratica, del contenuto dell’obbligazione di praestare, la cui configurazione appare oggi il frutto di una complessa riflessione che ha avuto proficuamente inizio con l’indagine del Mayr[132] e consapevole elaborazione scientifica solamente con le più recenti precisazioni del Cannata[133].

In sostanza, rimosso il condizionamento, meramente sovrastrutturale, derivante dal ricorso al particolare linguaggio di cui abbiamo discusso, l’art. 1178 c.c. – insieme con l’art. 1176 c.c.[134] – deve ritenersi in fin dei conti, nel sistema’ del nostro codice, una norma in materia di colpa e non una norma in materia di contenuto della prestazione esigibile: altro è, quindi, il dovere (sussidiario) di adoperarsi perché sia messa a disposizione del creditore la qualità media delle res oggetto della prestazione (sicché il creditore non ha azione per il sol fatto che il debitore non si adoperi in tal senso); altro è il dovere (che sia principale, come nel caso dell’art. 664.1 c.c., od accessorio, vale a dire ex fide bona, ex art. 1175 c.c.) di mettere a disposizione cose di qualità media che, ove inadempiuto, può implicare problemi di responsabilità strutturati non già ex art. 1176 c.c. ma, piuttosto, ex art. 1178 c.c. e, quindi, sulla base di un giudizio di imputazione per la violazione di un dovere di praestare in senso tecnico che genera quella specifica figura di culpa’ di cui discuteva Labeone.

 

 



 

[1] Così, testualmente, M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 522: in questo senso anche nella voce Obbligazioni (dir. rom.), in EdD, XXIX, Varese, 1979, 50, che segue G. Grosso, Obbligazioni. Contenuto e requisiti della prestazione. Obbligazioni alternative e generiche, III ed., Torino, 1966, 246 ss. Analogamente, fra i tanti e senza pretese di completezza, P. Voci, Istituzioni di diritto romano, II ed., Milano, 2004, 412, che distingueva – fatti salvi i casi in cui la qualità è determinata nel programma d’obbligazione – il caso del mutuo (l’idem comprende anche la qualità delle res ricevute) da quello della stipulatio (in cui la qualità è irrilevante), precisando l’inesistenza di una regola generale in materia; G. Pugliese, F. Sitzia, L. Vacca, Istituzioni di diritto romano, III ed., Torino, 1993, 519; A. Burdese, Manuale di diritto privato romano, IV ed., Torino, 1993, 570 (pur non escludendo precedenti classici); V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, XIV ed., Napoli, 1960, 415; P. Bonfante, Corso di diritto romano, IV. Le obbligazioni, Milano, 1979 (rist.: corso 1918-1919), 183 s. (limitando l’applicazione della regola ai legati). Appena sfumata la posizione di A. Guarino, Diritto privato romano, XII ed., Napoli, 2001, 797 (nel diritto classico sarebbe stata esclusa solamente la possibilità di liberarsi consegnando la cosa peggiore); molto più articolata è la posizione di F. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, III ed., Milano, 1993, 857, che rileva non solo l’esistenza del problema nell’ambito del rapporto obbligatorio di buona fede, ma sottolinea, in ogni caso, come la soluzione giustinianea non sarebbe altro che una rielaborazione di quella classica. I passi che egli richiama, in tema di vendita, sono peraltro riconducibili, come vedremo, a casi di vendita di specie, nonostante il linguaggio adoperato dai giuristi.

 

[2] V. Scialoja, Tribonianismi in materia di obbligazioni alternative e generiche, in Studi giuridici, II, Roma, 1934 (ma 1898), 110 ss.

 

[3] F.E. Vassalli, Delle obbligazioni di genere in diritto romano, in St. senesi, XXVI, 1909, 51-116, 137-209,  in part. 173-185; Id., Nuove osservazioni sulle obbligazioni alternative e generiche, in St. Cagliari, VIII, 1916, 1-33.

 

[4] E. Albertario, La qualità della specie nelle obbligazioni generiche, in Studi di diritto romano, III, Obbligazioni, Milano, 1936 (ma 1925), 373 ss.; cfr. quindi Id., Corso di diritto romano. Le obbligazioni, I, Milano, 1936, 407 ss. (in cui l’A. ripercorre i propri risultati, non disgiunti da una ricognizione di fonti normative allora vigenti), nonché la pressoché identica lettura di C. Longo, Corso di diritto romano. Obbligazioni (ambulatorie – alternative – generiche – solidali – indivisibili), Milano, 1936, 129 ss. e S. Solazzi, L’estinzione dell’obbligazione nel diritto romano, Napoli, 1931, 76 ss. Invero, è da dirsi che l’impostazione dell’Albertario e di quanti ne abbiano seguito la dottrina non limita – come, ad esempio, le ultime precisazioni in merito di S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano (II ed.) II, Roma, 1928, 129 nt. 4 e P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, X ed., Torino, 1946 (rist. corr.: Milano, 1987), 308 nt. 4 e 522 nt. 18 – alle sole obbligazioni ex testamento il nuovo corso’ giustinianeo, ma lo considera piuttosto riferibile a qualsiasi rapporto obbligatorio (ma cfr. infra, nt. 7). Non apportano, quindi, significative revisioni della questione le successive indagini di P. Beretta, Qualitas e bonitas nell’obbligazione di genere – Intorno alla formula edittale della condictio certae rei, in SDHI, IX, 1943, 202 ss. e di G. Sciascia, Sulla irretrattabilità della scelta nelle obbligazioni alternative e generiche, in Scritti in onore di C. Ferrini pubblicati in occasione della sua beatificazione, II, Milano, 1947, 255 ss., sino all’accurato lavoro di R. Knütel, «In obligatione generis quid est in stipulatione?», in Studi in onore di C. Sanfilippo, III, Milano, 1983, 351 ss., peraltro orientato su una parzialmente diversa area d’indagine. Sulla distinzione tra l’obbligazione alternativa e quella generica insisteva, quindi, G. Grosso, Note in tema di obbligazione generica, in Studi in memoria di F. Vassalli, II, Torino, 1960, 955 ss., senza peraltro rivedere i contenuti della dottrina dominante.

 

[5] R. De Ruggiero, Corso di lezioni di diritto romano. Le obbligazioni, parte generale, A/A 1923-24, 83, discusso e citato testualmente in ampio stralcio dall’Albertario, La qualità della specie, cit., 376, nonché nel Corso, cit., 408 s., con medesima impostazione critica (non vidi: il corso del 1923/24, criticato sul punto dall’Albertario, non è nemmeno riportato nell’Indice SBN curato dall’Istituto centrale per il catalogo unico). È da dirsi, al riguardo, che il De Ruggiero negava, ragionando sulle fonti romane, l’esistenza di una significativa differenza tra diritto classico e diritto giustinianeo (e tuttavia, in Introduzione alle scienze giuriche e Istituzioni di diritto civile, II, Napoli, 1912,  114 – così come poi in Istituzioni di diritto civile (III ed.) III, Messina, s.d. ma dopo il 1928, 42 – affermava che «è ricevuta nel diritto nostro la regola, già accolta dal romano giustinianeo: il debitore come non è tenuto a prestar l’ottima tra le specie appartenenti al genus, così non può neppure prestar la pessima») ritenendo che la libertà del debitore di adempiere con qualsiasi specie rientrante nel genus fosse un principio comune alle due prospettive storiche, e che già i classici avessero introdotto specifici contemperamenti in tema di legati. Sul punto, però, la dottrina oggi tradizionale’ è senz’altro esatta, dato che, come osservava l’Albertario, La qualità della specie, cit., 376, il contrasto tra i testi che ammettono la ‘media sententia’ e quelli che consentono l’adempimento prestando una qualsiasi specie «non è dogmatico, ma storico»; non è, in altri termini, il dogma’ ad essere, di per sé, errato’, né può negarsi come nel VI secolo sia stata progressivamente accolta la soluzione che impone al debitore di prestare cose di qualità media: in realtà, come qui si vorrebbe dimostrare, sul piano dell’interpretazione, già i prudentes avevano configurato soluzioni che, in una certa misura, riconoscevano rilevanza alla qualità della specie nelle obbligazioni generiche.

 

[6] In tema di mutuo, come rilevava il Voci, Istituzioni, cit., 412 nt. 10 (ma già cfr. Perozzi, Istituzioni, cit., 128 nt. 5) Pomp. 27 ad Sab. D. 12.1.3 afferma che il rapporto obbligatorio va configurato ‘ut eiusdem generis et eadem bonitate solvatur, qua datum sit’. La soluzione non creava, peraltro, difficoltà di sorta al Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 184. Secondo l’a., in casi come questi la species del genus da restituire sarebbe determinata da quella che fu data. La soluzione, di sicuro interesse, non spiega, però, per quale ragione, in tal caso, il giurista dovrebbe richiamarsi all’aequitas (cfr. amplius infra, § 7).

 

[7] Le fonti normalmente ricordate al riguardo fanno, del resto, sistematico riferimento a obligationes generate da sponsiones o legati obbligatori: basti pensare a quanto viene esaminato non solo nella compiuta ricerca del Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., passim, od in quella dell’Albertario, La qualità della specie, cit., passim, ma anche più di recente nello studio del Knütel, «In obligatione generis quid est in stipulatione?», cit., passim o, comunque, nella più recente sintesi di A. Gonzáles, Clasificación de las obligaciones. Singulares tipos de obligaciones, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al Profesor José Luis Murga Gener, Madrid, 1994, 127 s.

 

[8] C.A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, Catania, 1996, passim, in part. 121 ss.

 

[9] Perozzi, Istituzioni, II, cit., 128, testo e nt. 5.

 

[10] Grosso, Obbligazioni, cit., 246, da cui le due successive citazioni testuali.

 

[11] Sul problema della ‘bonae fide interpretatio’ cfr. ora E. Stolfi, ‘Bonae fidei interpretatio’. Ricerche sull’interpretazione di buona fede fra esperienza romana e tradizione romanistica, Napoli, 2004, passim, in part. 110 ss. (interpretazione della convenzione) e 139 ss. (interpretazione e rapporti tra bona fides ed aequitas).

 

[12] Cfr. C.A. Cannata, Per lo studio della responsabilità per colpa nel diritto romano classico, Milano, 1969, 254 nt. 3 (ora anche Id., Sul problema della responsabilità, cit., 140 s.). La problematicità della questione è rilevata, quindi, da R. Cardilli, L’obbligazione di «praestare» e la responsabilità contrattuale in diritto romano, Milano, 1995, 361 s.

 

[13] Per il problema del rapporto tra i posteriores di Labeone e l’epitome di Giavoleno, cfr. D. Mantovani, Sull’origine dei «libri posteriores» di Labeone, in Labeo, XXXIV, 1988, in part. 281 per il passo qui esaminato (ivi letteratura), nonché F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana (trad. it. di G. Nocera de History of Roman Legal Science, II ed., Oxford, 1953), 369 ss.

 

[14] Per la correzione in Lab. D. 19.2.60.7, cfr. Th. Mommsen (rec.), Digesta Iustiniani Augusti, Berolini, 1878, I, 573.

 

[15] Di cui seguo, quasi letteralmente, la ricostruzione del caso: cfr. I. Piro, Damnum ‘corpore suo’ dare rem ‘corpore’ possidere. L’oggettiva riferibilità del comportamento lesivo e della possessio nella riflessione e nel linguaggio dei giuristi romani, Napoli, 2004, 93.

 

[16] Cfr. Piro, Damnum ‘corpore suo’ dare, cit., 440 (indice delle fonti).

 

[17] Conservo quindi il testo – a parte tratto ‘id est muli’ che costituisce, con ogni probabilità, un glossema esplicativo rientrato nel testo: cfr. Cannata, Per lo studio, cit., 252 nt. 2; A. Pernice, Labeo. Römische Privatrecht im ersten Jahrunderte der Kaiserzeit, II, 2.1, II ed., Halle, 1900, 64 nt. 1, [id est, muli et servi] – e adotto, salvo quanto esplicitato, la punteggiatura – che consente di leggere il testo con maggiore facilità – che proponeva il Pothier (Le Pandette di Giustiniano riordinate da R. G. Pothier, Volume II., in Venezia co’ tipi di Antonio Bazzarini e C., 1833, 81, che trascrive tra parentesi tonde ‘id est, muli et servi); non trovo condivisibili le correzioni proposte dal Cannata, Per lo studio, cit., 252 (espunzione di ‘conductum’, di ‘ei  e di ‘eum’ nella prima frase; anteposizione di ‘et’ a ‘de loro’). Per il problema della punteggiatura (che si riverbera su quello della traduzione), cfr. R. Knütel, Probleme bei der Übersetzung der Digesten, in ZSS, CXI, 1994, 390-92; ma cfr. anche S. Schipani, Primo rapporto sull’attività della ricerca «Il latino del diritto e la sua traduzione: traduzione in italiano dei Digesta di Giustiniano», in SDHI, LX, 1994, 556.

 

[18] Sul punto, rinvio alla puntuale discussione della Piro, Damnum ‘corpore suo’ dare, cit., 93 ss., 152 ss. Cfr. anche, di recente, P. Ziliotto, L’imputazione del danno aquiliano tra iniuria e damnum corpore datum, Padova, 2000, 124 ss.; F.M. de Robertis, Damnum iniuria datum, Bari, 2000, 73 (l’azione aquiliana, per Mela, concorrerebbe con l’a. locati e sarebbe indizio di una implicita polemica’ con Labeone in ordine alla soluzione confluita in Lab. D. 19.2.60.7); R. Robaye, Remarques sur le concept de faute dans l’interprétation classique de la lex Aquilia, in RIDA3, XXXVIII, 1991, 351; I. Molnár, System der Verantwortung im römischen Recht der späteren Republik, in BIDR, XCII-XCIII, 1989-90, 596; D. Nörr, Causa mortis, München, 1986, 144 e 161; R. Knütel, Die Haftung für Hilfspersonen im römischen Recht, in ZSS, C, 1983, 398 nt. 238; G. Mac Cormack, Aquilian Studies, in SDHI, XLI, 1975, 59; M. Kaser, Periculum emptoris, in ZSS, LXXIV, 162 nt. 27. Sul problema del concorso di azioni (individuato nel rapporto a. ex locato / a. ex lege Aquilia), G. Rossetti, Problemi e prospettive in tema di «struttura» e «funzione» delle azioni penali private, in BIDR, XCVI-XCVII, 1993-94, in part. 347 nt. 9. Il Pothier, Le Pandette, cit., II, 81, traduceva il tratto ‘et eo casu, quo ex locato actio est’ «anche nel caso in cui vi fosse azione Per la conduzione».

 

[19] In questo caso, mi pare che l’azione dovrebbe essere quella directa, non già quella noxalis, ove la si ritenga fondata su un fatto riprovevole del dominus (che comunque porrebbe il problema della configurazione della condotta rispetto all’interpretatio del plebiscito; il che non può passare sotto silenzio): contra, Cannata, Per lo studio, cit., 254 (seguito da Ziliotto, L’imputazione, cit., 121 nt. 35), che pensa all’azione nossale (cfr. anche infra, nt. 38); con notevoli interventi sul testo, U. von Lübtow, Untersuchungen zur lex Aquilia de damno iniuria dato, Berlin, 1971, 154 s., in cui viene prospettata non solo la possibilità della correzione dell’a. ex locato in a. ex conducto, ma altresì l’idea che il tratto finale facesse riferimento ad un’a. in factum, per via del problema della configurazione della condotta, di cui si è detto (cfr. già Pothier, Le Pandette, cit., II, 81 ntt. 6-7: sia l’a. legis Aquiliae richiamata da Mela, sia quella cui fa riferimento Ulpiano, è ritenuta a. utilis, «essendo che non egli precipitò il mulo; ma il mulo precipitò da sé», ivi nt. 6).

 

[20] Si tratta, quindi, di «una classe costruita contingentemente». Seguo, quindi, quasi testualmente, qui come altrove, l’impostazione tecnico-terminologica del Talamanca, Istituzioni, cit., 522 quanto alla connotazione del «genus cui si riporta un’obbligazione generica». Per un’inquadramento elastico’ del concetto di genus in obligatione deductum, cfr. tutta la prima parte della ricerca del Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 53 ss.

 

[21] Cannata, Per lo studio, cit., 254 nt. 3, da cui le due citazioni testuali.

 

[22] Ne conseguirebbe l’estrema probabilità del carattere institicio del tratto finale del frammento (‘quod si – adficeret’): Cannata, Per lo studio, cit., 254 nt. 3 (1969). L’autore, tuttavia, non richiama questa ipotesi nella sua più recente analisi del passo in Id., Sul problema della responsabilità, cit., 140 (1996).

 

[23] I. de Falco, «Diligentiam praestare». Ricerche sull’emersione dell’inadempimento colposo delle «obligationes», Napoli, 1991, 76 ss. e Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362 e nt. 120.

 

[24] Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362.

 

[25] Pothier, Le Pandette, II, cit., 821 e nt. 1: a proposito del caso della locatio conductio del servo determinato nella sua individualità, si sottolinea, infatti, che il danno «sarebbe imputabile a mia colpa, se io lo avessi locato  come esperto; ed in tal caso sarei verso di te tenuto per l’azione Di conduzione, come vien detto  nella l. 29 § 34 ad Leg. Aquil.». Va detto, al riguardo, che il Pothier parrebbe aver ricondotto l’intero passo al problema della responsabilità del locatore per vizio imputabile della cosa locata (che egli trattava diffusamente nel Trattato sul contratto di locazione, trad. it. F. Foramiti, Venezia, Antonelli, 1835, 102 ss., vale a dire parte II, sez. IV, capo I per chi usi una diversa edizione), senza evidenziare la differenza tra le due ipotesi.

 

[26] Sul passo, cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 58 nt. 20 e 140; per la connessione Id., Per lo studio, cit., 254 nt. 1.

 

[27] Celsus etiam imperitiam culpae adnumerandam libro octavo digestorum scripsit: si quis vitulos pascendos vel sarciendum quid poliendumve conduxit, culpam eum praestare debere et quod imperitia peccavit, culpam esse: quippe ut artifex, inquit, conduxit. Sul passo cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 56 s.

 

[28] Seguo Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 56 s. e 138.

 

[29] Rispetto alll’esegesi che il Cannata, Per lo studio, cit., 254 nt. 3 svolgeva nel 1969 (il mulio è in quanto tale peritus, ma risulta neglegens «in un singolo caso») quella che figura oggi in Id., Sul problema della responsabilità, cit., 140 s. appare, quindi, più convincente (Labeone utilizzerebbe senz’altro il modello della culpa-neglegentia). Tenderei, quindi, a non sopravvalutare il problema indicato dal Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362 nt. 120.

 

[30] Cfr. Ulp. 32 ad ed. D. 19.2.13.6 si fullo vestimenta polienda acceperit eaque mures roserint, ex locato tenetur, quia debuit ab hac re cavere. Et si pallium fullo permutaverit et alii alterius dederit, ex locato actione tenetur, etiamsi ignarus fecerit. Come risulta bene da questo testo, un soggetto che svolge normalmente operazioni tecniche può essere tenuto ad imperitiam praestare, ma per le prestazioni non tecniche’ che eventualmente sia tenuto a svolgere accanto alle prime risponde per culpa-neglegentia (nel caso indicato, forse anche, a seconda della struttura della fattispecie, per custodia): cfr. sul punto esattamente Cannata, Sul problema della responsabiltà, cit., 57, che qui seguo quasi letteralmente.

 

[31] Sul punto, cfr. M. Talamanca, Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani, Roma, 1977 (= Quad. Lincei, 221.2), 284 ss. (215 ss. per l’impiego dello schema, in funzione classificatoria, da parte di Labeone).

 

[32] L’oggetto della locazione è sempre il servus, non le sue operae (‘servum meum mulionem conduxisti’), sicché secondo me viene conclusa una locatio rei, e non una ‘locatio operarum’, anche nel caso in cui il mulio loca se stesso (come invece ipotizzano R. Fiori, La definzione della ‘locatio conductio’. Giurisprudenza romana e tradizione romanistica, Napoli, 1999, 113 nt. 183 e la de Falco, «Diligentiam praestare», cit., 75; non mi pare, poi, condivisibile l’idea, prospettata da quest’ultima, per cui la clausola ‘de in rem verso’ dovrebbe ritenersi subordinata’ – non lo sarebbe comunque sul piano della costruzione della formula – a quella ‘de peculio’, dato che normalmente la clausola è unitariamente concepita: sul punto, cfr. D. Mantovani, Le formule del processo privato romano, II ed., Padova, 1999, 81 s. [n. 99] e nt. 369). Sulla possibilità del servus di locare se stesso, cfr. R. Martini, «Mercennarius»- Contributo allo studio dei rapporti di lavoro in diritto romano, Milano, 1958, 40 s.;  E. Valiño, Las relaciones básicas de las acciones adyecticias, in AHDE, XXXVIII, 1968, 384 s., testo e nt. 34 per la connessione con Ulp. D. 9.2.27.34; E.E. Elguera, Situacion juridica de las personas libres que trabajaban como «scribae», in Studi in onore di G. Grosso, II, Torino, 1968, 152; I. Molnár, Object of locatio conductio, in BIDR, LXXXV, 1982, 137; I. Buti, Studi sulla capacità patrimoniale dei «servi», Napoli, 1976, 106; E. Gómez-Royo, G. Buigues-Oliver, Die Haftung der Ärtze in den klassischen und nachklassischen Quellen, in in RIDA (III ser.), XXXVII, 1990, 182 ss.; C. Möller, Die mercennarii in der römischen Arbeitswelt, in ZSS, CX, 1993, 311; A. Wacke, Die Anerkennung der Medizin als ars liberalis und der Honoraranspruch des Artzes, in ZSS, CXIII, 1996, 397 nt. 64; né, quindi, appaiono giustificabili i sospetti da più parti segnalati al riguardo (cfr. F. Schulz, Die Haftung für das Verschulden der Angestellten im klassischen römischen Recht, in GrühnZ, XVIII, 1911, 51; E. Levy, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klassischen römischen Recht, II.1, Berlin, 1922 [rist.: Aalen, 1964], 75 nt. 4; W. Kunkel, Diligentia, in ZSS, XLV, 1925, 329, itp. da ‘si ipse’ in poi; P. Krückmann, Versicherungshaftung im römischen Recht, in ZSS, LXIII, 20; Id., Periculum emptoris, in ZSS, LX, 1940, 162 s., che propone, comunque, la connessione con Ulp. D. 9.2.27.34; Th. Mayer-Maly, Locatio conductio, München-Wien, 1956, 160, C. Alzon, Problèmes relatifs à la location des entrepôts en Droit romain, Paris, 1964, 135 nt. 659, che esclude la locazione di cosa generica).

 

[33] Mi pare quanto meno difficile pensare che, in questo passo, il termine ‘definitio’ possa avere una qualche connessione con quello che figura in Iav. 11 epist. D. 50.17.202 (sul punto, cfr. B. Albanese, «Definitio periculosa». Un singolare caso di duplex interpretatio, in Studi in onore di G. Scaduto, III, Padova, 1970, 330, 363, 368 – ora in Scritti giuridici, I, Palermo, 1991, 701 ss. – nonché A. Guarino, D. 50.17.202: «interpretatio simplex», in Labeo, XIV, 1968, 67 nt. 16).

 

[34] La rogatio da parte del conductor è, a mio parere, implicita nell’espressione ‘a me conduxisti’.

 

[35] Sul problema, cfr. Stolfi, Bonae fidei interpretatio, cit., 83 ss. (che peraltro non esamina il passo).

 

[36] L’espressione è del Cannata, Per lo studio, cit., 253, che vi ricorre, però, a proposito del testo di Mela.

 

[37] Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362.

 

[38] Cannata, Per lo studio, cit., 253; non argomenterei, però, nella prospettiva una ‘Garantiehaftung’ (ivi, 253 nt. 2), che induce l’A. ad escludere l’esistenza (ivi, 254) di una «culpa nella parte» (con conseguente configurazione dell’azione aquiliana prospettata da Ulpiano come nossale: cfr. supra, nt. 19): riterrei, invece, come vedremo meglio nella successiva analisi del passo, che il riferimento a ‘servm imperitum pro perito locare’ altro non sia se non l’esplicitazione del dato strutturale del ‘culpam praestare’ labeoniano nel caso della locazione di specie.

 

[39] Per questa dommatica, e per la terminologia che adopero, cfr. C.A. Cannata, Le obbligazioni in generale, in Tratt. Rescigno, IX.1, II ed., Torino, 1999 (rist.: 2002), 37 e nt. 6; 41 ss., in part. 42.

 

[40] L’Albertario, La qualità della specie, cit., 383, trattando i passi come vendite di genere (cfr. anche il Corso, cit., 421 s. e 423 s.), prospettava ovviamente, l’interpolazione di ‘non utique – dicuntur’ nel § 19.4 (cioè quasi tutto il testo) e di ‘mediocrem cocum’ nel § 18.1, seguito dal Beretta, Qualitas e bonitas, cit., 223 nt. 54; come pure C. Longo, Corso, cit., 141 s.; diversamente il Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 177 ss., pur escludendo esattamente tale possibilità, ne trae un’indicazione utile per affermare che, quand’anche sia dichiarata la qualità della res, il debitore potrebbe pur sempre liberarsi consegnando un servus di minimo valore. In realtà, egli deve dare comunque un servus peritus, ancorché mediocremente; sicché a mio avviso la ricostruzione, da questo punto di vista, non è condivisibile.

 

[41] Pastori, Gli istituti romanistici, cit., 857.

 

[42] Cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 42 ntt. 73 e 75.

 

[43] Cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 584 e, diffusamente, Id., voce Vendita (dir. rom.), in EdD, XLVI, Varese, 1993, 360 ss., ivi letteratura; Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 14. Era possibilista’ anche il Vassalli, Obbligazioni di genere, cit., 58 s.

 

[44] A. Carcaterra, Concezioni epistemiche dei giuristi romani, in SDHI, LIV, 1988, 50 confonde il contenuto del ‘promissum vel dictum’ con il suo effetto, vale a dire il dovere di praestare, per modo che considera Ulp. D. 21.1.19.4 come contenente un «avvertimento» che il servus «non sarà necessariamente “perfectum … neque consummatae scientiae”». Difficile, poi, la connessione del passo con il problema dell’arbitrium boni viri, suggerita da S.D. Martin, A Reconsideration of probatio operis, in ZSS, CIII, 1986, 325: esatta e qui condivisa è la critica di M. Talamanca, in Pubblicazioni pervenute alla Direzione (a proposito di Martin, op. cit., 325), in BIDR, XC, 1987, 639.

 

[45] Cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 42 nt. 73, che critica la tesi di V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano, II ed., Napoli, 1956, 353 ss.: nei casi del dictum circa le capacità tecniche del servus, a mio parere, l’eventuale inadempimento non si risolve necessariamente nemmeno in questioni di culpa, in quanto la qualifica del servus come artifex (più o meno capace, ma purché tale) consegue semplicemente al contenuto della dichiarazione del venditore e risulta, come tale, di per sé valutabile nella formula aedilicia richiesta dall’emptor. Sul problema, cfr. anche M. Memmer, Der «schöne Kauf» des «guten Sklaven», in ZSS, CVII, 1990, 1 ss., in part. 13 nt. 48 e, in part., L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per i vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano, 1994, 133 ss.; per la connessione con il tema della pictura, cfr. quindi F. Lucrezi, La ‘tabula picta’ tra creatore e fruitore, Napoli, 1984, 187.

 

[46] Dal punto di vista della configurazione di due diverse condotte (una che cagiona il perimento, l’altra la ruptio del mulo) incide sulla specifica individuazione dell’azione aquiliana nei due casi; il possibile riferimento a due diversi modelli di condotta del servus (neglegentia nel caso discusso da Labeone; imperitia a seguire il linguaggio di Mela) è, in fin dei conti, irrilevante dal punto di vista della determinazione del contenuto della culpa domini nell’imputazione dell’inadempimento di un’obbligazione di specie.

 

[47] In questa prospettiva cfr. Th. Mayer-Maly, Locatio conductio, cit., 160 (pur dal punto di vista interpolazionistico).

 

 

[48] Per questa impostazione, cfr. Cannata, Sul problema della responabilità, cit., 92 s.

 

[49] Cfr. ancora Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 121 ss., in part. 130.

 

[50] Al riguardo, il Talamanca, Istituzioni, cit., 314 osserva che «nel periodo classico l’ex fide bona segna, indubbiamente, i limiti delle obbligazioni fatte valere col iudicium bonae fidei». Sul problema cfr. ora  Id., La ‘bona fides’ nei giuristi romani: «Leerformeln» e valori dell’ordinamento, in L. Garofalo (cur.), Il ruolo della buona fede oggettiva nell’esperienza giuridica storica e contemporanea. Atti del Convegno internazionale di studi in onore di A. Burdese, IV, Padova, 2003, 184 ss., in particolare 186 (sul problema di doveri complementari’ rilevanti sul piano del diritto onorario; ma v. comunque l’argomentazione dei §§ 35-53); in prospettiva storico-comparatistica, cfr. altresì R. Cardilli, La «buona fede» come principio del diritto dei contratti. Diritto romano e America Latina, in Garofalo (cur.), Buona fede, cit., I, 310 ss. e 333 s.; ora Id., «Buona fede» tra storia e sistema, Torino, 2004, 29 ss.; 53 ss., nonché 100 ss.; per la clausola di buona fede – nell’attuale sistema italiano – come prestazione accessoria’, cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42, 47 ss., in part. 50.

 

[51] Così, testualmente, Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362.

 

[52] Cfr. Cannata, Sul problema della responsabilità, cit., 49 ss., 56 ss.

 

[53] Cardilli, L’obbligazione di «praestare», cit., 362.

 

[54] Così, esattamente, Knütel, Die Haftung für Hilfspersonen, cit., 359 nt. 73 e Voci, ‘Diligentia’, ‘custodia’, ‘culpa’, cit., 107 nt. 11. Riferisce la questione al problema della responsabilità per fatto altrui e, segnatamente, per una culpa in eligendo che funzionerebbe come «colpa presunta»  C.A. Cannata, Una casistica della colpa contrattuale, in SDHI, XLVIII, 1992, 425 nt. 39 (cfr. anche Id., Sul problema della responsabilità, cit., 106 nt. 85, così come, incidentalmente, A. Watson, The Law of Obligations in the Later Roman Republic, Oxford, 1965, 72); in termini analoghi mi pare si orienti G. Mac Cormack, Culpa in eligendo, in RIDA (III ser.), XVIII, 1971, 545 s., confermando la propria esegesi in Culpa, in SDHI, XXXVIII, 1972, 149 – di una vera e propria ‘culpa in eligendo’ (è errata, però, la connessione tra il nostro passo e Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.27.11, proposta da J.A.C. Thomas, Pro Noxal Surrender, in Labeo, XVIII, 1971, 18 nt. 15, e G. Mac Cormack, The Thievisch Slave, in RIDA (III ser.), XIX, 1972, 374 nt. 35 anche perché nel glossema ‘sed haec – habuit’ non figura, a mio parere, questa costruzione: cfr. R. Fercia, Criterî di responsabilità dell’exercitor. Modelli culturali dell’attribuzione di rischio e ‘regime’ della nossalità nelle azioni penali in factum contra nautas, caupones et stabularios, Torino, 2002, 61, 63 ss.). Nella prospettiva della cultura giustinianea, F.M. de Robertis, La responsabilità contrattuale nel sistema della grande Compilazione, I, Bari, 1983, 434 e 446 si orienta per una forma di presunzione assoluta di colpa.

 

[55] Cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 522.

 

[56] Il che impone, comunque, di precisare che la ‘electio ex fide bona’ deve essere valutata in base alla qualità del genus concretamente dedotto nell’obligatio del locatore, quasi certamente da ricondursi, come si accennava, ai servi della sua familia: ciò significa che, ove per avventura i servi del locatore, all’interno di tale categoria contingentemente determinata, siano tutti mediocri, il debitore adempie esattamente mettendo a disposizione del conduttore il soggetto che possa soddisfare, nel miglior modo possibile, l’interesse di quest’ultimo all’esecuzione del rapporto obbligatorio.

 

[57] Cfr. supra, nt. prec. e nt. 20.

 

[58] In questa sola ipotesi, a mio avviso, può trovare spazio questa possibilità, che il Cannata, Per lo studio, cit., 254 riferisce al caso in cui, secondo Ulpiano, si può agire non solo ex conducto (o ex locato?) ma altresì ex lege Aquilia. Cfr. supra, 19.

 

[59] Mi pare, quindi, esatta, in linea di principio, l’impostazione di P. Stein, Fault in the Formation of Contract in Roman Law and Scots Law, Edinburgh-London, 1958, 106 s.; meno convincente R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundation of the Civilian Tradition (utilizzo la rist. in paperback dell’ed. Juta & Co., Ltd., South Africa, 1990), Oxford, 1996, 362, che distingue tra schiavo individuato dal conduttore (primo caso) e schiavo individuato dal locatore (secondo caso).

 

[60] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42 s. e 56, la cui dommatica tento qui di sintetizzare.

 

[61] Che, peraltro, in quanto prestazione sussidiaria complementare, non è sovrapponibile alla figura del custodiam praestare elaborata dai prudentes (Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 60 s., testo e nt. 71).

 

[62] La questione storica è impostata esattamente, quindi, dal Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42 s. e 56; C.M. Bianca, Diritto civile, IV. L’obbligazione, Milano, 1993 (rist. agg.: 2004), 98 s., in part. 99, richiama Grosso, Obbligazioni, cit., 246, rilevando come le fonti romane non fossero univoche; per la configurazione del problema nell’attuale ordinamento, mi limito ad un rinvio a U. Breccia, Le obbligazioni, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 1991, 216 ss., e 259 per altra letteratura, nonché all’accurata trattazione di A. di Majo, Dell’adempimento in generale, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1994, sub art. 1178 c.c., 16 ss., in part. 23 ss. per il problema delle regole di individuazione della specie.

 

[63] Il precipitato storico della distinzione non rileva solo nella formulazione di due diverse norme nel nostro codice civile – gli artt. 1176 e 1178 c.c. – ma altresì le scelte di altri conditores: cfr., ad esempio il § 243 BGB (sul punto, cfr. di Majo, Dell’adempimento, cit., sub art. 1178 c.c., 24 ss.); per i problemi posti dalla CVIM, cfr. C.M. Bianca (coord.), Convenzione di Vienna sui contratti di vendita internazionale di beni mobili, in NLCC, XII, 1989, 150 s., nonché V. Buonocore, A. Luminoso (cur.), Codice del vendita, II ed., Milano, 2005, sub art. 35 CVIM (C. Dalia), 1378 ss. Per un quadro comparatistico alla luce delle proposte normative suggerite dalla prassi commerciale internazionale, cfr. quindi Commissione per il diritto europeo dei contratti, Principi di diritto europeo dei contratti, Parte I e II, a c. di C. Castronovo, Milano, 2001, sub PECL art. 6:108, 352 s. Per i problemi posti dall’art. 664 c.c., cfr. infra, § 11.

 

[64] Infra, § 11.

 

[65] Cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42.

 

[66] In questi passi la qualità appare a volte specificata come ‘bonitas’: più che pensare necessariamente ad una sovrapposizione giustinianea, come ipotizzava il Beretta, Qualitas e bonitas, cit., passim (sarebbe giustinianea l’identificazione tra i due concetti; ma cfr. già esattamente la critica del Grosso, Obbligazioni, cit., 235 nt. 1), la ‘bonitas’ appare semplicemente una specificazione della qualitas (per la classicità di alcuni riferimenti alla bonitas, con attenzione a Paul. D. 19.6.65.6 e Iav. D. 17.1.52, di cui ci occuperemo in seguito, cfr. S. Tafaro, «Pars rei» e «Proprium quiddam», in Labeo, XVIII, 1972, 194 nt. 10). Con il Mantovani, Le formule, cit., 49 (n. 22), che sul punto concorda con O. Lenel, Das Edictum Perpetuum. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, III ed., (d’ora in avanti EP) Leipzig, 1927, 239 s., mi pare debba ritenersi che, contro l’idea di questo autore, nell’intentio della condictio triticaria accanto alla qualitas ben potesse figurare anche il riferimento alla sua specificazione, cioè la bonitas: s. p. Nm Nm Ao Ao tritici Africi – vale a dire la qualitas del triticumoptimi – vale a dire la bonitasmodios centum dare oportere, et rell.

 

[67] Questa qualificazione è irrilevante, in quanto tale, dal nostro punto di vista: semplicemente va detto che, nel caso dell’obbligazione avente ad oggetto cose fungibili, l’obbligazione è necessariamente generica; nel caso, invece, dell’obbligazione avente ad oggetto cose infungibili, come i servi, essa è generica solo se le cose fungibili sono dedotte come genus, variamente determinato (cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 522).

 

[68] Pomponio parrebbe, quindi, ignorare i problemi, avvertiti in particolare dai giuristi del terzo secolo e, molto probabilmente, già noti a Labeone, della cd. ‘datio ad inspiciendum’ (Ulp. 32 ad ed. D. 19.5.20.2; Ulp. 9 ad Sab. D. 13.6.10.1; Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.2), la cui distinzione dal comodato appare controversa ancora ai tempi di Ulpiano. Sul punto, cfr. Knütel, Die Haftung für Hilfspersonen, cit., 381 ss.

 

[69] In più occasioni A. Burdese (Sul riconoscimento civile dei contratti innominati, in IVRA, XXXVI, 1985, 41; Recenti prospettive in tema di contratti, in Labeo, XXXVIII, 1992, 212 e 214; I contratti innominati, in Hom. Murga Gener, cit., 82) ha segnalato questo passo come la verosimile prima testimonianza dell’actio e non del più generico agere praescriptis verbis, in un’ipotesi ritenuta esattamente affine al contratto reale (cfr. ancora Id., Ancora in tema di contratti innominati, in SDHI, LII, 1986, 449): al riguardo, cfr. la prudente perplessità di M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute alla Direzione (a proposito di Burdese, Sul riconoscimento civile, cit., 41), in BIDR, XCII-XCIII, 1992-93, 736 (il riferimento da parte di Pomponio a questo mezzo sarebbe «tutto da provare») e di F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, I, Torino, 1992, 242; Id., op. cit., II, Torino, 1995, 228 ss., 233 s. (andrebbe comunque escluso che Pomponio avesse configurato un’azione ad hoc per le convenzioni innominate: così anche E. Stolfi, Studi sui «libri ad edictum» di Pomponio, II. Contesti e pensiero, Milano, 2001, 213 ss., in part. 231). J. Kranjc, Die actio praescriptis verbis als Formelaufbauproblem, in ZSS, CVI, 1989, 456, 459 considera genuino il testo ma pensa (ivi, 451) che un precedente fosse stato ammesso da Proculo; cauto M. Artner, Agere praescriptis verbis. Atypische Geschäftsinhalte und klassisches Formularverfahren, Berlin, 2002, 156 nt. 460.

 

[70] Burdese, Sul riconoscimento, cit., 42 nt. 70; Id., Osservazioni in tema di c.d. contratti innominati, in Estudios en homenaje al profesor J. Iglesias, I, Madrid, 1988, 145; Id., I contratti innominati, cit., 81 s.

 

[71] Gallo, Synallagma, II, cit., 233 s.

 

[72] Stolfi, Studi, II, cit., 231.

 

[73] È andata perduta, infatti, l’ultima parte del testo confluito in D. 19.5: cfr. Th. Mommsen, Digesta, I, cit., 580.

 

[74] Esattamente Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 166: «vielmehr entspricht die beschriebene Abwandlung dem Schema dedi ut dares». Sul piano del linguaggio adoperato dal giurista, il riferimento a ‘reddere’ e non a ‘dare’ nella descrizione della fattispecie (‘si tibi … dedi, ut … mihi redderes’) sembra condizionato dalla circostanza che, nonostante la consegna degli scyphi sia descritta come un ‘dare’, in prima analisi Pomponio (che parla di ‘reddere’ anche a proposito della prestazione del mutuatario: 27 ad Sab. D. 12.1.3, infra, § 7, sicché eviterei un’eccessiva dogmatizzazione di questo linguaggio) pensa al comodato, in cui la consegna non ha effetto traslativo né impone, di conseguenza, al comodatario una prestazione di ‘dare’; la reale configurazione della prestazione imposta all’accipiens, vista nell’ottica della convenzione innominata, emerge, piuttosto, quando il giurista fa il caso dell’obbligazione alternativa (‘sed, si uti vel hos scyphos vel ut eiusdem ponderis argentum dares, convenit’).

 

[75] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Leipzig, 1889, c. 129 ss.

 

[76] Contra, Stolfi, Studi, II, cit., 231 e nt. 374.

 

[77] Per la configurazione della questione, cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 555 s., 561 e 612.  Hanno riesaminato accuratamente questi problemi L. Pellecchi, L’azione in ripetizione e le qualificazioni del dare in Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65. Contributo allo studio della condictio, in SDHI, LXIV, 1998, 69 ss. (dal punto di vista, in particolare, dei contenuti di Paul. 17 ad Plaut. D. 12.6.65) e A. Saccoccio, Si certum petetur. Dalla condictio dei veteres alle condictiones giustinianee, Milano, 2002, passim, 591 ss. per le conclusioni; dal punto di vista della funzione sottesa alla datio, cfr. quindi T. dalla Massara, Alle origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella giurisprudenza classica, Padova, 2004, 249 ss.

 

[78] In questa prospettiva, a parte le considerazioni svolte in ordine alla funzione dell’azione, potrebbe forse risultare in una certa misura contraddittorio ipotizzare (Gallo, Synallagma, II, cit., 233 s.) che in Pomp. D. 19.5.26 l’azione praescriptis verbis sia riconducibile ad una condictio certi utilis, in quanto o si riconosce che in taluni casi la formula dell’agere praescriptis verbis non contenesse la clausola di buona fede (perplessità sulla condictio, con riferimento alla «Besonderheit des Geschäftes», esprime anche Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 166 nt. 510, che pure è cauto su questa costruzione della formula, ivi, 51, amplius 46 ss.), oppure dovrebbe ammettersi in questo caso una singolare condictio certi ex fide bona (singolare perché se il iudicium fa riferimento alla buona fede, troverei difficile parlare di certum petere).

 

[79] C.A. Cannata, Contratto e causa nel diritto romano, in L. Vacca (cur.), Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica (Atti ARISTEC, Palermo, 7-8 giugno 1995), Torino, 1997, 35-61, 44 ss. In buona sostanza, secondo questa dottrina l’a. praescriptis verbis sarebbe un’azione munita di speciale demonstratio (vale a dire la praescriptio posposta alla nomina del giudice), seguita dalla normale intentio delle azioni civili di buona fede. Si tratta di una riproposizione della posizione della dottrina maggioritaria: al riguardo, cfr. gli autori richiamati da Burdese, Sul riconoscimento, cit., 14 ss. ed Osservazioni, cit., 128 nt. 3-4; di recente, cfr. anche la messa a fuoco di L. Pellecchi, La praescriptio. Processo, diritto sostanziale, modelli espositivi, Padova, 2003, 453 s., che alle nt. 8, 10, 11 propone comunque un’accurata discussione qui improponibile (ivi ulteriore letteratura). Mi limito semplicemente a rilevare che, quantunque la questione paia destinata a rimanere ancora aperta, la tesi di fondo di R. Santoro, Actio civilis in factum, actio praescriptis verbis e praescriptio, in Studi in onore di C. Sanfilippo, IV, Milano, 1983, 683 ss.; Id., Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA, XXXVII, 1983, 78 ss.; Id., Aspetti formulari della tutela delle convenzioni atipiche, in N. Bellocci (cur.), Le teorie contrattualistiche romane nella storiografia contemporanea, Napoli, 1991, 83 ss., per cui la praescriptio sarebbe preposta alla nomina del giudice (ivi, 85 ss.), si espone sicuramente alle perplessità rilevate dal Pellecchi, op. cit., 454 nt. 10 (su questa tesi, cfr. anche quanto osserva l’a. a 101 ss. e 294 ss., in part. 298 s., per la problematica connessione della questione con Gai. 4.134-137). Un’equilibrata dottrina –  per diverse vie Kranjc, Die actio praescriptis verbis, cit., 434 ss.; Burdese, Sul riconoscimento, cit., 23 nt. 28; Id., Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 7-9 aprile 1987), I, Milano, 1988, 34 ss. (ma cfr. anche quanto l’A. sostiene in I contratti innominati, cit., 73); Gallo, Synallagma, I, 229 s., 240 nt. 202; II, 143 ss., che pensa ad una definitiva cristallizzazione nella codificazione giulianea – ipotizza che la praescriptio fosse originariamente estrinseca alla formula, ma, in un momento successivo, ormai consolidata all’interno della sua struttura (il che può essere già ragionevolmente possibile ai tempi di Pomponio): in generale, però, secondo me ha ragione M. Talamanca, voce Processo civile (dir. rom), in EdD, XXXVI, Varese, 1987, 39 nt. 284 a sottolineare come una discussione tra praescriptio antecedente la formula o praescriptio ivi inserita sia in fin dei conti irrilevante.

 

[80] Possiamo tentare di meglio visualizzare il problema indicando quella che, grosso modo, sarebbe potuta essere la conceptio verborum della formula dell’azione. Nel caso esaminato per primo da Pomponio, si può pensare a qualcosa di simile (a seguire, da ultimo, Cannata, Contratto e causa, cit., 44 s.): C. Aquilius iudex esto. Quod As As No No scyphos argenteos dedit ut Ns Ns pondus argenti Ao Ao daret (redderet?) quantum in illis esset, qua de re agitur, quidquid ob eam rem Nm Nm Ao Ao dare facere oportet ex fide bona, eius iudex C. Aquilius Nm Nm Ao Ao condemnato, si non paret absolvito. In linea di principio – ma forse con un eccessivo dogmatismo, anche terminologico – potrebbe forse dirsi che una formula di questo genere, con particolare riferimento alla demonstratio-praescriptio, potrebbe corrispondere alla tutela nel caso esaminato per primo da Pomponio, quantunque non possano nascondersi alcune difficoltà:  l’obbligazione dell’accipiens, infatti, sembrerebbe qualificabile tecnicamente più come ‘dare’ che come ‘reddere’ (anche se Pomponio, forse in termini atecnici, parla di ‘reddere’: cfr. supra, nt. 74); mentre, nel caso dell’obbligazione alternativa, la demostratio-praescriptio in teoria potrebbe contenere il riferimento a ‘dare scyphos’ (in stretta aderenza al linguaggio del giurista) nel caso della scelta convenuta a favore dell’accipiens, laddove nel caso della scelta convenuta a favore del dans, in cui non si ha un passaggio di proprietà sino a quando egli non abbia dichiarato di volere l’argentum anziché le coppe, il riferimento a dare potrebbe forse rivelarsi inadeguato: queste difficoltà inducono a non escludere che, a seconda della particolare prospettazione, in iure, dell’assetto d’interessi, la conceptio verborum potesse risultare esemplata – in questo caso avrebbe quindi ragione il Burdese, Osservazioni, cit., 145 – su quella della formula dell’a. commodati, in cui la consegna non è descritta come vicenda traslativa; tuttavia, per le medesime ragioni, quest’ultima soluzione non sembra l’unica configurabile.

 

[81] Per varie vie – ed a prescindere dal problema della riferibilità di questo linguaggio a specifici contributi tra i prudentes – riconoscono che nella formula dell’agere praescriptis verbis fosse contenuto il riferimento alla buona fede, oltre Cannata, Contratto e causa, cit., 44 s. e, fondamentalmente, M. Kaser, Das römische Privatrecht, I (II ed.), München, 1971, 580 ss.; Id., op. cit., II (II ed.), München, 1975, 419 ss., Kranjc, Die actio praescriptis verbis, cit., 436 ss.; Gallo, Synallagma, I, cit., 243 (Id., Eredità dei giuristi romani in materia contrattuale, in Bellocci [cur.], Le teorie contrattualistiche, cit., 37 ss.); Burdese, Sul riconoscimento, cit., 18 s: (amplius 14 ss., cui rinvio per l’esame dello status quaestionis), Id., Concetto, cit., 37; Id., Recenti prospettive, cit., 211 s.; Id., I contratti innominati, cit., 73 s., con letteratura; M. Talamanca, La tipicità dei contratti romani fra ‘conventio’ e ‘sttipulatio’ fino a Labeone, in F. Milazzo (cur.), Contractus e pactum. Tipità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana (Atti Copanello, 1-4 giugno 1988), 97 ss., in part. 99. Attualmente, la posizione più radicale – la tutela delle convenzioni sine nomine sarebbe esclusivamente in factum ed i riferimenti all’a. praescriptis verbis sarebbero sistematicamente interpolati – pare difesa soltanto da M. Sargenti, ‘Actio civilis in factum’ e ‘actio praescriptis verbis’. Ancora una riflessione, in Iuris vincula. Studi in onore di M. Talamanca, VII, Napoli, 2001, 237 ss. (ma cfr. ancora A. Burdese, Divagazioni in tema di contratto romano tra forma, consenso e causa, in Iuris vincula, cit., I, 315 ss., in part. 343). Da ultimo, esprime una certa cautela in ordine alla sistematica ricorrenza della clausola di buona fede nella formula dell’agere praescriptis verbis Artner, Agere praescriptis verbis, cit., 51 (amplius 46 ss.).

 

[82] Beretta, Qualitas e bonitas, cit., 222 s.

 

[83] Talamanca, Istituzioni, cit., 522.

 

[84] Voci, Istituzioni, cit., 412 nt. 10.

 

[85] Così, testualmente, Talamanca, La  ‘bona fides’, in Garofalo (cur.), Il ruolo della buona fede oggettiva, cit., 298 nt. 811 (ma cfr. l’intero § 53 del saggio).

 

[86] Cfr. ancora, per il problema, Stolfi, Bonae fidei interpretatio, cit., 139 ss. (162 per il ricorso all’aequitas in rapporti di stretto diritto).

 

[87] Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 184.

 

[88] Cfr. Talamanca, Istituzioni, cit., 541.

 

[89] Come esattamente sostiene il  Talamanca, La ‘bona fides’, cit., 301, non v’è alcuna ragione ostativa a considerare l’aequitas come regola operazionale valida anche al di fuori della materia regolata da iudicia bonae fidei. Per l’idea secondo cui l’aequitas esprime una disciplina «ispirata all’esigenza di una parità di trattamento» cfr. ivi, 298 nt. 811.

 

[90] Cfr. M. Talamanca, Pubblicazioni pervenute alla Direzione (a proposito di G. Sacconi, «Conventio» e «mutuum», in Index, XV, 1987, 426), in BIDR, XCI, 1988, 834. L’esegesi della Sacconi, ad ogni modo, impone in fin dei conti la medesima precisazione che può farsi circa la tesi del Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 184. Nemmeno deve pensarsi ad una condicio tacita, non tanto perché la parte finale del passo sia interpolata (così H.L. Légier, Tacita condicio, in RHDFE, XLIV, 1966, 17 nt. 84), quanto perché è l’aequitas ad integrare, sul piano normativo’,  il contenuto del rapporto obbligatorio. Muovono dal contenuto dell’oportere, seppur senza valorizzare la funzione dell’aequitas, anche R. Knütel, Stipulatio und pacta, in Festschrift für M. Kaser zum 70. Geburtstag, München, 1986, 208 s.; M. Kaser, Mutuum und stipulatio, in Eranion in honorem G.S. Maridakis, I, Atene, 1963, 173 s.; ne valorizza la funzione, invece, F. Pringsheim, Id quod actum est, in ZSS, LXXVIII, 1961, 81 s. Cfr. anche U. von Lübtow, Beiträge zur Lehre von der Condictio nach römischem und geltendem Recht, Berlin, 1952, 104. Trova alterato il testo il Beretta, Qualitas e bonitas, cit., 221 s., senza adeguata giustificazione.

 

[91] Il Pellecchi, L’azione in ripetizione, cit., 84, testo e nt. 37, considera infatti genuino il testo ed indica argomenti convincenti contro la più risalente impostazione della sua esegesi interpolazionistica: ripercorrendo il suo ragionamento, si può osservare come, quanto al problema del mutamento di soggetto (prospettato nella critica di Pernice, Labeo, II, 2.1, cit., 105, E. Betti, Sul valore dogmatico della categoria ‘contrahere’ in giuristi proculiani e sabiniani, in BIDR, XXVIII, 1915, 80 nt. 1 e M. Kaser, ‘Quanti ea res est’. Studien zur Methode der Litisästimation im klassischen römischen Recht, München, 1935, 116 nt. 8), così come quanto al problema del riferimento alla bonitas (indicato come segno di alterazione anche da E. Siber, ‘Retentio propter res donatas’, in Studi in onore di S. Riccobono, III, Palermo, 1936, 251 nt. 25; Von Lübtow, Die Lehre der condictio, cit., 79), la critica abbia formulato rilievi «di carattere prevalentemente formale e comunque abbastanza compatibili con l’impianto riassuntivo della rappresentazione». Richiamando, invece, la critica alla tesi del von Lübtow da parte di di M. Talamanca, rec. di U. von Lübtow, Beiträge zur Lehre von der Condictio nach römischem und geltendem Recht, Berlin, 1952 e di F. Schwarz, Die Grundlage der Condictio im klassischen römischen Recht, Münster-Köln, 1952, in AG, CXLV, 1953, 178 (nonché, più in generale, l’impostazione di E. Betti, La ‘condictio pretii’ del processo civile giustinianeo (Contributo allo studio della condemnatio pecuniaria postclassica), in AATor, LI, 1915-16, 1019 ss., in part. 1038 s.) il Pellecchi esclude la fondatezza del sospetto che fa leva sul mancato riferimento alla mala fede quale criterio d’imputazione della perpetuatio in caso di consumazione (sostenuta in particolare da Kaser, Siber e von Lübtow) osservando come, in caso di obbligazione di genere, la questione sia in fin dei conti irrilevante. Sul punto, tuttavia, riterrei che, in fin dei conti, proprio perché di obbligazione di genere si tratta, il riferimento alla condictio pretii potrebbe essere frutto di un’alterazione del testo, in quanto nella prospettiva classica della condictio (indebiti) triticaria sarebbe del tutto irrilevante l’eventuale consumazione del triticum percepito (cfr. Betti, La ‘condictio pretii’, cit., 1019 ss. e 1036 s., nonché Talamanca, rec. a von Lübtow e Schwarz, opp. citt.,  cit., 178, il quale osserva che «la condictio pretii è frutto, in questo caso, di una singolare confusione dei bizantini, che, sulla base del criterio dell’azione diretta all’esecuzione in forma specifica, o, se questa non fosse possibile, dell’azione diretta al risarcimento del danno, hanno creduto di applicare questo criterio anche al caso di consumptio di frumento, non tenendo conto che si trattava di un’obbligazione generica per cui non è possibile un’esecuzione in forma specifica»); in ultima analisi per la classicità, cfr. anche la prudente posizione di J. von Koschembahr-Lisowski, Die condictio als Bereicherungsklage im klassischen römischen Recht, II, Weimar, 1907, 213 nt. 1. Oltre la letteratura esaminata dal Pellecchi, adde ad ogni modo anche Beretta, Qualitas e bonitas, cit., 220 s., a favore dell’interpolazione per via della propria convinzione per cui qualitas e bonitas coinciderebbero nel pensiero giustinianeo; cfr. anche, seppur incidentalmente, W. Flume, Der Wegfall der Bereicherung in der Entwiklung von römischen zum geltenden Recht, in Festschrift für H. Niedermeyer zum 70. Geburtstag, Göttingen, 1953, 108 s.

 

[92] Se si ritiene che il testo facesse riferimento allo sponsor, per via del ricorso alla forma ‘spopondit’, il condicere del garante potrebbe essere riconducibile all’a. depensi (così ipotizza Lenel, EP, cit., 215 nt. 1; cfr. anche M. Kaser, ‘Unmittelbare Vollstreckbarkeit’ und Bürgenregreß, in ZSS, C, 1983, 131 nt. 194; B. Eckardt, Iavoleni epistulae, Berlin, 1978, 61 ss., in part. 63; G. Wesener, Die Durchsetzung von Regressansprüchen im römischen Recht, in Labeo, XI, 1965, 343; P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I. Le garanzie personali, Padova, 1962, 165). Per il genere letterario, cfr. P. Cugusi, Evoluzione e forme dell’epistolografia latina nella tarda Repubblica e nei primi due secoli dell’Impero con cenni sull’epistolografia preciceroniana, Roma, 1983, 124 s.

 

[93] Non mi convince, al riguardo, la traduzione del Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 174, che legge il passo in questi termini: «se il debitore, avendo già pronto il grano col quale poteva soddisfare il suo debito, lo dia invece al garante, e questi intenti la condictio per riavere quel grano che egli ha prestato migliore, potrà essere rimosso coll’eccezione di dolo malo». A parte l’assenza di un concreto significato della frase (il garante accetterebbe una solutio del peggior grano dal garantito per poi condicere il migliore?), in realtà il testo afferma che il debitore è semplicemente ‘paratus fideiussori dare’, non già che ‘fideiussori dedit’. Ciò significa unicamente che il debitore principale è pronto a dare al garante il frumento con cui egli si sarebbe potuto liberare, ma questi rifiuta e pretende il migliore in quanto la bonitas connota la sua solutio.

 

[94] Lenel, EP, cit., 215.

 

[95] Cfr. supra, nt. 92.

 

[96] Il principio opera, infatti, nei rapporti tra garante e creditore, non tra garante e debitore principale (mi limito ad un rinvio a Talamanca, Istituzioni, cit., 575 s.). Ne traeva impropriamente un argomento a favore dell’interpolazione il Beretta, Qualitas e bonitas, cit., 219: in ogni caso, dal riferimento nel testo all’assenza di una precisazione sulla qualità nella conceptio verborum della sponsio del garante (‘sine adiectione bonitatis’) non può dedursi alcunché, in quanto si deve dare per presupposto (che appare coerente con lo sviluppo dell’argomentazione) che anche il garantito abbia promesso ‘sine adiectione bonitatis’. Sicché il garante, pur essendosi obbligato in eandem causam (sicché la garanzia è validamente prestata), pone in essere la solutio consegnando validamente, ma di sua libera iniziativa, frumento della miglior qualità quando avrebbe potuto liberarsi consegnandone della peggiore.

 

[97] Cfr. Pugliese, Sitzia, Vacca, Istituzioni, cit., 519; Burdese, Manuale, cit., 570 nt. 25, che ricorda anche Paul. 4 ad Sab. D. 33.6.4 (irrilevanza della bonitas nel caso di legato obbligatorio di genere; Voci, Istituzioni, 412 nt. 11, che ricorda anche Marc. 22 dig. D. 46.3.72.5 (la solutio avente ad oggetto un servus è valida purché sia realizzato l’effetto traslativo); sul punto cfr. anche Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 174; Albertario, La qualità della specie, cit., 378); W. Ernst, Gattungskauf und Lieferungskauf im römischen Recht, in ZSS, CXIV, 1997, 299 e 328 nt. 266.

 

[98] Mi pare ragionevole la posizione di G. Mac Cormack, Dolus in the Law of the Early Classical Period, in SDHI, LII, 1986, 260 s., che esclude che la funzione dell’exceptio sia «to penalise the guarantor’s fault».

 

[99] Si tratta dell’azione fondata sul mandato che intercorre tra garante e garantito, operante, normalmente, in caso di fidepromissio e fideiussio (per tutti, Talamanca, Istituzioni, cit., 576). Per chi ritenga che, in questo caso, il condicere sia da ricondurre all’a. depensi, anche a prescindere dalla possibilità o meno di un concorso tra questo rimedio e l’a. mandati contraria (per l’ammissibilità cfr. Frezza, Le garanzie, I, cit., 166), l’exceptio doli proietterebbe, comunque, nel iudicium il contenuto del rapporto obbligatorio di buona fede che normalmente regola, nella più matura esperienza classica, i rapporti tra garante e debitore principale: mi pare intuiscano questo problema – pensando all’a. depensi – tanto il Frezza, op. cit., 166, quanto W. Osuchowski, Quelques remarques sur la ‘deductio bonorum emptoris’ et l’interpretation de D. 16.2.2, in Studi in onore di E. Volterra, II, Milano, 1971, 472 ss. (l’exceptio non realizza, però, secondo me, una compensazione, come ipotizza l’Osuchowski). Sul problema del rapporto di questo condicere con il mandato, cfr. anche H.H. Jakobs, Fiducia und Delegation, in ZSS, CX, 1993, 376.

 

[100] Non mi pare, quindi, contraria a questa soluzione, come ipotizzava, invece, il Beretta, Qualitas e bonitas, cit.,  219 nt. 48, quella che figura in Cels. 38 dig. D. 17.1.50.1: sive, cum frumentum deberetur, fideiussor Africum dedit sive quid ex necessitate solvendi plus impendit quam est pretium solutae rei, sive Stichum solvit isque decessit aut debilitate flagitiove ad nullum pretium sui redactus est, id mandati iudicio consequeretur. Il passo è chiaramente riferibile ad una solutio il cui valore supera quello della res con cui il debitore principale si sarebbe potuto liberare, ma essa appare pur sempre imposta dalla necessitas solvendi (il garante, cioè, non avrebbe potuto procurarsi una diversa qualità di frumento: cfr. A. Watson, Contract of Mandate in Roman Law, Oxford, 1961, 155 ss. e 163 ss.), specie ove si segua la congettura del Mommsen, che ricostruiva il testo come ‘sive, cum frumentum deberetur, fideiussor Africum dedit ex necessitate solvendi sive quid plus impendit quam est pretium solutae rei’. Mi pare, tuttavia, che anche ove non si segua questa congettura (comunque plausibile in quanto è quanto meno verosimile un errore dovuto alla ripetizione di ‘sive’), l’intera argomentazione del giurista sia centrata sulla circostanza che l’electio non ha nulla a che vedere con uno specifico contributo volitivo del garante, che quindi non viola la bona fides: non la violerebbe qualora il suo maggior dispendio sia imposto dalla necessitas solvendi né qualora trasferisca la proprietà di Stico e successivamente il valore del servus divenga pari a zero per eventi esterni alla sua sfera d’azione’; sicché se i tre esempi sono sullo stesso piano per la coordinazione tramite ‘sive’, è difficile pensare che il caso della solutio Africi, vale a dire il primo di essi, non fosse inquadrabile nella medesima logica.

 

[101] A questo punto, risulta infondato il condicere del garante: al riguardo, va sottolineato come tale esito non consegua ad una pluris petitio (si pone il problema l’Eckardt, Iavoleni epistulae, cit., 62, dal punto di vista dell’intentio dell’a. depensi), in quanto, a prescindere da qualsiasi altra considerazione, ove il convenuto non avesse chiesto l’exceptio doli non si sarebbe posto un problema di recte agere; piuttosto, l’assoluzione è conseguenza della fondatezza dell’exceptio e, quindi, dell’accertata violazione di un dovere di praestare sussidiario all’attuazione della electio secondo il canone della fides bona, che si riverbera iure honorario sul rapporto obbligatorio di stretto diritto.

 

[102] In quanto la violazione della buona fede rileva, in questo caso, direttamente nel rapporto obbligatorio avente ad oggetto la prestazione di genere.

 

[103] Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 180 s.

 

[104] Albertario, La qualità della specie, cit., 381 s.

 

[105] Incidentalmente, se non fraintendo il riferimento, M. Kaser, Studien zur römischen Pfandrecht, II. Actio pigneraticia und actio fiduciae, in TR, XLVII, 1979, 232 nt. 204, parrebbe considerare classica anche la seconda parte del passo; cfr. anche G. Mac Cormack, Dolus in Decisions of the Mid-classical Jurist, in BIDR, XCVI-XCVII, 1993-94, 87 e A. Wacke, Zum dolus-Begriff der actio de dolo, in RIDA (III ser.) XXVII, 1980, 359. Interpolato il testo per P. Voci, Diritto ereditario romano (d’ora in avanti DER), II2, Milano, 1963, 262 nt. 55, cui rinvio anche per la configurazione della scelta nel legato di genere, nonché per Grosso, Obbligazioni, cit., 247.

 

[106] Basti pensare al ruolo che ha avuto il dogma’ della perpetuatio obligationis nella formazione delle regole della responsabilità (cfr. al riguardo, da ultimo, C.A. Cannata, ‘Quod veteres constituerunt’. Sul significato originario della ‘Perpetuatio obligationis’, in M.J. Schermaier, J.M. Rainer, L.C. Winkel [hrsgg.], Iurisprudentia universalis. Festschrift für Theo Mayer-Maly, Köln-Weimar-Wien, 2002, 85 ss., in part. 95 s.; più in generale, sul ruolo del modello della stipulatio, Id., voce Obbligazioni in  diritto romano, medievale e moderno, in DDP, IV ed., Torino, 1995, 438 ss.; per il ruolo sproporzionato’ del dogma’ nella cultura della Pandettistica, R. Cardilli, Il ruolo della ‘dottrina’ nella elaborazione del ‘sistema’: l’esempio della responsabilità contrattuale, in Roma e America. Diritto romano comune, I, 1996, 90 = Id., Un diritto comune in materia di responsabilità contrattuale nel sistema giuridico romanistico, in Riv. dir. civ., XLIV, 1998, I, 318; per le sue conseguenze nel nostro ordinamento, il mio Dovere di diligenza e «rischi funzionali», Napoli, 2005, 88 ss.) o, per limitarci alla sua inadeguatezza nelle logiche dell’esperienza giuridica romana, la configurazione del problema della buona fede nelle azioni per la restituzione della dote individuata da F. Goria, Bona fides ed actio ex stipulatu per la restituzione della dote: legislazione giustinianea e precedenti classici, in Garofalo (cur.), Il ruolo della buona fede oggettiva, II, cit., 241 ss., in part. 259 ss.

 

[107] Le fonti, al riguardo, sono note e, almeno in parte, controverse: cfr., in particolare, il rescritto di Severo ricordato in Ulp. 21 ad Sab. D. 30.37pr. (di cui, peraltro, si sospettava l’interpolazione del riferimento alla qualità media: cfr. Vassalli, Delle obbligazioni di genere, cit., 178 s.; Albertario, La qualità della specie, cit., 379; Bonfante, Corso, IV. Le obbligazioni, cit., 183, Voci, DER, II, cit., 262 nt. 53; Grosso, Obbligazioni, cit., 248), e, quindi, Iust. C. 6.43.3.1b (a. 531), in tema di legato obbligatorio (cfr. Vassalli, op. cit., 182 ss., e Albertario, op. cit., 384 s.), nonché Iust. C. 8.53.35.1-2 (a. 530), in tema di donazione (cfr. Grosso, op. cit., cit., 250). Cfr. infine i richiami del Voci, Istituzioni, cit., 412 nt. 12, del Burdese, Manuale, cit., 570 nt. 26 e del Pastori, Gli istituti romanistici, cit., 857.

 

[108] Sul punto, di Majo, Dell’adempimento, cit., 18.

 

[109] Così, testualmente, G. Astuti, voce Obbligazioni (dir. interm.), in EdD, XXIX, Varese, 1979, 109.

 

[110] Di cui mi sono occupato di recente in ‘Emptio perfecta’ e vendita di genere: sul problema del ‘tradere’ in Alex. Sev. C. 4,48,2, di prossima pubblicazione negli «Atti del Seminario su La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano» (Alba di Canazei, 25-27 luglio 2006 – Cortina d’Ampezzo, 21-23 settembre 2006), passim: rinvio, sul punto, a quanto ivi rilevato nonché, comunque, a Talamanca, voce Vendita, cit., 362 nt. 305; 362 s.; 458 nt. 1602, nonché Id., Considerazioni sul «periculum rei venditae», in SC, VII, 1995, 291 s. Sul problema dell’art. 1378 c.c. in rapporto al contenuto dell’art. 1178 c.c., cfr. quindi di Majo, Dell’adempimento, cit., 24 ss.; F. Galgano, in F. Galgano, G. Visintini, Effetti del contratto. Rappresentanza. Contratto per persona da nominare, in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1993, sub art. 1378 c.c., 128 ss.; V. Roppo, Il contratto, in Tratt. Iudica-Zatti, Milano, 2001, 518 s.; A. Luminoso, La compravendita, IV ed., Torino, 2004, 78 s. e 88; generaliter P. Rescigno (cur.), Codice civile (V ed.), I, Milano, 2003, sub art. 1378 c.c. (M.A. Livi), 1652 s.

 

[111] Sul punto, cfr. A. Palazzo, Le successioni, II, Milano, 1996, 672 ss. e, da ultimo, G. Bonilini, in G. Bonilini, G.F. Basini, I legati, in Tratt. Notariato Perlingieri, VIII.6, Napoli, 2003, 260 ss.

 

[112] Cfr. Bonilini, Legati, cit., 261; A. Masi, voce Legato, in EGI, XVIII, 1990, 6; Id., Dei legati (art. 649-673), in Comm. Scialoja-Branca, Bologna-Roma, 1979, sub art. 664 c.c., 116 ss., in part. 117 s.; C.M. Bianca, Diritto civile, II (III ed.) La famiglia – Le successioni, Milano, 2001, 700, secondo il quale «in mancanza di indicazioni del testamento sulla qualità dei beni, supplisce il generale criterio dettato in tema di adempimento e riaffermato nella disciplina del legato di genere (664.1 c.c.), e cioè il criterio della qualità media»; ma cfr. anche Id., Dell’inadempimento delle obbligazioni, II ed., (art. 1218-1229), in Comm. Scialoja-Branca, sub art. 1228 c.c., Bologna-Roma, 1979, 107 ss. In generale, cfr. altresì la sintesi in Rescigno (cur.), Codice civile5, I, cit., sub art. 664 c.c. (E. Carosone), 816 s.

 

[113] Così, testualmente, Masi, Dei legati, cit., 117.

 

[114] Cfr. G. Baudry-Lacantinerie, L. Barde, Delle obbligazioni, II, in G. Baudry-Lacantinerie (dir.), Trattato teorico pratico di Diritto Civile3 (trad. it. P. Bonfante, G. Pacchioni, A. Sraffa), Milano, 1915, § 1469, 573 e nt. 2; l’art. 1022 del code civil sarebbe «pura applicazione del diritto comune» (cfr. G. Baudry-Lacantinerie, M. Colin, Delle donazioni fra vivi e dei testamenti, II, in Baudry-Lacantinerie [dir.], Trattato, cit., Milano, s.d., § 2565, 305).

 

[115] Sul punto cfr. C. Gangi, I legati nel diritto civile italiano, I, Padova, 1933, 150 ss.; Id., op. cit., II, Padova, 1932, 11 s.; sul passaggio al Codice del 1942, cfr. ancora Id., La successione testamentaria nel vigente diritto italiano, Milano, 1948, 282 s., in cui l’autore sottolinea il rapporto con l’art. 1178 c.c.

 

[116] Cfr. Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 39.

 

[117] Pothier, Le Pandette, II, cit., 820 s.

 

[118] Si tratta dell’insegnamento che mi pare risalga a Cass. civ., sez. un., 28 aprile 1989, n. 2021, in Giust. civ., 1989, I, nota A. de Nitto, e Nuova giur. civ. comm., 1990, I, 278 nota P. Della Vedova: per altre pronunce – l’orientamento non è isolato – e per la relativa discussione, cfr. quanto dico in Dovere di diligenza, cit., 51 s. e nt. 102.

 

[119] Per questa idea, cfr. L. Garofalo, Perimento della cosa e azione redibitoria in un’analisi storico-comparatistica, in Europa e diritto privato, 1999, 870 ss., in part. 871.

 

[120] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 41 s.

 

[121] Cfr. al riguardo Baudry-Lacantinerie, Barde, Delle obbligazioni, cit., § 1469, 573, in cui si legge che la disposizione di cui all’art. 1246 code civil sarebbe in fin dei conti «un corollario di quella dell’art. 1134, al n. 3, secondo cui le convenzioni “devono essere eseguite in buona fede”».

 

[122] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 53.

 

[123] Cfr. Iust. C. 8.53.35.1 (a. 530); Iust. C. 6.43.3.1b (a. 531); Afr. D. 30.110 (l’interpolazione finale); Ulp. D. 30.37pr.: cfr. supra, nt. 107 e in generale Pugliese, Sitzia, Vacca, Istituzioni, cit., 879.

 

[124] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42.

 

[125] Cfr. di Majo, Dell’adempimento, cit., sub art. 1178 c.c., 18 e nt. 6, nonché il Münchener Kommentar zum Bürgerlichen Gestzbuch, IV ed., IIa, (red. W. Krüger), München, 2003, sub §  243 BGB, 339 ss., ivi altra letteratura.

 

 

[126] M. Giorgianni, L’inadempimento, III ed., Milano, 1975, 282 ss., in part. 300, da cui la citazione testuale; cfr. comunque anche Bianca, Dell’inadempimento, cit., sub art. 1218 c.c., 107 ss.

 

[127] Breccia, Le obbligazioni, cit., 220. L’impostazione sarebbe configurabile in questi termini in quanto, in una società industriale, normalmente il debitore non dispone delle res dedotte in obligatione, ma deve procurarsele: il che, tuttavia, introdurrebbe una differenza ingiustificata tra genus limitato (da individuarsi, cioè, all’interno di una scorta appartenente al debitore) e genus illimitato, che mi pare estranea al contenuto della norma.

 

[128] di Majo, Dell’adempimento, cit., sub art. 1178 c.c., 22.

 

[129] di Majo, Dell’adempimento, cit., sub art. 1178 c.c., 23.

 

[130] Cito i lavori preparatori tramite Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 40 nt. 11.

 

[131] Cfr. quanto dico in Dovere di diligenza, cit., 101 nt. 53, 103 nt. 59, 104 nt. 60, 106 nt. 67.

 

[132] R. Mayr, «Praestare», in ZSS, XLII, 1921, 198 ss.

 

[133] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 40, testo e nt. 12; Id., Sul problema della responsabilità, cit., 121 ss. in part. 134 ed ora, sul problema della perpetuatio obligationis, la più recente esegesi dell’A. in Quod veteres constituerunt, cit., 85 ss.

 

[134] Cannata, Le obbligazioni in generale, cit., 42 e 56 ss.; ma cfr. anche Id., Dai giuristi ai codici, dai codici ai giuristi, in Riv. trim. dir. proc. civ., XXXV, 1981, 1012. Questa lettura è tenuta presente da Rescigno (cur.), Codice civile5, I, cit., sub art. 1178 c.c. (M.B. Chito), 1319 s. anche per quanto concerne il significato dell’art. 1178 c.c.