ds_gen N. 6 – 2007 – Memorie//Scienza-giuridica

 

parmaSalvatore Puliatti

Università di Parma

 

Omnem facultatem damus sanctissimis episcopis’. Rapporti tra gerarchia ecclesiastica e gerarchia statale nella legislazione di Giustiniano

 

 

Il riassetto complessivo delle strutture dello Stato promosso da Giustiniano nel periodo 535-539, è noto, si caratterizza per la particolare ampiezza e complessità del programma di riforma, che nell’ottica del raggiungimento di un rinnovato assetto costituzionale non solo coinvolge il riordino di ampi settori dell’amministrazione sia centrale che periferica, ma postula anche la precisazione dei rapporti tra gerarchia ecclesiastica e gerarchia civile nel quadro di una ridefinizione del ruolo e delle funzioni dell’episcopato e del modo di porsi in confronto agli apparati dell’amministrazione locale e segnatamente alla figura del governatore provinciale.

Tra le mansioni che la legislazione giustinianea assegna al vescovo in ragione dell’alta considerazione delle doti morali di probità, onestà e fedeltà a lui riconosciute, ruolo primario assumono quelle che comportano carichi di gestione della cosa pubblica. All’interno di esse, per gli effetti che se ne possono trarre sul piano dell’ideologia giustinianea e le conseguenze che si riflettono sull’ordine gerarchico, anche non formale, delle varie magistrature, occupa il primo luogo il controllo del vescovo sulla burocrazia statale, espletato sotto diverse forme.

Il presule partecipa anzitutto, assieme ai primates uniuscuiusque regionis, alla nomina attuata in forme collegiali del governatore provinciale:

 

App. Nov. 7.12: Provinciarum etiam iudices ab episcopis et primatibus uniuscuiusque regionis idoneos eligendos et sufficientes ad locorum administrationem ex ipsis videlicet iubemus fieri provinciis, quas administraturi sunt, sine suffragio …

 

L’innovazione, introdotta in anni piuttosto avanzati con la Pragmatica sanctio pro petitione Vigilii, in occasione del riassetto politico-giuridico-amministrativo dell’Italia, più che rispondere a motivazioni ispirate dalla particolare condizione delle situazioni locali, o a tardive esigenze di adeguamento a nuovi canoni nella nomina dei funzionari periferici, appare il frutto di una metodica di governo maturata attraverso i non brevi tentativi di risolvere le contestazioni della periferia nei riguardi della capitale[1]. Il decentramento del sistema elettivo e il coinvolgimento degli amministrati nella nomina del governatore alleggerisce infatti il potere dalla responsabilità di eventuali decisioni inadeguate, rendendo i maggiorenti locali corresponsabili della scelta, e attua sotto il profilo costituzionale una innovazione talmente radicale da rappresentare un sovvertimento dei tradizionali criteri di selezione del personale dell’amministrazione imperiale, che all’interno della legislazione giustinianea ha un precedente proprio nelle procedure seguite per la nomina alla carica episcopale[2]. Il ricorso all’intervento del vescovo, se da un lato assolve a una funzione di garanzia tanto nei confronti delle comunità affidate alle sue cure quanto in relazione al potere centrale in ragione della conoscenza delle situazioni locali e delle qualità che lo contraddistinguono, dall’altro mostra la posizione di alta responsabilità riconosciutagli dall’autorità imperiale e la fiducia riposta in un efficiente rapporto di interazione tra organi dell’amministrazione periferica ed esponenti di spicco delle forze locali, ai fini di una efficiente gestione dei territori riconquistati.

Altro compito assolto dal vescovo, questa volta nell’ambito dell’amministrazione urbana, riguarda la nomina di alcuni magistrati civici, prima fra tutte la figura del defensor civitatis. Non si può distinguere facilmente per quale motivo (perdita di prestigio di alcune componenti il comitato elettivo, scadimento dell’autorevolezza della carica[3]) Giustiniano nel 535, quando intraprende il programma di riforma delle istituzioni dello Stato[4], modifica il sistema di nomina del defensor civitatis precedentemente stabilito da Onorio nel 409[5]. In effetti nel provvedimento giustinianeo sopravvive ancora il concetto della competenza del comitato elettivo; ma tale comitato, nella legge onoriana costituito dal vescovo, dal clero, dagli honorati, dai proprietari terrieri nonché dai curiales, viene da Giustiniano sfoltito nel senso che la designazione della persona da nominare è demandata al vescovo, al clero e alle persone di buona fama, mentre viene soppressa l’approvazione della curia cittadina[6]. È plausibile, insomma, ritenere che in tal modo si instauri un sistema volto a coinvolgere le forze più integre e rappresentative delle comunità locali (qui in civitate existimationem curant), almeno per quel tanto che il centralismo statalistico consente[7].

Nell’ambito della politica mirante ai controlli locali, al vescovo, quale membro di una commissione istituita a tale scopo, è riconosciuta nel 545 la competenza sulla nomina attuata in forme collegiali di altri magistrati cittadini (pater civitatis, frumentarius e simili), cui si aggiunge il compito di riceverne annualmente i rendiconti finanziari e di intervenire in tutte le operazioni di correzione o di integrazione dell’attività affidata agli stessi:

 

Nov. 128.16: …verum civitatis cuiusque sanctissimus episcopus et primates civitatis nec non possessores eius patrem civitatis et frumentarium et ceteros eiusmodi administratores instituant…

 

Il numero degli eligendi comprende soprattutto due figure che hanno importanza eminentemente sociale, perché da loro dipende la soluzione di problemi riguardanti sia la gestione delle sostanze civiche, sia l’alimentazione della popolazione urbana: il pater civitatis e il frumentarius[8]. Quest’ultimo specialmente, residuo del vecchio sistema delle frumentationes di origine graccana, con i suoi interventi nel campo degli approvvigionamenti contribuiva al contenimento dei disordini e al mantenimento dell’ordine pubblico.

Tuttavia, a prescindere dall’interpretazione che del significato di quegli interventi possa darsi (rivitalizzazione e difesa delle istituzioni cittadine, opposizione all’eventuale attività lesiva degli amministratori locali nei riguardi della Chiesa e del clero, protezione delle comunità affidate alle sue cure), il vescovo ottiene titolo di maggior prestigio, e non soltanto morale, rispetto agli organi dell’amministrazione locale, più che da quella stessa partecipazione dalla capacità a lui riconosciuta di esercitare controllo e opposizione contro le illegalità commesse dal governatore, e in genere dai funzionari di grado elevato (magistratus, praesides, iudices), a danno degli amministrati.

Nella fattispecie dalla legislazione giustinianea sono annoverati gli abusi che l’autorità civile perpetra in forza dei suoi poteri (concussione, illegalità, soprusi concretantisi soprattutto nell’impedimento all’esercizio di attività private: ostacolo a far testamenti e alla procedura d’appello, impedimenti alla celebrazione di matrimoni, alla redazione di strumenti dotali, alla sepoltura dei morti, alla compilazione di inventari). E in proposito al vescovo è conferita non solo la facoltà di denunziare gli abusi[9], ma anche quella di reprimere (cohibendi facultas) l’attività illegale dei pubblici funzionari.

A disporre in merito è anzitutto la disciplina di Nov. 8, la norma abolitiva del suffragium, che, nel fissare le regole di condotta e i doveri assegnati ai governatori provinciali, impone al vescovo e ai primates del luogo il dovere di sorveglianza e l’obbligo di informare l’imperatore degli illeciti eventualmente commessi dagli amministratori a danno dei provinciali, affinché questi, fatta debita inchiesta attraverso l’invio di appositi funzionari, possa assoggettare i trasgressori alle competenti pene[10]. Il dovere si trova poi ribadito nel primo dei documenti annessi alla Novella, un editto indirizzato ad deo carissimos ubique locorum episcopos sanctissimosque patriarchas, che, nel ricordare ai vescovi l’obbligo della segnalazione all’imperatore degli illeciti commessi dagli amministratori locali, ne estende la sorveglianza anche nei confronti dei defensores civitatum in ragione dei doveri ad essi imposti, analoghi a quelli sanciti per i maggiori iudices[11].

Dunque l’opposizione del vescovo, intorno al 535, si esercita in primo luogo non direttamente, ma sotto la forma della nuntiatio delictorum, le cosiddette preces, che il prelato unitamente ai principali cittadini ha facoltà di inoltrare all’Imperatore perché egli possa correggere le illegalità ed eliminare gli abusi, provvedendo, una volta avutane notizia (his cognitis), dietro apposita ispezione, alla relativa repressione[12]. Così nel 535 Giustiniano anzitutto dispone:

 

Nov. 8.8.1: Damus etiam provincialibus potestatem, si quid iniusti in provincia qui magistratum gerit perpetraverit et subditos nostros damnis quibusdam aut iniuriis affecerit, ut deo carissimus episcopus eiusque loci primates preces ad nos mittant, quae eius qui magistratum gerit delicta exponunt. Nos enim his cognitis in provinciam mittemus qui ea examinet, quo ille, ubi deliquit, ibi etiam poenas delictorum subeat, ut ne quis alius quidem tale quid perpetrare audeat ad exemplum respiciens,

 

e di nuovo nell’Ed. 12 ribadisce la medesima competenza in relazione a imposizioni fiscali illegittime perpetrate in Ellesponto sotto il pretesto di presunte autorizzazioni imperiali, prevedendo, in considerazione della presunzione di illecita connivenza – tamquam criminis socium – e della gravità dell’estorsione fiscale perpetrata, la destituzione del funzionario colpevole e la confisca del suo patrimonio per l’indennizzo in favore dei soggetti lesi:

 

Ed. 12.2: Permittimus vero etiam episcopis ut, si provinciae praeses neglegens sit et pragmaticam formam non inhibeat, sed ei, qui illam producit, morem gerat, ipsi eam rem nobis denuntient, qui si hoc didicerimus, eum tamquam criminis socium et de magistratu deiciemus et cingulo eum atque substantia privabimus et eis, qui qualibet in re iniuriam passi sunt, indemnitatem praestabimus,

 

per poi, nel 545, ulteriormente confermare la facoltà di denunzia in relazione alle usurpazioni dei funzionari degli apparati periferici (prefettura pretoriana) che sulla base di pretesi ordini imperiali fossero intervenuti in provincia a controllare le spese delle entrate civiche e avessero commesso abusi ed estorsioni:

 

Nov. 128.17: Nulli autem eorum qui in officium glorissimorum praefectorum vel in aliud officium aut in scholam relati sunt talia ratiocinia committi liceat, neque ex praecepto eiusdem magistratus vel alterius iudicis neque si pragmaticam vel aliam sanctionem vel sacrum commonitorium accipiat quod ei tale aliquid committat. Sed si quid eiusmodi fiat, liceat sanctissimo cuiusque civitatis episcopo et primatibus eius de praedictis capitibus eiusmodi personis non respondere, sed ad nos referre, ut his cognitis et illatum civitatibus damnum ex ipsorum substantia restitui iubeamus et convenientem vindictam talibus personis infligamus[13].

 

a segno che il concetto della autorità episcopale diventa realtà stabile nel pensiero dell’imperatore.

Sotto altro profilo l’opposizione del vescovo assume successivamente la forma di un vero e proprio potere coercitivo e sanzionatorio. Nel 537 infatti, qQualche anno dopo aver regolato il lenocinio con apposita legge[14], Giustiniano promulga una costituzione più che altro integrativa delle precedenti statuizioni sulla materia (Nov. 51). Il provvedimento, che reca la rubrica Ne a scaenicis mulieribus aut fideiussio aut iusiurandum perseverantiae exigatur, trae origine dalla necessità di reprimere l’espediente posto in essere dai prosseneti per eludere le disposizioni ostative e repressive adottate nel 535 contro di loro. Tale espediente consisteva nella richiesta fatta dai prosseneti alla prostituta di prestare giuramento sull’impegno di non abbandonare la professione (iusiurandum perseverantiae), in sostituzione della prassi, prima seguita, con cui si costringeva la prostituta stessa a impegnarsi tramite contratto (syngraphae), oppure a produrre garanti (fideiussores exigere) per lo stesso scopo.

 La repressione questa volta è rapportata allo status dei soggetti. Mentre per la prostituta si sostanzia nella remissione del reato di spergiuro, vale a dire nella liberazione dall’obbligo di tener fede al giuramento e concretamente nella possibilità del suo ritiro dalla prostituzione[15]; contro il lenone si sostanzia, per l’imposizione illegittima del giuramento, nell’irrogazione della pena pecuniaria di dieci libbre d’oro, da versare alla donna quale mezzo di sostentamento per la conduzione di un tenore di vita onesto (ad reliquam vitam honestam agendam); contro il governatore, poi, che si sia reso autore della perpetrazione del reato e abbia imposto alla prostituta giuramento sul suo impegno di continuare la professione è deciso il trasferimento della competenza e dei poteri esecutivi al magistrato militare della provincia, qualora ivi esistente, o, in sua assenza, al vescovo metropolitano[16]. Così lascia intendere:

 

Nov. 51.1.1: Quodsi ipse provinciae praeses iusiurandum exegerit, ab ipso etiam decem librarum auri poena quam diximus exigatur quae siquidem militaris magistratus in illa provincia sit, per illum mulieri detur sicut dictum est; si vero nullum habeat militarem magistratum, episcopus metropolis illius provinciae huic rei prospiciat ad nos quoque eam, si ita iudicavit, referens, ac praeterea qui inter vicinos erit magistratus maior …

 

Nella fattispecie al vescovo viene pertanto affidato il compito di applicare ed esigere le pene previste dalla legge[17], e sebbene ciò possa essere giustificato dalle peculiarità del caso, e in specie dalla offesa alla sacralità del giuramento che per sé stessa reclama l’intervento dell’autorità religiosa, ciò non toglie che ad essa venga riconosciuto un preciso potere coercitivo nei confronti della stessa autorità civile.

Successivamente, a distanza di tempo, altre disposizioni intervengono a confermare tale potere. Tant’è che nel 553 viene attribuito al vescovo il potere di espellere da alcune province magistrati che eccedano dalla loro sfera di competenza senza la necessaria autorizzazione (segnatamente il dux o biocolyta della Lidia e Lycaonia al quale, pur essendo stato istituito con funzioni di polizia per mantenere l’ordine in cinque province della diocesi Asiana, e segnatamente: Lycaonia, Lydia, Pisidia, Phrygia maior e Phrygia minor, essendo venute meno – con la riorganizzazione del 541-565 seguita alla caduta di Giovanni di Cappadocia – le ragioni di ordine che ne avevano suggerito l’istituzione, viene inibito di ingerirsi o di estendere la propria giurisdizione oltre l’ambito delle due province a lui conservate rispetto alle cinque originariamente assegnategli):

 

Nov. 145.1: Quapropter in posteriore tempore iis qui in Lycaonia et Lydia militarem magistratum habet vel ipse provincias quas diximus accedere vel aliquem ex officio suo mittere ausus sit, facultatem damus episcopis civitatium arcendi ipsum vel eos qui ab ipso mittuntur ingredi volentes et ex locis illis expellendi …

 

e nel 556 Nov. 134, relativa alla nomina di vicari, nel definire le linee di condotta dell’amministratore ideale, a riprova della stabilità ormai assunta nella visione imperiale dal ruolo riservato all’autorità episcopale, oltre a prevedere una dettagliata elencazione dei delicta dei funzionari perseguibili e la modifica in senso restrittivo del regime delle pene applicabili ai magistrati inosservanti (destituzione dalla carica, esilio, risarcimento in duplum del danno inferto), ribadisce il potere di intervento e coercizione riconosciuto ai vescovi, unitamente ai primates civitatum :

 

Nov. 134.3: Propterea interdicimus omnibus magistratibus tam civilibus quam militaribus eorumque officiis vel cuilibet alii, ne quid eiusmodi audeant. Si quis vero tale scelus in quocumque rei publicae nostrae loco perpetrare vel ei qui haec audeat praesto esse temptaverit, iubemus eos cingulo privatos in exilium mitti, et ex eorum substantia damnum iis qui iniuria affecti sunt illatum in duplum restitui … Omnem autem facultatem damus sanctissimis locorum episcopis et primatibus civitatum eiusmodi conatus cohibendi et providendi ut haec omnia sine impedimento et detrimento secundum legum tenorem procedant, atque de his ad nos referendi.

 

Partecipazione apparentemente di minor rilievo, rispetto al potere di intervento nel procedimento di nomina e di controllo esercitato dall’episcopato sugli organi dell’apparato burocratico, sembra essere quella stabilita da Giustiniano nel 535 con la chiamata del vescovo, unitamente ai primates del luogo, a ricevere il giuramento del governatore presente in provincia prima del suo ingresso in carica. A stabilire ciò è, fra l’altro, la stessa costituzione che abolisce il suffragium:

 

Nov. 8.14: Iusiurandum vero hic quidem secundum id quod supra dictum est praestabunt. Quodsi quibus, qui in provinciis sunt, insignia magistratus mittantur, coram deo carissimo episcopo metropolis et primatibus qui ibi sunt iusiurandum praestabunt, atque ita magistratus negotia suscipient ….

 

In realtà anche l’ufficializzazione dell’obbligo di prestazione del giuramento di fedeltà[18], da parte del governatore di provincia lontana dal centro, nelle mani del vescovo configura una forma di superiorità di questo, se non altro «morale», perché in tal caso il vescovo assolve non funzione di semplice rappresentanza, ma di autorità che riceve in pieno potere il giuramento. Cosa eccezionale per il modus sentiendi di Giustiniano, che nella legge istitutiva del relativo obbligo riservava a sé, e solo in caso di sua indisponibilità ai maggiori funzionari, la relativa prerogativa. Dignità maggiore è difficilmente credibile gli si potesse attribuire, perché proprio per tal via il vescovo finisce con l’acquistare, e non solo nel pensiero del legislatore, carisma di autorevolezza sul magistrato, in quanto viene a coprire il ruolo che nella generalità dei casi è assolto direttamente dall’imperatore stesso.

Minore importanza, invece, rivestono altri adempimenti, pur dovendosene ammettere una certa rilevanza sotto il profilo dei rapporti fra autorità religiosa e autorità civile. Nel 535 viene attribuito al vescovo potere di ricevere, da parte del neoeletto governatore, dopo il suo ingresso nella provincia che deve essere da lui amministrata ma prima di dare inizio all’attività istituzionale, la notifica dei mandata principis, vale a dire il quadro delle attività da realizzare e degli obblighi da eseguire per ordine imperiale o, se si vuole, i punti del suo programma amministrativo. Come dire che la mancata comunicazione di quelle prescrizioni burocratiche all’autorità episcopale impedisce al governatore di entrare nella pienezza delle proprie funzioni equivalendo, nel pensiero di Giustiniano, alla inottemperanza di un obbligo di comunicazione presupposto della valutabilità della condotta governatoriale. Questo si può ricavare dalla costituzione che assieme a Nov. 8 regola l’attività dell’apparato burocratico e che al fine del coinvolgimento di componenti significative della comunità locale ripropone un sistema di collegialità (nella fattispecie vescovo, clero, principali cittadini), sempre più frequentemente invocato nella legislazione di Giustiniano:

 

Nov. 17.16: Simulac vero provinciam ingressus sis, convocatis omnibus qui in metropoli constituti sunt, deo carissimum episcopum dicimus et venerabilem clerum et primores civitatis, haec nostra sacra praecepta per actorum instrumenta manifesta reddes…

 

L’obbligo della notifica al vescovo dei mandata principis non sembrerebbe rivestire, come s’è detto, che valore accessorio. L’importanza dell’adempimento prescritto dall’ordine imperiale è invece da ravvisare nel fatto che esso si impone alla valutazione come ulteriore manifestazione di quella che presenta i caratteri di una subordinazione almeno concettuale, se non strettamente gerarchica, del governatore rispetto al vescovo.

Non meno significativo in proposito appare il dovere di verifica sui rendiconti degli amministratori locali (pater civitatis, frumentarius e simili), nominati dallo stesso vescovo (unitamente a primati del luogo e possessores) per la gestione delle finanze cittadine, e il potere a lui riconosciuto di provvedere alla sostituzione degli amministratori inidonei e di denunciare all’autorità imperiale gli abusi e le distorsioni commesse da alcuni funzionari periferici (segnatamente quelli dell’ufficio della prefettura pretoriana) in relazione alle attività di rendicontazione (Nov.128.17[19]). Un vero e proprio reticolo di poteri e controlli che in tal modo finisce per concentrarsi sulla figura del vescovo, rendendolo al tempo stesso tutore e arbitro della gestione delle comunità affidate alle sue cure:

 

Nov. 128.16: Singulis autem annis impletis sanctissimus episcopus cum quinque primatibus civitatis rationes exigant ex iis qui ab ipsis instituti sunt: et si quid ex eiusmodi rationibus debitum aut reliquum esse appareat, id ab eiusmodi administratoribus exigatur periculo eorum qui eos instituerunt, et quibus destinatum est usibus servetur. Si quis vero ex praedictis administratoribus parum idoneus inveniatur, statim eum removeri iubemus et alterum in eius locum et a sanctissimo civitatis episcopo et a reliquis possessoribus, uti dictum est, institui: sciantque qui eos nominant, si quid inde detrimenti civitati illatum sit, ex suis sese facultatibus id resarturos esse[20].

 

Espressivo del medesimo orientamento appare peraltro anche quanto disposto da Giustiniano con CJ. 1.4.26 del 530 in tema di partecipazione alla gestione delle comunità cittadine. Il caso raffigura quella forma di "patriottismo municipale", come è già stato definito[21], la cui ragione è da ravvisare nella necessità di difesa degli interessi ecclesiastici e, insieme, di quelli della comunità affidata alle sue cure. Della comunità civica il vescovo è, infatti, "pastore e patrono"[22], difensore dei diritti delle minoranze o socialmente deboli o prive di rappresentanti. Giustiniano fa conoscere la consistenza della partecipazione del vescovo all'attività dell'amministrazione locale quando da un lato sottrae al governatore provinciale la funzione di controllo sull'esecuzione delle opere pubbliche cittadine e sull'erogazione delle relative spese; e dall'altro istituisce una commissione mista, della quale fa parte il vescovo, cui demanda il compito di decidere in merito e di opporsi ad eventuali imposizioni abusive da destinare allo scopo.

Ma più in generale è tutta l'amministrazione locale a risultare sottoposta al controllo e all'ingerenza del vescovo[23], tant’è che nel caso in cui il governatore provinciale ometta il controllo, tollerando indebite ingerenze o l’eccessiva riscossione di tasse e di sportulae, il vescovo praticamente assume veste di supervisore, valutando l’entità dei diritti casuali versati ai funzionari ed esponendo all’Imperatore denunzia sulle infrazioni commesse dall’autorità civile per i provvedimenti di competenza:

 

Nov. 86.9: Si quis vero magistrianus (in rebus agens) vel praefectianus vel cuiuscumque condicionis alius maiores sportulas acceperit quam quae sacris nostris constitutionibus definitae sunt, iubemus omnibus modis praesidem provinciae suo periculo secundum legem nostram id vindicare iisque qui talia audeant castigationem inferre. Si vero praeses haec non vindicaverit, licentiam damus sanctissimo illius civitatis episcopo indicandi nobis de his et qualem militiam vel dignitatem habeat qui talia ausus est, ut et praesidi periculum inferamus qui haec permisit ac nostram iussionem contempsit, et ipsum qui talia ausus est supplicio affici iubeamus.

 

Quelli sinora enucleati sono certamente compiti che rivestono molta delicatezza e nella deliberazione e nell’esecuzione. Ma tra gli incarichi civili affidati al vescovo sicuramente emergono per importanza ed estensione le mansioni legate all'amministrazione della giustizia[24], tanto che qualche autore ha potuto asserire che nelle leggi giustinianee «tutta l'amministrazione della giustizia è posta sotto il controllo dell'episcopato»[25]. Appare quindi riduttiva l'opinione che, pur riconoscendo al vescovo senso dello Stato manifestantesi nell'adesione al dovere di rispettare la legge, fa di quest' interesse la proiezione locale della giustizia imperiale[26]. In ogni modo, qualunque sia l’incidenza della sua attività, il vescovo è chiamato insistentemente a collaborare a tale amministrazione, per la cui applicazione non poche difficoltà incontravano gli stessi governatori provinciali. Anzi, nell'esercizio di questa funzione all'episcopato è riconosciuto dalla legislazione giustinianea un ruolo di primaria importanza incidente sulla stessa posizione del praeses in veste di giudice.

A prescindere dal complesso delle norme che riguardano la episcopalis audientia, cioè la giurisdizione tipica del presule, che forma istituto a sé stante[27], esistono provvedimenti che riconoscono al vescovo poteri di ingerenza e di intervento in ambito giurisdizionale attribuendogli anche veste di giudice o di membro di collegio giudicante. Quale sia la ratio di questa partecipazione del vescovo in compiti giudiziari si desume dalla presumibile rete di interessi di ogni genere che coinvolgevano la Chiesa e il clero locali, istanze che richiedevano azioni di promozione o di difesa da parte dell’autorità ecclesiastica in quanto munita di legittima rappresentanza.

Quando in particolare Giustiniano affida al vescovo funzione giudicante ciò avviene anzitutto perché ne concepisce la rettitudine come certezza di imparzialità e di equidistanza, ne percepisce le virtù cristiane come fondamento del giudicare, ne apprezza il presumibile alto grado di moralità e di onestà, ne esalta lo spirito di superiorità rispetto all’uso di espedienti, ne loda l’incorruttibilità e l’astensione dagli illeciti, e gli manifesta in ogni evenienza il suo apprezzamento quale strumento di corretta e leale applicazione della legge. Insomma gli tributa la stima di strumento indiscusso e fedele della propria potestà politica.

Ma motivo non meno determinante per il conferimento della funzione giudiziaria al vescovo sta nel fatto che Giustiniano riconosce all’episcopato il possesso di quel carisma intrinseco che può donare l’intelligenza della legge. È, rovesciata, la medesima ragione per cui lo stesso Giustiniano nega all’eterodosso la capacità di svolgere funzione giudicante, perché l’eterodosso, non avendo costituzionalmente possibilità di intendere la parola divina, non può neanche comprendere la legge né quindi amministrare giustizia.

In dottrina si sono interpretate le implicazioni del vescovo nell’amministrazione della giustizia come manifestazione di privilegio ecclesiastico, e se ne è talora individuata la ratio nell’esigenza di controllo dei flussi migratori della popolazione dalla provincia verso la capitale, ovvero si è considerato l’intervento del vescovo nel campo giudiziario come l’unica soluzione per ottenere correttezza[28]. In realtà il tutto è da considerare da ottica più ampia, perché ciò coincide con l’impegno giustinianeo di riforma del processo e, in particolare, con il tentativo di risolvere, per vie alternative, i problemi dell’abbreviazione dei tempi della giustizia, dell’accelerazione del processo contro l’inattività del giudice, della negazione della giustizia stessa[29] e specialmente dei supercarichi giudiziari della corte di giustizia imperiale[30].

In questo quadro numerose sono le disposizioni che assegnano al vescovo ampi poteri di ingerenza nell’operato del governatore provinciale riconoscendogli anche competenze giurisdizionali nei confronti di questi. Così il vescovo interviene assieme al preside per risolvere amicabili compositione o per adnotationem in scriptis factam ovvero per decidere cognitionaliter le cause instaurate dai sudditi davanti al governatore su cui cadono sospetti di mancata imparzialità (iudex suspectus) (Nov. 86.2); decide in merito alle richieste di risarcimento avanzate dai provinciali contro il governatore uscente accusato di concussione (Nov. 8.9 e 128.23); sollecita per una rapida soluzione della lite il governatore che nega giustizia o prolunga ingiustificatamente il processo, in disprezzo delle regole che impongono l'accelerazione dello stesso, e, in caso di persistente diniego, lo deferisce all'imperatore (Nov. 86.1)[31]; è giudice nei processi per lesioni arrecate dal praeses provinciae a danno degli amministrati (Nov. 86.4). E sotto questo profilo certo è il poter desumere dalle fonti che attribuzione specifica del vescovo è la persecuzione del giudice "non giusto" (Nov. 86.4)[32], il quale vende la giustizia per ragioni di profitto e l'amministra in spregio al proprio giuramento di imparzialità (iuro me puram conscientiam et iustum servitium… servaturum).

Nell’esercizio delle sue funzioni giurisdizionali la deontologia del vescovo-giudice, a prescindere dal versante della fede e della morale, ove si presumono esistere realmente differenze, è in tutto paragonabile o addirittura uguale a quella del magistrato civile. Anche se non è tenuto a prestare iuramentum probitatis, come gli altri giudici, dal vescovo in veste giurisdizionale si pretende che sia, come qualsiasi altro magistrato, «giudice giusto» (omnemque aequitatem servare… atque omnem iustitiam), di non violare il diritto per favoritismi (in gratiam alicuius ius non contemnere)[33], di osservare l’equità quale ordine operativo.

Anche se non entra in discussione a questo proposito il problema del comportamento morale del vescovo, come accade per gli altri amministratori, valori come l’honestas, l’humanitas, la temperanza, l’astensione dalla turpitudine costituiscono nelle fonti, specialmente giustinianee, parametri di correttezza per una figura ottimale di amministratore della giustizia.

Le condotte che violano le regole, e non soltanto quelle morali, inammissibili in ogni settore della vita pubblica, sono tanto più da sanzionare nell’amministrazione della giustizia, dove maggiormente rileva l’operare secondo i principi dell’honestum e del probum. Perciò, ad esempio, come Teodosio I nel 386 non tralascia di usare severità contro figure disoneste quale quella dell’improbus iudex[34], così Giustiniano nel 530 disapprova ogni improba causa[35] e nel 531 condanna anche l’improbus litigator[36].

È comunque rilevante che nell’assegnare questo carico di mansioni la concezione giustinianea, nonostante ogni presunzione di correttezza e di carisma attribuita al personaggio, preveda anche la possibilità di negazione e di scorretta amministrazione della giustizia da parte del vescovo e perciò non eviti di sottoporlo a pena, qualora iudex iniustus:

 

Nov. 86.6: Si quem vero ex sanctissimis episcopis invenerimus in gratiam alicuius ius contemnere, canonicam ei castigationem inferri iubemus, ut studeant cum timore dei iuste iudicare, ne homines propterea quod ius suum non consequantur urbes et provincias et loca sua relinquere atque huc accurrere cogantur.

 

Al pari del giudice ordinario, il vescovo risponde pertanto del suo operato[37]. Anche in questo settore la legislazione giustinianea si ispira ai principi cui risponde il programma di risanamento e di ricondizionamento non soltanto della giustizia, ma anche di tutta l’amministrazione dello Stato, programma che si esprime simbolicamente mediante lo «slogan» delle «mani pulite» (kaqaraˆ ce‹rej), con l’enfatizzazione cioè del dovere dell’onesto esercizio delle funzioni giudiziarie[38].

Quanto alle forme secondo cui il vescovo assolve ai compiti extraconfessionali affidatigli dalla legge, risulta evidente dall’analisi della normazione imperiale come, oltre ai casi in cui le mansioni affidategli impongono forme di controllo incrociato tra le due gerarchie, egli eserciti le attribuzioni via via riconosciutegli, e in primo luogo quella dell’attuazione delle norme imperiali, in maniera che si può considerare parallela e, dal punto di vista giustinianeo, concorsuale o complementare rispetto a quanto fa l’autorità amministrativa.

Un primo indizio di questo parallelismo è la frequenza della geminazione delle leggi, dirette contemporaneamente, sia pure talora con modifiche formali più o meno pronunciate, a ciascuna delle due gerarchie[39]. E se ciò si deve giudicare, come è stato affermato, «segno della insistenza di Giustiniano su temi che gli apparivano fondamentali», vuol dire che il legislatore ritiene regola ineludibile di governo la compresenza delle due gerarchie nella vita amministrativa dello Stato.

Il secondo indizio consiste nella tendenziale identità del contenuto delle leges geminae[40]. Il legislatore non vuole creare disparità nei metodi di diffusione e nelle competenze applicative delle disposizioni; né è da dire che, quando invoca la partecipazione del vescovo, intende indirizzarsi alla sola componente religiosa dei destinatari della legge, mentre, quando invoca l’attività del governatore, intende rivolgersi solamente alla componente laica della popolazione; anzi nell’un caso e nell’altro ovviamente delibera per l’intera piattaforma della società. Egli integra la sfera d’azione dell’autorità civile con la sfera d’azione di quella religiosa, in modo da costituirsi un doppio percorso, e si procura due strumenti di governo equivalenti per raggiungere più agevolmente il successo dei suoi provvedimenti: da un lato mediante la forza della persuasione politica, dall’altro mediante la sollecitazione delle coscienze. Sicché la figura del vescovo, secondo l’ideologia di Giustiniano, assume la posizione non solo dell’interlocutore diretto della volontà imperiale, ma anche di cooperatore ideale del potere temporale: è il vescovo-magistrato, in parte libero, in parte sottoposto agli ordini dell’imperatore come strumento esecutivo dei suoi intendimenti. Il personaggio del vescovo-amministratore, la figura del vescovo-giudice, investito di poteri temporali oltre che spirituali, chiamato a risolvere i problemi burocratici e a dirimere, accanto a quelle ecclesiastiche, le vertenze laiche, prende per tal via, almeno nella legislazione giustinianea, il suo modo di essere[41].

Quando il vescovo è chiamato a partecipare alla nomina del governatore provinciale e a riceverne il giuramento, prima di tutti quello di fedeltà e di probità, l’ottica prescelta, bisogna dire, è quella di prevalenza, non solo quanto a stima né solo quanto a tributo di formale onorificenza, ma soprattutto quanto a effettiva posizione giuridica, del vescovo rispetto all’autorità civile. La ratio della partecipazione episcopale alla scelta di alti componenti dell’apparato burocratico consiste, come in altri casi, nella ricerca da parte del legislatore di una garanzia di affidabilità, pensando il governo centrale di riuscire a dotarsi di magistrati adeguati con l’ausilio del potere religioso piuttosto che affidando la scelta ai funzionari della propria amministrazione; e non altro praticamente significa che l’istituzione di una sorta di controllo preventivo su questa carica, esercitato dal rappresentante locale della gerarchia ecclesiastica attraverso la sua influenza sulle operazioni di nomina, in definitiva una forma di primazia dell’autorità religiosa su quella civile.

Quando poi il vescovo è chiamato ad espletare in varie forme mansioni di controllo successivo sul funzionario appartenente ai quadri della burocrazia statale, l’aspetto rilevante della fisionomia del presule è antagonistica: di sindacato e sorveglianza nei confronti dell’autorità civile[42]. Cosa che accade, fra l’altro, allorché il vescovo, assunto ruolo di giudice in processi instaurati a carico del magistrato amministrativo scorretto, acquista competenza a pronunziare sentenza sulla sua attività.

Vi sono altre manifestazioni, apparentemente meno significative, le quali esprimono analoga superiorità e preminenza di giudizio. Ad esempio, il caso delle mansioni carcerarie svolte dall’episcopato consente di allargare il discorso. È bensì vero che generalmente le funzioni svolte dal vescovo in tale ambito riguardano finalità assistenziali e che, pertanto, considerato ciò quale requisito proprio del ministero ecclesiastico, data l’attività caritativa che si presume competere a un religioso, il coinvolgimento dell’episcopato in tale ambito è compito strettamente a esso attinente. Ma è anche vero che nell’esercizio di questi compiti la legge riconosce al vescovo ampi poteri di correzione e indirizzo nei confronti dei funzionari imperiali[43]. Di tali poteri riconosciuti in favore del vescovo rispetto al governatore, e della quasi superiorità dell’uomo di fede nei confronti del funzionario statale, trasmette testimonianza CJ. 1.4.22. In tale costituzione il potere ispettivo espletato dal vescovo mediante il giudizio sulla correttezza dell’attività carceraria del governatore e dei suoi dipendenti fa guadagnare al presule autorità sull’amministratore civile, che in certo qual modo ne resta condizionato. E ciò conferma ancora una volta il duplice volto, politico e religioso insieme, che l’intelligenza imperiale intravede nella gerarchia ecclesiastica. Il principio della preminenza episcopale, sebbene non strutturata burocraticamente in gerarchia formale, diviene dato intrinseco dell’ideologia giustinianea.

Se poi si volge lo sguardo alla considerazione rivolta dalle Epitomi bizantine alle disposizioni novellari che precisano il ruolo e le attribuzioni del vescovo, onde verificarne il grado di attenzione riservata alla definizione nuova dell’immagine dell’episcopus che ne risulta, è sufficiente una rapida ricognizione per constatare come di norma esse non solo si preoccupino di confermare (riportandole più o meno stringatamente) le norme che ne definiscono le funzioni, ma sembrino volere sottolineare il ruolo di generale sorveglianza sull’amministrazione pubblica che rende il vescovo responsabile della corretta gestione di questa di fronte all’imperatore. Così l’Epitome di Atanasio, sintetizzando il disposto del primo editto annesso a Nov. VIII, significativamente precisa: oportet episcopis ad imperatorem referre de magistratuum administratione, a riaffermare il ruolo di supervisione riconosciuto ormai all’episcopato[44].

In conclusione, di fronte alla concezione del vescovo come personaggio contemplativo, assorto nella preghiera, dedito alle cure del sacro ministero, imperturbabile nell’esercizio dei suoi doveri sacramentali, oggetto della riverenza dell’Imperatore – è tale la raffigurazione che si deduce dal complesso delle dichiarazioni contenute in leggi sia particolari che generali –, la visione giustinianea rincorre una ben diversa figura di gerarca religioso: quella del vescovo funzionario efficiente, l’ecclesiastico di punta[45], occupato per la sua stessa posizione gerarchica da problemi di natura civile e politica, immerso nella quotidianità, «attivista» più che mai. In altre parole subentra nell’ideologia di Giustiniano un’«autorità» che, pur avendo connotati fondamentalmente «spirituali», a contatto con i problemi della società in cui vive prende volto d’uomo d’azione. Com’è stato giustamente notato, nel personaggio del vescovo, in ragione delle mansioni da lui esercitate, si compongono la figura del funzionario cristiano e quella del funzionario laico; tanto che qualche autore ha potuto ipotizzare la formazione, da parte della gerarchia episcopale, di un «corpo organizzato della ecclesia postosi di fianco al corpo burocraticamente organizzato dell’impero» e la costituzione di «una nuova forma di guida politica»[46].

 

 



 

[1] Così R. Bonini, Studi sull’età giustinianea, 2ª ed., Rimini 1990, 32; 78; 108, il quale sottolinea come la norma fosse rivolta a evitare imposizioni troppo nette da parte del potere centrale e avesse la finalità di «coinvolgere il più possibile gli italici nell’amministrazione del loro territorio» in un disegno complessivo di unificazione e concordia «fra l’impero e le forze più vive rimaste in Italia, fra le quali emergevano la Chiesa e i suoi uomini investiti di più ampie responsabilità». Ma l’innovazione introdotta in Italia troverà successivamente estensione all’Oriente ad opera di Giustino II con Nov. 149 del 569, a dimostrazione dell’efficacia dei metodi sperimentati in una prospettiva non meramente localistica e come ennesimo tentativo, sia pure indiretto, di risolvere, aggirandolo, il problema della venalità delle cariche.

 

[2] In proposito si veda S. Puliatti, Antiquitatis reverentia e funzionalità degli istituti nelle riforme costituzionali di Giustiniano, in «Cinquanta anni della Corte Costituzionale della Repubblica italiana». Tradizione romanistica e costituzione, diretto da L. Labruna, II, Napoli 2006, 1377-1401.

 

[3] I criteri di rinnovo delle cariche dell’amministrazione statale e le tendenze «classiciste» nello studio di S. Puliatti, Ricerche sulla legislazione «regionale» di Giustiniano. Lo statuto civile e l’ordinamento militare della prefettura africana, Milano 1980, 7-16. Sul classicismo pubblicistico di Giustiniano cfr. peraltro R. Bonini, L’ultima legislazione pubblicistica di Giustiniano (543-565), nel vol. Il mondo del diritto nell’epoca giustinianea. Caratteri e problematiche, a cura di G.G. Archi, Ravenna 1985, 139-71(= Idem, Studi sull’età giustinianea, Rimini, 1987, 57-92; Id., Giustiniano e il problema italico, sempre nel vol. Studi sull’età giustinianea, 93-110), seguito da P. Garbarino, Contributo allo studio del Senato in età giustinianea, Napoli 1992, 29 nt. 31.

 

[4] I problemi di datazione e l’individuazione delle motivazioni che avrebbero ispirato il progetto di riordino imperiale sono approfonditi in S. Puliatti, Ricerche sulla legislazione «regionale» di Giustiniano. Lo statuto civile e l’ordinamento militare della prefettura africana, cit., 7-16.

 

[5] CJ.1.55.8 pr. L’esigenza di tutela delle autonomie locali, minacciate dalla perdita di prestigio delle curie cittadine e dei suoi esponenti più di spicco oltre che dall’ingerenza sempre più oppressiva e vessatoria degli esponenti del governo imperiale, che aveva ispirato la disposizione onoriana si traduce in analogo provvedimento nella parte orientale dell’impero soltanto quasi un secolo più tardi ad opera di Anastasio, con CJ.1.55.11(=1.4.19) del 505, proprio in conseguenza della maggiore vitalità ivi conservata dalle istituzioni cittadine. Cfr. in argomento A.H.M. Jones, Il Tardo Impero Romano (284-602 d.C.), II, Milano 1974, 973, 1009 e nt. 104

 

[6] Nov. 15 ep., la quale dispone che la carica di defensor sia ricoperta a turno per un periodo di due anni dai residenti agiati di buona fama, dietro prestazione del giuramento prescritto, allo scopo di ovviare alla dequalificazione delle magistrature cittadine non più ricoperte da uomini onorati e influenti, ma affidate, spesso dietro designazione del governatore, a uomini di mezzi modesti e di scarsa autorevolezza.

 

[7] Sulla figura del defensor civitatis, sulla sua istituzione e sulle motivazioni che l’avrebbero ispirata attente considerazioni sono state di recente proposte da R.M. Frakes, Contra potentium iniurias. The defensor civitatis and late roman Justice, München 2001; Id., The Syro-roman Law Book and the defensor civitatis, in Byzantion 68, 1998, 347-355 e F. Pergami, Sulla istituzione del defensor civitatis, in SDHI 61, 1995, 413-431.

 

[8] Circa l’equivalenza tra pater e curator civitatis cfr. CJ.1.4.26; 8.12.1; 10.27.2; 10.30.4; 12.63.2, e per le funzioni ad essi affidate, con particolare riferimento alla amministrazione delle finanze cittadine: Novv. 160 e 85; CJ.1.4.25; 1.4.26; 1.5.12; 3.2.4; 3.43.1; 8.51.3. Quanto poi all’origine e all’evoluzione delle figure del curator e del frumentarius cfr. rispettivamente R. Ganghoffer, L’évolution des institutions municipales en Occident et en Orient au Bas-Empire, Paris 1963, 155-162 e M. Clauss, Frumentarius Augusti, in Epigraphica 42, 1980, 131-34.

 

[9] Nov.134.3, Ed.12.2.

 

[10] Nov.8.8.1.

 

[11] Si sofferma sul contenuto del documento R. Bonini, Studi sull’età giustinianea, cit., 46, il quale sottolinea come «l’editto lascia comunque intravedere, accanto alle vere e proprie funzioni civili dei vescovi (aspetto già noto dell’ordinamento postclassico e giustinianeo) anche il loro potere politico nelle civitates (e quindi gli stretti rapporti fra stato e chiesa): ciò in quanto si accenna alla segnalazione non solo dei delitti, ma anche del buon operato dei governatori».

 

[12] Ed. 12.2, precedentemente citato.

 

[13] La Novella ha come obiettivo quello di fornire idonee garanzie ai fini di una corretta applicazione dell’obbligazione tributaria, limitando gli arbitri e le estorsioni degli addetti alla riscossione. In sostanza essa si presenta, come è stato correttamente rilevato – R. Bonini, Studi sull’età giustinianea, cit., 79-80 –, come «un provvedimento di notevole lucidità e di grande impatto politico», al centro del quale sta non la logica della tutela delle ragioni del fisco e dunque la riaffermazione dei doveri imposti ai pubblici funzionari, ma la protezione dei collatores «con la loro esigenza di certezza del diritto e con la loro ansia di respingere gli abusi».

 

[14] Nov. 14.

 

[15] È una decisione eccezionale rispetto alla disciplina giustinianea, che, a prescindere dai risvolti morali e religiosi, attribuisce al giuramento efficacia di strumento giuridico. Sull’istituto cfr. Studi sul giuramento nel mondo antico, a cura di A. Calore, Milano 1988; S. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza del diritto in età giustinianea, in Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’Impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro, Milano 2000, 43-152, part. 61-85, con ulteriore bibliografia.

 

[16] Per l’esercizio di funzioni giurisdizionali nei confronti del governatore uscente, sottrattosi al rispetto dell’obbligo di permanenza in provincia per i cinquanta giorni successivi alla scadenza del mandato e resosi responsabile di malversazioni a danno dei provinciali, attestazione in Nov. 8.9. Cfr. in argomento S. Puliatti, Le funzioni civili del vescovo in età giustinianea, in Athenaeum 92, 1, 2004, 139-168.

 

[17] Così lascia intendere Nov. 51.1.1: Quodsi ipse provinciae praeses iusiurandum exegerit, ab ipso etiam decem librarum auri poena quam diximus exigatur quae siquidem militaris magistratus in illa provincia sit, per illum mulieri detur sicut dictum est; si vero nullum habeat militarem magistratum, episcopus metropolis illius provinciae huic rei prospiciat ad nos quoque eam, si ita iudicavit, referens, ac praeterea qui inter vicinos erit magistratus maior… In proposito ampia disamina della legislazione giustinianea in S. Puliatti, Quae ludibrio corporis sui quaestum faciunt. Condizione femminile, prostituzione e lenocinio nelle fonti giuridiche dal periodo classico all’età giustinianea, in Da Costantino a Teodosio il Grande. Cultura, società, diritto, Atti del Convegno Internazionale, Napoli 26-28 aprile 2001, a cura di U. Criscuolo, 31-83.

 

[18] Sostiene trattarsi di un giuramento di fedeltà e insieme di probità R. Bonini, Ricerche sulla legislazione giustinianea dell’anno535. Nov. Iustiniani 8: venalità delle cariche e riforme dell’amministrazione periferica, 3ª ed., Bologna 1989, 81, il quale, affermatane la natura di iusiurandum per deum, argomenta dall’espressione iuro autem idem iusiurandum per concludere che «i due giuramenti finiscono col saldarsi». Conferma della competenza in proposito del vescovo (unitamente a quella del prefetto del pretorio e dei curiali) forniscono altresì le adiectiones annesse all’exemplar inviato a Dominico, prefetto del pretorio dell’Illirico, di cui si conserva memoria nella versione dell’Authenticum. Più in generale sul tema del giuramento cfr. anche A. Calore, ‹‹Iuro per deum omnipotentem…››: il giuramento dei funzionari imperiali all’epoca di Giustiniano, in Studi sul giuramento nel mondo antico, Milano 1998, 107-126.

 

[19] Cfr. sopra.

 

[20] Cfr. in proposito anche Nov. 128.17 sopra richiamata. Rientra in questo ambito anche l’azione svolta dal vescovo per assicurare un’equa ripartizione dei tributi sancita proprio da Nov. 128. La norma gli affida infatti la mansione, da svolgere in concorso con il governatore provinciale, di fare esporre e pubblicizzare le liste delle imposte che ciascun contribuente è tenuto a versare alle casse dello Stato in base ai ruoli per cui risulta tassato o secondo il valore delle sue proprietà. La fonte, attraverso l'attribuzione al vescovo di una funzione di controllo in materia di pubblicizzazione dei ruoli, lascia trasparire non solo la volontà del legislatore di raggiungere l'eliminazione delle malversazioni a danno delle popolazioni e di assicurare ai sudditi la giustizia fiscale, ma mostra in sottofondo l'intento dell'imperatore di riconoscere al vescovo, anche in contrasto con il governatore, una posizione di controllo sull'equa ripartizione dei tributi (Nov. 128.4).

 

[21] Cracco Ruggini, Pretre et fonctionnaire. L’essort d’un modèle épiscopal au IVe-Ve siècles, in Antiquité tardive 7, 1999, 175-186, 183.

 

[22] Per l’attività di patrono cfr. Dovere, “Auctoritas” episcopale e pubbliche funzioni (secc. IV-VI), in Studi economico-giuridici 57, 1997-98, 2000, 523; per quella di governatore A. Di Bernardino, I Cristiani e la città antica nell’evoluzione religiosa del IV secolo, in Cristianesimo e istituzioni politiche, a cura di E. dal Covolo e R. Uglione, Roma 1997, 45-79, part.56-57.

 

[23] Nell’ambito delle mansioni a carattere locale le incombenze di minor rilievo, comunque non prive di corresponsabilità, comprendono, a salvaguardia di una corretta amministrazione delle città, l’obbligo imposto al vescovo di impedire l’occupazione abusiva (sine causa) e la locazione non autorizzata (absque sacra forma nostra elocatio) di suolo pubblico: CJ. 1.4.26.9: Religiosissimus autem episcopus et pater ceterique bonae opinionis possessores providere debent, ut quem locum publicum sive civitatis iuxta muros vel in publicis porticibus vel in plateis vel ubicumque situm a quoquam sine causa teneri sinant neve locus publicus absque sacra forma nostra  cuiquam  elocetur. E anche in questo caso il conferimento dell’incarico prevede un sistema di collegialità di decisioni, per cui sono chiamati ad espletare questa attività, assieme al vescovo, il pater civitatis e i possessori di buona reputazione.

 

[24] G. Barone Adesi, Monachesimo ortodosso d’Oriente e diritto romano nel Tardo Antico, Milano 1999, 252-260.

 

[25] Biondi, Il diritto romano cristiano, I, Milano 1952, 442.

 

[26] Cracco Ruggini, Prêtre et fonctionnaire, cit., 176

 

[27] In argomento cfr. G. Vismara, Episcopalis audientia. L’attività giurisdizionale del vescovo per la risoluzione delle controversie private tra laici nel diritto romano e nella storia del diritto italiano fino al secolo nono, Milano 1937; G. Lepelley, Liberté, colonat et esclavage d’après la lettre 24: la jurisdiction  épiscopale «de liberali causa», in Lettres de Saint Augustin, découvertes par Johannes Diviak, Paris 1983, 332 e nt.15; F. J. Cuena Boy, La «episcopalis audientia», Valladolid 1985; A. Biscardi, C.Th. 2.1.10 nel quadro della normativa giurisdizionale d’ispirazione religiosa, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, 6, 1986, 218 ss.; G. Vismara, Ancora sulla «episcopalis audientia» (Ambrogio arbitro o giudice ?), in SDHI 53, 1987, 53-73; M.R. Cimma, L’«episcopalis audientia» nelle costituzioni imperiali da Costantino a Giustiniano, Torino 1989; F. J. Cuena Boy, De nuevo sobre la «episcopalis audientia» (a proposito del libro reciente de la profesora Cimma), in RFDUC 16, 1992, 49 s.; P.G. Caron, La competenza dell’«episcopalis audientia» nella legislazione degli imperatori romani cristiani, in Il diritto romano quale diritto proprio delle comunità cristiane dell’Oriente mediterraneo, Città del Vaticano 1994, 267-76; M.R. Cimma, A proposito delle «constitutiones Sirmondinae», in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, 10, 1995, 385 ss.; G. Vismara, La giurisdizione civile dei vescovi (secoli I-IX), Milano 1995 (rec. F. J. Cuena Boy, in Iura 46, 1995, 170-79); P.G. Caron, I tribunali della Chiesa nel diritto del Tardo Impero, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, 11, 1996, 257 ss.; I. Cremades, Derecho romano, communidad cristiana y «episcopalis audientia», in SCDR 8, 1996, 124 ss.

 

[28] Così ritiene Barone Adesi, Implicazioni della symphonia Ecclesia-Imperium nell’amministrazione della giustizia, s.l. e a., 1. Del vescovo tanto come detentore di potere giurisdizionale quanto come giudice «non giusto», soggetto ad accusa e a pena, si occupa F. De Marini Avonzo, I vescovi nelle ‘Variae’ di Cassiodoro, in Atti dell’Accademia romanistica costantiniana, 8, 1990, 249-260.

 

[29] Per l’impulso da dare al processo e per l’inattività del giudice, motivata da ragioni varie, fra cui la concussione, cfr. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza del diritto in età giustinianea, cit., 110-112.

 

[30] A questo scopo rispondono e la disincentivazione dei flussi migratori verso la capitale sia ad opera del quaesitor (Nov. 80), sia ad opera del vescovo, e il divieto impartito all’autorità episcopale di recarsi a Costantinopoli senza lettere di autorizzazione (formatae) per risolvere problemi di giustizia. Sulle formatae o sacrae formae cfr. Nov. 86.8 e, per quanto riguarda il clero africano, IGR. 4 di Giustino II del 566, su cui S. Puliatti, I privilegi della Chiesa africana nella legislazione di Giustiniano e di Giustino II, in Estudios en homenaje al prof. Juan Iglesias, Madrid 1988, 1596-1597. Più in generale sulle funzioni del quaesitor ampia trattazione in E. Franciosi, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano. Studi su Nov. 13 e Nov. 80, Milano 1998, part. 103-34.

 

[31] Il vescovo, in particolare, esercita un potere di sollecitazione contro l’inattività dell’amministratore-giudice – che, nello specifico, è il clarissimus provinciae praeses – in caso di negligenza o di omissione di doveri d’ufficio o di ritardo ingiustificato nell’amministrazione della giustizia o addirittura di rifiuto della giustizia stessa. La norma relativa, risalente al 539, prevede infatti che sia anzitutto adito il giudice ordinario, e che solo quando ci si trovi di fronte alla inattività, per lo più artificiosa, o al rifiuto della giustizia da parte sua ([subiectus] ius non consecutus est) subentri l’intervento del vescovo, che, una volta adito dalla parte lesa, esercita potere o di sollecitazione (compellere) nei confronti dell'amministratore-giudice ordinario perché dia corso alla causa instaurata presso di lui, inviandogli la parte o convocandolo presso di sé per indurlo alla definizione della lite; o infine, qualora l'amministratore pubblico non receda, di denuncia per iscritto all'imperatore: Nov. 86.1: (Tunc praecipimus ut ad sanctissimum illius loci episcopum accedat, atque is ad clarissimum provinciae praesidem mittat, vel etiam ipse eum conveniat, atque efficiat ut omnibus modis actorem audiat eumque cum iure secundum leges nostras dimittat, ne ille ex patria sua peregre abire cogatur. Si vero etiam sanctissimo episcopo praesidem compellente, ut iuste negotia interpellantium dirimat, praeses differat, vel causam quidem diiudicet, litigantibus vero ius non servet, permittimus illius civitatis episcopo litteris ad nos dare ei qui ius suum non consecutus est, quae declarent compulsum a se praesidem supersedisse actorem audire et litem inter eum  et qui ab eo postulatus sit dirimere; ut his cognitis nos poenas inferamus provinciae praesidi, quod et interpellatus ab eo  qui iniuria  affectus  est  et  compulsus  a  sanctissimo  episcopo  litem  non diremerit) In tema cfr. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza del diritto in età giustinianea, cit., 112-113.

 

[32] Si quis vero ex subiectis nostris forte ab ipso clarissimo provinciae preside iniuria affectus sit, praecipimus ut adeat sanctissimum illius civitatis episcopum, isque inter clarissimum praesidem et eum qui se ab illo iniuria affectum putat diiudicet. Et si contingat ut preses legitime et iuste a sanctissimo episcopo condemnetur, ille omnibus modis satisfaciat ei qui litem adversus eum egit. Si vero praeses id facere recusaverit atque eadem lis ad nos deferatur, si quidem reperiamus eum iuste et secundum leges a sanctissimo episcopo condemnatum iudicata non fecisse, ultimis suppliciis eum subici iubebimus, quod qui vendicare iniuriam passos debeat ipse iniuriam facere convincatur.

 

[33] Nov. 86.6.

 

[34] CTh. 9.27.6 = CJ. 9.27.4.

 

[35] CJ. 3.1.14.4

 

[36] CJ. 2.58.2.6 e Inst. 4.16.1. I comportamenti secondo morale e correttezza nella legislazione tardoimperiale trovano favore. Non sono invece da tollerare e, se perpetrati, sottostanno a pena i comportamenti aberranti. Una delle disposizioni giustinianee in tema di deontologia professionale dei patroni causarum chiarisce bene questa visuale. Non soltanto gli avvocati, ma tutti gli operatori di giustizia debbono con tutte le loro forze e con tutte le loro capacità tecniche (omni quidem virtute sua  omnique ope) sostenere le ragioni che essi reputino fondate sul giusto e sul vero. Sono tali i concetti da cui trae origine la serie delle disposizioni postclassiche dirette ad orientare la condotta dei singoli, burocrati o giudici che siano. Nel 535, per esempio, Giustiniano impone ai funzionari dello Stato, prima di entrare in carica, l’impegno di agire sine dolo et fraude. Nel campo delle relazioni fra magistrato e parti in causa la deontologia del giudice esclude l’abuso d’autorità, la prevaricazione in forza della carica ricoperta. Sono tante, al punto da non richiedere puntualizzazione testuale, le raccomandazioni di Giustiniano a che amministratori e giudici nell’esercizio delle loro funzioni evitino di commettere illegalità (subditos iniuria afficere), ma usino insieme rigore secondo giustizia e moderazione secondo benevolenza.

 

[37] La pena non è soltanto la  minaccia di sanzione «trascendentale» (magni dei metus, dominum deum infensum habebit, deo rationem reddituros), né soltanto la canonica castigatio (Nov. 86.6); ma, almeno per alcune condotte, anche la coercitio temporale, sia pure  frequentemente irrogata sotto la forma astratta della imperialis indignatio (CJ. 1.4.26.5). La particolarità delle norme impartite con alcuni provvedimenti consiste nella minaccia di applicazione al vescovo di sanzioni “laiche”, che tuttavia restano imprecisate, e quindi nella testimonianza circa il principio, altre volte asserito in forma generica, della soggiacenza dell’episcopato alla comune repressione (CJ. 1.4.26.8). Cosa che del resto si desume anche dalla penalizzazione di altre inadempienze, come la mancata denunzia delle violazioni commesse dai funzionari o dell’eccessiva riscossione di sportulae da parte degli stessi o dell’irregolare amministrazione della giustizia: cfr. in proposito CJ. 1.4.26.6; Nov. 128.16; Nov. 86.9 ricordata supra. Di diverso parere Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 434, 436, il quale sostiene che la pena inflitta al vescovo è di natura ecclesiastico-canonica, perché non è supponibile una pena irrogata dallo Stato, e il vescovo negligente è punito secondo pene canoniche applicate dalla stessa autorità ecclesiastica perché è necessario iudicare iuste et cum timore Dei.

 

[38] Sul tema delle «mani pulite» quale motivo di integrità amministrativa cfr. Franciosi, Riforme istituzionali e funzioni giurisdizionali nelle Novelle di Giustiniano. Studi su Nov. 13 e Nov. 80, cit., 87-89; S. Puliatti, «Officium iudicis» e certezza del diritto in età giustinianea, cit., 53-58, 75-76.

 

[39] Sul fenomeno della geminazione delle leggi cfr. G. Rotondi, Note sulla tecnica dei compilatori del Codice giustinianeo. La struttura e l’origine del tit. 1.4, in Scritti giuridici, Milano 1922, I, 71 ss.; Biondi, Il diritto romano cristiano, I, cit., 439.

 

[40] Sulle varianti introdotte in alcuni testi di leggi geminate si soffermano P. Pescani, Novelle di Giustiniano, in NNDI 11, Torino 1965, 438-445; G. Lanata, Legislazione e natura nelle novelle giustinianee, Napoli 1984, 107-161 e S. Puliatti, Le costituzioni tardo-antiche: diffusione e autenticazione, in Atti della Società italiana di storia del diritto. Convegno internazionale, Roma 16-18 dicembre 2004, in corso di stampa.

 

[41] In tal senso S. Puliatti, Le funzioni civili del vescovo in età giustinianea, cit., 139-168.

 

[42] Del resto poteri di controllo dell’autorità religiosa su quella civile ammette G. Martínez, Función de inspección y vigilancia del episcopado sobre las autoridades seculares en el periodo visigoto-católico, in Rev. esp. de der. can. 15, 1960, 579 ss.

 

[43] CJ. 1.4.22.2 (=9.4.6.9): data licentia religiosissimis pro tempore episcopis, si quid praetermitti videant ab illustribus spectabilibus clarissimis pro tempore magistratibus vel ab officiis quae iis parent, hoc denuntiandi, ut congruens motus in contemptores dirigatur.

 

[44] Ep. Athan. IV.1 ad Nov. VIII.

 

[45] La rappresentanza di «punta» è rilevata anche da E. Dovere, «Auctoritas» episcopale e pubbliche funzioni (Secc. IV-VI), in Studi economico-giuridici 57, 1997-98, 2000, 517-32, part. 518

 

[46] Così Dovere, «Auctoritas» episcopale e pubbliche funzioni (Secc. IV-VI), cit., 519, 522.