ds_gen N. 6 – 2007 – Memorie//Tribunato-plebe

 

Egitto 121-1Francesco Sini

Università di Sassari

 

Una sententia di iuris

interpretes sulla inviolabilità

dei tribuni della Plebe*

 

 

Sommario: 1. Oggetto, metodo, finalità dell’indagine. – 2. Liv. 3.55.6-12: esame del testo. – 3. Tracce del tribunato della plebe nella scienza giuridica dell’età repubblicana: C. Sempronio Tuditano e M. Giunio Congo Graccano. – 4. Tra repubblica e principato: M. Antistio Labeone e C. Ateio Capitone. – 5. La sententia degli iuris interpretes sulla lex Valeria Horatia de tribunicia potestate.

 

 

1. – Oggetto, metodo, finalità dell’indagine

 

Ho avuto modo di affrontare il tema dell’inviolabilità tribunizia in un lavoro pubblicato nella metà degli anni Novanta del secolo appena trascorso[1]. Questo Seminario di studi, organizzato per celebrare il «MMD Anniversario della Secessione della Plebe al Monte Sacro», mi offre l’opportunità di riflettere ancora una volta sul tema e di ridefinire qualche idea già espressa in precedenza. La mia comunicazione, muove da un passo molto conosciuto di Tito Livio, tratto dal terzo dei suoi ab urbe condita libri (Liv. 3.55.6-12). Nel testo il grande annalista[2] menziona – discutendone anche le implicazioni giuridiche – una “sententia” di alcuni non meglio identificati iuris interpretes; i quali, a proposito del contenuto della lex Valeria Horatia de tribunicia potestate[3], avevano negato sia il fondamento legislativo della inviolabilità tribunizia, sia il carattere inviolabile degli edili della plebe[4]. Per quanto riguarda l’inviolabilità degli edili della plebe, al testo liviano va accostato il contenuto della glossa Sacrosanctum del De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo[5]: vi si legge un cenno alla dottrina di Catone il Censore, favorevole invece alla inviolabilità di questi magistrati plebei. Si tratta, quindi, di una posizione oggettivamente antitetica alla “sententia” degli iuris interpretes citati da Tito Livio, che tuttavia può costituire una utile integrazione del quadro di riferimento della nostra discussione.

Come mostrerò più avanti, questa discussione ripropone anche una questione di metodo più generale, che riguarda l’opportunità di un uso sistematico delle cosiddette “fonti letterarie”[6] da parte dei giusromanisti contemporanei[7]. Infatti, sul tema della inviolabilità dei tribuni della plebe (tema assai controverso nella storiografia romanistica contemporanea[8] e, tuttavia, cruciale per la comprensione della “divisione dei poteri” nel sistema giuridico-religioso romano[9]) ci soccorrono soprattutto le opere di storiografi ed antiquari; da analizzare con quello spirito e quel metodo che Santo Mazzarino ha insegnato alle scienze romanistiche del nostro tempo. Credo che dell’insigne studioso siano da tutti conosciute quelle acutissime tesi sulla «caratteristica storica del pensiero giuridico romano», formulate in alcune memorabili pagine del secondo volume del Pensiero storico classico[10]; ma, nella prospettiva assunta per questa comunicazione sono da rimeditare, soprattutto, le pagine da lui scritte «intorno ai rapporti fra annalistica e diritto»[11].

 

 

2. – Liv. 3.55.6-12: esame del testo

 

Dal racconto liviano, emerge un vivido quadro della “normalizzazione” postdecemvirale, di cui l’annalista presenta come artefici principali i consoli L. Valerio Potito e M. Orazio Barbato. Questi, dopo la cacciata dei decemviri legibus scribundis, si peritarono di ripristinare le prerogative del popolo e della plebe[12], presentando ai comizi centuriati tre leggi consolari.

La prima legge vincolava i patres alle decisioni delle assemblee della plebe:

 

Liv. 3.55.3: Omnium primum, cum velut in controverso iure esset tenereturne patres plebi scitis, legem centuriatis comitiis tulere ut quod tributim plebes iussisset populum teneret; qua lege tribuniciis rogationibus telum acerrimum datum est.

 

Ripristinata la precedente legge sulla provocatio soppressa dai decemviri, unicum praesidium libertatis, fu poi sancita una seconda legge

 

Liv. 3.55.4-5: Aliam deinde consularem legem de provocatione, unicum praesidium libertatis, decemvirali potestate eversam, non restituunt modo, sed etiam in posterum muniunt sanciendo novam legem, ne qui ullum magistratum sine provocatione crearet; qui creasset, eum ius fasque esset occidi, neve ea caedes capitalis noxae haberetur,

 

con la quale si vietava la creazione di magistrati esenti da provocatio ad populum e si comminava di fatto – seppure in forma indiretta – la pena di morte ai contravventori.

Infine, fu promulgata dai consoli Valerio e Orazio una terza legge:

 

Liv. 3.55.6-7: Et cum plebem hinc provocatione, hinc tribunicio auxilio satis firmasset, ipsis quoque tribunis ut sacrosancti viderentur, cuius rei propre iam memoria aboleverat, relatis quibusdam ex magno intervallo caerimoniis renovarunt, [7] et cum religione inviolatos eos tum lege etiam fecerunt, sanciendo ut qui tribunis plebis, aedilibus, iudicibus decemviris nocuisset, eius caput Iovi sacrum esset, familia ad aedem Cereris, Liberi Liberaeque venum iret[13].

 

La terza legge Valeria Orazia prescriveva che ai tribuni della plebe, agli edili (plebei) e a non meglio definiti «giudici decemviri» fosse riconosciuta l’inviolabilità, derivante dalle leges sacratae[14] (religione, nel testo liviano), anche per mezzo di una legge popolare: con sanzione per coloro i quali avessero recato offesa a questi magistrati del caput consacrato a Iuppiter e dei beni confiscati e venduti a favore del tempio di Cerere, Libero e Libera[15].

Proprio sul valore e sull’estensione della inviolabilità sancita da questa legge si dipana, poi, la discussione tra iuris interpretes: la sententia, di cui Tito Livio dà conto nel seguito del testo, costituisce appunto una delle opinioni in campo.

 

 

3. – Tracce del tribunato della plebe nella scienza giuridica dell’età repubblicana: C. Sempronio Tuditano e M. Giunio Congo Graccano

 

Prima di entrare nel vivo, sarà utile evidenziare alcune presenze del tribunato della plebe nel pensiero giuspubblicistico romano dell’età repubblicana[16].

Per quanto siano quasi inesistenti i frammenti di giureconsulti, che trattano di funzioni e prerogative dei tribuni della plebe[17]; tuttavia, permangono nelle fonti tracce di elaborazioni giurisprudenziali intorno alla massima magistratura plebea, spesso legate alla contingenza della storia politica.

Così, ad esempio, C. Sempronio Tuditano[18] nei suoi Magistratuum libri si era occupato della creazione della magistratura tribunizia ed aveva indagato sul numero originario dei tribuni della plebe[19]. Stando a quanto viene riferito da Asconio

 

Ascon. in Cicer. Cornel., p. 68 K.: Ceterum quidam non duos tribunos plebis, ut Cicero dicit, sed quinque tradunt creatos tum esse singulos ex singulis classibus. Sunt tamen qui eundem illum duorum numerum, quem Cicero, ponant, inter quos Tuditanus et Pomponius Atticus, Livius quoque noster. Idem hic et Tuditanus adiciunt tres praeterea ab illis duobus sibi collegas creatos esse. Nomina duorum qui primi creati sunt, haec traduntur: L. Licinius L. f. Bellutus, L. Albinius C. f. Paterculus[20],

 

il giurista aveva sostenuto la tesi che al momento dell’istituzione del tribunato fossero stati nominati solo due tribuni; ma che già in età risalente avessero raggiunto il numero di cinque per successive cooptazioni.

Questo testo offre elementi utili per valutare il pensiero storico-giuridico di Sempronio Tuditano, in merito alla natura ed alla struttura del potere dei tribuni della plebe; mentre, «alcuni temi, come il ius intercedendi e la possibilità (o l’impossibilità) dell’abrogatio, allora al centro del dibattito politico, dovevano essere considerati nella sua opera dall’angolo visuale dell’oligarchia senatoria»[21].

Né è pensabile che il tema della inviolabilità tribunizia fosse traslasciato da M. Giunio Congo Graccano[22]. Questo giurista trattava del contenuto e della gerarchia dei poteri nella Roma repubblicana[23] in una sua opera di almeno sette libri, intitolata De potestatibus; composta con l’intento, neppure tanto celato, di fornire un supporto storico-giuridico alle teorie politiche dei populares[24].

Il piano dell’opera perseguiva l’esposizione monografica in ordine decrescente delle singole magistrature: sappiamo per certo che il settimo libro trattava della questura. In dottrina si è perciò ipotizzato, che i primi sei esaminassero rispettivamente il consolato, la censura, la pretura, l’edilità curule, l’edilità plebea, il tribunato della plebe[25].

Lo stesso titolo dell’opera sarebbe in stretto rapporto con la prospettiva assunta dal giurista; prospettiva molto diversa da quella di Sempronio Tuditano in quanto non si rivolgeva alla titolarità del potere, bensì alla natura ed al contenuto di esso (potestates). Ne conseguivano varie implicazioni, in particolare la derivazione delle potestates dei magistrati dalla potestas del popolo romano; quindi il fondamento popolare dei poteri dei magistrati[26].

In questa linea si colloca, perfettamente, il frammento sull’origine della questura, l’unico peraltro di cui si sia conservata l’attribuzione precisa ad un libro (il VII) de potestatibus:

 

D. 1.13.1 pr. (Ulpianus libro singulari de officio quaestoris): Origo quaestoribus creandis antiquissima est et paene ante omnes magistratus. Gracchanus denique Iunius libro septimo de potestatibus etiam ipsum Romulum et Numam Pompilium binos quaestores habuisse, quos ipsi non sua voce, sed populi suffragio crearent, refert. Sed sicuti dubium est, an Romulo et Numa regnantibus quaestor fuerit, ita Tullo Hostilio rege quaestores fuisse certum est: et sane crebrior apud veteres opinio est Tullum Hostilium primum in rem publicam induxisse quaestores[27].

 

Apprendiamo, dunque, da questo frammento dei Digesta Iustiniani, tratto dal liber singularis de officio quaestoris del giurista Ulpiano[28], che M. Giunio Graccano riteneva antichissima l’origine della questura e che ne datava ai primordi dell’organizzazione politica di Roma l’elezione da parte del popolo[29].

A suo dire, fin dai tempi di Romolo e Numa, i re avevano due questori, nominati non direttamente dagli stessi re (sua voce), ma mediante il suffragio popolare[30].

Sulla base di questo frammento, ormai da tempo, la dottrina sostiene la tendenza filopopolare del suo autore[31]; il quale, riconducendo «ai primordi della città la funzione essenziale dell’assemblea popolare»[32], prendeva nettamente posizione sulla grave controversia costituzionale – sorta a seguito della destituzione del tribuno Gaio Ottavio, fatta votare al concilio della plebe da Tiberio Gracco[33] – relativa ai contenuti della sovranità popolare e quindi al rapporto tra magistrati e assemblee.

Sulla stessa linea di salvaguardia del potere popolare in rapporto all’esercizio dei poteri magistratuali, si colloca anche il frammento relativo alla controversa facoltà di convocare (e presiedere) il senato da parte del praefectus urbi Latinarum causa relictus.

 

Gell. Noct. Att. 14.8.1: Praefectum urbi Latinarum causa relictum senatum habere posse Iunius negat, quoniam ne senator quidem sit neque ius habeat sententiae dicendae, cum ex ea aetate praefectus fiat, quae non sit senatoria[34].

 

Nel frammento – che mi pare da ascrivere, ragionevolmente, al liber I de potestatibus, soprattutto in considerazione del fatto che la celebrazione delle feriae Latinae[35] era prerogativa del potere consolare e solo in assenza dei due consoli veniva nominato un dictator a tale scopo[36] – M. Giunio Graccano discuteva della facoltà di convocare il Senato da parte del praefectus urbi Latinarum causa relictus[37].

Il giurista negava che un tale potere competesse al praefectus feriarum latinarum causa, adducendo a riprova della sua contraria opinione la constatazione che «ne senator quidem sit neque ius habeat sententiae dicendae, cum ex ea aetate praefectus fiat, quae non sit senatoria». Peraltro la tesi di Graccano non fu condivisa in seguito né da Varrone, né da Ateio Capitone[38].

Per quanto si possa convenire con chi ha sostenuto che la controversia aveva ormai un interesse teorico[39]; mi pare opportuno cogliere la motivazione profonda del pensiero del giurista: Graccano, in sostanza, interpretava in senso popolare la tradizione “costituzionale” romana, negando prerogative più ampie a quelle magistrature che non fondavano il loro potere sulla potestas populi.

Ma all’interno del suo discorso, tutto volto alla definizione delle diverse potestates, M. Giunio Graccano mostrava anche di essere particolarmente attento alla legislazione tribunizia: ne costituisce riprova un suo frammento, inserito nella glossa festina Publica pondera, in cui viene riportata una legge tribunizia su pesi e misure ufficiali.

 

Fest. De verb. sign., v. Publica pondera, p. 246 M., p. 288 L.: Publica pondera <ad legitimam normam exacta fuisse> ex ea causa Iunius in <commentariis colligi>t, quod duo Silii P. et M. tribuni pleb. rogarint his verbis: “Ex ponderibus publicis, quibus hac tempestate populus oetier [qui] solet, uti coaequetur se dolo malo; uti quadrantal vini octoginta pondo siet: congius vini decem pondo siet: sex sextari congius siet vini: duodequinquaginta sextari quadrantal siet vini: sextarius aequus aequo cum librario siet: sex decimque librari in modio sient. Si quis magistratus adversus hac dolo malo pondera, modiosque, vasaque publica modica, minora, maiorave faxit, iussitve [re]fieri, dolumve adduit quo ea fiant, eum quis volet magistratus multare, <quantam volet pecuniam>, dum minore parti familias taxat, liceto; sive quis in sacrum iudicare voluerit, liceto”[40].

 

Per quanto riguarda l’attribuzione del frammento a uno dei libri de potestatibus, forse quello dedicato ai tribuni plebis, il testo verriano presenta difficoltà al momento insuperabili. Tuttavia, non va sottovalutata l’importanza della testimonianza indiretta che fornisce il testo dell’altrimenti sconosciuto plebiscito Silio de ponderibus publicis[41].

La trascrizione letterale del plebiscito dall’opera del giurista, seppure non sufficiente a provare la diretta utilizzazione del de potestatibus da parte di Verrio Flacco[42], attesta invece assai bene la serietà del metodo di lavoro di M. Giunio Graccano; il quale evidentemente aveva la consuetudine di argomentare le tesi sostenute con dati testuali di documenti legislativi; dunque, proprio tali documenti dovevano costituire le fonti privilegiate delle sue ricerche giuridiche e antiquarie.

 

 

4. – Tra repubblica e principato: M. Antistio Labeone e C. Ateio Capitone

 

Infine, un ritorno d’interesse per il tribunato da parte della scienza giuridica risulta attestato sul finire della repubblica, anzi per dirla con le parole di Capitone: divo Augusto iam principe et rem publicam obtinente[43]. Sia M. Antistio Labeone sia C. Ateio Capitone mostrarono un certo interesse per il tema dei poteri e delle prerogative dei tribuni della plebe.

Dalle Noctes Atticae di Aulo Gellio conosciamo una controversa interpretatio di M. Antistio Labeone[44], relativa alla precisazione dei confini e delle modalità di esercizio del potere dei tribuni della plebe:

 

Gell. Noct. Att. 13.12.3-4: Ac deinde narrat, quod idem Labeo per viatorem a tribunis plebi vocatus responderit: “Cum a muliere”, inquit, “quadam tribuni plebis adversum eum aditi <in> Gellianum ad eum missisent, ut veniret et mulieri responderet, iussit eum, qui missus erat, redire et tribunis dicere ius eos non habere neque se neque alium quemquam vocandi quoniam moribus maiorum tribuni plebis prensionem haberent, vocationem non haberent; posse igitur eos venire et prendi se iubere, sed vocandi absentem ius non habere”[45].

 

Aulo Gellio trascrive letteralmente, come l’aveva letta in quadam epistula Capitonis[46], una interpretatio labeoniana in materia di poteri dei tribuni della plebe. Come risulta dal testo, Labeone, che si trovava nella sua villa del Gelliano, riceve tramite messo un ordine di comparizione dei tribuni della plebe, i quali, a seguito della denuncia presentata da una donna contro di lui, gli intimavano di presentarsi a Roma per rispondere delle accuse. Labeone non si limitò a non obbedire alla ingiunzione; dettò al messo tribunizio anche le motivazioni che lo inducevano ad un simile comportamento: gli ordinò, infatti, di riferire ai tribuni che contestava loro il diritto di vocatio, perché sulla base dei mores maiorum avevano il potere di arrestare (prensio), mentre mancava loro quello di convocare un assente (vocatio)[47]. Dunque, i tribuni della plebe potevano venire ad arrestarlo, ma certo non avevano nessun diritto di richiamarlo a Roma per comparire davanti a loro.

Saldamente ancorata ai mores maiorum ed alle Romanae antiquitates di M. Terenzio Varrone[48], l’interpretatio del grande giurista doveva presentarsi agli occhi dei contemporanei – proprio in ragione dell’oggetto di pertinenza – velatamente polemica nei confronti delle innovazioni “costituzionali” che avevano incardinato anche la tribunicia potestas nel nuovo potere del principe[49].

Mentre per Capitone[50] il discorso si presenta molto più sfumato. Tuttavia, due dei suoi frammenti, il primo riguardante un decreto tribunizio:

 

Gell. Noct. Att. 4.14.1-6: Cum librum IX Atei Capitonis coniectaneorum legeremus, qui inscriptus est De iudiciis publicis, decretum tribunorum visum est gravitatis antiquae plenum. Propterea id meminimus, idque ob hanc causam et in hanc sententiam scriptum est: Aulus Hostilius Mancinus aedilis curulis fuit. Is Maniliae meretrici diem ad populum dixit, quod e tabulato eius noctu lapide ictus esset, vulnusque ex eo lapide ostendebat. Manilia ad tribunos plebi provocavit. Apud eos dixit commessatorem Mancinum ad aedes suas venisse; eum sibi recipere non fuisse e re sua, sed cum vi inruperet, lapidibus depulsum. Tribuni decreverunt aedilem ex eo loco iure deiectum, quo eum venire cum corollario non decuisset; propterea, ne cum populo aedilis ageret, intercesserunt[51];

 

il secondo, le definizioni che il giurista propone di plebe e plebiscito:

 

Gell. Noct. Att. 10.20.5-6: “Plebem” autem Capito in eadem definitione seorsum a populo divisit, quoniam in populo omnis pars civitatis omnesque eius ordines contineantur, “plebes” vero ea dicatur, in qua gentes civium patriciae non insunt. [6] “Plebisscitum” igitur est secundum eum Capitonem lex, quam plebes, non populus, accipit[52];

 

mi parrebbero dei significativi esempi di questo ritorno d’interesse per il tribunato da parte della giurisprudenza romana, nell’età di transizione tra repubblica e principato.

 

 

5. – La sententia degli iuris interpretes sulla lex Valeria Horatia de tribunicia protestate

 

Veniamo all’esame del testo di Tito Livio, o meglio, all’esame della “sententia[53] degli iuris interpretes intorno alla legge Valeria Orazia che sanciva ut qui tribunis plebis aedilibus iudicibus decemviris nocuisset eius caput Iovi sacrum esset. Non a torto un grande studioso quale Santo Mazzarino ha definito tale sententia: «esempio classico dell’interpretazione giuridica nell’ambito del diritto pubblico»[54]. Proprio sul valore e sull’estensione della inviolabilità sancita da questa legge si aprì, poi, il contrasto dottrinale tra iuris interpretes, di cui Tito Livio dà conto nel seguito del passo fin qui citato:

 

Liv. 3.55.8-12: [8] Hac lege iuris interpretes negant quemquam sacrosanctum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri; [9] itaque aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus, quod etsi non iure fiat – noceri enim ei qui hac lege non liceat – , tamen argumentum esse non haberi pro sacrosancto aedilem; [10] tribunos vetere iure iurando plebis, cum primum eam potestatem creavit, sacrosanctos esse. [11] Fuere qui interpretarentur eadem hac Horatia lege consulibus quoque et praetoribus, quia eisdem auspiciis quibus consules crearentur, cautum esse; iudicem enim consulem appellari. [12] Quae refellitur interpretatio, quod iis temporibus nondum consulem iudicem, sed praetorem appellari mos fuerit[55].

 

Questi iuris interpretes negavano, dunque, l’estensione della inviolabilità per mezzo della legge ad altri che non fossero i tribuni della plebe (Hac lege iuris interpretes negant quemquam sacrosanctum esse, sed eum qui eorum cuiquam nocuerit sacrum sanciri); non senza buone argomentazioni ed evidenze istituzionali, poiché constatavano quanto era sotto gli occhi di tutti a proposito degli edili, i quali non godevano di alcuna inviolabilità rispetto ai magistrati maggiori (aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus)[56].

Riguardo all’inviolabilità degli edili della plebe, al testo di Tito Livio va accostata almeno un’altra fonte: la glossa Sacrosanctum del De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo.

 

Fest. De verb. sign., p. 422 L.: Sacrosanctum dicitur, quod iure iurando interposito est institutum, si quis id violasset, ut morte poenas penderet. Cuius generis sunt tribuni plebis aedilesque eiusdem ordinis; quod adfirmat M. Cato in ea, quam scripsit, aedilis plebis sacrosanctos esse[57].

 

Nella glossa festina si legge un preciso riferimento ad una interpretatio di ius publicum riconducibile alla dottrina di Catone il Censore; il quale, nella sua orazione «aedilis plebis sacrosanctos esse»[58], aderiva ad un’altra prospettiva della dottrina giuspubblicistica romana, forse di matrice plebea[59], mostrandosi decisamente favorevole alla inviolabilità degli edili della plebe[60]. Possiamo così conoscere, grazie alla testimonianza di Festo, gli elementi di una polemica tra iuris interpretes sul valore della lex Valeria Horatia de tribunicia potestate; l’interpretatio di Catone appare, infatti, del tutto inconciliabile con la “sententia” degli iuris interpretes citati da Tito Livio[61].

Per quanto non sia possibile precisare l’identità di questi iuris interpretes; sarà bene, tuttavia, cercare di individuarne almeno l’orientamento interpretativo. Una cosa mi pare di poter sostenere con sicurezza: gli autori di cui Tito Livio riferisce la sententia erano dei giureconsulti, nel senso professionale della parola[62]. Nel corpus liviano, infatti, espressioni quali iuris consultus  o scientia iuris sono sempre usate con forte valenza tecnica:

 

Liv. 10.22.7: Ea ingenia consularia esse: callidos sollertesque, iuris atque eloquentiae consultos, qualis Ap. Claudius esset, urbi ac foro praesides habendos praetoresque ad reddenda iura creandos esse;

 

Liv. 39.40.5: Ad summos honores alios scientia iuris, eloquentia, alios gloria militaris provexit; huic versatile ingenium sic pariter ad omnia fuit, ut natum ad id unum diceres, quodcumque ageret.

 

Certamente sono da considerare giuristi anche quei periti religionum iurisque publici, di cui l’annalista cita un responso sui poteri del console suffetto:

 

Liv. 41.18.16: periti religionum iurisque publici, quando duo consules eius anni, alter morbo, alter ferro perisset, suffectum consulem negabant recte comitia habere posse.

 

Non appare infondata l’ipotesi di Santo Mazzarino, per il quale negli iuris interpretes liviani sarebbe da vedere il giurista L. Cincio[63] (unico giurista citato nell’opera di Livio), «o comunque giuristi della sua tendenza»; anche perché, l’indizio da lui indicato per corroborare il riferimento alla dottrina di L. Cincio, cioè la notizia dell’antica designazione del console come praetor, presenta forti elementi di probabilità, in quanto davvero «tema essenziale pel giurista»[64].

Se l’identificazione propugnata dal Mazzarino fosse plausibile, avremmo anche il quadro più generale in cui collocare la sententia degli iuris interpretes; infatti, i frammenti superstiti di L. Cincio (oltre trenta) rivelano una solida cultura giuridica ed un campo di interessi che spazia con eguale padronanza della materia tra ius sacrum, ius publicum, ius privatum[65]. La trama interpretativa del giurista si misurava con i temi più scottanti dello ius publicum tardo-repubblicano: quali la potestas populi, di cui non poteva non occuparsi nel liber de comitiis; o il potere dei magistrati, a cui dovevano essere dedicati i libri de consulum potestate. Temi, dunque, legati a quel dibattito sulla definizione dei rapporti tra poteri dei magistrati e poteri del popolo, che aveva appassionato la giurisprudenza romana, almeno a partire dall’età dei Gracchi. Non è dato sapere la collocazione ideologica e politica di Cincio: ma forse era di tendenza antipopolare. Si presta, infatti, a corroborare questa supposizione il testo dell’unico frammento dell’opera de comitiis:

 

Fest. De verb. sign., v. patricios, p. 277 L.: Patricios Cincius ait in libro de comitiis eos appellari solitos, qui nunc ingenui vocentur;

 

dove il giurista, per spiegare il valore del termine patricii, ricorre all’antica identificazione tra ingenui e patricii[66].

Torniamo alla “sententia”. Gli iuris interpretes, stando al resoconto liviano, negavano che in virtù della terza lex Valeria Horatia alcuno fosse inviolabile[67], ma ritenevano che essa stabilisse semplicemente di doversi considerare sacer chi avesse recato offesa ad uno dei magistrati menzionati nella legge[68]; con l’eccezione dei tribuni, la cui innegabile inviolabilità fondava le sue radici sul vetus ius iurandum della plebe, al tempo della prima secessione. Dalla sententia degli iuris interpretes citati da Tito Livio emerge, non solo che il problema della qualificazione giuridica della tribunicia potestas consisteva essenzialmente nella questione della inviolabilità, ma soprattutto che era proprio la condizione di sacrosancti, fondata sul vetus ius iurandum plebis del 494 a.C. e non sulla legge del 449 a.C., a stabilire la collocazione istituzionale dei tribuni della plebe nel sistema giuridico-religioso romano.

Di fronte alla chiarezza con cui gli iuris interpretes configurano il fondamento del potere tribunizio come «unilaterale imposizione della plebe», risultano maggiormente incomprensibili le ragioni di fondo (ideologiche e metodologiche) che hanno impedito finora alla dottrina romanistica di orientarsi verso questa ipotesi[69].

L’esito di questa interpretatio iuris publici perveniva soprattutto alla negazione della inviolabilità degli edili plebei[70]; contro i quali valevano entrambi i metodi interpretativi usati da quei giuristi: sia «il procedimento per via dell’analisi "grammaticale" (etimologica)»[71], che portava gli iuris interpretes ad intendere sacrosanctus equivalente a iure iurando, e dunque a fondare l’inviolabilità proprio sullo ius iurandum; sia l’argomento basato sulla osservazione dei mores maiorum in materia di ius magistratuum: ponevano, cioè, a giustificazione della loro dottrina la constatazione (eminentemente pratica) che aedilem prendi ducique a maioribus magistratibus; la qual cosa, nonostante non iure fiat, costituisce invero una innegabile dimostrazione del fatto che non haberi pro sacrosancto aedilem[72].

Non sembra riferibile agli stessi iuris interpretes, di cui finora abbiamo discusso, l’altra interpretazione giuridica riferita da Tito Livio a proposito della terza lex Valeria Horatia (3.55.11-12)[73]. Questi altri giuristi, richiamandosi al fatto che col termine iudices si designavano talvolta anche i supremi magistrati cittadini, sostenevano che la citata legge avesse provveduto a rendere inviolabili anche i consoli ed i pretori, questi ultimi quia eisdem auspiciis quibus consules crearentur. Sul punto abbiamo il netto rifiuto dell’annalista, il quale argomenta la sua opinione (o di altri iuris interpretes), ricorrendo alle risultanze della scienza antiquaria sullo ius publicum (magistratuum), da cui risultava che ai tempi dell’antica legge Valeria Orazia nondum consulem iudicem, sed praetorem appellari mos fuerit.

 

 



 

* Comunicazione presentata al Seminario di Studi Conflitto e costituzione romana, organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari e dalla Sezione di Roma “Giorgio La Pira” dell’ITTIG-CNR (Sassari, 11-12 dicembre 2006), in occasione del MMD Anniversario della Secessione della plebe al Monte Sacro.

 

[1] F. Sini, Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv. 3, 55, 6-12), in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 1, (Moskva) 1996, 80 ss.; ripubblicato in formato elettronico in Diritto @ Storia. Rivista Internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana 2 (Marzo 2003) = < http://www.dirittoestoria.it/tradizione2/Sini-Tribunato.htm >.

 

[2] G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Tito Livio, in Aa.Vv., Liviana, Milano 1943, 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita del grande annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana; nello stesso senso, C. St. Tomulescu, La valeur juridique de l’histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, 295 ss. Più in generale: R. Bloch, Tite-Live et les premiers siècles de Rome, Paris 1965; D. Gutberlet, Die erste Dekade des Livius als Quelle zur gracchischen und sullanischen Zeit, Hildesheim-Zürich-New York 1985; G. Forsythe, Livy and Early Rome. A Study in Historical Method and Judgment, Stuttgart 1999.

 

[3] Sugli aspetti più generali della legge, con ampia rassegna di fonti e della bibliografia precedente, vedi G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, Milano 1912 [rist. Hildeshem - Zürich - New York 1990], 204 s.; D. Flach, Die Gesetze der frühen römischen Republik. Text und Kommentar, in Zusammenarbeit mit S. von der Lahr, Darmstadt 1994, 218 ss. Per una discussione su contenuti e implicazioni giuridiche di essa, vedi invece G. Niccolini, Il tribunato della plebe, Milano 1932, 42 ss.; Id., I fasti dei tribuni della plebe, Milano 1934, 30; H. Siber, Die plebejischen Magistraturen bis zur lex Hortensia, in Festschrift der Leipziger Juristenfakultät für A. Schultze, Leipzig 1936, 36 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della “tribunicia potestas” e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo (“sacrosanctum-lex sacrata-sacramentum), in Studia et Documenta Historiae et Iuris 11, 1945, 42 ss.; J. Bayet, L’organisation plébéienne et les leges sacratae, in J. Bayet-G. Baillet (a cura di), Tite-Live. Histoire romaine, Livre III, Paris 1962, 145 ss.; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, 502 s.; Id., Early Rome and the Etruscans, London 1976, qui citato in trad. it.: Le origini di Roma, Bologna 1984, 134 s.; S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, in La critica del testo. Atti del Secondo Congresso Internazionale della Società Italiana di Storia del Diritto, I, Firenze 1971, 442 ss.; J.-CL. Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, Rome 1978, 573 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, Roma 1979, 25 ss.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana, I, Milano 1981, 205 ss.; G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, 123 s.; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII Tavole, Bologna 1984, 303 ss.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a.C.), Milano 1987, 347 s.; F. Fabbrini, Sulla regola auspicium imperiumque, in Società e diritto nell’epoca decemvirale. Atti del convegno di diritto romano. Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli 1988, 330 s.; L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, Padova 1989, 34 s.; Id., “Iuris interpretes” e inviolabilità magistratuale, in Seminarios Complutenses de Derecho Romano XIII, 2001, 37 ss.; P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3a ed., Torino 1996, 116 s.

 

[4] Su questa magistratura plebea vedi, fra gli altri, W. Soltau, Die ursprüngliche Bedeutung und Competenz der aediles plebis, in Historische Untersuchungen A. Schaefer gewidmet, Bonn 1882, 98 ss.; P. M. Pineau, Histoire de l’édilité romaine, Bordeaux 1893; G. De Sanctis, Le origini dell’edilità plebea, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 10, 1932, 433 ss. [= Id., Scritti minori, V, Roma 1983, 147 ss.]; H. Siber, Die plebejischen Magistraturen bis zur lex Hortensia, cit., 7 ss.; D. Sabbatucci, L’edilità romana: magistratura e sacerdozio, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Memorie della Classe di Scienze morali storiche e filologiche, [serie VIII] 6, 1955, 255 ss.; M. Q. Lupinetti, Liv., 3.6.9, Dion. Hal., 6.95.3-4 e l’origine dell’edilità plebea, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 13, 1969, 285 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2ª ed., Napoli 1972, 345 s.; J.-Cl. Richard, Édilité plébéienne et édilité curule: à propos de Denys d’Halicarnasse, Ant. Rom. VI 95. 4, in Athenaeum 55, 1977, 428 ss.; Id., Les origines de la plèbe romaine, cit., 573 ss.; L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, cit., 30 ss.

 

[5] Fest. De verb. sign., v. Sacrosanctum, p. 422 L.

 

[6] L’usuale distinzione tra i diversi «mezzi di cognizione del diritto romano», nonché la definizione più generale di fonti primarie e secondarie, in A. Guarino, L’esegesi delle fonti del diritto romano, a cura di L. Labruna, I, Napoli 1968, 285 ss. Questa distinzione, seppure con diverse denominazioni, si presenta peraltro comune a storici e giuristi: cfr., fra i primi, A. Rosenberg, Einleitung und Quellenkunde zur römischen Geschichte, Berlin 1921, 1 ss.: «Die Primärquellen»; 113 ss.: «Die Historiker»; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, 3 s.; K. Christ, Römische Geschichte: Einführung, Quellenkunde, Bibliographie, 3ª ed., Darmstadt 1980, 35 ss.; fra i giuristi basterà inoltre citare, per tutti, C. W. Westrup, Introduction to Early Roman Law, IV e V. Sources and Methods, London-Copenaghen 1950-1954 (IV, 9 ss.: «Primary sources»; V, 17 ss.: «The Ancient Roman Tradition»); L. Wenger, Die Quellen des römischen Rechts, Wien 1953, 46. Maggiori approfondimenti sull’importante questione metodologica della «gerarchia delle fonti», in F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, 143 ss.; nello stesso senso, cfr. ora R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, 2 ss.

 

[7] Quale esempio di utilizzazione in senso giuridico di tali fonti, mi permetto di citare F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", Sassari 1991; ma vedi anche O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di A. Biscardi, IV, Milano 1983, 297 ss.; G. Luraschi, Foedus nell’ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano. Promosso dall’Istituto Milanese di Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985, Milano 1988, 279 ss.

 

[8] Non è possibile dar conto in maniera esauriente della bibliografia in tema di sacrosanctitas tribunizia, né discutere le diverse soluzioni prospettate sul fondamento del potere dei tribuni della plebe; vedi, pertanto, con varie soluzioni: L. Lange, Römische Alterthümer, I, 3a ed., Berlin 1876, 590 ss.; Id., De sacrosanctae potestatis tribuniciae natura eiusque origine commentatio, Lipsiae 1883, 40 ss.; E. Herzog, Die lex sacrata und das sacrosanctum, in Neue Jahrbücher für Philologie 113, 1876, 139 ss.; Id., Geschichte und System der römischen Staatsverfassung, I, Leipzig 1884 [rist. an. Darmstadt 1965], 146 ss.; E. Cuq, Les institutions juridiques des Romains, I, Paris 1881, 114 ss.; F. Stella Maranca, Il tribunato della plebe dalla lex Hortensia alla lex Cornelia, Lanciano 1901 [rist. an., con nota di lettura di G. Boulvert, Napoli 1982 (Antiqua, 20)], 33 ss.; R. Rosenberg, Studien zur Entstehung der Plebs, in Hermes 48, 1913, 364 ss.; V. Groh, Potestas sacrosancta dei tribuni della plebe, in Studi in onore di S. Riccobono, II, Palermo 1936, 1 ss.; F. Altheim, Lex sacrata. Die Anfänge der plebeischen Organisation, Amsterdam 1940, 25; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia postestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo (“sacrosanctum - lex sacrata - sacramentum”), cit., 37 ss.; A. Dell’Oro, La formazione dello Stato patrizio-plebeo, Milano-Varese 1950, 87 ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, Torino 1967, 262 ss. Ma ormai, sul tema sono veramente fondamentali gli studi di G. Lobrano, Fondamento e natura del potere tribunizio nella storiografia giuridica contemporanea, in Index 3, 1972, 235 ss.; Id., Il potere dei tribuni della plebe, cit., 56 ss.

Più in generale sul tribunato vedi anche: J. Bleicken, Das Volkstribunat der klassischen Republik, München 1955; Id., Das römische Volkstribunat. Versuch einer Analyse seiner politischen Funktion in republikanischer Zeit, in Chiron 11, 1981, 87 ss.; R. T. Ridley, Notes on the Establishment of the Tribunate of the Plebs, in Latomus 27, 1968, 535 ss.; S. Mazzarino, Sul tribunato della plebe nella storiografia romana, in Helikon 11-12, 1971-1972, 99 ss.; J. Ellul, Réflexion sur la révolution, la plèbe et le tribunat de la plèbe, in Index 3, 1972, 155 ss.; G. Grosso, Appunti sulla valutazione del tribunato della plebe nella tradizione storiografica conservatrice, in Index 7, 1977, 157 ss.; K. M. Girardet, Ciceros Urteil über die Entstehung des Tribunates als Institution der römischen Verfassung (rep. 2, 57-59), in Bonner Festgabe J. Straub, Bonn 1977, 179 ss.; Y. Thomas, Cicéron, le Sénat et les tribuns de la plèbe, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 55, 1977, 189 ss.; L. Perelli, Note sul tribunato della plebe nella riflessione ciceroniana, in Quaderni di Storia 10, 1979, 285 ss.; J. L. Halperin, Tribunat de la plèbe et haute plèbe (493-218 av. J.-C.), in Revue Historique de Droit Français et Étranger 62, 1984, 161 ss.

 

[9] Sull’espressione «sistema giuridico-religioso», cfr. P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, 30 ss., in part. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16,1, Berlin-New York 1978, 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 57; G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae, Roma 1991, 34 s. Per la validità del concetto di «ordinamento giuridico», vedi invece R. Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit., 10 ss.; e solo parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5a ed., Napoli 1990, 56 s.

 

[10] S. Mazzarino, Il pensiero storico classico, II.1, Roma-Bari 1966 [rist. 1988], 278 ss.

 

[11] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 441 ss.

 

[12] Liv. 3.55.1-2: Per interregem deinde consules creati L. Valerius M. Horatius, qui extemplo magistratum occeperunt. Quorum consulatus popularis sine ulla patrum iniuria nec sine offensione fuit; quidquid enim libertati plebis caveretur, id suis decedere opibus credebant.

Cfr. per tutti F. de Martino, Storia della costituzione romana, I, cit., 312 ss.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana. Parte prima, cit., 202 ss.; G. Crifò, Lezioni di storia del diritto romano, Bologna 1996, 69 ss. Di carattere fortemente critico si presenta, invece, la ricostruzione generale della «restaurazione valeria orazia» delineata da P. Zamorani, Plebei genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a.C.), cit., 342 ss.

 

[13] Numerosi studiosi analizzano, in vario modo, questo passo di Tito Livio: vedi, fra gli altri G. Niccolini, Il tribunato della plebe, cit., 42 ss.; Id., I fasti dei tribuni della plebe, cit., p 30; V. Groh, Potestas sacrosancta dei tribuni della plebe, cit., 1 ss.; G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, Milano 1940, 71 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia potestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., 42 ss.; G. De Sanctis, Storia dei Romani, II (Torino 1907), rist. an. dell’edizione 1960, Firenze 1988, 28; J. Bayet, L’organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., 145 ss.; R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, cit., 502 s.; Id., Le origini di Roma, cit., 134 s.; S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 442 ss.; J.-C. Richard, Les origines de la plèbe romaine. Essai sur la formation du dualisme patricio-plébéien, cit., 573 ss.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana, I, cit., 205 ss.; G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 123 s.; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII Tavole, cit., 303 ss.; P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit., 116 s.; P. Zamorani, Plebe genti esercito. Una ipotesi sulla storia di Roma (509-339 a.C.), cit., 347 s.; F. Fabbrini, Sulla regola auspicium imperiumque, cit., 330 s.; L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, cit., 34 s.; Id., “Iuris interpretes” e inviolabilità magistratuale, cit., 37 ss.; B. Albanese, Sacer esto, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 91, 1988 [ma 1992], 163 s.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, cit., 315; O. Licandro, In magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, Torino 1999, 120 ss.

 

[14] Cfr. Fest. De verb. sign., v. Sacratae leges, p. 422 L.: Sacratae leges sunt, quibus sanctum est, qui[c]quid adversus eas fecerit, sacer alicui deorum † sicut † familia pecuniaque. Sunt qui esse dicant sacratas, quas plebes iurata in monte Sacro sciverit. Cic. Pro M. Tullio 47: Atque ille legem mihi de XII tabulis recitavit, quae permittit ut furem noctu liceat occidere et luci, si se telo defendat, et legem antiquam de legibus sacratis, quae iubeat impune occidi eum qui tribunum pl. pulsaverit; Cic. De domo 43: Vetant leges sacratae, vetant XII tabulae leges privatis hominibus inrogari. Id est enim privilegium. Nemo umquam tulit; Cic. Pro Sestio 65: cum et sacratis legibus et XII tabulis sanctum esset ne cui privilegium irrogari liceret, neve de capite nisi comitiis centuriatis rogari. 79: Itaque fretus sanctitate tribunatus, cum se non modo contra vim et ferrum, sed etiam contra verba atque interfationem legibus sacratis esse armatum putaret; Cic. De prov. cons. 46: si patricius tribunus plebis fuerit, contra leges sacratas. Liv. 2.33.3: Sunt qui duos tantum in Sacro monte creatos tribunos esse dicant, ibique sacratam legem latam. Quanto alla vastissima bibliografia moderna sulle leggi sacrate vedi, senza alcuna pretesa di completezza: G. Niccolini, Il tribunato della plebe, cit., 40 ss.; G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, cit., 70; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia postestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., 37 ss.; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Berlin 1955, 92 s.; H. Fugier, Recherches sur l’expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, 224 ss.; R. Orestano, I fatti di normazione nell’esperienza romana arcaica, cit., 262 ss.; M. Balzarini, La Pro Tullio di Cicerone e l’editto di Lucullo, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, I, Torino 1968, 323-382; G. Radke, Sprachliche und historische Beobachtungen zu den leges XII tabularum, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für Ulrich von Lübtow zum 70. Geburtstag, Berlin 1970, 232 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, cit., 25 ss., 61 ss., 88 ss., 91 ss., 118 ss.; B. Albanese, Sacer esto, cit., 163 ss.; R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, cit., 293 ss.

 

[15] M. Sordi, Il santuario di Cerere, Libero e Libera e il tribunato della plebe, in Contributi dell’Istituto di storia antica, IX, 1983, 127-139.

 

[16] Sulle caratteristiche più generali del pensiero giuridico romano in tema di ius publicum, rinvio al saggio di G. Nocera, Il pensiero pubblicistico romano, in Studi in onore di Pietro de Francisci, II, Milano 1956, 557 ss.; ma, soprattutto, al libro di V. Giuffrè, Il «diritto pubblico» nell’esperienza romana. Appunti di parte generale del corso, Napoli 1977; mentre, per l’analisi dei giuristi di ius publicum e delle loro opere è da vedere anche il saggio di A. Heuss, Zur Thematik republikanischer «Staatsrechtslehre», in Festschrift für Franz Wieacker zum 70. Geburtstag, Göttingen 1978, 72 ss.

 

[17] D. 1.2.2.20 (Pomponius libro singulari enchiridii); D. 1.2.2.34 (Pomponius libro singulari enchiridii); D. 1.15.1 (Paulus libro singulari de officio praefecti vigilum).

 

[18] Sulla carriera politica del giurista, vedi F. Münzer, v. Sempronius (nr. 92), in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II A, Stuttgart 1923, coll. 1441 s.; T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951, 470, 489, 498, 504; per altre referenze, con particolare riferimento alle sue opere di carattere storico e giuridico, vedi H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, editio altera, I, Stutgardiae 1914 [rist. an. 1967], CCI ss.; M. Schanz - C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist. 1966], 197; H. Bardon, La littérature latine inconnue, I. L’époque républicaine, Paris 1952, 105 s. Sostiene invece che tutti i frammenti di Tuditano provengano dai Magistratuum libri C. Cichorius, Das Geschichtswerk des Sempronius Tuditanus, in Wiener Studien 24, 1902, 588 ss., per il quale non risulterebbe sufficientemente fondata su dati testuali l’ipotesi della composizione da parte di Tuditano anche di un’altra opera, di carattere marcatamente storiografico, intitolata Annales; all’impostazione del Cichorius, da ultimo, mi pare dia una cauta adesione M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2a ed., Napoli 1982, 55.

 

[19] I frammenti giuridici di C. Sempronio Tuditano sono stati raccolti da F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964], 35 s.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I, Lipsiae 1908 [rist. an. Leipzig 1988], 9 s.; mentre H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, cit., 143 ss., oltre i frammenti ex magistratuum libri, raccoglie anche i frammenti provenienti dall’opera storica di Tuditano, gli Annales.

 

[20] Cfr. F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 36 fr. 5; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 9 fr. 4; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, cit., 144 fr. 5.

 

[21] M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 14.

 

[22] Fonti su questo personaggio: Lucil. Carm. 595-596 M.; Cic. De orat. 1.256; Pro Planc. 58; Plin. Nat. hist. 33.36. Quanto alla identificazione di Graccano con il Giunio Congo menzionato da Cicerone, vedi ora, con ampi ragguagli sulla dottrina precedente, B. Zucchelli, Un antiquario romano contro la nobilitas: M. Giunio Congo Graccano, in Atti del convegno «Gli storiografi latini tramandati in frammenti» (Urbino, 9-11 maggio 1974) [= Studi Urbinati 49, nuova serie B n. 1, 1975, 109 ss.]. Nello stesso senso anche R. E. A. Palmer, The King and the Comitium. A study of Rome’s altest public document, Wiesbaden 1969, 29 n. 154; J. P. Neraudau, La jeunesse dans la littérature et les institutions de la Rome républicaine, Paris 1979, 290 n. 41. Non sembra prendere posizione sull’identificazione di Giunio Graccano M. Taglialatela Scafati, Appunti sull’ordinamento militare di Roma arcaica. Con una lettura di Dion. 3.71.1 e note a Flor. 1.1(5)2 e 1.1(1)15, in G. Franciosi (a cura di), Ricerche sulla organizzazione gentilizia romana, Napoli 1988, 53. Tendono invece a differenziare Giunio Graccano da Giunio Congo, J. Poucet, Recherches sur la légende sabine des origines de Rome, Louvain-Kinshasa 1967, 339; e D. Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica. Studi su Livio e Dionigi di Alicarnasso, Urbino 1970, 48 n. 45.

 

[23] Cic. De leg. 3.48-49: [Atticus] Quam ob rem, si de sacrorum alienatione dicendum putasti, quom de religione leges proposueras, faciendum tibi est, ut magistratibus lege costitutis de potestatum iure disputes. Marcus - Faciam breviter, si consequi potuero; nam pluribus verbis scripsit ad patrem tuum M. Iunius sodalis perite meo quidem iudicio et diligenter. I frammenti sono raccolti in F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 37 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 10 ss. Per i frammenti di più immediato interesse grammaticale, vedi anche H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, Lipsiae 1907 [rist. an. Roma 1964], 120 s.

 

[24] R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, 292. Cfr. anche H. Bardon, La lettérature latine inconnue, I, cit., 145.

 

[25] Cfr. C. Cichorius, Untersuchungen zu Lucilius, Zürich-Berlin 1908, 126; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 14.

 

[26] P. Catalano, La divisione del potere in Roma repubblicana, in P. Catalano - G. Lobrano, Il problema del potere in Roma repubblicana, Sassari 1974, 19 s. [= Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, 678]: «La prospettiva di Giunio Graccano è diversa da quella di Sempronio Tuditano soprattutto perché non guarda alla titolarità del potere studiato (magistratus) bensì alla sua natura, al suo contenuto (potestas). Ciò doveva avere varie implicazioni. In primo luogo le potestates magistratuali erano, così, studiate congiuntamente alla potestas populi, ed era quindi più facile porre in evidenza la derivazione di quelle da questa, cioè il fondamento popolare dei poteri dei magistrati».

 

[27] P. F. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., 37 fr. 1; O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, fr. 2252 (Ulpiano). Sempre al libro VII de potestatibus, gli editori attribuiscono anche il seguito del passo di Ulpiano: D. 1.13.1.1 (= Ulpianus libro singulari de officio quaestoris): Et a genere quaerendi quaestores initio dictos et Iunius et Trebatius et Fenestella scribunt; dove si riferisce l’etimologia della parola quaestor, organicamente collegata nel pensiero di Graccano alla funzione del magistrato, a quel genus quaerendi, che caratterizzava la natura stessa della questura. Sul valore etimologico del frammento, vedi L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, 66 fr. 3; P. F. Bremer, Op. cit., 37 fr. 2; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, cit., 120 fr. 1.

Su questa etimologia, cfr. anche altre fonti: Varr. De ling. Lat. 5.81; Fest. De verb. sign. p. 310 L.; Paul. Fest. ep., p. 247 L.; Isid. Orig. 9.4.16.

 

[28] Per quanto riguarda caratteristiche e ricostruzione del quadro complessivo del liber singularis de officio quaestoris di Ulpiano, vedi brevemente F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, con presentazione di P. De Francisci, Firenze 1968 [rist. 1975], 444; quanto alla precisazione della «natura dell’opera», con una ampia e puntuale analisi dei frammenti superstiti, vedi invece A. Dell’oro, I libri de officio nella giurisprudenza romana, Milano 1960, 98 ss.; resta naturalmente indispensabile O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 992.

Più in generale, sulla complessa figura del giurista, anche in rapporto alla sua produzione letteraria, cfr. P. Frezza, La cultura di Ulpiano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 34, 1968, 363 ss.; G. Crifò, Ulpiano. Esperienze e responsabilità del giurista, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, 708 ss. (su cui, però, vedi i rilievi di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 80, 1977, 236 ss.); T. Honoré, Ulpian, Oxford 1982; A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, 221 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, Napoli 2004.

 

[29] Nello stesso senso di D. 1.13.1, vedi Joann. Lyd. De magistr. 1.24 (con la discussione sul testo di J. Caimi, Burocrazia e diritto nel de magistratibus di Giovanni Lido, Milano 1984, 151 ss.).

 

[30] Questa posizione fu, comunque, del tutto isolata e sovente rifiutata espressamente dalla storiografia successiva: cfr. Tacit. Ann. 11.22.4; Plut., Publ. 12.3.

 

[31] J. Rubino, Untersuchungen über römische Verfassung und Geschichte, Cassel 1839, 320 e n. 1; L. Mercklin, De Iunio Gracchano commentatio, I, diss. Dorpat 1840, 34 ss.; M. Hertz, De Luciis Cinciis, Berolini 1842, 92 n. 74a; C. Cichorius, Untersuchungen zu Lucilius, cit., 125 s.

 

[32] La frase è di M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 15.

 

[33] I problemi costituzionali dell’età graccana sono stati analizzati, con il consueto approfondimento, da F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, 459 ss.; per il quadro più generale del contesto storico, cfr. anche R. F. Rossi, Dai Gracchi a Silla, Bologna 1980, con particolare riferimento a 34-146.

 

[34] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 39 fr. 10; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae fragmenta, I, cit., 12 fr. 10.

 

[35] Per quanto riguarda gli aspetti giuridici di tali feriae e del culto di Iuppiter Latiaris, rinvio al lavoro di P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., 169 ss.

 

[36] Sulla figura del dictator Latinarum feriarum causa, vedi B. Bruno, v. Dictator, in Dizionario epigrafico di antichità romane, II.2, rist. an. Roma 1961, 1773; ma soprattutto G. I. Luzzatto, Appunti sulle dittature imminuto iure. Spunti critici e ricostruttivi, in Studi in onore di Pietro de Francisci, III, Milano 1956, 416 ss.; e G. Nicosia, Sulle pretese figure di dictator imminuto iure, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, VII, Milano 1987, 558.

 

[37] Più in generale sul praefectus urbi, vedi Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, I, 3ª ed., rist. Graz 1952, 661 ss.; W. Kunkel-R. Wittmann, Staatsordnung und Staatspraxis der römischen Republik. 2. Die Magistratur, [Handbuch der Altertumswissenschaft, X.3.2.2] München 1995, 274 ss.

 

[38] Cfr. Gell. Noct. Att. 14.8.2: M. autem Varro in IIII epistolicarum quaestionum et Ateius Capito in coniectaneorum [CON]IIII ius esse praefecto senatus habendi dicunt; deque ea re adsensum esse <se> Capito Tuberoni contra sententiam Iunii refert: ‘Nam et tribunis’ inquit ‘plebis senatus habendi ius erat, quamquam senatores non essent ante Atinium plebiscitum’. F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, Lipsiae 1898 [rist. an. Roma 1964], 285 fr. 4; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 63 fr. 4; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, Lipsiae 1967, cit., 3 fr. 2.

 

[39] P. Willems, Le Sénat de la République romaine, II, rist. an. Aalen 1968, 130 n. 1.

 

[40] C. G. Bruns, Fontes Iuris Romani Antiqui, pars prior. Leges et negotia, editio sexta cura Th. Mommseni et O. Gradenwitz, Friburgi in Brisgavia et Lipsiae 1893, 46, fr. 3; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 39 fr. 11; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, cit., 12 fr. 11; S. Riccobono, Fontes Iuris Romani Antejustiniani, pars prima. Leges, 2ª ed., Florentiae 1941, 79, fr. 1). Un’accurata revisione della glossa è stata compiuta nel recente lavoro di J. D. Cloud, A lex de ponderibus publicis (Festus p. 288 L.), in Athenaeum 73, 1985, 405 ss., il quale propone un’integrazione al testo della legge, inserendo dopo his verbis prima di ponderibus publicis, le parole «aediles qui nunc sunt ex hac lege curanto».

 

[41] Per quanto riguarda la datazione della lex Silia de ponderibus publicis, la dottrina più risalente si mostrava in genere assai dubbiosa: così, ad esempio, il Rudorff, Römische Rechtsgeschichte, I, Leipzig 1857, 92, pensava al 244 a.C.; L. Lange, Römische Alterthümer, II, 3a ed., Berlin 1876, 670, propendeva invece per il 204 a.C.; mentre si astenevano perfino dall’ipotizzare una data sia G. Rotondi, Leges publicae populi Romani, cit., 473 (cfr. anche 261, dove lo studioso sembra perfino dubitare della storicità della legge); sia G. Niccolini, I fasti dei tribuni della plebe, cit., 394, il quale osserva soltanto che il tempo «in cui questa legge fu fatta è incertissimo». Recentemente il problema è stato riesaminato da J. D. Cloud, A lex de ponderibus publicis, cit., 416 s.: questo studioso, pur avvertendo che ogni soluzione non può che essere estremamente congetturale, ritiene di poter circoscrivere la promulgazione della legge al lasso di tempo che intercorre tra il 287 a.C., data della lex Hortensia, e il 223-218 a.C., anni in cui Livio attesta una lex Claudia volta a stabilire limiti legali alla capacità di carico delle navi dei senatori. Non sarebbe infatti pensabile, a suo avviso, un plebiscito vincolante per tutti i magistrati in epoca anteriore alla lex Hortensia; mentre, d’altra parte, la lex Claudia sembra presupporre l’esistenza di un sistema legalmente sanzionato di pesi e misure. Nello stesso senso del Cloud, vedi ora M. P. Piazza, La disciplina del falso nel diritto romano, Padova 1991, 70 ss., per la quale la legge «può essere ragionevolmente datata verso la fine del 3º secolo a.C.» (73).

 

[42] F. Bona, Contributo allo studio della composizione del de verborum significatu di Verrio Flacco, Milano 1964, 100.

 

[43] Gell. Noct. Att. 13.12.2.

 

[44] Sul grande giurista, a parte A. Pernice, Labeo. Römisches Privatrecht im ersten Jahrunderte der Kaiserzeit, 2 voll., Halle 1873, mi limiterò a citare solo alcuni titoli fra la bibliografia più recente: B. Albanese, Agere, gerere e contrahere in D.50,16,19: congetture su una definizione di Labeone, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 38, 1972, 199 ss.; M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 127 ss.; Id., Labeone e l’editto, in Seminarios Complutenses de Derecho Romano 5, 1993, 17 ss.; R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 37, 1983, 3 ss.; S. Tondo, Suggestività di un exemplum labeoniano, in Questioni di giurisprudenza tardo-repubblicana. Atti di un Seminario. Firenze 27-28 maggio 1983, Milano 1985, 293 ss.; A. Burdese, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, in Atti del Seminario sulla Problematica contrattuale in diritto romano, I, Milano 1988, 15 s.; F. Gallo, Eredità di Labeone in materia contrattuale, Ibid., 41 ss.; Id., Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano, I, Torino 1992; M. Talamanca, La tipicità dei contratti romani fra conventio e stipulatio fino a Labeone, in Contactus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della Littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, Napoli 1990, 35 ss.; A. Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico, Bari 1992, 153 ss.; Id., Linee di storia del pensiero giuridico romano, cit., 127 ss. Di grande utilità il lavoro di G. Melillo-A. Palma-C. Pennacchio, Labeone nella giurisprudenza romana. Le citazioni nei giuristi successivi: le Epitomi, i Pithana, i Posteriores, Napoli 1995.

Frammenti in O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889, coll. 501 ss.; F. P. Bremer, Iurisprudentia Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., 9 ss.; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 55 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae Fragmenta, I, cit., 557 ss.

 

[45] Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 68 fr. 19; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., 7 fr. 9.

 

[46] Gell. Noct. Att. 13.12.1-2: In quadam epistula Atei Capitonis scriptum legimus Labeonem Antistium legum atque morum populi Romani iurisque civilis doctum adprime fuisse. “Sed agitabat”, inquit, “hominem libertas quaedam nimia atque vecors usque eo, ut divo Augusto iam principe et rem publicam obtinente ratum tamen pensumque nihil haberet, nisi quod iussum sanctumque esse in Romanis antiquitatibus legisset”.

 

[47] Sui due istituti nei rapporti tra magistrati, vedi ora C. Cascione, Appunti su ‘prensio’ e ‘vocatio’ nei rapporti tra ‘potestates’ romane, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, édités par M. Zabłocka et J. Krzynówek, J. Urbanik, Z. Sluzewska, Varsovie 2000, I, 161 ss.

 

[48] Gell. Noct. Att. 13.12.5-6: Cum hoc in ea Capitonis epistula legissemus, id ipsum postea in M. Varronis rerum humanarum uno et vicesimo libro enarratius scriptum invenimus, verbaque ipsa super ea re Varronis adscripsimus: "In magistratu" inquit "habent alii vocationem, alii prensionem, alii neutrum: vocationem, ut consules et ceteri, qui habent imperium; prensionem, tribuni plebis et alii, qui habent viatorem; neque vocationem neque prensionem, ut quaestores et ceteri, qui neque lictorem habent neque viatorem. Qui vocationem habent, idem prendere, tenere, abducere possunt, et haec omnia, sive adsunt, quos vocant, sive acciri iusserunt. Tribuni plebis vocationem habent nullam, neque minus multi imperiti, proinde atque haberent, ea sunt usi; nam quidam non modo privatum, sed etiam consulem in rostra vocari iusserunt. Ego triumvirum vocatus a P. Porcio tribuno plebis non ivi auctoribus principibus et vetus ius tenui. Item tribunus cum essem, vocari neminem iussi nec vocatum a conlega parere invitum".

A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano 1973, 82 fr. 411; vedi anche128 s.

 

[49] Cfr. M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 130 ss.

 

[50] Sulla figura e sull’opera del giurista C. Ateio Capitone, da vedere P. Jörs, v. C. Ateius Capito, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II, Stuttgart 1896, coll. 1904 ss.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, 4ª ed., München 1935 [rist. 1967], 384 s.; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, 2a ed., Graz-Wien-Köln 1967, 114 s.; R. A. Bauman, Lawyers and politics in the early Roman Empire. A study of relations between the Roman jurists and the emperors from Augustus to Hadrian, München 1989, 25 ss.

Per la ricostruzione completa dei frammenti del grande giureconsulto augusteo, vedi ora il fondamentale lavoro di W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., VII ss., 3 ss. O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 105 s., attribuisce a Capitone cinque frammenti, nel seguente ordine: D. 8.2.13.1 (= Proculo, Libro secundo epistularum); D. 23.2.29 (= Ulpiano, Libro tertio ad legem Iuliam et Papiam); D. 24.3.44 pr. (= Paolo, Libro quinto quaestionum), dove legge Capito in luogo del Cato dei mss.; Fest. De ver. sign., v. Reus, p. 336 L.; Gell. Noct. Att. 10.20.2. La ragione del criterio restrittivo è spiegata dallo studioso in una breve nota (col. 105 n. 1).

 

[51] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., 283 fr. 1; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 62 fr. 1; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., 5 fr. 5.

 

[52] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, cit., 287 fr. 14 e 15; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 69 fr. 23; W. Strzelecki, C. Atei Capitonis fragmenta, cit., 15 fr. 25.

 

[53] F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.2, Lipsiae 1901 [rist. an. Leipzig 1985], 530 fr. 1, colloca il passo liviano negli Addenda, fra le «Reliquiae sententiae, quae non responsa dicuntur».

 

[54] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 442.

 

[55] Penetrante analisi interpretativa del contesto liviano, che forse però sottovaluta la portata “sistematica” della sententia degli iuris interpretes, in P. Marottoli, Leges sacratae, cit., 31 ss. Non così invece, più di recente, O. Licandro, In magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, cit., 120 ss.; L. Garofalo, “Iuris interpretes” e inviolabilità magistratuale, cit., 37 ss.

 

[56] Intorno alle motivazioni di siffatta interpretatio, mi pare limitativa la spiegazione proposta da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit., 123.

 

[57] Cfr. M. T. Sblendorio Cugusi (a cura di), M. Porci Catonis Orationum reliquiae, Introduzione, testo critico e commento filologico, Torino 1982, 119 fr. LXXIII.

 

[58] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, 3a ed., Leipzig 1887, 486 n. 2, come data dell’orazione pensava all’anno 204 a.C., ritenendo che fosse stata pronunciata in occasione dell’invio della commissione d’inchiesta senatoriale a Scipione; P. Fraccaro, Opuscula, I, Pavia 1956, 162 s., riteneva più probabile il 199 a.C., anno in cui Catone fu edile plebeo; scettici sulla possibilità di una datazione sicura si mostrano E.V. Marmorale, Cato Maior, 2a ed., Bari 1949, 47; H. H. Scullard, Roman Politics, 220-150 B.C., 2a ed., Oxford 1973, 256 s.; e A. E. Astin, Cato the Censor, Oxford 1978, 19 s.; per quanto questi ultimi due tendano a collocare l’orazione tra quelle antiche. Sulla questione vedi ora M. T. Sblendorio Cugusi, M. Porci Catonis Orationum reliquiae, cit., 461 s., la quale, aderendo alla linea dei precedenti editori catoniani, colloca l’orazione in anno incerto.

 

[59] Sulla risalenza della interpretatio iuris publici di matrice plebea, mi permetto di rinviare ad un mio precedente lavoro: F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino (1992) 1995, 76 ss., con particolare riferimento all’attività giurisprudenziale di P. Sempronio Sofo e ad una sua interpretatio iuris publici sulla questione «ubi duae contrariae leges sunt, semper antiquae obrogat nova».

Sulla figura di questo importante giurista plebeo (a parte il vecchio lavoro di F. D. Sanio, Varroniana in den Schriften der römischen Juristen, Leipzig 1867, 148 s.) vedi in particolare F. Münzer, v. Sempronius (nr. 85), in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, II A, Stuttgart 1923, coll. 1437 s.; T. R. S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, I, cit., 167; W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, Weimar 1952, 5 s.; F. Wieacker, Die römischen Juristen in der politischen Gesellschaft des zweiten vorchristlichen Jahrhunderts, in Sein und Werden im Recht. Festgabe für Ulrich von Lübtow, Berlin 1970, 190; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, München 1988, 534 s.; F. D’Ippolito, I giuristi e la città. Ricerche sulla giurisprudenza della repubblica, Napoli 1978, 9; Id., Giuristi e sapienti in Roma arcaica, Roma-Bari 1986, 88 ss.; infine per quanto riguarda il ruolo politico di P. Sempronio Sofo, basterà vedere in particolar modo F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962 [rist. an. Roma 1968], 149 ss.; e da ultimo R. A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, cit., 66 ss.

 

[60] Nello stesso senso, fra i moderni, cfr. Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, II, cit., 472 ss.; E. De Ruggiero, v. Aedilis, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, I, rist. Roma 1961, 214 s.; P. M. Pineau, Histoire de l’édilité romaine, cit., 9 ss.; P. Willems, Le droit public romain, 7a ed., Louvain 1910, 267. Sul testo di Catone menzionato da Festo vedi, con interessanti osservazioni, G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, cit., 71 ss.; C. Gioffredi, Il fondamento della tribunicia potestas e i procedimenti normativi dell’ordine plebeo, cit., 42 ss.; J. Bayet, L’organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., 145 ss.; R. santoro, Potere ed azione nell’antico diritto romano, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 30, 1967, 489 ss.; S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 442 ss.; A. Piganiol, Les attributions militaires et les attributions religieuses du tribunat de la plèbe, ora in Id., Scripta varia, II, Bruxelles 1973, 267 ss.; J.-CL. Richard, Les origines de la plèbe romaine, cit., 573 ss.; P. Marottoli, Leges sacratae, cit., 125 s.; S. Tondo, Profilo di Storia costituzionale romana. Parte prima, cit., 207; G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storiografici sull’età delle XII Tavole, cit., 304 s.; P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, cit., 118 s.; L. Garofalo, Il processo edilizio, cit., 35 s.; B. Albanese, Sacer esto, cit., 165.

 

[61] Estremi della controversia in G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII Tavole, cit., 304 s., la quale ipotizza anche l’età in cui si svolse (primi decenni del II secolo a.C.). Nello stesso senso si veda già P. Frezza, Preistoria e storia della lex publica, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano 59-60, 1956, 502.

 

[62] Seguo, pur consapevole dei rischi, la terminologia, ormai classica, di F. Schulz, Storia della giurisprudenza romana, cit., 34 ss.; 200 ss. Cfr. G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico romano, Roma 1973, 10 s.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, 153 ss.

 

[63] Vissuto presumibilmente nell’ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, v. L. Cincius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.), L. Cincio viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römisches Rechts, Leipzig 1888, 69 n. 83 (= Id., Histoire des sources de droit romain, trad. franc. di M. Brissaud, Paris 1894, 92 n. 2); H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, cit., CV; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, cit., 175 s.; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, cit., 158; e da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, cit., 570; ma in altro senso già L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., 71; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 252; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 24; e più di recente M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 16; V. Giuffrè, La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti militari, Napoli 1974, 38 ss. [= Id., Letture e ricerche sulla “res militaris”, II, Napoli 1996, 242 ss.].

 

[64] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 443 s.

 

[65] Basta scorrere soltanto i titoli delle sue opere, per percepire l’eco dei molteplici interessi presenti nella riflessione del giurista: scrisse un liber de fastis, un liber de comitiis, un liber de consulum potestate; almeno sei de re militari libri, almeno due de officio iurisconsulti libri, e ancora un liber de verbis priscis e dei Mystagogicon libri. I frammenti di tali opere sono raccolti in L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, cit., 71 ss.; F. P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., 252 ss.; H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, cit., 371 ss.; Ph. E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, I, cit., 24 ss.

 

[66] Per una breve, valutazione dell’opera del giurista, con critica alla scelta omissiva di O. Lenel nella Palingenesia iuris civilis, vedi F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., cit., 64 ss.

 

[67] Utili riflessioni in S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana. Parte prima, cit., 205 ss., in part. 207.

 

[68] Insiste molto sul valore di questa legge Valeria Orazia come «modello» G. Nocera, Il potere dei comizi e i suoi limiti, cit., 72.

 

[69] Al riguardo, mi pare da condividere l’analisi prospettata a suo tempo da G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, cit., 60-61: «A condizionare gli studi in materia di fondamento giuridico della tribunicia potestas è la scelta ermeneutica, a monte dello schema interpretativo – e da esso presupposta –, consistente nella formulazione del problema esclusivamente come ricerca del procedimento normativo rilevante per l’’ordinamento pubblico romano’ (civitas, populus o, come più sovente e ‘scopertamente’ si è detto, ‘stato’) e che abbia potuto quindi validamente costituire fondamento giuridico del tribunato e del suo potere in tale ambito (inteso o come l’unico ambito possibile o, comunque, come l’unico rilevante per la ricerca di ‘diritto pubblico romano’, rispetto a quello eventualmente rappresentato dall’’ordinamento particolare’ della plebe). è così che il solo quesito rimasto aperto – negli angusti limiti testé indicati – è quello della individuazione delle forme storiche ‘in concreto’ assunte da tale postulata manifestazione di volontà». Cfr. anche 61-62; 121 ss.

 

[70] Cfr. L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei iudicia populi, cit., 35.

 

[71] S. Mazzarino, Intorno ai rapporti fra annalistica e diritto: problemi di esegesi e di critica testuale, cit., 443.

 

[72] Cfr. J. Bayet, L’organisation plébéienne et les leges sacratae, cit., 151 s.: «Lorsqu’il s’agit des édiles de la plèbe, même ambiguïté, mais plus lucide, entre fonction plébéienne religieusement protégée et magistrature d’État. Tite-Live connaît et affirme la loi de 449, qui les déclare sacro-saints, seuls sans doute avec les tribuns; et c’était aussi l’avis de Caton l’Ancien. Cependant, des juristes le niaient, sur erreur philologique, nous l’avons vu, mais aussi parce qu’ils avaient des exemples d’édiles saisis et emprisonnés sur l’ordre de magistrats supérieurs. Mais cette expérience ne peut dater que d’une époque – sensiblement postérieure – où l’édilité était entrée dans la chaîne des magistratures régulières».

 

[73] Cfr. al riguardo anche G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII Tavole, cit., 304.