N. 5 – 2006 – Tradizione Romana

 

FRANCESCA PULITANÒ

Università degli Studi di Milano

 

C. 6.20.17 e la collazione ereditaria nel Tardo-Antico*

 

 

 

 

Sommario: 1. Una materia complessa. – 2. Alcune fonti in tema di collazione tra IV e V secolo. – 3. Bonorum possessio e collazione nella compilazione giustinianea: costituzione Tanta e collocazione sistematica dell’istituto. – 4. La costituzione tramandata da C. 6,20,17 ed il suo contenuto. – 5. La ratio ispiratrice della collazione tra diritto postclassico e Codice Civile.

 

1. – Una materia complessa

 

Oggetto dell’analisi che si sta per compiere è un breve ripensamento sull’assetto della collatio ereditaria nel passaggio dal diritto classico al diritto giustinianeo. Per quel che concerne la materia successoria, l’esperienza giuridica dei secoli IV e V merita una attenta considerazione, data la rilevanza delle riforme imperiali che caratterizzano questo periodo[1].

La disciplina della collazione nasce, com’è noto, come conseguenza della concessione ai figli emancipati della successione intestata a mezzo della bonorum possessio unde liberi[2], e continua poi ad evolversi per stratificazione successiva. Il processo di continuo cambiamento, anche di ratio giustificatrice, subíto dall’istituto, dipende dall’interazione tra diverse variabili, la più importante delle quali è forse da individuarsi nell’incessante divenire della concezione dei rapporti di famiglia e nel mutamento della reciproca rilevanza di agnatio e cognatio, che appare evidente dalle regole successorie elaborate in età tardo-imperiale[3].

Può essere eloquente riportare, in limine, un giudizio di Bartolo da Sassoferrato, che sintetizza in due aggettivi la complessità dell’istituto in esame e che l’interprete moderno non può che condividere: «veniamus ad declarationem materiae difficilis et intricatae (ad cod. 6, de collationibus[4].

Il commentatore aveva elaborato uno schema riassuntivo della vicenda storica della collazione, che ne descriveva l’evoluzione in sette passaggi-cardine. Essi erano i seguenti[5]: 1) il diritto pretorio, in quanto fonte originaria; 2) la c.d. aequitas Scaevolae, desumibile da Scev. 5 quaest. D. 37.6.10[6]; 3) la costituzione di Antonino Pio (riportata in Ulp. 40 ad ed. D. 37.7.1), che svincolava l’obbligo della collatio dalla richiesta della bonorum possessio[7]; 4) la costituzione di Leone di C. 6.20.17, di cui ci si occuperà nel prosieguo del nostro studio; 5) - 6) le due costituzioni giustinianee di C. 6.20.19 e C. 6.20.21; 7) da ultimo, la Novella 18.6. Preme notare il commento dello stesso Vismara[8] a tale ricostruzione: lo studioso, compiendo una ulteriore selezione tra le fonti citate da Bartolo, riteneva particolarmente meritevoli di menzione le regole promananti dal pretore, dai giureconsulti, da Antonino Pio e, «soprattutto», da Giustiniano.

Vismara trascurava dunque proprio il provvedimento appartenente al V secolo, pur richiamato da Bartolo, cioè la costituzione di Leone del 439. Questa abitudine di descrivere la storia degli istituti compiendo un salto temporale dal II-III secolo d.C. all’età giustinianea riflette la tendenza, radicata anche in non piccola parte della dottrina romanistica, secondo la quale il diritto di quell’epoca andrebbe guardato come un momento, se non di vera e propria «decadenza» giuridica, certamente di importanza marginale in confronto alla sistemazione del VI secolo[9].

A dimostrazione dell’infondatezza di una opinione radicale in tal senso – più che mai fuorviante, come già osservato, nell’ambito delle regole successorie –, in questa sede si concentrerà l’attenzione proprio sulla costituzione contenuta in C. 6.20.17, che per molti versi rappresenta un momento fondamentale nella vicenda della collazione.

 

2. – Alcune fonti in tema di collazione tra IV e V secolo

 

In primo luogo, per meglio inquadrare il tema nella cornice temporale considerata, può essere utile richiamare, pur in modo essenziale, alcune fonti di riferimento. Si tratta, in generale, di testimonianze frammentarie e prive di sistematizzazione, in cui la collazione compare ancora in connessione con la bonorum possessio, pur essendo in corso un progressivo affrancamento da essa del nostro istituto, in accordo con la corrispondente perdita di rilevanza autonoma della successione pretoria.

Osserviamo, innanzi tutto, come la trasmissione del Codice Teodosiano sia sul punto assai carente, trattandosi di luoghi pervenutici solo a mezzo del Breviarium. Vale comunque la pena di ricordare come la sedes materiae della bonorum possessio si trovi nel libro quarto, costituito da tre soli titoli: C.Th. 4.1, De cretione vel bonorum possessione, 4.2, Unde liberi e 4.3, De Carboniano edicto.

Rileva, per noi, soprattutto C.Th. 4.2, che contiene un provvedimento di Arcadio e Onorio del 396, in tema di collatio dotis:

 

C.Th. 4.2.1 Impp. Arcadius et Honorius A.A. Aureliano p(raefecto) p(raetorio) a. 396: Filia, quae dote a patre suscepta matrimonio sociata est, intestato patre mortuo, si hereditatem velit adire cum fratribus, dotem quam susceperat miscere cogatur paternae substantiae atque ita in subeunda hereditate sociari cum fratribus. Dat. prid. Non. Octob. Constantinopoli Arcadio IIII et Honorio III AA. conss.

 

Le successioni sono trattate anche nel libro quinto, dedicato alla disciplina delle legitimae hereditates. In tale sede è tramandata la costituzione C.Th. 5.1.5: si tratta di un’altra pronuncia emanata nel 396 da Arcadio ed Onorio[10]. La costituzione presenta coincidenza di inscriptio e subscriptio con C.Th. 4.2.1 ed approfondisce la posizione dei nepotes ex filia rispetto ai beni dell’avo:

 

C.Th. 5.1.5 Impp. Arcadius et Honorius A.A. Aureliano p(raefecto) p(raetorio) a. 396: Nepotes ex filia avi pro rata parte hac condicione succedant, qua et matres, si viverent, hereditatem patrum sibi cum fratribus vindicarent, scilicet ut mixtis matrum suarum dotibus avi hereditatem pro rata parte, quam lex divalis censuit, cum avunculis partiantur nec amplius his quicquam de avitis facultatibus tribuatur, quam legis dudum late sanctio conprehendit, scilicet detracta tertia partis eius, quae eorum matri, si dotem iungeret, debebatur. Si vero dotem matris miscere noluerint, maternis ac paternis facultatibus oportet esse contentos quos constat alienae iam familiae esse procreatos. Dat. prid. Non. Octob. Constantinopoli Arcadio IIII et Honorio III AA. conss.

 

Il criterio seguito dagli imperatori è quello della equiparazione della successione dei nepotes a quella della madre. Le regole sono delineate con attenzione alle riforme di età costantiniana: anche in questo caso, la forma di collazione tenuta in considerazione è la collatio dotis.

Ai nostri fini è poi da ricordare, per ora solo incidentalmente, anche C.Th. 9.42.8 (= C. 9.48.8), del 380, specificamente relativa ai bona proscribtorum seu damnatorum[11]. Essa rileverà, in particolare, in merito all’indagine sul rovesciamento del tradizionale rapporto tra le due forme di collazione rispetto all’età classica.

Volgendosi infine brevemente all’ambito degli iura e delle raccolte miste, si individuano alcune fonti in cui la collazione è considerata ancora nel senso, classico, di onere imposto agli emancipati (in collegamento con la prestazione della cautio de conferendis). Si vedano, a titolo esemplificativo, i seguenti testi:

 

PS 5.9.4 (titolo De stipulationibus): Emancipati liberi praeteriti si velint miscere se paternae hereditati et cum his qui in potestate remanserunt communis patris dividere hereditatem, antequam bonorum possessionem petant, de conferendo cavere cum satisdatione debebunt.

 

Ulp. 28.4: Emancipatis liberis ex edicto datur bonorum possessio, si parati sunt cavere fratribus suis, qui in potestate manserunt, bona quae moriente patre habuerunt se collaturos.

 

Coll. 16.7.2 (Ulp. Inst. sub titulo De successionibus ab intestato): Suis praetor solet emancipatos liberos itemque civitate donatos coniungere data bonorum possessione, ita tamen, ut bona si qua propria habent, his qui in potestate manserunt conferant. Nam aequissimum putavit neque eos bonis paternis carere per hoc, quod non sunt in potestate neque precipua bona propria habere, cum partem sint ablaturi suis heredibus.

 

Come si vede, le fonti da ultimo riportate quasi trascurano i mutamenti intervenuti nella configurazione della collatio, che viene in esse rappresentata nella sua forma originaria.

Dunque, come primo dato possiamo assumere la profonda diversità di impostazione tra leges e iura. Sono infatti le prime a rappresentare lo specchio delle innovazioni imperiali: è però vero, d’altra parte, che talvolta l’interprete trova nei secondi le linee di fondo cui appoggiarsi per meglio comprendere la ratio delle riforme introdotte dalla legislazione imperiale.

 

3. – Bonorum possessio e collazione nella compilazione giustinianea: costituzione Tanta e collocazione sistematica dell’istituto

 

Prima di passare all’esame di C. 6.20.17, merita ancora una parola la discrepanza tra una visione del rapporto bonorum possessio-collatio imperniata sul dualismo ius civile-ius honorarium ed una configurazione della successione intesa come un complesso unitario di regole, ormai affrancato da tale bipolarità. 

La dialettica ius civile-ius honorarium aveva senz’altro rappresentato un caposaldo del sistema successorio classico, all’interno del quale le soluzioni concrete si ispiravano ad essa esplicitamente. Nell’età successiva si tende ad attribuire maggiore centralità alla posizione di regole successorie generali, ed allora la bonorum possessio funge da elemento unificante e da criterio ermeneutico di riferimento. Essa gioca un ruolo di criterio ordinante, quasi una imprescindibile forma mentis per potersi orientare nella congerie delle parentele, ormai ricordate in dettaglio e non più per «classi». La lettura critica di diversi testi, alcuni dei quali riportati nel paragrafo precedente, rende evidente come la contrapposizione abbia continuato ad influenzare l’assetto della successione anche nei secoli IV e V.

Passando brevemente alla compilazione, si nota come anche nel VI secolo permangano le contraddizioni legate a tale dualismo, dato che la varietà delle situazioni in concreto verificabili rende assai complesso un riordinamento della materia. E’ dunque imprescindibile un richiamo alle sorti dell’istituto pretorio dopo l’esaurimento del ius honorarium come fonte creativa.

In questa sede non è evidentemente possibile soffermarsi analiticamente sulle testimonianze del Corpus iuris: a titolo paradigmatico si sceglie una via indiretta e generalmente poco praticata, vale a dire la presentazione dell’istituto contenuta nel § 7 della Tanta, da cui si desume la permanenza di un ruolo «attivo» della bonorum possessio nell’ambito del sistema successorio:

 

Cost. Tanta, 7: sexta deinde pars digestorum exoritur, in quibus omnes bonorum possessiones positae sunt, quae ad ingenuos, quae ad libertinos respiciunt: ut et ius omne, quod de gradibus et adfinitatibus descendit, legitimaeque hereditates et omnis ab intestato successio et Tertullianum et Orfitianum senatus consultum, ex quibus mater et filii invicem sibi heredes existunt, in geminos libros contulimus bonorum possessionis multitudinem in compendiosum et manifestissimum ordinem concludentes.

 

Nella versione greca della stessa costituzione si afferma come fino a quel momento la materia della bonorum possessio fosse stata dominata, e lo fosse ancora agli albori della compilazione, da ‘sÚgcusij (in latino, ‘confusio’) e ‘¢s£feiaj (‘ambiguitas’). Di qui la necessità, avvertita dalla commissione di Giustiniano, di ridurre da otto a due i libri ad essa dedicati.

Se la circoscrizione della materia a due libri rappresenta, fuor di dubbio, una scelta deliberata finalizzata alla semplificazione, uno sguardo anche rapido alla disomogeneità dell’elencazione riportata dalla Tanta, nella quale vengono comprese forme di successione originariamente promananti sia dal ius civile che dal ius praetorium, consente di ritenere che l’obiettivo non sia stato pienamente raggiunto.

In generale, infatti, le diverse forme di successione menzionate dal § 7 appaiono come «etichette», i cui contenuti sono ricavabili solo volgendosi, all’indietro nel tempo, all’esame delle singole riforme. Ciascuno degli elementi dell’elenco viene poi ripreso in corrispondenti titoli del Digesto[12]. Nonostante l’iniziale dichiarazione di intenti, non si può certo asserire che la materia sia stata resa più organica.

Più in dettaglio, un esempio tra tutti significativo sembra essere il seguente: si noti come nella bonorum possessio, trattata come una sorta di «contenitore», venga inclusa addirittura omnis ab intestato successio[13]. Si verifica così una inversione di piani: non è più la bonorum possessio a rappresentare un possibile atteggiarsi, affiancato alle regole civilistiche, della successione intestata; sembra piuttosto che sia quest’ultima a costituire un settore della prima, secondo una ratio ordinatrice ben diversa da quella, propria dell’età classica, della interazione tra ius civile e regole pretorie.

Concentrandosi ora, nello specifico, sulla collazione, può essere di aiuto una ulteriore osservazione di carattere sistematico: nel Digesto essa compare nei titoli 37.6 e 37.7 – rispettivamente, De collatione bonorum e De collatione dotis – e segue immediatamente i titoli sulla contra tabulas, della quale sostanzialmente costituisce un accessorio; nel Codice viene posta al termine di tutta la bonorum possessio: nel titolo 6.20 De collationibus, al plurale, confluiscono infatti le due forme classiche di collazione. Questa soluzione può essere interpretata come segno di una avvenuta generalizzazione delle regole, come se l’istituto fosse ritenuto implicitamente applicabile ad ogni forma di successione[14].

Un discorso a parte, che non può essere sviluppato in questa sede, richiederebbero invece le Novelle giustinianee, nelle quali, per prime, si trova la dicitura collatio descendentium. Di questo tuttavia si farà cenno ex professo più avanti.

 

4. – La costituzione tramandata da C. 6.20.17 ed il suo contenuto

 

E’ giunto ora il momento di entrare nel vivo della trattazione. Come già osservato, una disamina puntuale ed analitica dei testi rilevanti trascenderebbe lo scopo, qui perseguito, di esporre soltanto alcune linee essenziali della collazione postclassica. La scelta ricade perciò in particolare su una fonte, idonea a fungere da filo conduttore dell’esposizione. Si tratta di una costituzione di Leone del 472, conservata in C. 6.20.17: essa è concordemente considerata, già dalla Glossa e poi via via fino alla dottrina contemporanea, come momento di svolta nella storia dell’istituto, in quanto espressione di diverse spinte innovative[15]. Conviene innanzi tutto riportare il testo:

 

C. 6.20.17 Imp. Leo A. Erythrio p.p. a. 472: Ut liberis tam masculini quam feminini sexus, iuris sui vel in potestate constitutis, quocumque iure intestatae successionis, id est aut testamento penitus non condito vel, si factum fuerit, contra tabulas bonorum possessione petita vel inofficiosi querella mota rescisso, aequa lance parique modo prospici possit, hoc etiam aequitatis studio praesenti legi credidimus inserendum, ut in dividendis rebus ab intestato defunctorum parentium tam dos quam ante nuptias donatio conferatur, quam pater vel mater, avus vel avia, proavus proavia paternus vel maternus dederit vel promiserit pro filio vel filia, nepote vel nepte aut pronepote sive pronepte, nulla discretione intercedente, utrum in ipsas sponsos pro liberis suis memorati parentes donationem contulerint, an in ipsos sponsor earum, ut per eos eadem in sponsas donatio celebretur: ut in dividendis rebus ab intestato parentis, cuius de hereditate agitur, eadem dos vel ante nuptias donatio ex substantia eius profecta conferatur: emancipatis videlicet liberis utriusque sexus pro tenore praecedentium legum, quae in ipsa emancipatione a parentibus suis (ut adsolet fieri) consequuntur vel post emancipationem ab isdem adquisierint, collaturos. D. V Kal. Mart. Marciano cons.

 

Il provvedimento, redatto nel tipico stile, prolisso e tendenzialmente ripetitivo, delle costituzioni dell’epoca, consente di soffermarsi analiticamente su alcune questioni di rilevanza generale.

In primo luogo, si può riconsiderare la già accennata relazione tra collatio bonorum e collatio dotis. La nostra costituzione documenta testualmente un dato oggettivo, che si ritrova anche in altre testimonianze coeve: quello dello «spostamento», sempre più evidente con il passare del tempo, del cardine dell’istituto dai figli emancipati, dalla cui ammissione alla bonorum possessio aveva tratto origine, all’ambito della dote, che rappresenta, nelle costituzioni del IV e V secolo pervenuteci, il problema quantitativamente più trattato[16]. Dunque, se per l’età classica i due volti della collazione possono essere considerati separatamente e con pari dignità, la novità dell’età successiva è la progressiva perdita di rilevanza della prima a favore della seconda.

E’ vero che nella compilazione giustinianea le due collationes sono ancora, almeno formalmente, entrambe rappresentate; tuttavia, nella sostanza, la collatio emancipati ha perso la sua ragion d’essere. Ciò dipende da più di una ragione: per tutti, si ricordi la motivazione addotta da Voci, che fa dipendere il cambiamento dalla sostanziale equiparazione tra figli in potestà e figli emancipati[17].

Tornando a C. 6.20.17, ed in particolare all’ordine espositivo della costituzione, si nota come l’imperatore Leone prenda le mosse dall’individuazione dei destinatari del provvedimento[18], per poi passare a determinare l’oggetto del conferimento. Quest’ultimo viene indicato nella donazione ante nuptias o nella dote[19]. Solo nell’ultima parte del testo si estende pianamente la disciplina esposta anche ai beni degli emancipati (emancipatis videlicet liberis utriusque sexus).

Vale la pena di notare, per inciso, come l’andamento espositivo sia esattamente opposto in un’altra costituzione, appartenente al titolo De bonis proscribtorum seu damnatorum (siamo quindi al di fuori della sedes materiae della collatio). Si tratta di

 

C.Th. 9.42.8 (Graziano, Valentiniano e Teodosio, a. 380)[20]: Quod si idem et emancipatos et suae potestatis filios nepotesve habuerit, beneficium tantum ad eos, qui in potestate sunt, transferatur, si emancipati ea, quae consecuti erant emancipationis tempore, damnose existimant conferenda. Sin autem confusionem bonorum et donationis elegerint, omnia ea, quae fiscus concedit, aequae divisionis partibus sortiantur. Quae regula etiam in dote filiae vel neptis ex filio conferenda custodienda erit. Dat. XV Kal. Iul. Thessalonicae Gratiano V et Theodosio I AA. conss.

 

Il confronto tra i due testi potrebbe far ritenere che, ancora nel IV secolo, l’attività normativa fosse prevalentemente focalizzata sulla disciplina della collatio imposta agli emancipati rispetto a quella della dote, e che nel secolo successivo la situazione si fosse capovolta.

Così formulata, l’ipotesi presenta però contorni troppo netti e schematici. Pare invece certamente vero che, procedendosi nel tempo, l’importanza della collatio dell’emancipato, dalla quale aveva preso le mosse il pretore, avesse ceduto il passo ad una maggior rilevanza anche pratica della collatio dotis.

Ancora nel Codice giustinianeo, comunque, si riscontra incertezza espositiva, dato che l’evoluzione della collatio, così come desumibile dal titolo 6.20, segue una linea che si sposta continuamente dal profilo della collatio emancipati a quello della collatio dotis. La prime due costituzioni, di Alessandro Severo, considerano la posizione degli emancipati[21]: le tre successive, invece – una, C. 6.20.3, ancora di Alessandro, e le altre due di Gordiano –, fanno riferimento prevalentemente alla dote, come se fosse l’unica forma degna di nota già nel III secolo; il dato è però smentito dal contenuto di altre costituzioni, dello stesso imperatore ma di anni successivi, tramandate dal medesimo titolo[22].

Si potrebbe procedere con altri esempi similari, per giungere ad una considerazione: nel V secolo sembra comunque avvenuto il rovesciamento del rapporto di forza tra le due forme, a deciso favore della dote[23]. Il fenomeno è frutto dell’interazione tra diversi aspetti: in primo piano, la sempre maggiore autonomia patrimoniale dei filiifamilias, che aveva reso, di fatto, meno frequente il ricorso alla collatio emancipati[24]; inoltre, l’orizzonte dei rapporti successori si era notevolmente ampliato, ben oltre i confini della bonorum possessio.

In quest’epoca si era poi affermata una nuova concezione della dialettica tra agnatio e cognatio, già presente in embrione in alcune soluzioni fornite dalle cancellerie in età classica e ulteriormente rispecchiata dagli interventi tardo-imperiali di riforma. Quest’ultimo punto trova conferma nel modus espositivo di varie costituzioni, che riportano elencazioni puntuali dei soggetti coinvolti.

Il nostro testo non sfugge a questa impostazione, esprimendosi così: defunctorum parentium tam dos quam ante nuptias donatio conferatur, quam pater vel mater, avus vel avia, proavus proavia paternus vel maternus dederit vel promiserit pro filio vel filia, nepote vel nepte aut pronepote sive pronepte.

L’aspetto da sottolineare è quello dell’emersione della rilevanza giuridica della cognatio, con la corrispondente «crisi» dei capisaldi della famiglia agnatizia[25]: l’elencazione dettagliata dei parenti è chiaramente figlia delle riforme postclassiche della successione ab intestato, la quale si era evoluta per linee parallele, maschile e femminile. Si può dire, inoltre, che l’abbandono dell’impostazione casistica avesse creato una difficoltà espositiva della materia successoria: anche laddove non si menziona espressamente l’istituto della bonorum possessio, non se ne può tuttavia prescindere, come già sottolineato, quale cardine implicito del sistema successorio[26]. La nostra fonte è paradigmatica anche in questo senso, dal momento che essa nomina e ricorda la contra tabulas come tramite per l’apertura della successione ab intestato, pur affiancandola con la più «moderna» querella.

Quanto fin qui osservato consente di compiere un ulteriore passo avanti, accennando al punto della misura del conferimento. Per quanto concerne l’età classica, pur in mancanza di opinioni dottrinali univoche sul punto, pare potersi ritenere che il conferimento avesse ad oggetto la totalità dei beni del figlio emancipato[27]; ora esso si evolve senza dubbio nel senso di una restituzione alla massa ereditaria di quanto il figlio (o meglio, dovremmo dire, la figlia) abbia ottenuto «in più»[28].

Con la costituzione di Leone siamo di fronte ad una connotazione dell’istituto sempre più «matematica». La dote e la donazione obnuziale (C. 6.20.17) rappresentano infatti complessi patrimoniali ben definiti, che prima dell’apertura della successione vengono attribuiti da parte dello stesso de cuius alla disponibilità di un soggetto concorrente alla stessa, e proprio su questo presupposto si crea la necessità di un riequilibrio generale. Questa stessa ratio verrà poi estesa, ma solo in seguito, anche ai beni conferiti dall’emancipato.

Soffermiamoci, infine, sull’espressione in dividendis rebus, ripetuta due volte nel testo (‘ut in dividendis rebus ab intestato defunctorum parentium tam dos quam ante nuptias donatio conferatur’ […] ‘ut in dividendis rebus ab intestato parentis, cuius de hereditate agitur, eadem dos vel ante nuptias donatio ex substantia eius profecta conferatur). Questo modo di descrivere l’istituto, dall’angolo visuale del risultato, conferma ulteriormente la volontà imperiale di richiamare le regole civilistiche e quelle pretorie su un piano di parità[29], anche se, come osservato, la distinzione tra successione civilistica e bonorum possessio non può considerarsi del tutto superata.

L’espressione ‘in dividendis rebus offre all’interprete lo spunto per una ulteriore osservazione; è vero, infatti, che essa evoca una operazione matematica di corretta ripartizione dell’eredità, intesa come complesso derivante dalla somma del lascito originario più i beni conferiti. D’altro canto, però, il meccanismo del conferimento non implica, per i Romani, uno snaturamento della precedente «identità» del patrimonio ereditario.

Il punto è stato efficacemente discusso da Windscheid, in connessione con la ricerca del termine più adatto per rendere in tedesco il latino ‘collatio’.  Nel manifestare la preferenza per il verbo ‘Beibringen’ rispetto al verbo ‘Einwerfen’, affermava l’illustre pandettista come per il diritto romano non si potesse parlare di confusione tra patrimoni (nonostante che alcune fonti, di epoca sia classica che successiva, usino espressioni evocanti l’in medium conferre)[30]; né, tantomeno, l’odierna collazione sarebbe assimilabile al diverso istituto della riunione fittizia. Nella prima, infatti, si procede ad un calcolo delle quote che tenga conto di quanto sia preventivamente pervenuto nella disponibilità del successore e l’imputazione dei beni da conferire alle quote così individuate (e non all’intero patrimonio ereditario) è reale e non fittizia.

Da ultimo, osserviamo come nel Tardo Impero si verifichi un mutamento di denominazione dell’istituto, da collatio bonorum a collatio emancipati[31].

La definizione costruita con il genitivo soggettivo anziché con quello oggettivo non sta però a significare la limitazione dell’ambito di operatività ad una sola categoria di figli: essa testimonia, invece, una crescente attenzione per la posizione del singolo rispetto all’eredità complessivamente intesa (tanto che in età giustinianea, come detto, si giungerà alla previsione del conferimento anche da parte degli stessi sui[32]).

Il punto finale dell’evoluzione terminologica è dato dalla dicitura ‘collatio descendentium[33]: essa, pur essendo usata comunemente in dottrina per designare la collazione di età postclassica, non sembra tuttavia impiegata nelle fonti con valore identificativo di una categoria. La si trova infatti solo sporadicamente e per indicare un gruppo residuale di parenti rispetto a quelli espressamente nominati (è questo l’ambito di operatività del termine descendentes anche nella Nov. 18.6[34]).

 

5. – La ratio ispiratrice della collazione tra diritto postclassico e Codice Civile

 

Come sopra accennato, in età classica la previsione della collazione pare ispirata, pur con le dovute cautele, ad una visione unitaria della famiglia e ad una contrapposizione tra patrimoni, incarnata dal vantaggio dell’emancipato rispetto al sui iuris. Questo concetto è stato sviluppato, sebbene in sede di commento al vigente codice civile, da Burdese[35]: egli, nel richiamare le radici storiche dell’istituto, ha delineato la differenza tra collatio classica, che rappresenta un sistema per equilibrare posizioni patrimoniali differenti (sui-emancipati) e collatio descendentium postclassico-giustinianea, nella quale prevale appunto l’idea di tener conto di quanto un coerede abbia già ricevuto in vita dal de cuius.[36]

Il paradigma più idoneo allo sviluppo di una nuova configurazione dell’istituto sarebbe rappresentato, anche secondo quest’ultimo Autore, proprio dalla dote e dagli istituti ad essa analoghi[37], che avrebbero modellato la collazione secondo linee più vicine a quelle del diritto moderno.

Nello specifico, proprio con C. 6.20.17 la collatio avrebbe assunto la connotazione, che è anche quella attuale, di rimedio finalizzato all’equa distribuzione di un valore. A tal proposito, tuttavia, si impongono alcune precisazioni.

Non è questo il luogo per soffermarsi sulle questioni generali relative al ruolo – spesso a torto considerato marginale – del diritto postclassico nel passaggio dalla grande giurisprudenza al diritto della compilazione, nel quale ultimo, peraltro, un ordine definitivo in materia manca ancora. A maggior ragione, il parallelo con il diritto moderno rischia di banalizzare, appiattendola, la vicenda storica dell’istituto; inoltre non si può che rinunciare, in questo contesto, a dare conto dei complessi passaggi del diritto intermedio e dell’assetto delle prime codificazioni, anche se essi colmerebbero, consentendo una comprensione più piena dei principi della collazione, la lacuna temporale che intercorre tra il V secolo e il Codice vigente.

Preme tuttavia richiamare una recente osservazione di Capogrossi Colognesi, inserita all’interno del dibattito sulla rifondazione della scienza giuridica europea attraverso il diritto romano[38]. Egli indica il diritto postclassico e giustinianeo come ambito di rinnovata indagine da parte degli studiosi (anche storici), in una prospettiva di ampliamento dell’oggetto degli studi romanistici più che di un «mutamento qualitativo» di essi: tale affermazione ben si attaglia al discorso fin qui condotto, dato che il mutamento di ratio del nostro istituto pare avvenuto proprio con la mediazione delle fonti tardo-imperiali, che Giustiniano si limita a riprendere, senza giungere ad una vera e propria sistemazione[39].

Ciò posto, senza quindi appoggiare l’idea, semplicistica e metodologicamente scorretta, di una diretta derivazione della disciplina codicistica dalle fonti romane[40], pare interessante prendere occasione da C. 6.20.17 per soffermarsi sulle diverse giustificazioni che la dottrina moderna ha ricollegato all’art. 737 c.c.

Ancora oggi, va precisato, il «fondamento razionale»[41] della norma sulla collazione sfugge ad una valutazione univoca. Di lunga tradizione la giustificazione nel senso della presunzione anticipatoria[42], presente e seguita fin dalla Glossa, come ricordato da Vismara, che pare aderirvi[43].

Le numerose critiche e i ripensamenti occorsi nel tempo hanno portato però ad individuare anche altre rationes dell’art. 737 c.c.: per limitarsi ad alcune, ricordiamo la comproprietà familiare, il superiore interesse della famiglia, la volontà presunta del de cuius, l’uguaglianza tra coeredi, l’anticipo sulla futura successione. Come affermato ancora da Burdese[44], si può parlare di vis attractiva della successione a causa di morte sulle liberalità elargite in vita. Allo stesso modo, l’ammissione alla bonorum possessio era condizionata alla rinuncia agli eventuali benefici che il successore avesse ricevuto in vita. Non diversa, come si è già avuto modo di notare, è la ratio ispiratrice di C. 6.20.17, che il provvedimento documenta per la prima volta in modo evidente.

Ma non è tutto: altre questioni sollevate dalla dottrina civilistica potrebbero forse essere affrontate guardando alle radici dell’istituto, e desumendone elementi utili a propiziare l’accoglimento di un’opzione interpretativa rispetto ad un’altra. Per esempio, esiste una contrapposizione tra chi ritiene che presupposto della collazione odierna debba necessariamente essere una situazione di comunione e chi propende per la sufficienza della semplice coeredità.

Per la prima corrente, la collazione non opererebbe né in caso di divisione testamentaria né in mancanza di un relictum, cioè di una parte di patrimonio indiviso, ipotesi che si verifica qualora il de cuius abbia già disposto interamente dell’eredità con donazioni o legati. Per la seconda basterebbe, per citare le parole di Amadio, un «concorso di più vocazioni ereditarie, accettate dai destinatari, rinvenibile pur in mancanza di relictum, o in ipotesi di divisione testamentaria»[45]. I Romani, com’è noto, non ammettevano un testamento privo di istituzione di erede, e quindi la mancanza di relictum nel senso sopra indicato non si sarebbe potuta verificare: tuttavia, la collatio nasce a seguito dell’ammissione alla successione di soggetti «terzi» rispetto agli antichi titolari del consortium ercto non cito, con i quali si trovano a concorrere sulla base di vocazioni derivanti da ordinamenti diversi. Dunque si può affermare che l’istituto accedesse ad una coeredità più che ad una comunione, sia pure con i dovuti distinguo rispetto alle corrispondenti nozioni moderne.

Merita un accenno, infine, il carattere dispositivo della norma codicistica, che consente la dispensa espressa da parte del de cuius. Si tratta, questa volta, di un capovolgimento di prospettiva rispetto alla collazione romana, in cui il bilanciamento vantaggi-pregiudizi era rimesso alla scelta degli aventi diritto alla successione pretoria. Questi ultimi potevano infatti evitare la collatio rinunciando alla richiesta della bonorum possessio. In ambedue i casi, tuttavia, vi è l’idea di fondo di una non assolutezza dell’obbligo di conferire.

In conclusione, per tornare a C. 6.20.17, si può confermare che il provvedimento, pur con tutte le cautele che in questi casi sono d’obbligo (non fosse che per la mutevole concezione dei rapporti familiari in ogni epoca), sia espressione di un cambiamento e di una tensione, avviati proprio a partire dalla sua emanazione, verso le moderne linee ispiratrici della collazione.

Lo stesso Bartolo, al quale Vismara attribuisce il merito di essere giunto ad una «concezione sistematica» dell’istituto, attualizzava, rispetto al suo tempo, il ruolo di C. 6.20.17, affermando a chiare lettere: «usque huc habuisti iura antiqua, ab hinc infra sunt iura nova et novae constitutiones … et ista est notabilis lex et incipit ponere aliquid novitatis»: il grande Commentatore forniva in tal modo una chiave per l’interpretazione del provvedimento, in seguito ripresa – significativamente – dalla Pandettistica e ancora oggi accolta dalla dottrina romanistica[46].

 

 



 

* Il presente contributo riproduce la comunicazione tenuta in sede congressuale (XVII Congresso Internazionale dell’Accademia Romanistica Costantiniana, Perugia-Spello, 16-18 giugno 2005). Ci si limiterà perciò ad esporre il tema nelle sue linee principali e ad indicare la bibliografia essenziale.

 

[1] L’epoca richiamata è infatti teatro di importanti innovazioni in materia successoria, destinate non soltanto ad influenzare in modo significativo la successiva rielaborazione giustinianea, ma anche ad anticipare alcuni principii di stampo moderno. Cfr. infra, § 5.

 

[2] La richiesta della bonorum possessio rimane necessario presupposto per la collatio fino ad una pronuncia di Antonino Pio (cfr. infra, nt. 6). Sull’istituto si vedano, in generale, A. Guarino, Collatio bonorum, Napoli 1936; A. Mozzillo, Collatio, in Novissimo Digesto Italiano, 5 Torino 1959, 444 ss.; G. Longo, Collazione (Diritto romano), in Enciclopedia del diritto, 7, Milano 1960, 312 ss.; E. Volterra, Emancipatio, in Novissimo Digesto Italiano, 6, Torino 1960, 489 ss.; accenni in O. Diliberto, Successione legittima (Diritto romano), in Enciclopedia del diritto, 43, Milano 1990, 1305 nt. 84; P. Voci, Erede ed eredità (Diritto romano), in Enciclopedia del diritto 15, Milano 1966, 182; J. Burillo, Sobre la ‘collatio emancipati’, in Studia et documenta historiae et iuris, 13, 1965, 199 ss.; A. Caballé-Martorell, Collatio emancipati, Madrid 1997. Quanto alla letteratura in materia ereditaria, oltre, naturalmente a P. Voci, Diritto ereditario romano I, 2a ed., Milano 1967, 756 ss. e Diritto ereditario romano, II, Milano 1963, 647 ss. trattano l’istituto solo per accenni B. Albanese, La successione ereditaria in diritto romano antico, in Annali dell’Università di Palermo, 20, 1949, 127 ss.; C. Arnò, Corso di diritto romano. Diritto ereditario, Torino, 1938, 201 ss.; parla di affrancamento della collatio dalla bonorum possessio, perfezionatosi in età giustinianea senza che ne compaiano tracce nella compilazione, B. Biondi, Diritto ereditario romano. Corso di lezioni, Milano 1954, 138 ss.; lo stesso B. Biondi se ne occupa rapidamente in Istituti fondamentali del diritto ereditario romano, Milano 1948, 228 ss.; più recentemente, si veda A.D. Manfredini, La volontà oltre la morte, Torino 1991, 151 ss.

 

[3] Cfr. G. Scherillo, Agnazione, in Novissimo Digesto Italiano, 1, Torino 1957, 425 ss.; Id., Cognatio, in Novissimo Digesto Italiano, 3, Torino 1959, 427 ss.; da ultimo, con bibliografia, M. Fuenteseca Degeneffe, La formación romana del concepto de propiedad (dominium, proprietas y causa possessionis), Madrid 2004, 57 ss.

 

[4] L’osservazione bartoliana è riportata da G. Vismara, Collazione (Diritto intermedio), in Enciclopedia del diritto, 7, cit., 325.

 

[5] G. Vismara, Collazione, cit., 324.

 

[6] Il passo estende la possibilità di applicazione dell’editto, sive succedere possent eodem iure, sive succederent diverso.

 

[7] Ulp. 40 ad ed. D. 37,7,1: Divus Pius Ulpio Adriano rescripsit etiam eam, quae non petierit bonorum possessionem, ad collationem dotis per arbitrum familiae erciscundae posse compelli.

 

[8] Collazione, cit., 324.

 

[9] Sulla rivalutazione del periodo postdioclezianeo negli studi romanistici, cfr. E. Dovere, Tardoantico: categoria storiografica autonoma (“Cassiodorus” e “Antiquité tardive”), in Studia et documenta historiae et iuris 63, 1997, 547 ss. con bibliografia; L. Capogrossi Colognesi, Riflessioni su “I fondamenti del diritto europeo”: una occasione da non sprecare, in Iura, 51, 2000,11 nt. 10.

 

[10] Cfr. E. Fein, Das Recht der Collation, dargestellt nach den Grundsatzendes römischen Rechts, Heidelberg 1849, 347 ss.; P. Voci, Il diritto ereditario romano nell’età del tardo impero. Il V secolo, in Studia et documenta historiae et iuris 48, 1982, 72. Dello stesso P. Voci cfr. anche Il diritto ereditario romano nell’età del tardo impero. Il IV secolo, Prima parte, in Iura, 29, 1978, 17 ss. e Il diritto ereditario romano nell’età del tardo impero. Il IV secolo. Seconda parte, in Studi Sanfilippo, 2, Milano 1982, 655 ss.

 

[11] Cfr., più in dettaglio, infra. Essa si occupa della collatio, da parte degli emancipati, limitata ad ea, quae consecuti sunt emancipationis tempore, estendendo la regola alla dote.

 

[12] I due libri del Digesto dedicati alla bonorum possessio trattano tuttavia l’argomento secondo un ordine diverso: dapprima la bonorum possessio testamentaria, poi la contra tabulas, poi i gradi della bonorum possessio ab intestato. Il libro 37 si occupa degli ingenui, il 38 prevalentemente della successione dei liberti. Nella seconda parte di quest’ultimo libro, tuttavia, si riflette in linea di massima lo schema di Tanta, 7: D. 38.9 è rubricato infatti De successorio edicto; segue D. 38.10, De gradibus et adfinibus et nominibus eorum (Tanta, 7: ‘et ius omne, quod de gradibus et adfinitatibus descendit’). I compilatori inseriscono poi D. 38.11, Unde vir et uxor, lontano dai titoli riguardanti gli altri tre gradi della bonorum possessio ab intestato. D. 38.12, molto breve, è rubricato De veteranorum et militum successione e D. 38.13, formato da un solo frammento, indica chi sono coloro, quibus non competit bonorum possessio. Più interessante ai nostri fini il prosieguo del libro: D. 38.15 descrive infatti quis ordo in possessionibus servetur; D. 38.16 riprende, considerando congiuntamente regole civilistiche e regole pretorie, il tema dei beneficiari della successione, con la rubrica De suis et legitimis heredibus (forse le ‘legitimae hereditates’ di cui si parla nella Tanta; in tal caso, però, resta dubbio a che cosa si riferisca l’espressione ‘omnis ab intestato successio’, su cui cfr. infra, nel testo); il libro 38 si conclude poi con il titolo 38.17, Ad senatusconsultum Tertullianum et Orphitianum (è qui evidente, invece, il parallelo con la Tanta, che parla di Tertullianum et Orfitianum senatus consultum, ex quibus mater et filii invicem sibi heredes existunt).

 

[13] Il punto è già stato discusso in F. Pulitanò, Ricerche sulla bonorum possessio ab intestato nell’età tardo-romana, Torino 1999, 169 ss., cui sia consentito rinviare.

 

[14] La questione, già accennata in Pulitanò, Ricerche, cit., 177, deve essere più criticamente valutata: in C. 6.20 sono infatti riportate costituzioni che, esplicitamente o implicitamente, escludono l’applicazione della collatio alla successione testamentaria: è il caso di C. 6.20.1 (ma non è strano, dato che siamo nell’anno 224), di Alessandro Severo: viene qui espressamente esclusa la collatio  nell’ipotesi in cui i figli emancipati succedano non ex bonorum possessione unde liberi, ma ex testamento in qualità di eredi; Gordiano, in C. 6.20.4 (a. 239), menziona la successione ab intestato o contra tabulas, così come il provvedimento di Leone, secondo cui le due forme di successio sopra citate sarebbero da qualificarsi come quocumque iure intestatae successionis. Anche le costituzioni di Giustiniano che chiudono il titolo menzionano in realtà la sola successione ab intestato. La svolta decisiva avviene expressis verbis con Nov. 18.6.

 

[15] Cfr. E. Fein, Das Recht, cit., 199 ss.; A. Guarino, Über den Begriff der Collation, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Röm. Abt.) 59, 1939, 520 s. Sul passo cfr. A.S. Scarcella, La legislazione di Leone I, Milano, 1997, che se ne occupa in relazione alla fonte da cui esso è tramandato (21 nt. 37), al destinatario (26 nt. 54), alla datazione (29 nt. 61), alla sua posizione cronologica nell’ambito della legislazione dell’Imperatore (31 nt. 65; 40). La costituzione avrebbe fatto parte, insieme a C. 5.9.6 e a C. 6.61.4 (45), di un più lungo provvedimento volto alla disciplina dei rapporti patrimoniali della famiglia (58 nt. 131). Afferma l’Autrice (132) trattarsi del «punto di arrivo di un sistema evolutivo».

 

[16] Ne è conferma anche la scelta delle costituzioni contenute in C. 6.20, nelle quali il tema della dote è prevalente. Cfr. G. Longo, Collazione, cit., 315. Afferma Guarino, Über den Begriff, cit., 519, «Die Regel emancipati his, qui in potestate fuerint, conferre debent wurde von der collatio dotis besonders beeinflußt».

 

[17] La collatio emancipati viene data per scomparsa dal Voci già in età giustinianea. Cfr. P. Voci, Diritto ereditario romano, I, cit., 779, che rinvia ad analoga posizione di B.W. Leist, in F. Glück, Commentario alle Pandette, libri 37-38, tradotte e annotate da Biagio Brugi, parti II e III, Milano, 1906, 514 ss., secondo cui la riforma sarebbe stata compiuta non espressamente, ma solo indirettamente. Cfr. G. Longo, Collazione, cit, 316 per la posizione degli emancipati e per ragguagli sul ridimensionamento anche del conferimento di costoro.

 

[18] Più in dettaglio cfr. infra, in questo stesso §.

 

[19] Si sofferma sulla due nozioni E. Fein, Das Recht, cit., 203 ss.

 

[20] La costituzione è in parte riprodotta in C. 9.49.8, ove viene ribadita l’estensione alla dote della regola posta per gli emancipati.

 

[21] Per la verità, in C. 6.20.2 è menzionata anche la dote, dato che si fa questione della successione di più figli, due maschi e una femmina, appunto, dotata.

 

[22] Su C. 6.20.4, cfr. G. Longo, Collazione, cit., 315 nt. 25. Il provvedimento, datato 239 d.C., sancisce l’obbligo per la donna di conferire la dote anche a fratelli e sorelle emancipati. E’ dubbio, tuttavia, se esso contenga un’innovazione di Gordiano o si limiti a riprendere un principio già espresso dalla tarda giurisprudenza classica. Per una discussione più articolata, cfr. anche P. Voci, Diritto ereditario I, cit., 769 ss.

 

[23] Cfr. P. Voci, Il V secolo, cit., 71: la riforma di Leone riguarda la successione ab intestato. Nel testo sarebbe ancora documentata, «in qualche modo», la distinzione tra collatio bonorum e collatio dotis. A pagina 72 afferma Voci che dal provvedimento sarebbe derivata l’interpretatio a C.Th. 4.2.1 e 5.1.5, secondo cui la donna deve conferire dotem vel quidquid accepit tempore nuptiarum.

 

[24] P. Voci, Diritto ereditario romano, I, cit., 778 afferma che la collatio emancipati in età giustinianea non abbia più ragione di esistere, e che, pur avendone i Pandettisti (nt. 80) sancito la scomparsa con il diritto delle Novelle, essa andrebbe in realtà retrodatata alla compilazione. Cfr. A. Guarino, Sul modo di attuazione della «collatio emancipati», in Studia et documenta historiae et iuris 4, 1938, 524 nt. 19; G. Longo, Collazione, cit., 315.

 

[25] Cfr., per tutti, G. La Pira, La successione intestata e contro il testamento in diritto romano, Firenze 1930, 375. A.S. Scarcella, La legislazione, cit., 135 dichiara che sia qui evidente «l’influenza della direttiva cristiana dell’uguaglianza di tutti gli uomini in quanto figli dello stesso padre».

 

[26] Ciò è ancora evidentissimo in varie costituzioni di età dioclezianea tratte dai titoli 6.55-59 del Codice giustinianeo; l’assetto della successione ex bonorum possessione è inoltre presupposto delle costituzioni riformatrici tramandate dal Teodosiano e nominata espressamente in alcune di esse: cfr. in ordine cronologico, C.Th. 2.16.2 (Costantino, a. 315); C.Th. 5.1.1 (Costantino, a. 318); C.Th. 2.16.4 (Costanzo e Costante, a. 338); C.Th. 8.18.5 (Costanzo, a. 349); C.Th. 4.2.1 (Arcadio e Onorio, a. 396); C.Th. 8.18.8 (Arcadio, Onorio, Teodosio, a. 407); C.Th. 4.1.1 (Teodosio e Valentiniano, a. 426). Su tutti questi provvedimenti cfr. F. Pulitanò, Ricerche, capp. 2 e 3.

 

[27] Per ragguagli bibliografici sul punto sia consentito rinviare a F. Pulitanò “Adoptione cognati facti”: un rescritto dei “divi fratres” in tema di “collatio bonorum”, on line in Rivista di diritto romano 4, 2004, 11 nt. 33; alle indicazioni ivi riportate si aggiunga M.G. Vita, D. 37,6,1,3 e la collatio emancipati, in Opuscula I (Pubblicazioni Università degli Studi di Macerata, Istituto di diritto romano “Luigi Raggi”), 26.

 

[28] In età postclassica diventa infatti ovvio che oggetto della collazione debba essere un complesso patrimoniale limitato e non più l’intero patrimonio come in età classica (anche se sul punto non c’è uniformità di vedute): il principio è in re ipsa per quanto concerne la dote, e viene poi applicato anche all’emancipato, di pari passo con la già ricordata crescente autonomia patrimoniale del filius.

 

[29] Così A. Guarino, Über den Begriff, cit., 521, che parla di «Verschmelzung zwischen hereditas und bonorum possessio in der Praxis».

 

[30] B. Windscheid, Diritto delle Pandette, traduzione Fadda-Bensa, vol. III, Torino 1925, 352 nt.1. Sulla genuinità dell’espressione in medium conferre nelle fonti classiche cfr. A. Guarino, Über den Begriff, cit., 509 nt. 1, con bibliografia. B.W. Leist, Commentario, cit., 515 parla della collatio come «dottrina accessoria alla divisione dell’eredità».

 

[31] G. Longo, Collazione, cit., 315.

 

[32] Cfr. G. Vismara, Collazione, cit., 319.

 

[33] Per A.S. Scarcella, La legislazione, cit., 461 ss. e 477 nt. 86, C. 6.20.17 sarebbe una «statuizione generale» con cui «l’antica collatio bonorum si trasforma in collatio descendentium». Nota inoltre l’Autrice (478 e nt. 88) come fossero già presenti nella produzione normativa di Leone I molte soluzioni poi accolte da Giustiniano.

 

[34] Voci, Diritto ereditario romano, I, cit., 756 nt. 2: «la terminologia collatio descendentium è moderna». B.W. Leist in Glück, Commentario alle Pandette, l. 37-38, cit., 517, indica tre tipi di collazione: collatio dell’emancipato rispetto all’intero patrimonio; collatio dotis; collatio dei discendenti riguardo a ciò che abbiano ricevuto dal de cuius. Cfr. anche l’uso del termine descendentes in A.V. Vangerow, Lehrbuch der Pandekten², II, Marburg und Leipzig 1976, 389 ss.

 

[35] La divisione ereditaria, in Trattato di diritto civile italiano redatto da diversi giureconsulti sotto la direzione di F. Vassalli, 12.5, Torino 1980, 268.

 

[36] E’ sufficiente un accenno alle modalità concrete di realizzazione della collazione per notare gli evidenti punti di contatto con la collazione moderna. Cfr. ancora B. Windscheid, Diritto delle Pandette, cit., 354; si veda P. Trimarchi Istituzioni di diritto privato 15a ed., Milano 2003, 940 e A. Torrente- P. Schlesinger, Manuale di diritto privato 17a ed., Milano 2004, 1019 la spiegazione di come si effettua in concreto la collazione moderna.

 

[37] L’importanza della mediazione delle regole dotali è sottolineata da P. Voci, Diritto ereditario romano I, cit., 769.

 

[38] L. Capogrossi Colognesi, Riflessioni su “I fondamenti del diritto europeo”, cit., 11 nt. 10.

 

[39] Cfr. in P. Voci, Diritto ereditario, I, 778, testo e nt. 81 le contrastate interpretazioni di C. 6,20,20 e le seguenti osservazioni di G. Vismara (Collazione, cit., p. 319), che conviene riportare testualmente: «L’interprete, per superare le difficoltà che i testi gli presentano con le loro diverse e talora discordi statuizioni, si fonda soprattutto sulle costituzioni imperiali, su quelle giustinianee specialmente, ricavandone un complesso di principi tra loro coordinati in una disciplina unitaria della collazione, nella quale tuttavia non mancano incertezze e contraddizioni, le contrarietates che Bartolo rileverà».

 

[40] Per alcune osservazioni sul punto, sia sufficiente citare, per tutti, L. Garofalo, Scienza giuridica, Europa, Stati: una dialettica incessante, in Iura 51, 2001 (pubbl. 2005), 131 ss. (cfr. 132 per la bibliografia).

 

[41] L’espressione è contenuta in Commentario breve al c.c., a cura di G. Cian-P. Trabucchi, 7a ed., Padova 2004, 671.

 

[42] Cfr., per tutti, P. Trimarchi, Istituzioni, cit., 774.

 

[43] Collazione, cit., 317.

 

[44] La divisione ereditaria, cit., 273.

 

[45] In Cian-Trabucchi, Commentario, cit., 672.

 

[46] Per tutti, ancora P. Voci, Diritto ereditario, I, cit., 774.