ds_gen N. 6 – 2007 – Tradizione Romana

 

ragoni-piccola.jpgFabio A.D. Ragoni

Università di Milano-Bicocca

 

Actio legis Aquiliae, actio de pauperie, edictum de feris: responsabilità per danno cagionato da cani

 

 

SOMMARIO: 1. Problema giuridico, contesto normativo ed elencazione dei rimedi processuali romani. – 2. L'aggressione dolosa per mezzo del cane e la lex Aquilia de damno. – 3. Segue: D. 4.3.7.6 e dubbi casistici sulla scelta dell’azione da esperirsi. – 4. Responsabilità oggettiva, actio de pauperie e comportamento ‘contra naturam’ come elemento utile per la qualificazione del tipo di danno. – 5. Segue: damnumcontra naturam’. La relazione fra il criterio responsabilità, danno provocato ed atteggiamento tenuto come criterio di valutazione delle diverse tipologie di danni arrecabili da un cane. – 6. Lesioni avvenute in spazi aperti al pubblico e responsabilità del dominus. – 7. Le precauzioni idonee ad impedire i danni ai terzi. – 8. Responsabilità per colpa e sicurezza nelle strade: l'edictum de feris e la lex Pesolania de cane. – 9. Frammenti di età tarda ed una illogica disposizione sulla sicurezza nelle strade. – 10. Conclusioni.

 

 

1. – Problema giuridico, contesto normativo ed elencazione dei rimedi processuali romani

 

Vi sono delle situazioni che ciclicamente, per obiettiva rilevanza oppure per libera ed opinabile scelta editoriale dei media, tornano alla ribalta attraendo prima l’attenzione della collettività per giungere immediatamente dopo a quella del legislatore. Fra questi argomenti, per così dire, di richiamo del pubblico si possono ricordare i ferimenti causati da cani, probabilmente sia per via delle tipologie di soggetti coinvolti (particolarmente frequenti sono i bambini, che pagano a caro prezzo la propria ingenuità), delle drammatiche implicazioni che possono avere nei confronti della vittima ma anche – talvolta – dell’incolpevole responsabile della lesione arrecata, oppure, probabilmente, perché chi si avventa contro un indifeso è proprio l’animale che più di tutti è stato identificato come il miglior amico dell’uomo.

Negli ultimi anni, a partire dalle innovazioni introdotte nel 2003 dal Ministro Sirchia[1] fino ad arrivare alle modifiche introdotte nel dicembre 2007 dal Ministro Livia Turco[2], la questione delle aggressioni è stata affrontata più volte e non stupisce, vista la comunanza della problematica, che sia possibile riscontrare anche nell’ordinamento romano delle tracce di un interesse simile[3]. Stupiscono semmai, vista l'indubbia frequenza e la varietà di situazioni potenzialmente lesive dell'integrità fisica e patrimoniale dei cittadini, la laconicità e l'esiguità dei testi riguardanti questa materia e le modalità pratiche mediante le quali l'ordinamento romano ha tentato di disciplinare il settore, specialmente ove si intendesse raffrontare questa casistica con le decine e decine di passi che, nella letteratura tecnica ed atecnica, in prosa ed in versi, hanno trattato o nominato questo particolare compagno dell'uomo.

Ben lungi dal voler trattare in modo esaustivo un insieme di argomenti che, per mole dei testi latini e letteratura scientifica, sarebbero inadatti ad una breve serie di considerazioni quali quelle che mi accingo a formulare[4], ho deciso di restringere i numerosi spunti ad una serie di circostanze e situazioni che hanno come fulcro il soggetto che materialmente pone in essere una fattispecie di danneggiamento e, quindi, la catena logica che consente di individuare il soggetto legalmente responsabile del danno provocato.

Può essere interessante soffermarsi, per introdurre le particolarità giuridiche della disciplina relativa ai cani, una breve premessa sia sulla loro funzionalità economica sia in merito ai risvolti che le varie tipologie di comportamento animale possono avere in ambito giuridico. La successiva analisi delle fonti risulterà più chiara dall’aver delineato come mai questo animale abbia ricevuto – e certamente abbia meritato – un trattamento giuridico particolare rispetto agli altri animali.

Gaio[5] nel libro settimo ad edictum provinciale e, dopo di lui, l'imperatore Giustiniano nelle Institutiones[6] classificano il cane come animale non facente parte dei pecudes, per ragioni che ad un primo sguardo possono apparire ovvie. Nell'economia del mondo romano ben presto, sicuramente in epoca pre-decemvirale[7], vennero identificate delle categorie cui ricondurre, a seconda della loro importanza, i vari beni che potevano essere oggetto della proprietà dei cives: nacque probabilmente in questo modo l'antica partizione fra res mancipi e res nec mancipi. Al concetto giuridico di res mancipi vennero ricondotti i beni connessi alla vita agricola per la maggiore rilevanza di cui godevano rispetto a quelli di natura voluttuaria (sebbene questi ultimi potessero avere potenzialmente un valore economico consistente) poiché da essi non dipendeva la sopravvivenza del nucleo familiare[8]. Fra i beni mancipi si possono quindi evidenziare diverse tipologie di res, quali gli schiavi, gli strumenti inanimati di produzione ed infine gli animali che maggiormente agevolavano la sopravvivenza dei cittadini[9], sia partecipando alla coltivazione dei campi, sia essendo essi stessi oggetto di allevamento e quindi direttamente fonte di cibo o materie prime. In relazione a quest'ultima categoria dei beni viventi, i giuristi hanno individuato il termine ‘pecudes’[10] da intendersi non genericamente limitato agli ovini, come il lemma potrebbe far in un primo momento supporre, ma come cumulativo di bovini, equini e suini.

Gaio, subito dopo aver citato a supporto per una questione affine il parere di Labeone, espone laconicamente la propria posizione in merito alla natura dei cani, ritenendola dissimile rispetto a quella dei pecudes[11]. A mio parere la questione, rilevante nella trattazione ai fini della applicabilità ai cani delle disposizioni del primo capo della lex Aquilia, in tema di lesione mortale subita da questo animale[12], rivela le particolarità del cane che, col passare dei secoli, verranno ancor più accentuate dalle posizioni di Accursio[13] nella sua Glossa. Il giurista provinciale, per spiegarci quali animali possano essere assimilati per importanza ed utilità agli schiavi, enumera (sempre in D. 9.2.2.2) innanzitutto i quadrupedi per poi lanciarsi in una descrizione che, sebbene sicuramente dovesse essere funzionale alla memorizzazione del concetto da parte dei suoi studenti, ci saremmo aspettati più da un etologo che da un giurista: il giureconsulto identifica i pecudes come i quadrupedi soliti alla vita 'gregatim', per alludere alle abitudini sociali, di gregge o branco, di questi animali.

Analizzando la questione partendo da presupposti differenti[14], è bene alludere a due aspetti, di ordine diverso, che possono illustrare la ragione concreta, al di là delle spiegazioni frettolose, per le quali il cane abbia meritato e ricevuto una disciplina giuridica particolare rispetto agli altri animali. In primo luogo è facile osservare come i pecudes vengano allevati con finalità varie ma precise. Essi trovano posto accanto all'uomo per la loro utilità in relazione alla produzione di cibo – per così dire – diretta, mediante la macellazione dei capi di bestiame, o indiretta, nel caso in cui venissero impiegati come forza lavoro a supporto degli agricoltori o per la produzione di materie prime. Dal punto di vista comportamentale è da evidenziarsi un ulteriore tratto distintivo di questa tipologia di animali che, a mio avviso, si dimostra non meno importante del precedente, e risiede sia nella possibilità sia nella facilità di giungere ad un asservimento dell'animale, in considerazione dell'indole normalmente mansueta di queste specie, fatto che li rende ancor più pregiati in vista della loro finalità produttiva. Tenendo presente queste considerazioni, penso si possa ravvisare una maggior coerenza e logicità nell’elencazione effettuata dal giurista provinciale in D. 9.2.2.2, dove vengono identificati animali mansueti e produttivi da un lato e feroci (anch'essi allevati, ma con scopi diversi quali quelli militari – penso in particolare all'elefante – o per il divertimento dei cittadini nei ludi o nelle venationes) e improduttivi dall'altro. La stessa difficoltà nella classificazione degli elefanti[15], molto utili nel trasporto dei carichi in alcune regioni dell'impero e la necessità di ricorrere all'autorevole parere del giurista repubblicano in merito ai sues, per far prevalere la loro utilità alimentare rispetto ad una indole non propriamente mansueta, paiono conferme delle ragioni sottostanti alla qualificazione giuridica di queste diverse categorie di animali. Se in relazione ai suini pare esservi indecisione, tutt'altro dimostra Gaio nei confronti dei cani, i quali vengono lapidariamente esclusi (‘sed canis inter pecudes non est) dal numero dei pecudes. Le ragioni sono effettivamente abbastanza evidenti in quanto essi non sono né direttamente produttivi di cibo né mansueti in assoluto, benché possano essere asserviti allo scopo produttivo, fino ad essere strumenti preziosi nella pastorizia e nell'allevamento di altre specie. D’altro canto i cani non sono animali selvatici (per quanto possano diventarlo) né sono normalmente pericolosi per l'essere umano[16] ma, anche in questo caso, mediante pratiche di addestramento finalizzate al mettere in risalto alcuni caratteri innati, quali la territorialità e l'aggressività, possono essere impiegati sia a scopo di difesa di persone o luoghi sia, come vedremo, di offesa. In breve, esponendo il pensiero del glossatore Accursio, il cane ha ricevuto una disciplina particolare poiché incarna una sorta di tertium genus fra le categorie degli animali, rappresentando una sorta di anello di congiunzione fra i pecudes ed i non pecudes[17]. Per concludere il discorso circa la varietà delle sue possibili utilizzazioni, bisogna ricordare inoltre che il cane venne allevato (come del resto anche animali ben più esotici e sicuramente non originari delle zone italiche, come ad esempio i dracones, grossi serpenti privi di veleno, oppure i più feroci fra i grandi felini) a scopo di ostentazione al fine di dimostrare la ricchezza del loro proprietario. Pare infatti che fosse abbastanza comune, fra le persone che non potessero far mostra della proprietà di animali particolarmente costosi ma che desiderassero in ogni caso sentirsi osservati, far ricorso allo sfoggio di particolari esemplari canini dagli accentuati caratteri di aggressività, come meglio esemplificherò in seguito[18].

Escluse dalla presente trattazione le situazioni in cui il cane rappresenti il soggetto leso e le considerazioni in merito all’applicabilità esclusiva del terzo capo della lex Aquilia de damno[19], in virtù della predetta esclusione di questi animali dal novero dei pecudes, la mia attenzione si è soffermata sulle situazioni in cui l’ordinamento giuridico debba reagire contro un danneggiamento effettuato da un cane. Come partizione preliminare all’analisi delle varie situazioni lesive è bene immediatamente collegare il concetto oggettivo di danno, inteso come lesione di natura patrimoniale, a quello di responsabilità della persona cui è imputabile la sorveglianza dell’animale. Partendo schematicamente dal presupposto, sia in diritto romano sia nel nostro ordinamento vigente, dell’esistenza di comportamenti individuabili come dolosi, colposi o riconducibili alla cosiddetta responsabilità oggettiva (altrimenti detta senza colpa), è possibile ravvisare nell’ordinamento romano una particolarità relativa al trattamento giuridico delle lesioni del tipo in analisi. La differenza sostanziale in merito alle circostanze nelle quali il danneggiamento ha avuto luogo giustifica la compresenza di diverse azioni[20] circoscrivendo, anche se talvolta in modo non netto, l’esperibilità dell’azione aquiliana quasi esclusivamente ai casi in cui il danneggiamento realizzato dall’animale fosse stato la conseguenza dell’istigazione da parte di una persona[21], laddove l’edictum de feris esaurisce la sua operatività nei casi in cui il danno provocato fosse imputabile ad un comportamento imprudente del dominus, mentre è possibile limitare i casi di applicabilità dell’actio de pauperie, comunque di certo non rari, alle situazioni in cui non vi fosse alcun biasimo verso la condotta del padrone dell’animale, confinando quindi questa situazione ai casi di responsabilità che diremmo, ai giorni nostri, oggettiva. Questa partizione parrebbe andare contro la logica usuale dei giuristi romani i quali, in genere, hanno affrontato l’innovazione del sistema processuale con un occhio di favore verso l'applicazione estensiva degli istituti giuridici esistenti, indirizzata ad una economia del loro numero, al fine di evitarne una proliferazione incontrollata: in questo caso, infatti, essi hanno agito con un procedimento alquanto diverso.

Almeno le due azioni di maggior rilievo, l’actio de pauperie e quella derivante dal plebiscito aquiliano, sono state studiate certamente dai giuristi romani di età repubblicana ma, per via dell’importanza della materia disciplinata nelle meccaniche di relazione fra individui, ritengo probabile che affondino le proprie origini ancor più indietro nella storia, come dimostrerebbe – per la prima – l’esistenza del concetto di pauperie nelle Dodici Tavole[22], secondo l’attestazione tramandataci da Ulpiano nel frammento posto in apertura del titolo ‘Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur’ (D. 9.1.1pr.); inoltre è particolarmente notevole il fatto che l’elaborazione giuridica sia rimasta materia viva e – specialmente in merito alla lex Aquilia – in costante fermento e sviluppo per numerosi secoli[23]. Fra i tre provvedimenti l’unico con una origine molto incerta[24] è l’edictum de feris ma, malgrado ciò, sarebbe ipotizzabile una sua vigenza in età repubblicana, forse addirittura nel periodo immediatamente successivo alle guerre annibaliche[25], in relazione alle incrementate esigenze di sicurezza per l’arrivo a Roma della moda di esibire[26] e condurre per le vie della città animali feroci[27].

Naturalmente, come ben ricorda Impallomeni, non era infrequente l'impiego negli editti degli edili di modalità espressive dal tenore piuttosto antiquato, fatto che sicuramente aggiunge un elemento ulteriore di difficoltà nel tentativo di giungere ad una datazione del periodo di introduzione del provvedimento. In merito si è espresso anche Casavola[28], il quale propone come parametro (svincolato dai riferimenti letterari) per la datazione della emanazione di questa norma edittale il raffronto fra la quantificazione della condemnatio[29] relativa all’edictum de feris e quella dell'actio de effusis et deiectis[30]: in virtù di un progressivo inasprimento delle sanzioni, l’Autore sarebbe propenso a credere più antico il primo dei due provvedimenti.

 

 

2. – L'aggressione dolosa per mezzo del cane e la lex Aquilia de damno

 

La prima ipotesi che intendo affrontare riguarda i casi contemplati dal titolo secondo del nono libro del Digesto in relazione a fattispecie di danno extracontrattuale. Uno dei passi tratti dal diciottesimo libro di commento all’editto di Ulpiano affronta esplicitamente la questione del danno realizzato da un cane aizzato contro il soggetto leso.

 

D. 9.2.11.5 (Ulpianus 18 ad ed.) Item cum eo, qui canem irritaverat et effecerat, ut aliquem morderet, quamvis eum non tenuit[31], Proculus respondit Aquiliae actionem esse: sed Iulianus eum demum Aquilia teneri ait, qui tenuit et effecit ut aliquem morderet: ceterum si non tenuit, in factum agendum.

 

In questo frammento[32] troviamo la descrizione di una situazione, apparentemente semplice, in cui un soggetto provoca una reazione aggressiva del cane, dalla quale scaturisce la lesione di un terzo incolpevole. Preliminarmente si può notare come in questo caso la lex Aquilia preveda fattispecie nelle quali la lesione venga arrecata, oltre che iniuria[33], secondo l’accezione esplicitata in D. 9.2.5.1[34], anche corpore corpori[35], implicando che l’animale venga inteso come di mero strumento con il quale il soggetto intenzionato a causare un danno metta in opera il proprio intento lesivo. In altre parole il giurista esclude in via assoluta qualsiasi rilevanza dell’arbitrio dell'animale, tale da spingerlo a non ottemperare all'ordine impartito oppure ad eseguirlo difformemente rispetto agli ordini ricevuti, equiparandolo sostanzialmente ad un’arma, simile da un randello[36] o ad un altro strumento di offesa[37] inanimato[38].

Nella situazione considerata da Proculo[39] è possibile notare una difformità piuttosto particolare del pensiero del giurista in merito alla tipologia dell’azione che si sarebbe potuta concedere al soggetto leso: mentre vi è una marcata tendenza da parte dei giureconsulti ad indirizzare i propri clienti verso la richiesta di azioni utili, ad exemplum od in factum[40] nel caso non vi sia la perfetta rispondenza della fattispecie alle ipotesi contemplate dal plebiscito aquiliano[41], in questo caso il giurista espone il proprio responsum in termini di ‘Aquiliae actionem esse’, attuando una lettura piuttosto estensiva dei requisiti minimi della lex Aquilia[42]. Questa presa di posizione, ad un primo sguardo e ragionando in funzione dell’evoluzione storica della procedura romana[43], parrebbe essere piuttosto in controtendenza essendo più immediato attendersi una lettura della norma via via sempre meno rigorosa. Una spiegazione potrebbe però giungere grazie alla tesi proposta da Ziliotto[44] circa l’evoluzione dell’interpretazione dei verba legis del plebiscito aquiliano in una ottica in cui, col passare del tempo, si sia affermata una sostanziale differenza fra le situazioni connesse all’individuazione delle singole fattispecie (in relazione al significato ampio della casistica riconducibile al rumpere, urere ed in particolar modo del verbo occidere) in contrapposizione al concetto di ‘causam morte praestare’.

Nel passo in questione Ulpiano per avvalorare il proprio pensiero, facendo leva su una considerazione di Giuliano – vissuto non molto prima di lui – prende in esame ad arte la questione delle tipologie di azioni concretamente esperibili da parte del soggetto leso, introducendo una nuova specificazione dei fatti. Il giurista adrianeo, nel confermare l'esperibilità di una azione ex lege Aquilia, inserisce la distinzione fra il caso in cui il soggetto che avesse aizzato l'animale e quello che – probabilmente con una sorta di guinzaglio – lo trattenesse fossero coincidenti e quello in cui, al contrario, non lo fossero. In entrambi i casi l'azione sarebbe stata riconducibile logicamente al plebiscito aquiliano, ma solamente nel primo esso sarebbe stato applicato direttamente, obbligando invece nella seconda ipotesi il pretore ad un intervento estensivo mediante la concessione di una azione in factum, su questo improntata.

Dal passo in analisi emerge chiaramente, grazie all'uso coordinato dei verbi irrito ed efficio (nella sua costruzione con ut) l'intenzionalità della azione lesiva: si tratta di un caso in cui la determinazione e la prefigurazione delle conseguenze che essa avrebbe comportato non possono lasciare dubbi sulla sua dolosità e, in mancanza di eventuali cause scriminanti[45], della conseguente connotazione di iniuria dell’atto. Rimarrebbe l'ipotesi, in realtà quasi esclusivamente teorica in relazione alle innegabili differenze esistenti fra un’arma inanimata ed un animale (ancorché privo di ogni sorta di volontà giuridicamente rilevante) di un soggetto che, approfittando della vicinanza di un animale al guinzaglio, desse un ordine d'attacco al cane e che questi agisse senza che il conduttore[46] potesse impedirlo[47]. In una situazione di questo genere, dunque, il conduttore[48] (o il suo dominus) si troverebbe in una condizione per cui l’evento lesivo si sarebbe verificato ad opera di una res compresa all’interno della propria sfera di influenza e responsabilità, senza che a lui fosse imputabile alcun tipo di volontà lesiva. Come spiega D. 9.2.44pr., ai fini della imputabilità aquiliana vi sono anche ragioni di opportunità per cui si rivela necessario attribuire una responsabilità extracontrattuale non solo in caso di dolo ma anche di culpa, per giunta levissima, del soggetto danneggiante. Nel caso in questione il problema però non si pone poiché non è tanto la culpa del conduttore, il quale probabilmente poteva essere più attento o istruire meglio il proprio cane, che l'ordinamento vorrà perseguire quanto il vero ispiratore della lesione.

Il seguente passo, probabilmente postclassico e certamente ellittico nella forma espressiva, completa il quadro spiegando come la norma generale circa la responsabilità del dominus (o del conduttore) debba essere disattesa nel caso in cui la lesione derivi da un comportamento irresponsabile della persona lesa[49].

 

PS. 1.15.3 Ei, qui inritatu suo feram bestiam vel quamcumque aliam quadrupedem in se proritaverit eaque damnum dederit, neque in eius dominum neque in custodem actio datur.

 

D. 9.2.11.5, in relazione alla parificazione aquiliana fra il danno di origine animale e quello derivante da un oggetto inanimato, offre un ulteriore spunto a supporto mostrando la possibilità di effettuare un parallelismo con il ben più celebre passo (di cui ritengo superflua una esegesi accurata) tratto anch'esso dal diciottesimo libro del commento all’editto di Ulpiano, in cui viene affrontata la responsabilità di un tonsor che arrecasse un danno col rasoio per non aver esercitato la propria professione in un luogo consono.

 

D. 9.2.11pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Item Mela scribit, si, cum pila quidam luderent, vehementius quis pila percussa in tonsoris manus eam deiecerit et sic servi, quem tonsor habebat, gula sit praecisa adiecto cultello: in quocumque eorum culpa sit, eum lege Aquilia teneri. Proculus in tonsore esse culpam: et sane si ibi tondebat, ubi ex consuetudine ludebatur vel ubi transitus frequens erat, est quod ei imputetur: quamvis nec illud male dicatur, si in loco periculoso sellam habenti tonsori se quis commiserit, ipsum de se queri debere.

 

In entrambi i casi ad arrecare il danno è uno strumento sfuggito dal controllo del dominus, ed egli si trova imputabile della lesione arrecata in funzione dell'incapacità di adeguare il proprio comportamento all’ambiente circostante ed ai potenziali pericoli in esso presenti.

Lasciando da parte i casi scolastici, non si pongono problemi particolari in relazione alla legittimazione processuale del soggetto leso, attore in sede processuale: in epoca repubblicana e preclassica, esso sarà sicuramente identificabile nel dominus proprietario del bene leso[50] mentre in epoca meno risalente, dando credito alle parole di Ulpiano il quale cita Giuliano[51] in D. 9.2.5.3 – si potrebbe parlare dunque del periodo a cavallo fra il I ed il II d.C. – questa sarebbe spettata comunque allo stesso soggetto ma nelle vesti di pater piuttosto che di dominus[52].

Le considerazioni che a questo punto dovrebbero rilevare ai fini della tematica dei rischi del proprietario del cane sarebbero, dunque, quella dei limiti oltre i quali non sorga alcun tipo di obbligo di risarcimento e se in questa ipotesi possa essere ricondotta la situazione in cui la lesione fisica venga prodotta ai danni di un uomo libero, piuttosto che alla integrità di uno schiavo. Nella realtà dei fatti non è verosimile che venga scartata a priori l’ipotesi per cui il soggetto passivo di una azione lesiva fosse un uomo libero, senza rilevanza alcuna per il fatto che esso fosse cittadino dell’Urbe o peregrinus, piuttosto che homo in proprietà di un dominus. In una situazione di questo tipo la lex Aquilia dimostra i propri limiti ed i compilatori stessi, cronologicamente distanti circa otto secoli dalla iniziale stesura del plebiscito, diversamente da quanto faranno per la disciplina dell'edictum de feris, non hanno ritenuto opportuno prevedere esplicitamente all’interno del titolo D. 9.2 le modalità con cui si sarebbe potuto offrire un rimedio equo al danno provocato dall’aggressione di un cane ad un soggetto libero. Senza dubbio il problema insormontabile che li trattenne dal disciplinare compiutamente la questione fu quello che definirei il più assillante per i giuristi all’interno del titolo in esame: individuare le modalità per giungere ad una valutazione corretta del danno subito, tali da comprendere tutte le possibili voci concorrenti nella determinazione di una somma che rispecchiasse il valore oggettivo[53] del bene leso, inteso come prezzo di mercato. La difficoltà somma per i giuristi romani, dall’epoca repubblicana fino a quella postclassica, nel contemplare un indennizzo per la lesione provocata ad un uomo libero pare consistere non tanto nella possibilità di concepire che una azione aquiliana si applicasse a reintegrazione e sanzione[54] del danno subito da un soggetto libero, quanto nell'impossibilità di attribuire, per mancanza di possibili termini di paragone, un valore alla sua fisicità, come dimostrerebbe la chiusura del passo di seguito riportato

 

D. 9.3.7 (Gaius 6 ad ed. provinc.) Cum liberi hominis corpus ex eo, quod deiectum effusumve quid erit, laesum fuerit, iudex computat mercedes medicis praestitas ceteraque impendia, quae in curatione facta sunt, praeterea operarum, quibus caruit aut cariturus est ob id, quod inutilis factus est. Cicatricium autem aut deformitatis nulla fit aestimatio, quia liberum corpus nullam recipit aestimationem.

 

Il passo non è tratto dal titolo della responsabilità aquiliana ma, come dirò in seguito[55], vi sono ragioni per ritenerlo connesso alla materia oggetto di queste considerazioni. Senza entrare approfonditamente nell’ipotesi specifica descritta nel passo, si può constatare come Gaio nel caso del corpus liberum, diversamente da come si sarebbe comportato di fronte alle deformità provocate ad uno schiavo (in particolar modo qualora esso fosse dotato di particolari doti artistiche o naturalmente di bellezza[56] ed esse fossero il suo pregio saliente), ponga l’accento sul fatto che, essendo assolutamente impossibile conferire un valore pecuniario alla integrità fisica di un uomo libero, non fosse possibile attribuire al danneggiato alcun tipo di indennizzo né per le deformità subite né per le eventuali cicatrici (indipendentemente dalla loro natura temporanea o permanente) 'cicatricium autem aut deformitatis nulla fit aestimatio, quia liberum corpus nullam recipit aestimationem'[57]. La sola concessione del giurista classico (e del legislatore giustinianeo) è dunque commisurata all’onere, per il responsabile della lesione, di rifondere al danneggiato quello che definiremmo il danno materiale emergente, commisurato – D. 9.3.7 – alle 'mercedes medicis praestitas ceteraque impendia, quae in curatione facta sunt' ed il cosiddetto lucro cessante – D. 9.2.5.3 – che prende in considerazione quanto 'quod minus ex operis filii sui propter vitiatum oculum sit habiturus'.

Fino a questo momento ho preso in considerazione la situazione in cui un danneggiamento sia stato realizzato da un cane, delineando alcuni degli aspetti connessi a questo avvenimento, ma ritengo opportuno soffermarmi ancora sulla questione partendo nuovamente dalle considerazioni di Ulpiano

 

D. 9.2.5.2 (Ulpianus 18 ad ed.) Et ideo quaerimus, si furiosus damnum dederit, an legis Aquiliae actio sit? Et Pegasus negavit: quae enim in eo culpa sit, cum suae mentis non sit? Et hoc est verissimum. Cessabit igitur Aquiliae actio, quemadmodum, si quadrupes damnum dederit, Aquilia cessat, aut si tegula ceciderit. Sed et si infans damnum dederit, idem erit dicendum. Quodsi impubes id fecerit, Labeo ait, quia furti tenetur, teneri et Aquilia eum: et hoc puto verum, si sit iam iniuriae capax.

 

Da questo testo emergono le ragioni per cui si configurano come punibili nell'ambito della lex Aquilia esclusivamente i danneggiamenti arrecati come conseguenza del dolo o colpa di un essere umano e, conseguentemente, anche il motivo per cui la volontà lesiva dell'animale, benché presente, non possa essere considerata rilevante in questa sede[58]. Il frammento spiega inoltre il motivo per cui l'animale è considerato, nell'ambito della legge Aquilia, esclusivamente come strumento della realizzazione della volontà lesiva del proprio conduttore: la mancanza in capo all'animale della capacitas iniuriarum. Ulpiano non solo assimila gli atti compiuti dall'animale a quelli di un infans oppure di un furiosus, soggetti incapaci per eccellenza, ma arriva al punto di equiparare, con una similitudine decisamente estrema, le lesioni causate da un quadrupes a quelle che potrebbe causare un oggetto inanimato – una tegula[59] – caduto, per ragioni non meglio precisate e decisamente sfortunate, su un ignaro passante[60].

Il fatto che la questione non dovesse essere ritenuta di palese soluzione ancora nel periodo a cavallo fra il secondo ed il terzo secolo d. C., epoca di attività del giurista, potrebbe dedursi dalla forma impiegata da Ulpiano per l'esposizione del proprio parere. Nel breve frammento possiamo notare immediatamente sia come egli ponga la questione in forma dubitativa (aprendo la trattazione della tematica con la domanda ‘quaerimus, si furiosus damnum dederit, an legis Aquiliae actio sit?’), sia come ritenga necessario far riferimento a due autorevolissimi giuristi del passato a supporto della propria posizione. Altro indizio in tal senso parrebbe essere quello per cui, piuttosto che esprimere le proprie teorie in modo diretto, per quanto normalmente i giuristi romani prediligano l'approccio concreto e casistico, Ulpiano preferisca giungere alle proprie conclusioni grazie ad una serie di paragoni (furiosus, quadrupes, tegula) che, partendo dalla situazione maggiormente condivisa, giungano fino alla equiparazione della lesione provocata dall'animale a quella causata dal semplice oggetto, palesemente privo di qualsivoglia discrezionalità e capacità di realizzare atti lesivi connotati dall'iniuria nella accezione aquiliana. Il giurista naturalmente deve essersi reso conto della forzatura del proprio ragionamento, che lo avrebbe potuto esporre ad osservazioni critiche e, correttamente, conclude il proprio discorso inserendo una sorta di gradazione della capacitas iniuriarum, da valutarsi nelle fattispecie dubbie – come nelle situazioni in cui fosse coinvolto un impubes – con un esame al fine di verificare se effettivamente esistessero i presupposti per valutare come compiuta iniuria una lesione o meno. Naturalmente la gradazione della capacità di prefigurazione delle conseguenze dannose di un fatto colloca gli eventi cagionati dagli impulsi animali fra le situazioni assolutamente non riconducibili alle fattispecie trattate dal plebiscito aquiliano[61].

 

 

3. – Segue: D. 4.3.7.6 e dubbi casistici sulla scelta dell’azione da esperirsi

 

Esposto fino a questo punto l'insieme delle fonti utili a delineare la lesione provocata da un cane aizzato contro un bersaglio, ritengo utile, esclusivamente ai fini di proporre un panorama dettagliato della questione, riportare un ulteriore frammento

 

D. 4.3.7.6 (Ulpianus 11 ad ed.) Si quadrupes tua dolo alterius damnum mihi dederit, quaeritur, an de dolo habeam adversus eum actionem. Et placuit mihi, quod Labeo scribit, si dominus quadrupedis non sit solvendo, dari debere de dolo, quamvis, si noxae deditio sit secuta, non puto dandam nec in id quod excedit.

 

Se dalle prime parole del passo ci saremmo aspettati una dissertazione sulla tipologia d’azione da impiegarsi, come effettivamente avviene in altri frammenti contenuti nel titolo D. 9.2 (fra i quali non sfugge D. 9.2.11.5), in questo caso Ulpiano – oppure, come si vedrà, più probabilmente i Compilatori[62] nello sfrondare le monografie loro pervenute – pare abbia preferito concentrarsi su un momento successivo dell’iter processuale.

Il passo introduce la questione giuridica partendo da una brevissima descrizione della fattispecie (concisa al punto che della dinamica dei fatti nulla è possibile dire, nemmeno se si stia effettivamente parlando di cane o piuttosto di pecus) dalla quale desumiamo che un quadrupede sia stato realizzatore materiale di un danneggiamento nei confronti di beni in proprietà di un soggetto diverso dal proprio dominus. Nello svolgersi dei fatti troviamo coinvolte tre persone, a fronte di quattro fattori compresenti che servono alla composizione del caso, identificabili come il danneggiato – attraverso gli occhi del quale il fatto viene brevemente esposto –, il generico responsabile del danno ‘alterius’ (ideatore pienamente conscio delle conseguenze della propria istigazione dell’animale, avendo egli agito ‘dolo’), il quadrupede autore materiale della lesione patrimoniale e, naturalmente, il suo dominus. Secondo il Digesto il testo, tratto dal commento all’editto di Ulpiano, sarebbe favorevole alla concessione di un’actio doli nei confronti del vero istigatore dell’animale; secondo questa prospettiva l’actio de dolo verrebbe presentata sostanzialmente come formula processuale alternativa ad un’actio de pauperie (riconoscibile anche per la menzione della eventuale dazione nossale dell'animale) nel caso in cui questa fosse destinata a non portare all’attore alcuna reintegrazione del danno patito in quanto il ‘dominus quadrupedis non sit solvendo’. Sommariamente esposta la situazione, Ulpiano riferisce quale sia stato l’oggetto del parere richiestogli dal cliente danneggiato: stabilire se ci fosse o meno la possibilità di agire con un’actio de dolo nei confronti dell’istigatore dell’animale. Il passo non ci gratifica con una risposta generale poiché si concentra su una questione più ristretta, in quanto la ragione ultima del responsum chiesto al giurista risiede nelle parole ‘si dominus quadrupedis non sit solvendo’. Verosimilmente, infatti, la legittima preoccupazione del danneggiato doveva essere quella relativa al contegno processuale più efficace da tenere nella eventualità in cui, condannato il legittimato passivo, questo non avesse i mezzi per adempiere all’obbligazione derivante dalla propria condanna.

Sempre in considerazione della laconicità del giurista[63], si prospettano due possibili ricostruzioni del suo pensiero che, come avrò modo di esporre fra poco, si rivelano, a mio parere, entrambe inadatte alla comprensione del pensiero dell’allievo di Papiniano e del caposcuola proculiano, per lo meno volendo ragionare in termini classici, richiedendo le riforme introdotte  con l’avvento della cognito extra ordinem. In mancanza di chiarimenti sul momento in cui si palesi la situazione di insolvenza del dominus convenuto, volendo difendere strenuamente la classicità e l’autenticità di questi concetti, si rendono astrattamente percorribili due ricostruzioni della vicenda, qualificate da un diverso grado di verosimiglianza: ipotizzare che questa condizione si sia manifestata o prima della proposizione dell’actio de pauperie nei confronti del padrone dell’animale – scelta di fatto obbligata volendo agire contro questo soggetto – oppure pensare ad una impossibilità di adempimento divenuta evidente solo in un momento successivo alla pronuncia della sentenza di condanna.

Affrontando preliminarmente quest’ultima – e meno plausibile – eventualità, poco vi è da dire se non valutare l’inconciliabilità con i principi reggenti il processo dell’epoca classica di una riproposizione (contro un soggetto diverso oppure, al limite, contro il medesimo) di una nuova causa in merito ad una ‘res iudicata’ (in questo caso non si tratterebbe neppure di una controversia semplicemente ‘in iudicio deducta’)[64].

Purtroppo le deduzioni possibili in merito a D. 4.3.7.6 non sortiscono migliori risultati nel caso si ipotizzi un’insolvenza del legittimato passivo nota prima della proposizione dell’azione. Il dubbio del cliente danneggiato sulla possibilità di convenire in giudizio l’istigatore dell’animale, presumibilmente solvibile, sarebbe stato in questo caso giuridicamente più interessante del precedente ma, con tutta probabilità, ugualmente destinato ad essere frustrato dalle possibilità offerte dalla procedura civile romana dell’epoca classica. Partendo da questa seconda ipotesi il giurista, preclusa la strada maestra della richiesta di una azione contro il padrone dell’animale danneggiatore, spinto – forse – dalla ricerca dell’aequitas, cerca una via alternativa[65] per giungere alla composizione del danno e risolve il dilemma affermando ‘dari debere de dolo’, ma, forse non del tutto convinto della soluzione prospettata, specifica ulteriormente il proprio parere (questa volta in modo più aderente a quanto già noto) evidenziando come l’aver effettuato la dazione nossale dell’animale, autore materiale del danneggiamento, sia ragione sufficiente per escludere ogni tipo di ulteriore azione a reintegrazione del danno, a prescindere da qualsiasi considerazione in merito alla effettiva copertura dei danni con il valore dell’animale dato a nossa (‘si noxae deditio sit secuta, non puto dandam nec in id quod excedit’).

Il problema dell’insolvenza del primo chiamato viene affrontato quindi cambiando non solo il bersaglio dell’azione ma anche la sua stessa tipologia. Sul fatto che vi sia stata una riconsiderazione del legittimato passivo non vi è dubbio alcuno, posto che il frammento è chiaro nell’individuare la responsabilità della lesione arrecata in capo al solo aizzatore dell’animale, unico soggetto cui sia attribuibile un comportamento doloso, mentre si profilano seri dubbi sulla teoria giuridica esposta. Il passo, inserito nel titolo D. 4.3, sede delle dissertazioni in tema di dolus malus, si presenta come indiziato fortemente di alterazioni[66] principalmente a causa dell’incompatibilità con le disposizioni che regolano, in linea generale, l’esperibilità dell’actio doli in considerazione della sussidiarietà[67], sua caratteristica saliente[68]. Partendo da logiche processuali tipiche del processo per formulas, rimarrebbe inascoltata l’esigenza di concedere un’azione sussidiaria, di cui l’actio doli dovrebbe essere il paradigma[69], in presenza di qualsiasi formula teoricamente idonea a raggiungere risultati analoghi.

L’Albanese, dopo aver messo in luce come la sussidiarietà dell’actio doli non sia necessariamente una caratteristica irrinunciabile per questa azione[70], si schiera a favore di una diversa ricostruzione  ipotetica del tenore originale di questo passo. L’Autore, convinto della drastica soppressione del contenuto originale della seconda parte del frammento[71] – da 'si dominus' fino al termine – vede nel brusco passaggio dalla seconda persona singolare al dominus quadrupedis e nell’inusuale composizione della struttura della frase 'quaeritur an de dolo habeam adversus eum actionem' riscontri concettuali e formali della propria teoria per cui  l’intervento postclassico o compilatorio avrebbe avuto il fine di sopprimere ogni riferimento all’actio utilis ex lege Aquilia[72]. Sulla ragione, invece, che ha portato a sostituire quanto soppresso del testo originale con il riferimento all’actio de pauperie, Albanese ipotizza l’intervento di un modesto giurista postclassico all’oscuro dei presupposti di questa azione[73].

Il redattore di D. 4.3.7.6 conclude il passo con la puntualizzazione del fatto che l'azione de dolo non possa essere concessa nel caso di dazione nossale dell'animale che ha provocato il danno. Questa possibilità per il convenuto di liberarsi della propria responsabilità non può che far pensare ad un impiego in prima battuta di un'actio de pauperie[74] sennonché sappiamo dal più corretto (in funzione della sua collocazione specifica in seno al Digesto) frammento 1.6, contenuto nel titolo D. 9.1, che l'applicazione della actio de pauperie sarebbe dovuta essere esclusa in ogni ipotesi di dolosa istigazione dell'animale.

 

D. 9.1.1.6 (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si instigatu alterius fera damnum dederit, cessabit haec actio.

 

Temo, in accordo anche con il Macqueron[75], pur non potendo sottoscrivere la sua ipotesi ricostruttiva per mancanza di elementi testuali avvaloranti, che il passo, pur nella quasi completa identità fra la situazione in esso riportata ed il caso riferito in D. 9.2.11.5, da cui la mia esegesi è partita, non possa aggiungere alcunché a quanto già noto, per via delle manifeste incongruenze giuridiche in esso inserite, tali da rendere quanto meno improbabile una sua riferibilità ad Ulpiano – suo presunto autore – oppure a Labeone, in esso menzionato.

 

 

4. – Responsabilità oggettiva, actio de pauperie e comportamento ‘contra naturam’ come elemento utile per la qualificazione del tipo di danno

 

Tornando ai dati di maggior attendibilità in nostro possesso, si può constatare come all'interprete del diritto si ponesse il quesito su come giungere ad una composizione pecuniaria degli inevitabili danni – in una realtà variamente popolata da animali in funzione delle esigenze agricole, di pastorizia, di trasporto e via dicendo – cagionati da animali. Mentre la lex Aquilia, dunque, si occupa della composizione delle lesioni animali cagionate, dolosamente o colposamente, dall’azione dell’uomo, l'ordinamento romano ha fatto riferimento, praticamente lungo l'intero corso della propria storia, all'actio de pauperie per rendere giustizia nelle situazioni in cui tali lesioni non fossero direttamente imputabili ad una persona.

Nei passi che riporterò di seguito, tratti dall'avvio del titolo 9.1 del Digesto, sono sintetizzati, sempre da Ulpiano, i presupposti ed i requisiti posti alla base della dell'azione de pauperie ed il concetto stesso di depauperamento che questa azione aveva il compito di ricomporre.

 

D. 9.1.1pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Si quadrupes pauperiem fecisse dicetur, actio ex lege duodecim tabularum descendit: quae lex voluit aut dari id quod nocuit, id est id animal quod noxiam commisit, aut aestimationem noxiae offerre.

 

D. 9.1.1.2 (Ulpianus 18 ad ed.) Quae actio ad omnes quadrupedes pertinet.

 

D. 9.1.1.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Ait praetor 'pauperiem fecisse'. Pauperies est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu caret.

 

D. 9.1.1.4 (Ulpianus 18 ad ed.) Itaque, ut Servius scribit, tunc haec actio locum habet, cum commota feritate nocuit quadrupes, puta si equus calcitrosus calce percusserit, aut bos cornu petere solitus petierit, aut mulae propter nimiam ferociam: quod si propter loci iniquitatem aut propter culpam mulionis, aut si plus iusto onerata quadrupes in aliquem onus everterit, haec actio cessabit damnique iniuriae agetur.

 

L’azione viene presentata, con queste chiare e sintetiche parole, come un istituto di origine antichissima, decemvirale per la precisione, e di valore costantemente accettato dall’ordinamento romano, che venne accolto nelle disposizioni edittali per essere definitivamente inserito, come dimostra la sua collocazione nel Digesto, anche nel diritto giustinianeo. Si può affermare certamente che le finalità dell'actio de pauperie, come quelle della lex Aquilia trovino il loro comune denominatore nella protezione del patrimonio di un soggetto, inteso in senso strettamente materiale, attuabile con la persecuzione di chi sia stato causa del suo decremento[76].

In accordo con quanto viene esposto in D. 9.2.5.1 (non per nulla entrambi i passi sono stati estrapolati dai compilatori dal diciottesimo libro del commento all’editto di Ulpiano) gli animali non sono imputabili di iniuria per mancanza delle doti di discernimento che possono comportare la prefigurazione delle conseguenze, legali e materiali, di un proprio atto. In questa sede, a riprova della grande rilevanza che questa distinzione comporta nell’ordinamento, troviamo l’indicazione di un termine tecnico, pauperies, con il quale è possibile descrivere la fattispecie di danneggiamento provocato da un animale che si comporti seguendo i propri impulsi naturali piuttosto che gli ordini impartiti dal dominus.

Dal concetto stesso di pauperies proviene dunque la spiegazione della sostanziale differenza fra l’actio legis Aquiliae e quella de pauperie anche in merito alle aggressioni di cani: mentre nella prima l’animale è visto semplicemente come uno strumento a disposizione della volontà dell’uomo, nel secondo esso viene in considerazione come soggetto danneggiante secondo un’autonoma volontà lesiva, causata da stimoli di natura diversa. In particolar modo il legislatore romano ha inteso includere in queste previsioni i danneggiamenti causati dalla 'volontà' dell’animale, ma solo quando questi fossero dettati non tanto da una indole particolarmente aggressiva, bensì da qualche ragione che inducesse a definire innaturale (contra naturam) il comportamento dell’animale stesso. Torna ad essere fondamentale in questa sede il discorso inizialmente accennato circa la tipologia dell’indole del cane. Infatti, volendo affrontare la questione in modo analitico, bisognerebbe specificare, partendo dalla constatazione della natura mixta dell’indole del cane, che – pur non essendovi ai tempi dei romani la moltitudine di razze canine cui oggi siamo abituati, esito per la maggior parte del fantasioso ed instancabile impegno degli allevatori degli ultimi secoli – esistessero, come per tutti gli esseri viventi, non solamente cani individualmente dall’indole più aggressiva ed altri più propensi a reazioni moderate, ma anche razze diverse e dalle caratteristiche di specie[77] più portate alla aggressività di altre.

In accordo con quanto contemplato nel titolo D. 9.2, riproponendo evidentemente le stesse difficoltà di quantificazione patrimoniale del danno già prese in considerazione[78], questa azione contempla espressamente sia i danneggiamenti causati da animali ad esseri umani in funzione della finalità della reintegrazione del patrimonio (del soggetto leso o del pater), sia quelli subiti dagli schiavi o da animali ad opera di altri quadrupedes, come nell’ipotetico caso di un combattimento – D. 9.1.1.11 – fra un ariete e un toro[79].

Salta agli occhi il fatto che in questa sede non rilevino delle classificazioni degli animali basate sulla loro tipologia economica, come nel caso della lex Aquilia, ma vengano inserite delle distinzioni solamente in funzione dei loro comportamenti innati. Ne discende dunque il fatto che Ulpiano parli semplicemente di ‘quadrupedi’[80], senza prendere in considerazione la loro funzione all’interno delle attività produttive (come invece aveva fatto nel caso dei pecudes) e, contemporaneamente, limiti al minimo indispensabile i riferimenti all'indole tipica della loro specie, come in altri casi può essere dedotto dall’uso di termini quali bestia o fera[81], con attenzione al loro comportamento ed alla possibilità o meno di giungere ad un asservimento dell’animale. Il giurista in questa sede preferisce limitarsi ad un apprezzamento di tipo morfologico che poco può aggiungere alla individuazione degli animali compresi in questa fattispecie, se non grazie alla esclusione degli insetti, dei volatili e degli ofidi[82]. Come dimostra il frammento D. 9.1.1.4, sempre facendo riferimento ad un giurista del passato per dar maggior forza alla propria tesi, Ulpiano afferma ‘ut Servius scribit, tunc haec actio locum habet, cum commota feritate nocuit quadrupes’, ad indicare come il comportamento dell'animale debba essere stato dettato da uno stimolo esterno che lo spinga ad un comportamento non prevedibile in quanto, parafrasando le parole del giurista, esso sia definibile come pauperies contra naturam data. In questa linea di pensiero si colloca naturalmente l’ultima specificazione contenuta in

 

D. 9.1.1.7 (Ulpianus 18 ad ed.) Et generaliter haec actio locum habet, quotiens contra naturam fera mota pauperiem dedit: ideoque si equus dolore concitatus calce petierit, cessare istam actionem, sed eum, qui equum percusserit aut vulneraverit, in factum magis quam lege Aquilia teneri, utique ideo, quia non ipse suo corpore damnum dedit. At si, cum equum permulsisset quis vel palpatus esset, calce eum percusserit, erit actioni locus[83].

 

Il giurista in questa sede, contrariamente ai passi precedentemente analizzati, pone la sua attenzione sulle motivazioni che possono aver spinto l'animale a provocare il danno, specificando che queste debbano essere riconducibili ad un impulso contrario all'indole stessa dell'animale: gli elementi sui quali intendo soffermare la mia attenzione coinvolgono l'espressione ‘contra naturam’ utilizzata da Ulpiano e l'ultima frase di cui il frammento in analisi si compone.

Fattore discriminante per valutare l’applicabilità dell’azione è la valutazione del comportamento animale in funzione di un metro di paragone formulato, purtroppo, in modo ellittico: il giurista parla di un comportamento anomalo (o innaturale) senza specificare se il termine di paragone debba essere quello tipico dell’animale stesso, oppure se si debba prendere come riferimento quello usuale degli esemplari della stessa specie[84]. Aderire ad una interpretazione piuttosto che all’altra implica ripercussioni giuridiche notevoli poiché, adottando il primo criterio, sarebbe da un lato semplice per il dominus liberarsi del dovere di risarcimento, affermando che il proprio animale è solito aggredire ogni persona che gli si avvicini, e dall’altro implicherebbe per il danneggiato un onere della prova impossibile da sostenersi. Il dubbio giuridico deve risolversi, quindi, in favore dell’interpretazione per cui il comportamento con cui rapportarsi per valutare l’aggressività dell’animale danneggiatore sia quello tipico degli esemplari della propria specie, per giunta da valutarsi in condizioni usuali o che potessero essere note alla persona entrata in contatto con l’animale. Questo, naturalmente, in considerazione sia di ragioni di aggravio probatorio in sede processuale sia, dal lato pratico, per l'impossibilità da parte di un terzo di rapportarsi a priori in modo corretto con il singolo animale – nel momento di prendere precauzioni specifiche al fine di evitare un danneggiamento – ritenendo, dunque, valide le norme di prudenza applicabili alla generalità degli animali di tal specie. In altre parole, tornando alla materia specifica delle mie considerazioni, non è possibile da parte dell'ordinamento pretendere che un terzo tenga rispetto al cane di Tizio un comportamento difforme e più cauto rispetto a quello che terrebbe nelle stesse circostanze nei confronti di qualsiasi altro cane, quanto meno della stessa specie o grandezza[85].

L'espressione contra naturam viene impiegata nella terminologia dei giuristi romani in diverse situazioni[86], per lo più in contesti figurati in cui non è possibile ravvisare, a differenza del passo in oggetto, una così immediata connessione logica con i comportamenti innati di una specie animale, uomo compreso. Il passo di Ulpiano delinea l'actio de pauperie come adeguata ad una situazione in cui un quadrupede[87] abbia provocato una lesione, valutabile in relazione alle sue conseguenze patrimoniali, agendo in modo difforme rispetto alle inclinazioni della propria specie. Ponendo dunque in correlazione questo passo ed il contenuto di D. 9.1.1.4[88], anche se in questo ultimo testo non vi sono riferimenti diretti al cane, è possibile farsi una idea chiara di cosa Ulpiano ritenesse un comportamento contra naturam. Detto questo, non posso esimermi dal dar conto del parere di Macqueron il quale vede la mano dei compilatori, all’interno dei passi inseriti nel titolo D. 9.1, nei costanti riferimenti alla espressione contra naturam[89].

In D. 9.1.1.7 si ripropone lo stretto collegamento concettuale fra le due azioni fino ad ora esaminate, ponendo l'accento sul fatto che la pauperies data non debba essere riconducibile ad un comportamento umano. Tale impostazione dell’istituto si può verificare nel passo in cui un cane veniva aizzato dal proprio conduttore, in questo la lesione è riconducibile ad un moto di reazione dell'animale, dovuto ad una sensazione di dolore causata da una percossa o dal suo ferimento[90]. Ritengo particolarmente utile, al fine di escludere che il contra naturam possa essere riferibile in qualche modo alla tipologia di danneggiamento più consona alle reazioni dell'animale, piuttosto che alle circostanze in cui esso si è verificato, il confronto tra due passaggi, rispettivamente dell'ultimo frammento citato, 'ideoque si equus dolore concitatus calce petierit [...] cessare istam actionem' e quello rinvenibile in D. 9.1.1.4 'haec actio locum habet, cum commota feritate [...] si equus calcitrosus calce percusserit'. In considerazione del fatto che in essi è contemplata la stessa tipologia di danneggiamento materiale, derivato da un calcio di un cavallo, stante una differente tipologia di azioni intentabili, si può immediatamente dedurre che la differenza fra le due situazioni non possa consistere né nella tipologia – identica – del danneggiamento, né nel fatto che sia stato l'animale stesso a decidere di reagire in un certo modo. Sembra abbastanza evidente, infatti, la differenza con il caso in cui Ulpiano si esprimeva con le parole 'canem irritaverat et effecerat, ut aliquem morderet' (D. 9.2.11.5), ad indicare, a mio avviso, il fatto che l'aggressività dell'animale fosse stata incanalata ed indirizzata verso un bersaglio in modo mirato e deliberato. Nel caso in esame l'accento viene posto sul fatto che l'azione dannosa deve essere stata esclusivamente effetto della risposta sproporzionata dell'animale ad una situazione di normalità e, dunque, sia stata conseguenza di un comportamento anomalo e riconducibile ad un vizio[91] (come tale non imputabile al terzo danneggiato a causa di una propria imprudenza, nell’accezione di comportamento colposo) del carattere dell'animale stesso.

La chiusa del frammento in analisi ('at si, cum equum permulsisset quis vel palpatus esset, calce eum percusserit, erit actioni locus') conferma questa visione dei fatti, soffermandosi sulla situazione in cui la reazione lesiva dell'animale – nel caso esposto del cavallo quasi sicuramente diretta contro un terzo e lo stesso possiamo legittimamente dedurre anche nel caso di un morso di cane – sia stata provocata non da un dolore infertogli, bensì da un semplice tocco o dalle normali carezze che si è soliti rivolgere a questo tipo di animali.

 

 

5. – Segue: damnum ‘contra naturam’. La relazione fra il criterio responsabilità, danno provocato ed atteggiamento tenuto come criterio di valutazione delle diverse tipologie di danni arrecabili da un cane

 

Concluso l'accenno alla questione della tipologia dei comportamento contra naturam di un animale, ritengo sia il caso di applicare alla fattispecie di mio principale interesse quanto ritenuto valido sia da Ulpiano sia dai compilatori giustinianei. L'osservazione di quanto avviene nella realtà fornisce lo spunto per due considerazioni distinte: in primo luogo è rilevante la questione materiale della attribuzione ad un soggetto della responsabilità per un danneggiamento subito da altri per essere stato in prima persona la ragione di una lesione, oppure per aver  tenuto un comportamento non adeguato alle regole di prudenza necessarie nel momento in cui si ha a che fare con un animale. In particolar modo D. 9.1.1.4 è chiaro nello spiegare che esistono dei comportamenti generalmente accettati i quali, come tali, debbono essere ritenuti leciti dall'ordinamento nel momento di decidere su chi ricada l'onere di sopportare le conseguenze patrimoniali del danneggiamento. Solamente nel momento in cui un terzo abbia tenuto un comportamento irreprensibile dal punto di vista della comune prudenza, ed in seguito a questo si sia verificato un comportamento anomalo (dunque né preventivabile né prevedibile) da parte del cane, rispetto a quello che un suo simile avrebbe tenuto nelle identiche circostanze, si può ritenere che il padrone dell'animale debba essere oggettivamente responsabile del danno cagionato, soggiacendo così alle normali conseguenze che l'actio de pauperie comporta. Quest'ultima affermazione, corretta nella sua sostanza, merita in ogni caso di essere specificata ricordando il fatto che in periodo decemvirale, epoca di creazione di questa previsione legislativa, l'animale veniva sentito come primo responsabile del danno e, come tale, la composizione della questione dovesse passare attraverso la sua consegna nelle mani del danneggiato in modo che, con la sua stessa vita, potesse estinguere lo squilibrio causato nella pace della comunità dalla sua azione lesiva[92]: solo in un secondo tempo venne introdotta l'alternativa in favore del dominus dell'animale di liberarsi dalla propria responsabilità offrendo semplicemente il valore dell'animale[93].

In secondo luogo, quanto si può dedurre dall’espressione contra naturam riferita al comportamento di un animale, specialmente un carnivoro come il cane, il quale, come tutti gli appartenenti a questa categoria, ha ovviamente a disposizione strumenti naturali d’offesa adatti al fine di procacciarsi il cibo, offre lo spunto per analizzare il fatto che un animale ha la facoltà di infliggere un danno non solo grazie all’uso di queste caratteristiche fisiche innate, ma anche con comportamenti potenzialmente non violenti e non diretti alla realizzazione di una lesione. Si sarebbe potuta proporre una lettura del damnum contra naturam come un danneggiamento provocato con modalità difformi da quelle impiegate tipicamente dall'animale nei suoi atteggiamenti aggressivi[94]. Dalla osservazione empirica dei fatti risulta la possibilità per un cane – specialmente se di grosse dimensioni – di ledere, oltre che impiegando il proprio morso, anche provocando la caduta di un soggetto (si pensi al caso limite di un anziano) in seguito ad esempio ad un balzo, eventualmente causato dalla volontà di accogliere calorosamente piuttosto che aggredire. Per quanto non sia da escludersi in senso assoluto l’interpretazione in questo senso della formula espressiva in oggetto, e sia indiscussa l'opinione per cui l’interpretazione della legge abbia seguito per lunghi periodi la via della assoluta fedeltà al dato letterale delle parole, ritengo altamente improbabile che i giuristi romani intendessero in questo senso il concetto di damnum contra naturam datum in considerazione delle modalità espressive impiegate e soprattutto della casistica esposta. Resta il fatto che un cane effettivamente possa provocare delle lesioni anche in modo diverso dal morso[95] e che queste, ricorrendo i requisiti di punibilità, possano e debbano essere sanzionate in modo identico alle altre lesioni da essi procurate.

Riguardo alla questione del danno cagionato incidentalmente senza aggressività[96], per esempio facendo inciampare una persona disattenta o facendole perdere attivamente l’equilibrio, non ritengo vi sia la possibilità di ottenere una composizione del danno a meno di non affrontare una costruzione probatoria molto complessa[97], tale da mettere in luce l’assoluta incolpevolezza del soggetto lesionato mediante la dimostrazione della totale anomalia del comportamento animale, posto che la condotta delle bestie mantiene sempre un margine di inestinguibile imprevedibilità.

 

 

6. – Lesioni avvenute in spazi aperti al pubblico e responsabilità del dominus

 

Rimanendo sulla questione della responsabilità oggettiva del dominus dell'animale nell'ambito della tipologia del comportamento dovuto all'indole del cane, individuato singolarmente, in relazione ai requisiti dell'esperibilità dell'actio de pauperie, un frammento pare essere molto interessante.

 

D. 9.1.2.1 (Paulus 22 ad ed.) Si quis aliquem evitans, magistratum forte, in taberna proxima se immisisset ibique a cane feroce laesus esset, non posse agi canis nomine quidam putant: at si solutus fuisset, contra.

 

Il frammento si presenta immediatamente come un caso pratico, probabilmente tratto direttamente dalla realtà, malgrado l'indicazione della sua provenienza dai libri di commento all'editto. Si tratta della situazione in cui un quis, di cui non si specifica neppure lo status giuridico, se ingenuo o servile, entrato per qualche ragione all'interno di un esercizio pubblico, al fine di evitare l'incontro con qualche persona sgradita o con un magistrato[98], venga assalito e morsicato da un cane definito apertamente come ferox. Paolo, a questo punto, riporta il parere di non meglio identificati giuristi di non concedere una azione contro il danneggiamento compiuto dall'animale, per poi esprimere parere decisamente contrario – ‘at si solutus fuisset, contra– nel caso in cui questo fosse stato privo di legami e dunque libero di circolare per il locale.

Evidentemente, ancora una volta, piuttosto che centrare l'attenzione sulle conseguenze dell'azione, ed in particolar modo sulla questione della quantificazione dei danni subiti dal soggetto leso, l'interesse del giurista si volge verso il cardine della responsabilità per danneggiamento provocato da animali: definire i casi in cui il loro comportamento possa essere ritenuto nella norma, mettendo quindi in discussione la responsabilità soggettiva del dominus (in base alla lex Aquilia o all'edictum de feris) per non essere stato in grado contenere la pericolosità dell'animale o per averlo lasciato in un luogo di passaggio, ed i casi in cui, al contrario, il padrone potesse essere punito per responsabilità oggettiva mediante la concessione di una actio de pauperie. A prima vista però si può rilevare come il passo presenti una certa anomalia nei confronti dei consueti presupposti di quest'ultima azione se bisogna ritenere universalmente valido il principio – D. 9.1.1.7 – ‘Et generaliter haec actio locum habet, quotiens contra naturam fera mota pauperiem dedit’ non solo per la collocazione in posizione iniziale del titolo D. 9.1 ma anche per la sua costante vigenza nell'ordinamento[99], in funzione del quale l’aggressività deve essere scatenata da ferocia inusuale per la specie.

La constatazione dell'incongruenza del concetto attribuito a Paolo induce Macqueron[100] a non escludere che esistano ragioni per cui il giurista potrebbe aver trattato di un cane feroce, non essendo stato ancora introdotto in quel momento il concetto di azione contra naturam da parte dell'animale, fatto che ricondurrebbe il concetto al pensiero dei compilatori e starebbe ad indicare una interpolazione del testo originale. Mi permetto di notare come, fra i vari mali riconducibili ai giuristi postclassici ed alle, talvolta, numerose manchevolezza della loro preparazione non sia lecito annoverare la mancanza di opportunità e logica. Pur nella brevità dei tempi loro concessi per la stesura delle Pandette, non mi sembra possibile attribuire la grossolana svista di inserire, a distanza di poche righe l'uno dall'altro, due concetti in evidente contrasto, tanto meno se in relazione ad una questione centrale. L'esistenza di un'aporia sarebbe inoltre aggravata dal fatto che essa si troverebbe nella sede di trattazione specifica dell'argomento e non di di due passi che – per fatalità – si sono trovati in contrasto e vicini ma in una parte del Digesto in cui l'attenzione dei compilatori era focalizzata su altre questioni giuridiche. Preferisco pensare in questo caso, piuttosto che ad una loro grossolana interpolazione, ad una specificazione volta a dirimere nel caso concreto quella che in precedenza ho definito, parafrasando le parole dei Glossatori, l'ambiguità della natura del cane, in bilico fra la mansuetudine e l'aggressività. Senza bisogno di far riferimento a particolare fantasia ed a interpretazioni forzatamente conservative, ma solamente ad una dose di concretezza, mi sembra possibile interpretare questa indicazione sul comportamento 'ferox' dell'animale, come del resto conclude Macqueron[101], come un riferimento all'attitudine del cane a compiere attivamente e fattivamente il compito al quale era stato preposto dal proprio padrone: la guardia e la difesa della proprietà. Da parte di un dominus sarebbe stato infatti un completo non senso affidare la protezione dei propri beni a chi non avesse i requisiti per adempiere efficacemente il compito.

Quanto risulta invece più interessante è il particolare cambiamento di opinione che viene prospettato nella conclusione del passo in merito alla applicabilità di questa azione. La prima presa di posizione, riferita a giuristi non meglio identificati, contiene la negazione dell'azione in oggetto nella situazione in cui il danneggiamento fosse stato provocato da un cane legato all’interno del negozio[102], per attribuirla invece nel caso in cui questo danno fosse stato provocato da un cane libero di circolare in esso, senza vincoli a protezione delle persone che vi si trovavano. Quello che mi chiedo, vista l'esistenza di antichi mosaici[103] che chiaramente, con scritte e immagini, rappresentano il pericolo di venire morsi da un cane di guardia presso l'ingresso delle abitazioni private, è come sia possibile ricostruire la fattispecie della taberna, descritta dal giurista, in modo che questa sia coerente con le soluzione giuridica adottata. Dal punto di vista dei concetti generali di responsabilità la collocazione dell'animale da guardia, perché venisse stabilita l'impossibilità di agire efficacemente in giudizio, sarebbe dovuta essere tale, secondo l'elevato livello di diligenza minima richiesto all'esercente, da non essere né di pericolo né d'intralcio per i clienti. Se fosse stata sottointesa una prassi commerciale per cui ogni potenziale avventore potesse e dovesse accedere all'interno della taberna per poter concludere l'acquisto dei beni in essa posti in vendita sarebbe assolutamente logico punire l'imprenditore che avesse lasciato un animale feroce nella zona comune. Non sarebbe altrettanto logica la sua completa irresponsabilità nel lasciare un animale simile, benché legato, in un luogo[104] ove potesse danneggiare comunque i clienti o in funzione della sua collocazione o per dell'eccessiva libertà consentitagli dalla catena.

La situazione sarebbe mutata invece, ma ancora in modo insoddisfacente, nel caso in cui il fatto descritto si fosse riferito ad un avvenimento occorso durante le ore notturne o comunque di chiusura, lasciando quindi margine per intendere il magistratum citato nel passo come un soggetto preposto alla guardia notturna delle vie[105], quale il praefectus vigilum[106]. Nei momenti di chiusura dell'esercizio si deve però supporre che un cane da guardia non solo potesse essere legittimamente posto presso un ingresso, come il frammento effettivamente consente, ma che nelle facoltà del dominus ci fosse la possibilità di lasciarlo sciolto e libero di circolare per il locale, per meglio svolgere il suo ruolo di guardia[107].

Una ultima ipotesi, che permetterebbe di conciliare una parziale punibilità del commerciante e spiegare la stranezza della situazione rappresentata nel frammento, è la quella per cui la taberna descritta non fosse altro che un piccolo spaccio posto su una via[108], in cui esclusivamente il commerciante ed i suoi eventuali aiutanti potessero trattenersi all'interno di una struttura chiusa e verosimilmente coperta, intenti alla vendita di cibi ai passanti. In una situazione di questo tipo gli avventori non avrebbero avuto necessità di entrare all'interno dell’edificio e dunque la semplice precauzione del tenere l'animale legato all'interno del banco di vendita avrebbe impedito l'imputabilità del danno al negoziante, malgrado il fatto che il semplice accesso nel locale potesse così risultare pericoloso per il passante. A conforto di questa ipotesi nel caso prospettato nel frammento D. 9.1.2.1 l'accesso, per quanto verificatosi nelle ore diurne, non sarebbe in ogni caso stato motivato dalla volontà di commerciare quanto da un altro fine non meglio identificato[109]. In ogni caso il lasciare il cane da guardia sciolto sarebbe stato punibile proprio per la potenziale pericolosità dell'animale e per i rigorosi vincoli di responsabilità di un imprenditore nello svolgimento della propria attività commerciale.

Il danneggiamento provocato da un cane lasciato libero all'interno di una taberna, ad eccezione della situazione del tentativo notturno[110] di furto, doveva essere sanzionato, secondo le parole attribuite a Paolo, mediante la dazione nossale dell'animale oppure per mezzo della datio del suo equivalente economico[111]: una commisurazione sicuramente blanda del danno arrecato e quasi certamente inferiore – ad esempio – al risarcimento della parcella del medico, necessario alla guarigione del danneggiato.

 

 

7. – Le precauzioni idonee ad impedire i danni ai terzi

 

Come ho già avuto modo di evidenziare in precedenza, i comportamenti che l’actio de pauperie si propone di contrastare sembrano far riferimento sia alla cosiddetta responsabilità senza colpa od oggettiva del dominus dell’animale (D. 9.1.1.4) sia alla responsabilità per colpa, come dimostra, prendendo proprio ad esempio il cane, il seguente passo[112]

 

D. 9.1.1.5 (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si canis, cum duceretur ab aliquo, asperitate sua evaserit et alicui damnum dederit: si contineri firmius ab alio poterit vel si per eum locum induci non debuit, haec actio cessabit et tenebitur qui canem tenebat[113].

 

Ulpiano descrive una situazione in cui un conduttore, non riuscendo a contenere gli impeti dettati dall’aggressività del proprio animale – il quale è quasi certamente condotto al guinzaglio[114] e non semplicemente sotto il suo sguardo – non può essere altro che spettatore delle lesioni provocate ad un terzo che bisogna supporre – dato il silenzio in merito del giurista – assolutamente incolpevole della evoluzione dei fatti. In primo luogo è bene notare, secondo il pensiero dell’Albanese[115] e del Macqueron[116], come l’incipit del frammento sia sintomatico di una contrapposizione con un qualche caso precedente, di cui non si conserva traccia,  a soluzione del quale il giurista era propenso per la concessione dell’actio de pauperie, idea con la quale evidentemente i compilatori o furono in disaccordo o ritennero semplicemente superflua. Nell’analisi della situazione si comprende che Ulpiano, ancora una volta volendo troncare sul nascere le possibili discussioni in merito all’indole del cane, in relazione ai requisiti di esperibilità dell’actio de pauperie[117], li risolva implicitamente in modo favorevole dando per scontata la possibilità di agire qualora la ragione per cui l’animale abbia provocato un danno possa essere definibile ‘asperitate’. Presupposta l'applicabilità teorica dell'actio de pauperie, il giurista scende nel dettaglio della fattispecie per indicare come sia preferibile ricorrere ad altre soluzioni giuridiche – chiaramente ci viene detto ‘haec actio cessabit’ – nel caso in cui, oltre alla mordacità del cane, vi siano state delle concause a favorire il verificarsi dell'aggressione: le circostanze in cui questa lesione si è verificata, piuttosto che l’indole dell’animale, di cui meglio e più ampiamente si parla in altri frammenti, sono il fulcro giuridico di questo passo.

Nella prima situazione – in cui si ipotizza che qualcun' altro sarebbe stato in grado di evitare la fuga del cane – la responsabilità del dominus (‘tenebitur qui canem tenebat’) mette in secondo piano la responsabilità oggettiva per il comportamento dell'animale nel momento in cui il conduttore, avendo evidentemente tenuto un comportamento colposo[118], o non avendo le capacità fisiche per far fronte agli improvvisi istinti aggressivi dell’animale, non sia stato in grado di reagire prontamente ed efficacemente per contrastarli. In relazione a questa situazione il giurista severiano non dimentica di specificare un termine di paragone[119], ‘contineri firmius ab alio poterit[120], al fine di valutare equamente l’operato del conduttore del cane[121]. Malgrado le specificazioni che in seguito mi propongo di evidenziare[122], ritengo ancora una volta si manifesti lo stretto collegamento fra questa azione e quella contemplata nel titolo successivo del Digesto.

Si propone, dunque, un immediato confronto fra il passo in discussione ed il seguente, questa volta tratto dall’opera di commento di Gaio all’editto provinciale, per evidenziare come la situazione esposta dai giuristi sia sostanzialmente la medesima, tranne per un fattore cui accennerò tra breve, a riprova del fatto che Ulpiano non potesse che aver in mente l’actio legis Aquiliae nel momento in cui scrisse quel generico ‘tenebitur’.

 

D. 9.2.8 (Gaius 7 ad ed. provinc.) […] Mulionem quoque, si per imperitiam impetum mularum retinere non potuerit, si eae alienum hominem obtriverint, volgo dicitur culpae nomine teneri. Idem dicitur et si propter infirmitatem sustinere mularum impetum non potuerit: nec videtur iniquum, si infirmitas culpae adnumeretur, cum affectare quisque non debeat, in quo vel intellegit vel intellegere debet infirmitatem suam alii periculosam futuram. Idem iuris est in persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel infirmitatem retinere non poterit.

 

In questo passo la situazione prospettata pare essere sostanzialmente identica a quella precedentemente descritta ed il giurista provinciale non ha dubbio alcuno, stando alla collocazione in cui i compilatori lo inserirono nella loro opera, nel classificare la fattispecie come suscettibile di concessione di un'azione aquiliana. In questo frammento  Gaio affronta il caso di un trasporto di un qualche materiale per mezzo di un carro condotto un mulattiere, cioè da un professionista dei trasporti. Durante il tragitto però le mule, normalmente scelte per la loro maggiore mansuetudine rispetto ai maschi della loro specie, effettuarono qualche movimento anomalo e repentino – impetum – che il mulio per propria imperizia non riuscì a contrastare, con l'effetto di causare la morte di uno schiavo altrui. Il giurista prosegue l’analisi della situazione specificando che non sarebbe servita a scusare la culpa del cocchiere nemmeno la temporanea incapacità fisica, poiché un soggetto consio delle proprie condizioni fisiche, inadatte allo svolgimento di una attività potenzialmente pericolosa, avrebbe dovuto astenersene. Ugualmente nel caso in cui il mulio, anche in buona fede, avesse ritenuto conciliabile il proprio stato di salute con lo svolgimento del lavoro, sarebbe stato  responsabile delle lesioni provocate poiché, applicando la diligenza del solerte artifex, non avrebbe dovuto sopravvalutare le proprie potenzialità (vel intellegit vel intellegere debet infirmitatem suam alii periculosam futuram).

Il passo in analisi si discosta da quello relativo alla fattispecie del conduttore del cane per l'unico fattore di essere riferito ad un soggetto nell'atto di svolgere una attività di tipo professionale, fatto certamente non assimilabile a quello di una persona che conduca un cane lungo una strada. Sul confronto delle due situazioni, l’attività dell'artifex – incentrata sul concetto di imperizia – e quella non professionale, pesa però la frase terminale di D. 9.2.8. Essa suggerisce infatti un’identica disciplina circa l'obbligo di diligenza e di persistenza di un idoneo stato fisico anche per una attività – pur sempre tecnica – la quale, in relazione all'epoca ed alle consuetudini esistenti, non poteva essere considerata parificabile a quella di un professionista: cavalcare un cavallo. Il passo si chiude infatti con le parole 'Idem iuris est in persona eius, qui impetum equi, quo vehebatur, propter imperitiam vel infirmitatem retinere non poterit'. E’ lampante, inoltre, come le parole ‘idem iuris est’ vengano normalmente impiegate dai giuristi romani per correlare due situazioni fra le quali vi sia una totale identità di soluzione.

In merito alla metodologia espositiva ed allo stato di D. 9.1.1.5, da cui sono partite le ultime considerazioni, Macqueron[123] fa notare il fatto che l’espressione ‘tenebitur qui canem tenebat’ sarebbe poco adeguata e sicuramente inelegante se riferita alla situazione in cui un soggetto abbia perso il controllo fisico del cane[124]: si può immaginare, leggendo il passo, una situazione in cui al conduttore sia sfuggito di mano il guinzaglio dell’animale. L’Autore aggiunge inoltre «il faut beacoup de volonté pour donné à ‘qui tenebat’ le sens de ‘celui qui tenait le chien avan son évasion». Ritengo però di non poter consentire con l’ultima affermazione dello studioso. In un contesto sicuramente rimaneggiato, in seguito alla separazione dei concetti[125] ricondotti ora al titolo D. 9.1 ora al D. 9.2, all’interno di in una esposizione quasi certamente menomata ed abbreviata, ritengo al contrario che il concetto che i postclassici desideravano trasmettere, giocando sul duplice significato del verbo tenere, fosse esattamente l’inelegante (ma logico) collegamento fra il soggetto che prima della fuga del cane ne fosse materialmente responsabile e la legittimazione passiva dell’azione a riparazione dei danni causati dall’animale[126].

Per concludere i rilievi esegetici circa le situazioni contemplate in D. 9.1.1.5 ed introdurre l’ultima[127] fattispecie disciplinata dalla giurisprudenza romana, bisogna evidenziare come nel passo in analisi, accanto alla situazione di originaria o temporanea incapacità del conduttore di tenere a freno gli impulsi dell’animale, sia ricordata la possibilità – ‘vel si per eum locum induci non debuit’ – per cui il danno al terzo derivi da una scelta particolarmente avventata del conduttore il quale, non previsti o sottostimati i rischi, abbia deciso di portare con sé l’animale in un luogo non adatto alla sua presenza. Posto che il frammento si apre con l’esplicita menzione della spiccata tendenza alla aggressività del cane, non sembra una ipotesi lontana dalla realtà il fatto che esso, in un ambiente affollato o rumoroso o comunque tale da indurlo in uno stato di agitazione – immagino un mercato o una via particolarmente trafficata – reagisca in modo violento ed eventualmente anche indiscriminato, senza una specifica provocazione oppure contro il soggetto sbagliato, non riuscendo ad identificare correttamente il responsabile di una spinta o di una piccola lesione. Anche in questo caso, come nel precedente, il giurista risolve la questione affermando che l’azione diretta contro l’animale[128] cui il pensiero dell’interprete avrebbe dovuto volgersi immediatamente – proprio questo automatismo ne rende inutile, per il giurista, l’esplicita menzione – non poteva essere concessa dall’ordinamento (cessabit) e dunque si dovesse ricorrere ad una soluzione diversa.

Il Cannata[129] risolve, in questo caso, la questione della tipologia di azione concessa in luogo dell’antico rimedio contro il danneggiamento da animali in modo unitario[130], attribuendo sia contro il conduttore incapace sia contro quello imprevidente una azione basata sulla legge Aquilia. Ciò è senza dubbio verosimile in funzione della collocazione originaria del passo ulpianeo, ma non bisogna dimenticare che i passi del libro XVIII del commento all’editto di Ulpiano sono stati ampiamente impiegati, dando fede alle inscriptiones che dei frammenti inseriti nel Digesto, come fonte della disciplina delle situazioni riguardanti sia il danneggiamento aquiliano, sia quello provocato da animali. Quanto invece mi fa propendere per una soluzione di stampo diverso è l’esistenza di un editto di origine edile, il quale pare disciplinare esattamente la situazione prospettata all’interno del frammento. Il provvedimento cui mi riferisco è noto con il nome di edictum de feris ed ha come scopo precisamente la disincentivazione dei comportamenti che potevano mettere a rischio l'incolumità del traffico pedonale nelle strade a causa degli animali feroci, tramite la previsione di una sanzione pecuniaria commisurata al risarcimento del danno provocato.

La questione giuridica prospettata all’interno di questo frammento mi pare debba essere sciolta abbandonando la linearità e la semplicità espositiva propria dei giuristi classici. Anche considerando i dubbi suscitati dalla affermazione ‘tenebitur qui canem tenebat’, di cui ho già dato cenno, e l’esistenza di una previsione edittale specifica a rimedio dei danneggiamenti causati da animali feroci, ritengo possibile che in questa situazione i compilatori abbiano utilizzato, probabilmente sintetizzando o abbreviando un brano più ampio, una espressione volutamente ambigua per porre l’accento sul fatto che l’aggressività dell’animale fosse tale da escludere l’applicazione dell’actio de pauperie. Nulla dicono sulla natura dell’azione da applicarsi ma, proprio in base a questa esposizione decisamente concisa, all’interprete doveva risultare chiaro che la situazione dell’animale sfuggito al proprio conduttore e quella del cane deliberatamente condotto in un luogo affollato richiedessero distinte discipline. Nel caso della incapacità sarebbe stata naturalmente adeguata la soluzione aquiliana, mentre per l’incauto comportamento nulla sarebbe stato più appropriato dell’edictum de feris. Certamente non deve essere consentito leggere i testi in modo da mettere in bocca ai giuristi parole non dette, ma l'illogicità dell’applicazione di una sanzione punitiva generale, quale quella derivante dall'azione aquiliana, in considerazione dell'esistenza di rimedi più calzanti, specifici nonché onerosi – dal punto di vista pecuniario – in modo praticamente analogo, quali le sanzioni dell'edictum de feris, mi portano a pensare che l'azione aquilana, in simili situazioni, potesse essere denegata in favore di altre soluzioni giuridiche più puntuali anche in epoche precedenti [131].

 

 

8. – Responsabilità per colpa e sicurezza nelle strade: l'edictum de feris e la lex Pesolania de cane

 

L'edictum de feris, di origine edile secondo la ricostruzione del Lenel[132], potrebbe aver avuto il seguente tenore

 

Deinde aiunt aediles: 'ne quis canem, verrem [vel minorem], aprum, lupum, ursum, pantheram, leonem qua vulgo iter fiet, ita habuisse velit, ut cuiquam nocere damnumve dare possit. Si adversus ea factum erit et homo liber ex ea re perierit, sesteriorum ducentorum milium, si nocitum homini libero esse dicetur, quanti bonum aequum iudici videbitur, condemnetur[133], ceterarum rerum, quanti damnum datum factumve sit, dupli'.

 

Dal testo edittale si evince immediatamente la consueta suddivisione in due parti delle quali la prima è funzionale all’individuazione delle situazioni contemplate dalla norma, mentre la seconda espone il contenuto della sanzione comminabile nel caso di trasgressione della norma stessa. Se la prima parte dell'enunciato – corrispondente al primo periodo fino a 'dare possit' – non pone problemi, individuando per mezzo della correlazione ‘et–et’ le situazioni che avrebbero potuto portare ad una condanna (vale a dire l'aver portato in un luogo pubblico un animale potenzialmente pericoloso, in associazione al verificarsi di una lesione provocata da questo comportamento[134]), sulla seconda parte della ricostruzione di questa clausola dell'editto curule vi sono dei dubbi. Già Lenel accompagna la propria opera ricostruttiva dell'editto ponendo fra la prima e la seconda parte del testo ricostruito l'affermazione «Hier hört das Zitat auf und beginnt ein, dem Ediktwortlaut sich übrigens eng anschließendes Referat», evidentemente certo – come dopo di lui sarà Guarino[135] - del fatto che il cambiamento di tono nell'esposizione di Ulpiano fra le due parti del testo implichi uno iato fra la fedele riproduzione delle antiche parole del testo edittale e la libera riproposizione del suo contenuto.

La ricomposizione delle parole degli edili curuli si basa su quanto è possibile rinvenire in seno al Digesto, più precisamente a partire dalle parole di Ulpiano nel titolo primo del ventunesimo libro del Digesto dedicato al 'De aedilicio edicto et redhibitione et quanti minoris'.

 

D. 21.1.40.1 (Ulpianus 2 ad ed. aedil. curul.) Deinde aiunt aediles: 'ne quis canem, verrem vel minorem aprum, lupum, ursum, pantheram, leonem',

 

D. 21.1.41 (Paulus 2 ad ed. aedil. curul.) et generaliter aliudve quod noceret animal, sive soluta sint, sive alligata, ut contineri vinculis, quo minus damnum inferant, non possint,

 

D. 21.1.42 (Ulpianus 2 ad ed. aedil. curul.) 'qua vulgo iter fiet, ita habuisse velit, ut cuiquam nocere damnumve dare possit. Si adversus ea factum erit et homo liber ex ea re perierit, solidi ducenti, si nocitum homini libero esse dicetur, quanti bonum aequum iudici videbitur, condemnetur, ceterarum rerum, quanti damnum datum factumve sit, dupli'.

 

Come si può notare, il Lenel ha espunto dal testo della compilazione quella che deve aver ritenuto una glossa, principalmente esplicativa, tratta da un commentario di medesimo argomento di Paolo. Inoltre si può vedere come, rispetto al tenore dell'opera giustinianea, il giurista tedesco abbia eliminato una parola evidentemente fuori dal proprio contesto, supponendo un errore di trascrizione[136], presumibilmente di un copista il quale deve aver duplicato il termine 'maialem'[137] con l'assonante (ma illogico) 'minorem'[138], oltre ad aver ricondotto la prevista pena pecuniaria alla moneta in circolazione al periodo dei due giuristi classici, effettuando quindi la conversione da solidi a sesterzi[139].

Il contenuto dell'edictum de feris, chiaro quanto condivisibile nella sua sostanza, consiste nella disposizione, emanata dai soggetti responsabili del mantenimento dell'ordine e della sicurezza all'interno dei mercati ed in generale lungo le strade della città[140], che proibiva, stabilendo per i trasgressori una sanzione pecuniaria, di provocare dei danni connessi al comportamento di un animale pericoloso portato in un luogo inappropriato (come una strada) per la presenza di persone. L’obiettivo di minimizzare questi danni veniva perseguito indirettamente, evitando di porre il rigido divieto di trasportare o, comunque, di far sfilare questi animali per le vie della città ma imponendo a carico del proprietario della fera un severo ed oneroso risarcimento dei danni eventualmente provocati.

Nella antologia dei Compilatori viene chiarito immediatamente dal passo d’apertura di Ulpiano, evidenziando come si tratti di una citazione letterale delle parole degli aediles[141], il fatto che in questa fattispecie di danneggiamento vengano contemplate le lesioni arrecate da quelle che sembrerebbero categorie distinte di animali. Nell’elencazione degli animali definiti feroci ne troviamo da un lato, infatti, di particolarmente temibili come lupi, orsi, pantere e leoni, mentre dall'altro vengono enumerati, in posizione preminente, altri di natura sicuramente non mansueta, come ho inizialmente premesso, ma di modesto spicco, di utilizzo diverso, nonché di provenienza (ciò vale anche per i lupi) meno esotica. Gli animali di questo gruppo, accettando la lectio che vorrebbe l'espunzione delle parole 'vel minorem', sono il cinghiale, il maiale[142] e – primissimo fra gli animali ricordati – il cane. Il passo tratto dall'opera di Paolo, si innesta – spezzandola – in questa enumerazione al fine di far intendere come questo elenco non debba essere letto dall'interprete come tassativo e possa, dunque, essere analogamente compresa nella disciplina ogni lesione provocata, in circostanze analoghe, da altri animali ugualmente pericolosi in potenza: si noti in questa prospettiva come il termine impiegato sia volutamente neutro e non rispecchi una connotazione d'innata ferocia.

Dal giurista severiano, inoltre, viene espressa la ragione della pericolosità insita nella bestia accennando al fatto che essa non potesse essere tenuta a freno, al fine di poterle impedire di arrecare danno a terzi, né facendo ricorso a 'vincula'[143] né tanto meno, senza il loro ausilio, per mezzo della sola autorità del conduttore.

Per concludere le riflessioni in merito all'incipit dell’editto in analisi direi solamente che la frequenza[144] dell'avverarsi di questo tipo di lesioni non solo giustifica l'esistenza di una norma la quale preveda specificatamente un danneggiamento ad opera di un cane ma anche il suo inserimento in prima posizione nella elencazione esemplificativa del legislatore, il quale non esitò ad anteporlo anche a quello, quasi certamente letale, provocato da una pantera o da un leone.

Di fatto emerge dai passi in esame come la responsabilità, una volta condotto l'animale in un luogo ad esso inadatto, in quanto frequentato da persone o schiavi, sia automaticamente attribuita al conduttore dell'animale, o eventualmente al suo dominus, senza possibilità di far valere come scusante il tentativo di trattenere l'animale. Si noti parallelamente, nell’ambito aquiliano, la diversità di disciplina ravvisata dai giuristi nel momento in cui si stabilisce (D. 9.1.1.5) la punibilità del conduttore qualora un soggetto diverso sarebbe potuto riuscire a trattenere l’animale (dall’aggredire o dal fuggire). In questo secondo caso, invece, vista la maggiore pericolosità dell’animale, non viene lasciata al conduttore alcuna possibilità per escludere la propria responsabilità: l'imprudenza del soggetto cui la cura dell'animale era affidata, dunque, farebbe passare in subordine ogni eventuale ulteriore considerazione in merito alle ragioni per cui il danneggiamento si fosse realizzato. In questo caso, rispetto alle altre situazioni di responsabilità extracontrattuale esaminate fino a questo momento, pare chiaro il motivo per cui il legislatore romano possa essere arrivato ad una scelta di tale rigore nei confronti del padrone dell'animale: mentre nelle situazioni in cui si fossero verificate delle pauperiae vi potevano essere ragioni di utilità, di produttività o di semplice opportunità che giustificassero la presenza di una animale a contatto con i terzi, in una situazione di questo tipo non ne possiamo ravvisare alcuna, se non la sconsideratezza e probabilmente lo spirito di ostentazione che può aver spinto il conduttore a far mostra dell'animale in pubblico[145].

 

 

9. – Frammenti di età tarda ed una illogica disposizione sulla sicurezza nelle strade

 

La norma edittale – D. 21.1.42 – si spinge ancora innanzi nel sanzionare il dominus imprudente con la esplicita previsione, senza necessità di sofferte integrazioni giurisprudenziali, di sanzioni pecuniarie diverse a seconda non solo dell'entità della lesione arrecata ma anche dello status giuridico del terzo danneggiato. Ulpiano fa riferimento infatti in primo luogo ad una sanzione pecuniaria fissa nel caso in cui un 'homo liber ex ea re perierit'[146] riportando la previsione di una pena che, nel sesto secolo, era pari a duecento solidi (dunque probabilmente nel terzo secolo poteva consistere in duecento mila sesterzi): un fatto che ben si accorda con l'impossibilità di quantificare secondo parametri diversi il valore della vita di un uomo libero. Il frammento contempla, sempre in relazione al caso in cui il danneggiato fosse un ingenuus, la possibilità della semplice lesione ed, in questo caso, il riferimento è alla più classica modalità espressiva circa la libertà di quantificazione lasciata al giudice del processo formulare: il 'quanti bonum aequum iudici videbitur, condemnetur'[147]. Resta dubbio quali fossero in concreto i fattori che il giudice potesse tenere in considerazione, ma pare probabile, in accordo con i criteri propri del danneggiamento aquiliano, che egli potesse valutare il danno emergente provocato al terzo – da commisurarsi alle spese mediche affrontate – ed il lucro cessante per la ridotta capacità fisica[148].

Per quanto riguarda invece l'uccisione oppure il danno patito da un terzo di condizione servile il passo si chiude con la previsione di una condanna in duplum rispetto al valore del danno provocato. Si può notare come in questo caso emergano dei criteri di quantificazione della condemnatio non solo molto più onerosi rispetto a quelli propri dell'actio de pauperie, ma anche molto simili, escludendo la questione del maggior valore raggiunto della res entro un precedente lasso di tempo, a quelli delle disposizioni relative al danneggiamento aquiliano, con l'aggravio che in ogni caso si potesse arrivare ad una pena in duplum e non solamente come conseguenza dell'infitiatio da parte del convenuto[149]. Entro questi termini, dunque, l'esegesi di Cannata in merito a D. 9.1.1.5 – in cui si descrive la lesione provocata dal cane che per propria asperitas sfugge al controllo del conduttore in culpa – coglie nel segno trattando in modo unitario sia il caso in cui l'animale sia sfuggito per inettitudine – si contineri firmius ab alio poterit sia l'ipotesi del danno prodotto per imprudenza del conduttore il quale abbia portato il cane in un luogo non idoneo.

Interessa, inoltre, mettere in luce quanto emerge dalle fonti in merito alle precauzioni attive che il conduttore avrebbe dovuto tenere, per evitare i danni e le conseguenti sanzioni, nel frequentare luoghi in cui vi fossero altre persone. Pochi passi sono pervenuti da fonti tecniche a darci un'idea di quale dovesse essere il limite di queste attenzioni e, purtroppo, nulla di certo dicono sul periodo classico, poichè tratti dalla Lex Romana Burgundiorum – dell'inizio del VI d. C. – e dalle Pauli Sententiae, un'opera forse riconducibile al pensiero del giurista Paolo, ma di origine quasi sicuramente postclassica.

 

L.R.B. 13.2 De cane etiam sub eodem titulo comprehensum, ut, si quis saevum canem habens in plateis vel in viis publicis in legamen diurnis horis non redegerit, quidquid damni fecerit, a domino solvatur.

 

PS. 1.15.1a Si quis saevum canem habens in plateis vel in viis publicis in ligamen diurnis horis non redegerit, quidquid damni fecerit, a domino solvatur.

 

Come si può notare i due passi sono ampiamente coincidenti[150], oltre ad essere entrambi inseriti nel contesto della trattazione dell'actio de pauperie[151]. Purtroppo anche in questo caso l'esegesi dei frammenti conduce a numerosi dubbi sulla loro autenticità ed effettiva applicazione nel caso di un animale condotto in una via o in una piazza, a causa dell'elemento contenuto nell'incipit di entrambi i passi. Se devono essere infatti ritenuti validi i presupposti di applicabilità dell’azione contro le pauperiae non si comprende, ancora una volta, come sia possibile riferire la soluzione giuridica ad un cane definito come feroce o terribile (‘saevum’)[152].

Ad ogni modo i passi prevedono, nel caso di actio de pauperie, di actio ex edicto de feris (come ritengo maggiormente probabile) o di qualunque fosse l'azione applicabile contro il dominus dell'animale convenuto in giudizio, una responsabilità anche nell'ipotesi in cui costui avesse predisposto per il cane – ‘in ligamen redegerit’ – quello che definiremmo un guinzaglio[153]. Dunque l'imprudenza del conduttore nello scegliere il luogo dove condurre l'animale feroce non poteva essere bilanciata, ai fini di evitare una condanna, dalla predisposizione di misure di sicurezza che alla prova dei fatti (si tratta dunque di una valutazione a posteriori) fossero risultate comunque insufficienti.

In merito alla prassi, o forse all'obbligo, di tenere vincolati gli animali potenzialmente pericolosi, si potrebbe citare un ulteriore passo estrapolato sempre dalle Pauli Sententiae, il cui valore purtroppo risulta probabilmente scarso.

 

PS. 1.15.2 Feram bestiam in ea parte qua populo iter est, colligari praetor prohibet. Et ideo, sive ab ipsa sive propter eam ab alio alteri damnum datum sit, pro modo admissi extra ordinem actio in dominum vel custodem datur, maxime si ex eo homo perierit.

 

Questo enigmatico frammento si presenta, al di là delle evidenti ma fuorvianti ragioni di punteggiatura, diviso in tre parti: nella prima si rinviene, rimanendo volutamente generici, una affermazione di carattere generale ‘praetor prohibet’ riguardante un divieto imposto a tutta la collettività presente sul territorio urbano – senza rilevanza alcuna per la condizione giuridica dei destinatari del provvedimento – circa una condotta (‘colligari’) che il responsabile dell’animale avrebbe dovuto evitare nel caso in cui l’animale oggetto di questa azione fosse qualificabile come feroce. La seconda parte del passo ‘et ideo - datum sit’, indicato il comportamento proibito, prosegue riportando, parrebbe, il parere interpretativo del giurista (‘et ideo’) su quali fossero le situazioni concrete per cui fosse possibile ottenere l’intervento pretorio. La terza parte del frammento, invece, abbandonata la descrizione delle fattispecie contemplate nelle parole del pretore, espone le modalità giudiziali attraverso le quali sarebbe stato possibile ottenere la composizione della lite.

L’estensore di queste frasi, privo di ogni dubbio, esclude qualsiasi forma processuale diversa dalla cognitio extra ordinem, troncando di netto il dilemma procedurale dei giuristi vissuti in un’epoca di convivenza di più sistemi processuali[154].

Le parole del giurista inoltre ci informano concretamente in merito alla legittimazione passiva del convenuto, indicando come valida citazione in giudizio sia quella del dominus sia quella del custode dell’animale feroce. Il frammento si conclude quindi con una considerazione di livello – direi – paragiuridico, mettendo in rilevo come la possibilità di convenire in giudizio, in modo alternativo fra loro, i due soggetti sopra indicati debba essere ritenuta valida a maggior ragione nel caso in cui un soggetto, in seguito all’aggressione dell’animale feroce, avesse subito lesioni tali da non sopravvivere alle ferite riportate (‘maxime si ex eo homo perierit’). Naturalmente nulla si può imputare sul piano della correttezza a questo corollario che completa la precedente affermazione del giurista. Incuriosisce, semmai, che non vi sia nulla nel ragionamento a conclusione del passo di tanto insolito da meritare una esplicita menzione, specialmente se rapportato al tenore normalmente più che elevato dei ragionamenti cui ci hanno abituato i frammenti delle opere di Paolo o del florilegio composto a partire da queste dai Compilatori. Certamente non è solo logico ma è soprattutto equo considerare punibile un comportamento identico – dunque ugualmente antigiuridico – ad uno sanzionato dall’ordinamento (la lesione fisica semplice causata dalle stesse tipologie di animali), in mancanza di rimedi qualitativamente diversi da applicarsi in casi particolarmente gravi ma dalle conseguenze innegabilmente deteriori. Infine, da un punto di vista formale, la chiusura del frammento dunque lascia il dubbio che, in aggiunta alle particolarità che segnalerò di seguito, si sia verificata l’inclusione di una annotazione di un lettore dell’opera nel testo vergato dal discepolo di Papiniano.

Queste poche righe di testo, attribuite a Paolo, si rivelano di interpretazione quanto meno non immediata per colui che tenti di ricomporre le circostanza descritta dal giurista severiano. La parte iniziale del passo ‘Feram bestiam […] colligari praetor prohibet’, continuazione di quello pseudo-paolino citato precedentemente, descrive un’anomala prescrizione normativa per cui il magistrato, evidentemente con finalità di protezione dell’incolumità dei passanti in luoghi aperti al pubblico, proibisce di tenere legato l’animale feroce (‘in ea parte qua populo iter est’). La prima lettura del concetto esposto conduce naturalmente ad un risultato inaccettabile[155]: non solo non viene vietata la presenza di animali feroci in luoghi di pubblico passaggio, ma parrebbe che venga esplicitamente fatto divieto di tenere al guinzaglio il proprio animale. Non solo l’improbabilità di questa disposizione mette in allarme il lettore, ma anche l’evidente correzione della carica ricoperta dal magistrato che ha emanato questa legge pare essere il sintomo di un intervento di modificazione del tenore originale del testo. Risulta, infatti, piuttosto strano pensare, per casi di relativa frequenza, ad una sorta di usurpazione delle competenze degli edili da parte del magistrato gerarchicamente loro superiore. La somma di queste due particolarità, in poco più di dieci parole, spinge dunque ad approfondire l’analisi dell’incipit del passo per comprendere quale fosse effettivamente il comportamento vietato.

Una prima ipotesi, in linea con il pensiero di Macqueron[156], parte dal presupposto che il giurista volesse dire l’esatto contrario di quanto il testo mostra. Numerosi sono i casi infatti in cui i compilatori, assorbiti dal loro compito di sfrondare dalle parti inutili le opere dei giuristi classici, non lo abbiano svolto in modo perfetto, mal riassumendo i concetti espressi in una lingua di cui ormai non erano più padroni. Seguendo questa linea ricostruttiva la prima frase del brano sarebbe potuta essere del tenore ‘feram bestiam in ea parte qua populo iter est, <secum duci etiam colligatum> [colligari] praetor prohibet’. Naturalmente l’assenza di prove sostanziali e la necessità di ricorrere ad una ampia integrazione del testo esistente inibiscono la possibilità di sposare questa ricostruzione senza riserve. In alternativa, leggendo il testo con un occhio più conservativo nei confronti del suo tenore letterale, il quale però non evita lo stravolgimento del suo illogico contenuto, è possibile ipotizzare – per quanto si riveli una ricostruzione abbastanza improbabile – che l’errore non risieda tanto nella espunzione di una parte fondamentale dell’originario pensiero del giurista, quanto nel fraintendimento (e conseguente correzione sia della forma verbale sia – inevitabilmente, visto il significato del verbo inizialmente utilizzato – degli accusativi dal plurale al singolare[157]) del significato del verbo colligo. Questa forma verbale al presente indicativo è coniugazione sia del verbo ‘colligaresia di ‘colligere. Se si rivelasse corretta questa seconda interpretazione, il contenuto del passo si potrebbe sintetizzare con un divieto, questa volta di buon senso, sebbene di applicazione sporadica, di raggruppare animali feroci in un luogo di pubblico passaggio, come sarebbe potuto accadere nel condurre verso il luogo dello spettacolo gli animali destinati ai ludi oppure alle venationes. Contro questa seconda ipotesi militano gli argomenti circa l’improbabilità di un mutamento così notevole della forma verbale mentre, perlomeno in linea teorica, ritengo non sia da escludersi che fosse stata emanata una norma per impedire che si formasse un assembramento durante l’ultimo tratto del loro trasporto verso il luogo della esibizione – specialmente in occasione degli eventi di maggior sfarzo – di animali feroci destinati agli spettacoli cittadini. L’ultima interpretazione di PS. 1.15.2 ha, a mio avviso, il pregio di non connotare necessariamente i giuristi postcalssici come studiosi non all’altezza dei propri predecessori, al punto di renderli colpevoli senza appello del fraintendimento tanto di semplici nozioni giuridiche quanto di basilari principi di buon senso.

Se è indubbia l’illogicità di vietare ad un soggetto di legare un proprio animale pericoloso, con l’evidente finalità di limitarne la possibilità di nuocere ad altri, si potrebbero però leggere le parole del giurista come un divieto, aggiuntivo rispetto a quello lapalissiano di condurre in pubblico animali pericolosi senza strumenti di protezione, di portare in zone di pubblico passaggio le ferae bestiae anche nel caso in cui esse fossero dotate di guinzagli. Ad ulteriore conforto di questa lettura del frammento è possibile inoltre dire che la mente di un giurista classico non avrebbe concepito che un animale feroce potesse essere lasciato senza vincolo alcuno: un animale selvaggio libero dal controllo di un essere umano non sarebbe stato nemmeno una res compresa nel patrimonio di chicchessia[158], impedendo così non solo la valida concessione di una azione nei confronti di quest’atto imprudente ma anche una qualsiasi possibilità di imputare il danneggiamento verificatosi ad un membro della collettività.

Anche in questo frammento viene considerata con rigore diverso l’ipotesi dell’uccisione del danneggiato piuttosto che il suo semplice ferimento – ‘maxime si ex eo homo perierit ma lascia perplessi la questione della legittimazione passiva alla azione. Il passo, a prescindere da quale potesse essere l’iter processuale adottabile, fa riferimento alla possibilità agire in giudizio in via alternativa ‘in dominum vel custodem’. Naturalmente questo non può che proporre con ancor maggiore forza la questione relativa a quale soggetto potesse essere validamente qualificato nell'editto sugli animali feroci come legittimato passivo dell’azione. Prendendo in considerazione le situazioni precedentemente analizzate possiamo osservare che, mentre nell'actio de pauperie troviamo una responsabilità di tipo oggettivo in capo al dominus dell'animale, non altrettanto possiamo ipotizzare a priori nell'ipotesi dell'azione aquiliana, relativa alle aggressioni dei cani.

Nei danneggiamenti perseguiti con la lex Aquilia in virtù dell'esistenza di un criterio soggettivo di imputazione della responsabilità, sia nel caso questa derivi da dolo (come nella situazione di un cane aizzato contro un bersaglio), sia in quello originato da culpa (si veda il caso del conduttore inabile a trattenere il cane), la sanzione dovrà essere indirizzata verso la persona soggettivamente responsabile. Il danneggiamento colposo si dimostra essere un terreno sdrucciolevole di discussione nel momento in cui si deve constatare un danno ad opera di un soggetto in schiavitù[159]. Per lui, oggetto di proprietà di altri, dovrà in ogni caso essere citato in giudizio il dominus qualora il fatto dannoso si sia verificato nell'espletamento di un ordine ricevuto, sebbene il compito sia stato mal eseguito o comunque senza rispettare le indicazioni del padrone[160]. In questo caso, dunque, la giurisprudenza sfiora nuovamente, senza esprimersi mai apertamente, il principio della responsabilità oggettiva nel momento in cui identifica una responsabilità del padrone – D. 9.2.27.9 […] si neglegens in eligendis ministeriis fuit – per aver mal scelto lo schiavo da adibire ad un certo compito[161]. Per quanto riguarda la situazione di responsabilità affrontata dai giuristi romani in merito agli animali pericolosi bisogna rilevare ancora una volta l'estrema affinità con il plebiscito aquiliano e dunque non stupisce che il ruolo di convenuto nel processo da essa derivante venga ricoperto dagli stessi soggetti pocanzi identificati.

Nell'ambito de feris ci troviamo ad osservare come l’azione presenti, almeno supponendo che i postclassici abbiano mantenuto l'impostazione concettuale dei giuristi loro predecessori, una alternativa logica (‘in dominum vel custodem datur’) fra i due soggetti che concretamente potevano essere alla base della decisione che per imprudenza ha condotto alla lesione dell'ignaro passante[162], senza porre l'accento sul fatto che il conduttore potesse essere semplicemente un detentore del cane. La scelta alternativa fra questi due soggetti non può stupire nel caso di specie, mentre nella ipotesi della responsabilità oggettiva tipica dell'actio de pauperie la ratio della norma è quella di individuare, pur in mancanza assoluta di una colpa, un soggetto cui riferire il pericolo di un comportamento imprevedibile dell'animale[163]. Nella situazione, invece, in cui il danno sia esito o di un impulso dell'animale o di una colpa del soggetto che in quel momento lo aveva sotto il proprio controllo ed esista, inoltre, un nesso di causalità che leghi questa circostanza al verificarsi del danno è il principio stesso d'equità a voler che il legittimato passivo venga riconosciuto nell’individuo che normalmente riceve i benefici dell'opera del cane: l'ordinamento giuridico ritiene preminente la colpa umana sulla reazione dell'animale – da intendersi in ogni caso come suo vizio di ferocitas – ed attribuisce (D. 21.1.42) al soggetto imprudente l'intero onere del risarcimento, eventualmente aggravato dalla sanzione in duplum.

Per concludere mi sembra doveroso far riferimento all’ipotesi in cui si manifesta la particolarità delle situazioni che fino ad ora ho analizzato. Volendo esporre in sintesi le situazioni per cui actio de pauperie ed edictum de feris furono studiati dai giuristi, è possibile affermare che la prima nacque dall'esigenza di attribuire un risarcimento nel caso di damnum provocato da un animale mansueto, mentre il secondo per l'opposta fattispecie di lesione realizzata da una fiera. Come inizialmente ho premesso l'indole del cane non è riconducibile in via esclusiva a nessuno dei due comportamenti – dipendendo dalla situazione concreta – ragion per cui l'eccezionalità della situazione non poteva escludere a priori, stante una diversa natura e funzione originaria delle azioni in questione, un loro cumulo[164], con le conseguenze immaginabili in capo al dominus condannabile[165]. Nel caso – il più semplice in assoluto – del ferimento di uno schiavo altrui, il convenuto riconosciuto colpevole sarebbe incorso nell'obbligo di versare (sommando l'esito delle condemnationes) il triplum della valutazione alla lesione provocata dall'animale o, nel caso volesse approfittare della facoltà di dare a nossa il cane, alla sua dazione ed al pagamento del duplum del danno cagionato.

Se, per certi versi, è possibile rinvenire una protezione multipla da parte dell'ordinamento ciò non vuol dire che per tutte le fattispecie in cui fosse possibile il verificarsi di un danneggiamento provocato da un cane – evito di proposito, per scongiurare fraintendimenti, l'uso di termini specifici quali damnum e pauperies – fosse contemplato un modo per ottenere in qualche tipo di risarcimento.

Un frammento degli scritti attribuiti al giurista Paolo, tramandatoci in due lezioni nelle Pauli Sententiae e nella Lex Romana Burgundiorum – fra loro alquanto diverse[166] – ci narra dell'esistenza di una legge denominata Pesolania, la quale avrebbe avuto come oggetto un aspetto riguardante la disciplina delle ipotesi di lesioni provocate dai cani, tanto che il nel suo stesso nome era compresa la dicitura 'de cane'.

 

P.S. 1.15 Si quadrupes pauperiem fecerit damnumve[167] dederit quive depasta sit, in dominum actio datur, ut aut damni aestimationem subeat aut quadrupem dedat: quod etiam Lege Pesolania de cane cavetur.

 

Purtroppo, dato lo stato delle fonti riconducibili all'epoca classica, malgrado i recenti sforzi compiuti nel tentativo di trarre delle notizie concrete ed attendibili circa la portata della legge che avrebbe dovuto in qualche modo disciplinare direttamente uno o più aspetti collegati alla condotta dei cani, poco o nulla è possibile dire, nemmeno quale fosse originariamente il suo reale nome o l'epoca della sua possibile introduzione nell'ordinamento. Già Cujacio[168] e Pothier[169], smentiti dalla critica attuale[170], si convinsero del fatto che questa legge fosse stata importata nei suoi principi basilari dalla Grecia, fatto per cui il nome tramandato nel passo paolino P.S. 1.15 riporterebbe una lezione corrotta di quello originale, storpiato in Pesolania da Solonia durante una trascrizione del testo, attraverso una incertezza intermedia dei copisti, che avrebbero prima aggiunto un prefisso 'pe' al nome originale, per poi incappare in una sostituzione di vocale.

Sebbene non vi siano gli estremi per pronunciarsi in via definitiva[171], bisogna rilevare che recentemente Caiazzo[172] ha letto nel testo delle Sententiae paoline l'esistenza di una norma volta a estendere l'originario ambito dell'actio de pauperie, in cui la menzione del cane fosse originaria, escludendo che i probabili interventi modificativi occorsi al testo originale abbiano toccato questo aspetto del frammento in modo interpolativo o glossatorio.

Partendo dalla precisazione ulpianea in D. 9.1.1.3 'quae actio omnes quadrupedes pertinet' la studiosa giunge ad affermare che essa sarebbe la riprova dell'estensione dell'applicazione dell'azione di cui tratta il titolo D. 9.1 da un nucleo di ipotesi in cui fosse coinvolto un ristretto di animali (individuato in epoca decemvirale) ad un elenco più ampio, dal quale certamente non poteva essere escluso il cane, espressamente ricompreso – sempre secondo l’Autrice – in quest'ambito di protezione giuridica proprio dalla legge Pesolania. Solo l’emanazione di questa legge avrebbe quindi consentito al convenuto – parallelamente a quanto sarebbe successo in forza della applicazione della normativa sulle pauperies – la dazione nossale dell'animale mordace (o l'offerta della aestimatio noxae) in luogo del pagamento della summa condemnationis[173].

L'Autrice, pienamente convinta della autenticità del contenuto del passo, afferma che esso sarebbe inoltre espressione di una modalità tecnica di estensione delle fattispecie legislativamente introdotte nell'ordinamento sia in tempi abbastanza antichi – III o II a. C. – sia in epoche più recenti fino a quella delle prime applicazioni della cognitio extra ordinem e si spinge fino a proporre una ipotesi circa l’epoca della sua ideazione: «[...] La cronologia della nostra lex può porsi in epoca anteriore a quella in cui è essenzialmente il pretore a svolgere un'attività di integrazione del ius civile. E, dunque, [...] nella media repubblica, forse tra il III ed il II secolo a. C.; periodo nel quale è ancora la legislazione in forma ormai di plebiscito [...] a segnare le novità più significative nel campo del diritto privato»[174].

L'Autrice[175] tenta a sua volta, contestata l'ipotesi del Casavola sui rapporti cronologici fra l'editto sugli animali feroci e l'actio de effusiis vel deiectis[176], di collocare temporalmente l'edictum de feris e la lex Pesolania giungendo al risultato – meramente ipotetico, come essa stessa afferma[177] – di prediligere l'anteriore introduzione dell'editto sugli animali feroci. Posto infatti che l'actio de pauperie è certamente la prima azione a contemplare i danni provocati dagli animali, si può supporre che, una volta introdotta nell'ordinamento anche la norma edile che contemplava gli spazi urbani definiti pubblici o di passaggio, si fosse evidenziata una notevole lacuna circa le lesioni provocate dai cani – come detto, escluse inizialmente dal concetto tecnico di pauperies- al di fuori dei luoghi 'qua vulgo iter fiet'.

 

 

10. – Conclusioni

 

Nelle pagine precedenti, partendo dai pochi passi che esplicitamente prendono in considerazione le ipotesi di danneggiamento causato da un cane, ho tentato di ricostruire il panorama delle azioni a disposizione del danneggiato. Dallo studio delle situazioni vagliate dalla giurisprudenza romana si può constatare come l'ordinamento abbia studiato ipotesi nelle quali la lesione sia derivata da un atteggiamento esclusivamente riconducibile alla volontà dell'animale oppure al dolo o alla colpa del suo conduttore.

Sciolta la questione dell'indole del cane e della sua connotazione come animale feroce o meno, l'actio de pauperie si è presentata come rimedio per i casi, inquadrabili nell’ambito della responsabilità oggettiva, ai quali l'ordinamento ha ritenuto opportuno applicare il principio (solo successivamente formulato in questi termini) per cui ‘cuius commoda eius et incommoda, riconducendo la responsabilità per i danni provocati al dominus che abbia goduto dei benefici lavorativi dell'animale o che potenzialmente (viste le regole sulla dazione nossale, e sulla valida citazione in giudizio anche per danni provocati precedentemente all'acquisto dell'animale) potrà avvantaggiarsene in futuro. Naturalmente, proprio l'impossibilità di imputare al dominus alcun tipo di comportamento in disaccordo con le regole di attenzione, prudenza e diligenza che sarebbe stato opportuno adottare, implica un meccanismo di quantificazione della lesione subita particolarmente benevolo nei confronti del responsabile giuridico. La noxae deditio dell'animale, per lo meno in questo caso specifico, non sembra essere un sistema volto alla punizione del convenuto colpevole, quanto piuttosto un «escamotage» per consentirgli un’agile ed economica via per liberarsi dall'obbligo di composizione del danno patrimoniale provocato.

Nel caso invece di responsabilità per dolo, dunque di esclusivo riferimento all'actio legis Aquiliae, il Digesto mostra un esempio di ferma repressione di un comportamento non solo ingiusto ma anche antisociale e pericoloso quanto l'utilizzo di una qualsiasi arma contro uno schiavo altrui (o un ingenuus, con il limiti evidenziati). In questo ambito il titolo D. 9.2 mostra l'entità e la forza dell'intervento estensivo della giurisprudenza classica nell'ampliare l'ambito d'applicazione del plebiscito aquiliano e nell'abbattere – gradualmente e talvolta in modo sofferto – le originarie limitazioni derivanti dal requisito per cui il danneggiamento  potesse essere sanzionato solo qualora compiuto corpore corpori.

Nella situazione di danneggiamento colposo, causato da imprudenza o negligenza del conduttore, è chiara la finalità di forte repressione e dissuasione (potenzialmente non dissimile da quanto emerge oggigiorno dai provvedimenti del Ministro della Salute) che l'ordinamento romano decise di perseguire nei confronti dei soggetti non sufficientemente abili o energici dal punto di vista fisico, oppure poco avvezzi alle reazioni che un cane può manifestare in alcune circostanze particolari (si pensi per esempio a quanto può essere repentino – nel bene o nel male – il cambio d'umore dell'animale incontrando un proprio simile).

Per quanto riguarda la quantificazione della condanna in ambito aquiliano ritengo si possa trattare, vista la quasi identità delle norme in caso di danno provocato dolosamente o per colpa, delle ultime due situazioni esposte in modo unitario. Se è vero che nei principi generali le due situazioni facenti capo alla lex Aquilia sono perfettamente assimilabili, altrettanto non è possibile dire nella maggior parte dei casi in merito alla condanna concretamente comminabile al reo. Per quanto, sia nel caso di danneggiamento doloso sia in quello colposo, fosse possibile sottrarsi alla condanna assumendosi il rischio di contestare l'accusa – infitiatio – incorrendo, in caso di sconfitta processuale, nel raddoppio della pena calcolata secondo i principi esposti, non è inverosimile pensare che fossero prevalentemente gli accusati di lesioni volontarie a volersi liberare delle accuse, malgrado l'alta posta in gioco. In ogni caso, a prescindere dal fatto che la responsabilità aquiliana fosse imputata al reus a titolo colposo o doloso, la differenza rispetto all'actio de pauperie è palese. In quest’ultimo caso, infatti, il dominus del cane, unico soggetto collegato all'animale da un valido vincolo giuridico – il diritto di proprietà sulla res – e dotato di capacità patrimoniale, veniva inteso come soggetto responsabile del danno provocato benché incolpevole: alla facilità di individuazione del responsabile giuridico del danno fa da controaltare la benevolenza adottata dall’ordinamento nella quantificazione della somma da rifondere, che fungerà esclusivamente da reintegrazione per l’ingiusto danno subito dall’attore senza accanirsi sul futuro condannato poiché irreprensibile dal punto di vista delle precauzioni preventive e della diligenza adottate per evitare il verificarsi della lesione. Nelle fattispecie riconducibili al plebiscito repubblicano, invece, il collegamento fra il danneggiante ed il danneggiato pur non essendo diretto, vista la mediazione strumentale del cane nel procurare la lesione, è pur sempre netto e sufficiente ad imporre, in caso di condanna, una sanzione sicuramente più dura rispetto al caso precedente.

Il caso dell'edictum de feris si presenta in modo ancora diverso rispetto alle due azioni precedenti. Se è immediatamente visibile una comunanza di situazione con l'azione aquiliana, appare del tutto dissimile l’impulso che muove l’ordinamento alla reazione contro le fattispecie contemplate in questo edictum dagli edili. Laddove il danno aquiliano, in funzione dell’ampiezza delle situazioni ad esso riconducibili, creò nella giurisprudenza, col passare dei secoli, una sorta di equivalenza fra questa categoria di fatti giuridici e quella della responsabilità extracontrattuale, l’editto sugli animali feroci presupponeva per la sua applicazione non tanto una condotta semplicemente dolosa o colposa da parte del soggetto incaricato della sorveglianza dell’animale, quanto quella che definiremmo una situazione in cui si possa ravvisare una sorta di presunzione di colpa. L'ordinamento richiedeva per la punibilità che si fosse tenuto un comportamento specifico, individuato a priori con chiarezza dalle parole dell'editto, nel quale fosse possibile ravvisare una particolare pericolosità. Mentre nel titolo 9.2 del Digesto venivano richieste per l’applicazione della lex Aquilia principalmente connotazioni soggettive dell’azione dannosa, rinvenibili nella iniuria, in conseguenza della progressiva svalutazione giurisprudenziale dell’importanza della modalità concreta di realizzazione della lesione, nell’edictum il fulcro della questione era incentrato sulla duplice volontà sia di punire sia, soprattutto, di disincentivare comportamenti in ogni caso potenzialmente dannosi per i terzi, quale quello di condurre in luoghi pubblici animali feroci o, ancor peggio, feroci ed aggressivi, a prescindere da ogni possibile precauzione presa dal dominus dell’animale. Resta naturalmente sottinteso il fatto che, per quanto mal vista, la semplice circostanza di condurre un animale, pericoloso o meno, per le vie della città non fosse di per sé stessa punibile, se a seguito di ciò non si fosse verificata la lesione patrimoniale di un terzo e non vi fosse stato un nesso causale fra l’azione ed il danneggiamento.

In considerazione della difforme finalità dei due provvedimenti, non stupisce che al posto dell’enorme casistica aquiliana, volta ad individuare dei criteri generali ed uniformi per giungere ad un pieno risarcimento del danno patito (eventualmente comprensivo del maggior interesse oltre al semplice danno emergente del dominus ad evitare il danno), si riscontri nella giurisprudenza in tema di edictum de feris una attenzione, per quanto possiamo dedurre dalle fonti, maggiormente incentrata sul comportamento proibito piuttosto che sulla sanzione. Senza bisogno di ripercorrere nuovamente nel dettaglio la casistica esposta da Ulpiano (D. 21.1.40.1-42), basta ricordare che sin dall’origine del provvedimento vennero disciplinate, senza alcun bisogno dell’arduo lavoro d’ingegno dei giuristi, sia la situazione di danno – letale e non – cagionato ad un uomo libero sia quella che possiamo vedere alla base della antica fattispecie aquiliana circa il danneggiamento di proprietà altrui. In questo ambito specifico – in particolare si tratta della lesione ad uno schiavo – il confronto fra i due provvedimenti non lascia dubbi su quali fossero le finalità del legislatore romano, sebbene dalle parole scelte dai giuristi non venga messa particolarmente in risalto la diversità fra le due previsioni: solamente nel caso di negazione della propria responsabilità da parte del convenuto troviamo l’aquiliano 'adversus infitiantem in duplum actio esset' (D. 9.2.2.1), mentre nell’edictum de feris leggiamo 'quanti damnum datum factumve sit, dupli' (D. 21.1.42) a prescindere dal contegno processuale tenuto. Evidentemente sia l’interesse ad una rapida composizione della questione, prescindendo da difficili e probabili problemi probatori, sia la volontà di ridurre al minimo i pericoli per le strade (perlomeno quelli non collegati alla generica criminalità od alle rischiose abitudini degli abitanti delle insulae), portarono alla previsione di una azione che fosse immediatamente in duplum e come tale, nella sua pur più limitata sfera d’applicazione, maggiormente onerosa per il reus.

 

 



 

[1] In tempi recenti il Ministro della Salute G. Sirchia (in carica fino all’aprile del 2005) ha preso posizione in merito alla protezione dei cittadini dalle possibili aggressioni canine con due ordinanze rispettivamente del 9 settembre 2003 (pubblicata nella G.U. n° 212 12/9/2003) e del 27 agosto 2004. Il primo provvedimento del Ministro prevedeva due articoli, nei quali erano indicati divieti ed obblighi spettanti ai proprietari di cani appartenenti a razze potenzialmente pericolose per la pubblica incolumità, individuando come oggetto delle disposizioni dell’ordinanza 91 razze canine appartenenti ai gruppi 1 e 2 della classificazione della Federazione Cinologica Internazionale. Questa ripartizione, originariamente studiata per finalità diverse, opera una distinzione molto sommaria tale da comprendere, oltre cani potenzialmente aggressivi o pericolosi, sia animali notoriamente pacifici come i San Bernardo sia scarsamente temibili come gli Schipperke (che da adulti hanno un peso variabile fra i 3 e gli 8 Kg.). Il primo articolo dell’ordinanza del 2003, ricordato l’obbligo previgente di utilizzare in luogo pubblico sull’animale guinzaglio e museruola, vietava – nei casi in cui queste pratiche fossero volte a fini di aumentarne la pericolosità o l’aggressività – di selezionare delle nuove razze canine mediante incroci, di effettuare addestramenti particolari o sottoporli a doping, una pratica impiegata frequentemente in relazione ai sanguinosi, nonché illegali, combattimenti clandestini. L’articolo 2 prevedeva espressamente il divieto di acquisto, possesso o detenzione dei cani elencati per alcune categorie di persone quali i delinquenti abituali o per tendenza, i soggetti sottoposti a misura di prevenzione personale o a misura di sicurezza personale e per chiunque avesse riportato condanna (anche non definitiva) per delitto non colposo contro la persona o contro il patrimonio, per un reato punibile con la reclusione per un periodo superiore a due anni, chiunque avesse riportato condanna, anche non definitiva, per i reati di cui all'articolo 727 del codice penale, i minorenni, gli interdetti e inabilitati per infermità. Il terzo comma dell’articolo secondo introdusse inoltre l'obbligo per chiunque possegga o detenga cani delle razze di cui sopra a «stipulare una polizza di assicurazione di responsabilità civile per danni contro terzi, definita secondo i massimali e i periodi di durata stabiliti dal Ministero delle attività produttive». La seconda ordinanza, stesa sulla linea della precedente, ne conferma sostanzialmente i contenuti, contemplando fra le tipologie di condanne che implichino il divieto di detenere o avere in proprietà un cane (in aggiunta ai maltrattamenti verso gli animali, disciplinati con il sovracitato art. 727 c.) quelle derivanti dagli articoli 544-ter, 544-quater e 544-quinquies, introdotti dalla legge 20 luglio 2004, n. 189 (pubblicata nella G.U. n. 178 del 31-07-2004), rispettivamente rubricati come “uccisione di animali”, “maltrattamento di animali” e “spettacoli o manifestazioni vietati”. Inoltre anche l’articolo 2 della stessa legge disciplina direttamente una situazione rilevante, trattando della condanna per la commercializzazione delle pelli di questi animali. L’ordinanza del 2004 del Ministro Sirchia si distingue dalla precedente per una netta inversione di tendenza in merito ai criteri alla base della individuazione delle tipologie di animali potenzialmente pericolosi: depennato il riferimento generico alla classificazione stilata dalla Federazione Cinologica Internazionale, si è preferita una più logica individuazione delle singole razze, riducendo nel contesto il numero delle razze canine coinvolte da 91 a 17, con evidente razionalizzazione ed omologazione delle peculiarità morfologiche e caratteriali tali da rendere la potenziale pericolosità di un cane superiore ai limiti accettabili per la comunità.

 

[2] La normativa italiana sulla questione ha trovato un successivo assetto grazie all’ordinanza emanata il 12 dicembre 2006 (successivamente pubblicata in G.U. 13 gennaio 2007, successivamente modificata – in modo ininfluente per la presente trattazione – con ordinanza del 28/03/2007, pubblicata in G.U. n° 104 del 07/05/2007). Rispetto alla disciplina previgente è stato mantenuto l’assetto generale delle norme, contemplando limiti per l’addestramento, la selezione, il doping e gli interventi chirurgici (come il taglio della coda, delle orecchie o delle corde vocali dell’animale) volti ad incrementare l’aggressività dell’animale o a renderlo fisicamente più idoneo ai combattimenti, pratica anch’essa fortemente osteggiata per via dei suoi connotati di violenza e per le sue connessioni con la malavita organizzata. La nuova disciplina della materia prevede all’art. 5, per favorire l’incolumità pubblica, l’introduzione di un archivio presso i servizi veterinari locali in cui venga tenuta traccia dei cani morsicatori e di quelli “con aggressività non controllata”. Quest’ultima categoria, parzialmente coincidente con quella dei cani mordaci o morsicatori, viene individuata come quella del soggetto che “non provocato, lede o minaccia di ledere l’integrità fisica di una persona o di altri animali attraverso un comportamento aggressivo non controllato dal proprietario o detentore dell’animale”. Lo stesso art. 5, comma 3b, prevede, inoltre, l’istituzione presso le ASL di “percorsi di rieducazione” dell’animale per giungere, finalmente, alla conferma dell’obbligo a carico per il proprietario dell’animale di stipulare un’assicurazione per la responsabilità civile per danni cagionati dal proprio animale. Proprio quest’ultima disposizione, per quanto non possa nulla ai fini della prevenzione di eventuali danni ai consociati (salvo effettuare una pressione indiretta per dissuadere i cittadini dall’acquistare o allevare i cani ritenuti particolarmente aggressivi) merita la maggiore considerazione poiché, a mio parere, è la norma più efficace per razionalizzare questo genere di situazioni. Per terminare l’esame della disciplina vigente, rimane da considerare il contenuto dell’art. 6, il quale prevede in modo estremamente vago per i trasgressori degli obblighi contenuti nell’ ordinanza in discussione l’applicazione di sanzioni “a carico delle Amministrazioni competenti secondo i parametri territoriali in vigore”.

 

[3] L'elencazione esaustiva dei passi all'interno dei quali è possibile rinvenire il termine cane comprende pochi testi e dal loro numero, ai fini dell'esame che mi interessa condurre, sarà necessario escluderne diversi che si riferiscono a questioni differenti, quali le venationes o le descrizioni delle modalità con le quali veniva eseguita la terribile poena cullei. Sicuramente in argomento sono D. 9.1.1.5, D. 9.1.2.1, D. 9.2.2.2, D. 9.2.11.5, D. 9.2.29.6, D. 4.3.6, Gai. 3.217, I. 4.3.1, I. 4.3.13, I. 4.9, D. 21.1.40.1-42, PS. 1.15.1a, PS. Int. 1.15.1, L.R.B. 13.1-2, mentre lontani dalla questione in analisi sono D. 33.7.12.12, D. 41.1.44, D. 48.9.9pr.

 

[4] La letteratura in tema di lex Aquilia è certamente molto estesa a causa dell’importanza del tema e della quantità di frammenti estremamente interessanti. Visti gli stretti limiti del presente contributo, mi limito ad elencare, in ordine cronologico, alcune delle più recenti pubblicazioni sugli aspetti generali di questa azione, lasciando alle pagine successive di questo lavoro la citazione puntuale delle ulteriori opere rilevanti: F. De Visscher, L'extension du régime de la noxalité aux délits prevus par la lex Aquilia, in «Symbolae ad Jus et historiam Antiquitatis Pertinentes J.C. Van Oven, Dedicatae», Leiden, 1946, 307, G. Marton, Un essai de reconstruction du développement probable du système classique romain de responsabilitè civile, in «RIDA.», III, 1949, 82 [= Mélanges De Visscher, II, 1949], B. Albanese, Studi sulla legge Aquilia, in «Ann. Sem. Giur. Univ. Palermo», XXI, 1950, 5, J. Macqueron, Le rôle de la jurisprudence dans la création des actions en extension de la loi Aquilia, in «Ann. Fac. de Droit d'Aix-en-Provence», XLIII, 1950, 193 [= Studi Dumas], B. Albanese, Note aquiliane, in «Ann. Sem. Giur. Univ. Palermo», XXIII, 1953, 253-257, B. Beinart, The relationship of iniuria and culpa in the lex Aquilia, in «Studi Arangio-Ruiz», I, Napoli, 1953, 279, A. Biscardi, La litis contestatio nell'ordo iudiciorum, Siena, 1953, S. Solazzi, 'Actio legis Aquiliae' e 'actio legis Corneliae de sicariis' in Gai. 3.213, in «SDHI.», XX, 1954, 321, C. Sanfilippo, Il risarcimento per l'uccisione di un uomo libero nel diritto romano, in «Annali Catania», V, 1955, 125 ss., G. Longo, Appunti esegetici e note critiche in tema di lex Aquilia, in «Annali Univ. Macerata», XXII, 1958, 49, E. Betti, Lezioni di diritto romano. Rischio contrattuale - Atto illecito - Negozio giuridico, Roma, 1959, L. Bove, Voce «Danno» [diritto romano], in «NNDI.», V, Torino, 1960, 143-146, G. Longo, s.v. Lex Aquilia de damno’, in «NNDI.», IX, Torino, 1963, G. Longo, Ricerche romanistiche, Milano, 1966, 713, A. Watson, D. 7.1.13.2 (Ulpian ad Sab.) The lex Aquilia and decretal actions, in «Iura», XVII, 1966, I, 174 ss., Rasi, L' ‘actio legis Aquiliae' e la responsabilità extracontrattuale nella Glossa, in «Atti del Convegno Internazionale di Studi Accursiani (Bologna, 21-26 Ottobre 1963)», II, Milano, 1968, 723, D. Pugsley, The origins of the Lex Aquilia, in «The Law Quarterly Review», LXXXV, 1969, 50, S. Schipani, Responsabilità 'ex lege Aquilia'. Criteri di imputazione e problema della 'culpa', Torino, 1969, D. Pugsley, Causation and confessions in the lex Aquilia, in «TR.», XXXVIII, 1970, 163, C. A. Cannata, Genesi e vicende della colpa Aquiliana, in «Labeo», XVII, 1971, 64, M. Kaser, Das Römiche Privatrecht. Erster Abschnitt: das altrömische, das vorklassiche und klassiche recht. Zweite, neubearbeitete Auflage, München, 1971, 161 ss., E. Valiño, Acciones pretorias complementarias de la accion civil de la ley Aquilia, Pamplona, 1973, L. Barton, The lex Aquilia and decretal actions, in «Daube noster. Essays in legal history for David Daube», Edimburgh–London, 1974, 22 ss., G. Cardascia, La portée primitive de la loi Aquilia, in «Daube noster. Essays in legal history for David Daube», Edimburgh–London, 1974, 53 ss., G. Mac Cormack, Aquilian culpa, in «Daube noster. Essays in legal history for David Daube», Edimburgh–London, 1974, 201 ss., D. Dalla, Giuliano e il 'longum intervallum' in tema di applicazione dell'Aquilia, in «AG.», CLXXXVII, 1974, 145, G. Mac Cormack, Aquilian Studies, in «SDHI.», XLI, 1975, 1, R. Sotty, Recherche sur les 'actiones utiles': la notion daction utile en droit romain classique, Grenoble, 1977, R. Sotty, Les actions qualifiées d utilesen droit classique, in «Labeo», XXV, 1979, 156, H. Ankum, Das Problem der überholenden Kausalität bei der Anwendung der 'lex Aquilia' im klass. röm. Recht, in «De iustitia et iure. Festgabe für U. von Lübtow zum 80 Geburtstag», Berlin-München, 1980, Van Warmelo, A propos de la loi Aquilia, in «RIDA.», XXVII, 1980, , 333, T. Gimenez-Candela, Sobre la 'scientia domini' y la acción de la ley Aquilia, in «Iura», XXXI, 1980, 119-134, G. Mac Cormack, Juristic interpretation of the lex Aquilia’, in «Studi in onore di C. Sanfilippo», I, Milano, 1982, 253, G. Thielmann, ‘Actio utilis und actio in factum. Zu den Klagen im Umfeld der lex Aquilia’, in «Studi in onore di A. Biscardi», II, Milano, 1982, 295, D. Pugsley, On the 'Lex Aquilia' and 'culpa’, in «TR.», L, 1982, 1, Van Warmelo, Les actions autour de la loi Aquilie, in «Studi in onore di A. Biscardi», III, Milano, 1982, 351, H. Ankum, 'Quanti ea res erit in diebus XXX proximis' dans le troisième chapitre de la lex Aquilia: un fantasme florentin, in «Religion, société et politique. Mélanges en hommage à J. Ellul», Paris, 1983, 171, D. Dalla, Azione 'civile' e azione 'criminale' per uccisione, in «Studi in onore di T. Carnacini», III, Milano, 1984 503, U. Von Lübtow, Die Aktionen im Umkreis der 'lex Aquilia' (Abwehr gegen Georg Thielmann), in «Labeo», XXX, 1984, 317, Birks, A Point of Aquilian Pleading, in «Iura», XXXVI, 1985, Napoli, 97, D. Nörr, Texte zur 'lex Aquilia’, in «Iuris professio. Festgabe für Max Kaser zum 80 Geburtstag», Wien-Köln-Graz, 1986, 211, A. Wacke, Defence and Necessity in Aquilian Liability, in «Estudios J. Iglesias», I, Madrid, 1988, 525, A. Wacke, Notwehr und Notstand bei der aquilischen Haftung. Dogmen geschichtliches über Selbstverteidigung und Aufopferung, in «ZSS.», CVI, 1989, 469, R. Robaye, Remarques sur le concept de faute dans l'interprétation classique de la 'lex Aquilia', in «RIDA.», XXXVIII, 1991, 333, C. A. Cannata, Sul testo originale della 'Lex Aquilia': premesse e ricostruzione del primo capo, in «SDHI.», LVIII, 1992, 194, G. Valditara, Superamento della 'aestimatio rei' nella valutazione del danno aquiliano ed estensione della tutela ai non domini’, Milano, 1992, R. Astolfi, Sabino e la 'culpa ex lege Aquilia', in «SDHI.», LIX, 1993, 315, C. A. Cannata, Considerazioni sul testo e la portata originaria del secondo capo della 'Lex Aquilia', in «Index», XXII, 1994, 151, G. Valditara, ‘Damnum iniuria datum’, in «Derecho romano de obligaciones. Homenaye J. L. Murga Gener», Madrid, 1994, 825, G. Valditara, Dall' aestimatio rei all' id quod interest nell'applicazione della condemnatio aquiliana, in «La responsabilità civile da atto illecito», Torino, 1995, 76, C. A. Cannata, Sul testo della 'Lex Aquilia' e la sua portata originaria, in «La responsabilità civile da atto illecito nella prospettiva storico-comparatistica. Primo congresso internazionale ARISTEC. Madrid 7-10 ottobre 1993», Torino, 1995, 25 ss., C. A. Cannata, Il terzo capo della 'lex Aquilia’, in «BIDR.», XCVIIII-XCIX, 1995-96, 111, F. La Rosa, Il valore originario di 'iniuria' nella 'lex Aquilia', in «Labeo», XLIV, 1998, 366, A. R. Martín-Minguijón, Acción civil con caráracter útil. Examen de un supuesto especial, in «SDHI.», LXIV, 1998, 61, G. Valditara, Sulle origini del concetto di damnum, II ed., Torino, 1998, Voci, Azioni penali e azioni miste, in «SDHI.», LXIV, 1998, 1, Ziliotto, L'imputazione del danno aquiliano: tra 'iniuria' e 'damnum corpore datum’, Padova, 2000, S. Lohsse, ‘Canem vel servum tenuit? D. 9.2.11.5 and the applicability of the 'actio legis Aquiliae' in cases involving ananimate objects used for killing, in «TR.», LXX, 2002, 265 ss., A. Corbino, Il danno qualificato e la lex Aquilia, Catania, 2003, in particolare 207-230, nonchè il recente contributo di I. Piro, ‘Damnum corpore suo dare rem corpore possidere'. Loggettiva riferibilità del comportamento lesivo e del possesso nella riflessione e nel linguaggio dei giuristi, Napoli, 2004. Per quanto riguarda la questione dell'actio de pauperie, eccettuati i lavori di Biondi, De Visscher e della Giangrieco Pessi, bisogna segnalare la scarsità di monografie (specialmente a paragone del tema precedente) specificatamente volte allo studio di questo tema: B. Biondi, Le 'actiones noxales' nel diritto romano classico, in «Annali del seminario giur. della R. Univ. di Palermo», X, 1925, 1-366, F. Haymann, Zur Haftung für Tierschaden, in «ZSS.», XLII, 1921, 357, B. Biondi, Problemi ed ipotesi in tema di 'actiones noxales’, in «BIDR.», XXXVI, 1928), 99ss. [= Scritti giuridici, III, Milano, 1965, 369], O. Lenel, Die formeln der 'actiones noxales’, in «ZSS.», XLVII, 1928, 1, U. Robbe, L'actio de pauperie', estratto da «RISG.», VII, 1932, 1, J. Kerr Wylie, 'Actio de pauperie', dig. lib. IX, tit. I, in «Studi in onore di Salvatore Riccobono», IV, Palermo 1936, 461, F. De Visscher, Le régime romain de la noxalité. De la vengeance collective à la responsabilité individuelle, Bruxelles, 1947, B. Biondi, Sistema della nossalità ed azioni nossali, da una rec. a F. De Visscher, Le régime romain de la noxalité, in «BIDR.», LIII-LIV, 1948, 404 ss. [= Scritti giuridici, III, Milano, 1965, 393], F. De Visscher, Il sistema romano della nossalità, in «Iura», XI, 1960, 1, A. Watson, The original meaning of 'pauperies', in «RIDA.», XVII, 1970, 357, B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1972, 528 nt. 17, U. Robbe, v. Pauperies, in «NNDI.», XII, Torino, 1975, H. Ankum, L' 'actio de pauperie' et l' 'actio legis Aquiliae' dans le droit rom. classique’, in «Studi in onore di C. Sanfilippo», II, Milano, 1982, 11, Bonfante, Istituzioni di diritto romano, X, Milano, 1987, 425, G. Provera, Lezioni sul processo civile giustinianeo, Torino, 1989, 320ss., M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 620, 625, V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, XIV, ristampa anastatica, Napoli, 1993, 366, M. Marrone, Istituzioni di diritto romano, Palermo, 1994, 537, F. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, Milano, 1992, 1047, M. V. Giangrieco Pessi, Ricerche sull' 'actio de pauperie'. Dalle XII tavole ad Ulpiano, 1995, A. Guarino, Diritto privato romano, XI, Napoli, 1997, 1000, M. Polojac, Actio de pauperie – domestic and wild animals?, in «Règle et pratique du droit dans les réalités juridique de l’antiquité. Atti della 51a sessione della SIHDA, Crotone–Messina 16-20 settembre 1997», a cura di I. Piro, 1999, 463 ss., D. Dalla, R. Lambertini, Istituzioni di diritto romano, Torino, 2001, 393 ss, G. Scherillo, F. Gnoli, Diritto romano, lezioni istituzionali, Milano, 2002, A. D. Manfredini, Istituzioni di diritto romano, Torino, 2003, 403, M. Polojac, Actio de pauperie and liability caused by animals in roman law, Belgrade, 2003. Non stupisce, invece, circa lo studio dell'edictum de feris la scarsità di letteratura tecnica, visto l'ambito certamente imparagonabile per frequenza di applicazione rispetto alle azioni citate in precedenza. Malgrado questo è necessario ricordare V. Scialoja, Nota critica sul testo dell'editto edilizio 'de feris', in «BIDR.», XIII, 1900, L. Rodriguez Ennes, Delimitacíon conceptual del ilícito edilicio 'de feris', in «Iura», XLI, 1990, 53-78, L. Rodriguez Ennes, Estudio sobre el 'edictum de feris’, Madrid, 1992, L. Rodriguez Ennes, Los actos ilícitos de derecho honorario, in «Derecho romano de obligaciones homaje al profesor José Luis Murga Gener», Madrid, 1994, E. Lozano Corbì, La tenecia de animales peligrosos en lugares de público paso, en el Derecho Romano, y su protección edilicia, in «Actas del II congreso iberoamericano de Derecho Romano», Murcia, 1998, 191 ss., E. Caiazzo, 'Lex Pesolania de cane', in «Index», XXVIII, 2000, 279 ss.

 

[5] D. 9.2.2.2 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Ut igitur apparet, servis nostris exaequat quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur, veluti oves caprae boves equi muli asini. Sed an sues pecudum appellatione continentur, quaeritur: et recte Labeoni placet contineri. Sed canis inter pecudes non est. Longe magis bestiae in numero non sunt, veluti ursi leones pantherae. Elefanti autem et cameli quasi mixti sunt (nam et iumentorum operam praestant et natura eorum fera est) et ideo primo capite contineri eas oportet.

 

[6] I. 4.3.13 Capite tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum, vel eam quadrupedem quae pecudum numero est, vulneraverit, sive eam quadrupedem quae pecudum numero non est, veluti canem aut feram bestiam, vulneraverit aut occiderit, hoc capite actio constituitur [...].

 

[7] Si può constatare l'esistenza di questo concetto già all'interno delle XII tabulae: tab. V, 2 'Mulieris, quae in agnatorum tutela erat, res mancipii usucapi non poterant [...]' cfr. Fontes Iuris Romani AnteJustiniani, pars prima, Firenze, 1968, 37.

 

[8] Si veda a titolo esemplificativo Bonfante, Corso di diritto romano, II, La proprietà, parte I, Milano, 1966, 204.

 

[9] F. Gallo, Studi sulla distinzione fra res mancipi e res nec mancipi, Torino, 1958, 87 ss. Queste pagine in particolare commentano il famoso Gai. 2, 18-22 traendo le proprie conclusioni a partire dalle tesi sostenute in precedenza da Bonfante e De Visscher; inoltre si legga G. Nicosia, Animalia quae collo dorsove domantur, 95 nt. 146, in «Iura», XVIII, 1967, 45 ss. [= Silloge. Scritti 1956-1996, I, Catania, 205 ss.] «[...] Notarsi come Gaio cerchi di avvicinare elefanti e cammelli alle 'ferae bestiae', pur non disconoscendo che essi etiam collo dorsove domari solent [...] è indicativo dello sforzo fatto per escludere dalla categoria delle res mancipi animali che tuttavia erano suscettibili di addestramento collo dorsove e che in effetti, in alcune province, erano largamente utilizzati per il tiro e la soma». Si veda anche infra nt. 12 per una interessante ipotesi esplicativa di Nicosia circa l'interpretazione restrittiva del numero di animali inclusi nell'elenco delle res mancipi.

 

[10] Il termine 'pecus' presenta in latino (cfr. lemma 'pecus' in A. Ernout, A. Meillet, Dictionnaire étimologique de la lange latine, Parigi, 2001) una doppia valenza indicando senza dubbio in primo luogo gli ovini ma anche, in senso lato, «designet indifféremment le gros et le petite bétail, les animaux domestiques par opposition à 'ferae'». La stretta connessione di questo termine con un concetto economico pare confermata dalla circostanza assodata che termine 'pecunia' trovi in esso origine e che l’originario significato del termine possa essere ravvisato in «richesse en bétail», a partire dal quale si sarebbe poi sviluppato il concetto di ricchezza e successivamente di denaro. Si legga inoltre il contributo di F. Gnoli, Di una recente ipotesi sui rapporti tra 'pecus', 'pecunia', 'peculium', in «SDHI.», 44 (1978), 204 ss.

 

[11] Birks, A Point, cit., 99 «Pecudes’. This concerns the relationship between the two chapters. The line between 'pecudes' and 'non-pecudes' was never very clearly drawn, which is strange in itself. A dog definitely was not a pecus. From the start a killed dog could not fall under chapter I. It was either a chapter III case or it was not an Aquilian case at all. But it was decided that it did fall within chapter III. There was doubtful cases».

 

[12] Si ritiene infatti inapplicabile la disciplina del primo capo della lex Aquilia, comportando che la quantificazione del valore massimo dell’animale non possa essere ricercato nel lasso temporale dei trecentosessantacinque giorni precedenti al momento dell’avvenuta lesione ma, applicando esclusivamente il terzo capo della stessa legge, possa essere commisurato a quello massimo toccato nell’ultimo mese. D. 9.2.21pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Ait lex: (capite primo) quanti is homo in eo anno plurimi fuisset. Quae clausula aestimationem habet damni, quod datum est. D. 9.2.23.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Idem Iulianus scribit aestimationem hominis occisi ad id tempus referri, quo plurimi in eo anno fuit […]. Gai. 3.218 (Capite tertio) Hoc tamen capite non quanti in eo anno, sed quanti in diebus XXX proxumis ea res fuerit, damnatur […]. Sabino placuit proinde habendum ac si etiam hac parte 'plurimi' verbum adiectum esset; nam legis latorem contentum fuisse, quod prima parte eo verbo usus esset. In merito va però notato anche il fatto che, rispetto ai cani, i pecudes subivano di certo maggiori variazioni di valutazione all’interno dei periodi dell’anno in relazione, per esempio, alla loro produzione di lana. Da segnalare l'acuta ipotesi di Nicosia, Animalia, cit., 92 ss., per cui le reali motivazioni circa la staticità della composizione delle categorie di res mancipi e nec mancipi ed il conseguente non inserimento di nuovi animali debbano essere ricercate nella volontà di non voler interferire negativamente negli scambi commerciali, richiedendo rispetto ad una semplice traditio del bene alienato negozi giuridici più onerosi in termini di tempo e certamente di spese. Dunque questa scelta dovrebbe essere letta non tanto nella chiave di un conservatorismo o tradizionalismo dei giuristi ma – molto più concretamente visto l'aumento esponenziale dei traffici commerciali nel periodo successivo alle guerre puniche – come un espediente giuridico per minimizzare le incombenze gravanti sui venditori di bestiame. Questa interpretazione dei fatti viene supportata inoltre dalla ricostruzione delle cause della diatriba fra Proculiani e Sabiniani sul momento in cui gli animali delle specie riconducibili teoricamente alla categoria delle res mancipi possano effettivamente assumere questa qualifica. Si veda in merito Gai. 2.15 Sed quod diximus ea animalia, quae domari solent, mancipi esse, [... lacuna ...] statim ut nata sunt, mancipi esse putant; Nerva vero et Proculus et ceteri diversae scholae auctores non aliter ea mancipi esse putant quam si domita sunt; et si propter nimiam feritatem domari non possunt, tunc videri mancipi esse incipere, cum ad eam aetatem pervenerint, in qua domari solent.

 

[13] Il giurista, vissuto fra il XII ed il XIII secolo, pare essere perplesso nella classificazione del cane all'interno delle categorie animali collegate ai concetti di ferocia e mansuetudine trovando motivi di valido inserimento ed esclusione di questo animale da entrambe le categorie. Gl., Contra naturam, I. 4.9pr., Si quadrupes pauperies fecisse dicatur, ed. Venetiis 1569, f. 352b 'Et mansueta dicunt, quae gregatim pascuntur: unde secundum hoc canis non est in numero ferarum, nec mansuetorum. Nam maior pars canum non mordet, et maior pars non gregatim pascuntur, sed videt etiam quod in his feris locum habeat haec actio […]'.

 

[14] Si veda in merito l’attento studio di  Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino, 2002, 213 ss., nonché Il guinzaglio e la museruola: animali, umani e non, alle origini di un obbligo, in «Diritto e storia.it», http://www.dirittoestoria.it/3/Lavori-in-Corso/Contributi/Contributi-web/Onida%20-%20Il%20guinzaglio.htm .

 

[15] Si confronti A. Guarino, Elefanti che imbarazzano, in «Inezie di giureconsulti», Napoli, 1978, 65 nt. 50 [= Pagine di diritto romano, II, Napoli, 1993, 328 e 329 nt. 50]. L’Autore, con il suo inconfondibile stile, ridimensiona l’intera questione circa la rilevanza all’interno della categoria delle res mancipi degli animali esotici «[…] Elefanti e cammelli furono utilizzati, nel mondo romano, solo nelle provincie di appartenenza della loro specie. Il loro rilievo economico e giuridico fu sempre e soltanto ‘provinciale’: sicchè ai romani il problema pratico dell’inserzione degli elefanti e dei cammelli tra le res mancipi non si pose mai, come mai si pose per i fondi provinciali».

 

[16] Cicerone, spiegando le abitudini di inumazione di alcuni popoli lontani, mette in risalto l'affinità non solo morfologica ma potenzialmente anche di ferocia fra il cane ed altri animali selvatici scrivendo - Tusculanorum disputationum 1.45.108 –In Hyrcania plebs publicos alit canes, optumates domesticos: nobile autem genus canum illud scimus esse sed pro sua quisque facultate parat a quibus lanietur, eamque optumam illi esse cansent sepulturam’. Del resto è noto, grazie alle ricostruzioni archeologiche di quanto avvenuto a Pompei ed Ercolano in seguito all'eruzione del Vesuvio, almeno un caso in cui la fame vinse la fedeltà dell'animale verso il proprio padrone. Parrebbe infatti che la strana disposizione al suolo, in un ambiente sigillato dalle ceneri, di alcune ossa umane (smembrate) e di uno scheletro canino (perfettamente composto) abbiano fatto pensare all’epilogo di una persona che, non essendo riuscita a mettersi in salvo, fosse morta dopo giorni di reclusione in compagnia del proprio animale domestico. La storia si sarebbe poi conclusa con lo scempio del cadavere da parte dell’animale, sopraffatto dalla fame e dall’istinto.

 

[17] Piuttosto che adottare una contrapposizione fra ‘pecudes’ e ‘ferae’ preferisco trattare la collocazione del cane fra le varie specie di animali mantenendo partizione fra ‘pecudes’ e ‘non pecudes’, poiché ritengo che la seconda offra maggiore immediatezza nel comprendere la complessa posizione del cane rispetto alla gamma di funzionalità individuate dai giuristi romani con la partizione fra animali domestici e semi domestici.

 

[18] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 291.

 

[19] Il primo capo di questo plebiscito protegge i pecudes e gli schiavi mentre il terzo (riferito in D. 9.2.27.5 probabilmente in modo piuttosto alterato rispetto al suo originario tenore) era relativo al danneggiamento e non presenta questa limitazione come di seguito si può constatare D. 9.2.29.6 (Ulpianus 18 ad ed.) Hac actione ex hoc legis capite de omnibus animalibus laesis, quae pecudes non sunt, agendum est, ut puta de cane: sed et de apro et leone ceterisque feris et avibus idem erit dicendum. Gai. 3.217 Capite tertio de omni cetero damno cavetur. Itaque si quis servum vel eam quadrupedem, quae pecudum numero est, vulneraverit sive eam quadrupedem, quae pecudum numero non est, velut canem [...] Si quid enim ustum aut ruptum aut fractum fuerit, actio hoc capite constituitur, quamquam potuerit sola rupti appellatio in omnes istas causas sufficere; ruptum enim intellegitur, quod quoquo modo corruptum est [...]; un accenno al terzo capo della della legge, per quanto non propriamente oggetto di queste pagine, è imprescindibile vista la tendenza a considerarlo sbrigativamente come una sorta di duplicato – leggermente modificato – del primo capo del plebiscito aquiliano. Illuminanti sono le considerazioni di Cannata sull'argomento, specialmente ove – Il terzo capo, cit., 120 – con un esempio curiosamente in tema con i miei ragionamenti «Il terzo capo prevede per la fattispecie delittuosa, un'unica sanzione, consistente nel sorgere, in capo al colpevole, dell'obbligazione di pagare al proprietario il valore della cosa danneggiata: ed è evidentemente assurdo che chi abbia tagliato la coda ad un cane debba dare al proprietario la stessa somma che gli dovrebbe dare se, quello stesso cane, egli l'avesse ammazzato». Certamente l'Autore non crede che questo possa essere risultato di una costruzione semplicistica da parte di giuristi agli albori del proprio cammino, tanto più che, contrariamente alla datazione usuale del plebiscito aquiliano, propende per posticiparne la datazione (Il terzo capo, cit., 132) di circa un secolo cioè intorno all'anno 200 a.C. (dello stesso Autore in merito si veda anche il più esauriente Sul testo originale, cit., 196-201). L'Autore inoltre, 127 ss., afferma «La sola via per comprenderlo (il tenore del III capo della legge), è di pensare alla vicenda più ovvia [...] cioè che il terzo capo prevedeva all'origine solo la distruzione delle ceterae res, e che il deterioramento di ogni cosa materiale vi fu inserito per via di interpretazione». L'estensione del terzo capo della legge Aquilia sarebbe quindi da attribuirsi ad Ulpiano il quale, inserendo le parole 'praeter hominem et pecudem occisos' al tenore del III capo riprodotto in D. 9.2.27.5, forzò una lettura in base alla quale le ceterae res, inizialmente considerate in contrapposizione agli schiavi ed ai pecudes – oggetto della protezione del I capo della lex – dovessero essere considerate come tutti i beni che in funzione del tipo di danno subito (più lieve della totale distruzione) non potessero essere compresi nel primo capo della legge D. 9.2.27.6 (Ulpianus 18 ad ed.) Si quis igitur non occiderit hominem vel pecudem, sed usserit fregerit ruperit, sine dubio ex his verbis legis agendum erit [...].

 

[20] Cfr. J. Macqueron, Dommages causes par chiens, in «Flores legum H. J. Schelmata antecessori groningano oblati», Groningen, 1971, 133 ss.

 

[21] Naturalmente la lex Aquilia al momento della sua massima evoluzione ha contemplato tutte le possibili sfumature psicologiche del soggetto danneggiante ma, come meglio sottolineerò a suo luogo, la mia affermazione deve essere intesa nel limitatissimo ambito del danneggiamento provocato da animali.

 

[22] FIRA, cit., 55, Tab. VIII, 6 'Si quadrupes pauperiem fecisse decitur, ... lex (XII tabularum) voluit aut dari id quod nocuit ... aut aestimationem noxiae offerri'.

 

[23] La data convenzionale di emanazione della lex Aquilia viene fissata, sebbene vi siano numerose perplessità, all’inizio del III a. C.; si vedano in merito gli articoli, specialmente di C. A. Cannata, citati supra, nt. 19.

 

[24] G. Impallomeni, Leditto degli edili curuli, Padova, 1955, 108. L’incertezza della letteratura trova origine nella considerazione che alla base di queste ricostruzioni vi siano indizi piuttosto che attestazioni certe, dunque, in via precauzionale, è preferbile mantenere una datazione ipotetica di questo provvedimento malgrado non vi siano riscontri maggiormente probanti in senso diverso.

 

[25]  Onida, Studi, cit., 238. Si veda infra § 8.

 

[26] Fra i vari esempi letterari di situazioni in cui degli animali feroci fossero presenti nelle abitazioni romane basti citare alcune delle metafore presenti nelle opere del filosofo Seneca, De ira, 2.31.6 'Aspice elephantorum iugo colla submissa et taurorum pueris pariter ac feminis persultantibus terga impune calcata et repentis inter pocula sinusque innoxio lapsu dracones et intra domum ursorum leonumque ora placida tractantibus adulantisque dominus feras: pudebit cum animalibus permutasse mores'; Epistulae, 85.41 'Certi sunt domitores ferarum qui saevissima animalia at ad occursum expavescenda hominem pati subiugunt nec asperitatem excussisse contenti usque in contubernium mitigant: leonis faucibus magister manum insertat, obsculatur tigrim suus custos, elephantium minimus Aethiops iubet substinere in genua et ambulare per funem [...]’.

 

[27] Rodriguez Ennes, Estudio, cit., 34, passa in rassegna alcune delle motivazioni per cui degli animali feroci trovavano spazio nell'Urbe e nei suoi dintorni, elencando come principali motivi il loro impiego nei trionfi dei condottieri, nelle venationes, per effettuare esibizioni zoologiche, duelli fra animali di specie diverse oppure la celebrazione di fastosi giochi funebri. In particolare si veda, per l'aspetto economico del fenomeno dell'allevamento degli animali sia mansueti sia potenzialmente pericolosi (come i cinghiali), la monografia di G. Polara, Le 'venationes' fenomeno economico e costituzione giuridica, Milano, 1983 e la recensione di R. Martini, Sui frutti delle venationes, in «Labeo», II, 1986, 285. Infine, fra le finalità dell'acquisto di animali pericolosi non si può dimenticare quello di ostentazione della propria ricchezza, si veda il caso del tribuno della plebe Dolabella – riferito da Plutarco, Antonio, 9 – il quale, fra gli altri sperperi, volle venissero aggiogati leoni al suo carro. Anche nelle opere poetiche vi sono riscontri di queste abitudini, come per esempio nel 'Leo mansuetus' di Stazio, Silvae, II, 5, viene detto '[...] Quid, quod abire domo rursusque in claustra reverti / suetus et capta iam sponte recedere praeda / insertasque manu laxo dimittere morsu? / Occidis [...] vastator docte ferarum [...] sed victus fugiente fera. [...] Stat cardine aperto / infelix cavea et clausas circum undique portas / hoc licuisse nefas placidi tumuere leones [...]'. Sempre Rodriguez Ennes, Estudio, cit., 36 nt. 31 fa menzione di una sorta di tariffario di questi animali feroci al tempo dell'imperatore Diocleziano, in base al quale, ad esempio, un leone poteva essere valutato fra centomila e centocinquantamila sesterzi.

 

[28] F. Casavola, Studi sulle azioni popolari romane. Le 'actiones populares', Napoli, 1958, 160.

 

[29] Si veda infra nt. 176 l'opposta e logica considerazione della Caiazzo (Lex Pesolania, cit., 291) in merito all'inaccettabilità di questo parametro per la valutazione dell'epoca di introduzione del provvedimento.

 

[30] In considerazione della esiguità delle nozioni giunte in merito all'edictum de feris, numerosi studiosi hanno ritenuto necessario in più riprese far ricorso al sistema analogico, prendendo a modello per la sua ricostruzione fattispecie assimilabili,. Nella fattispecie il modello logico più vicino, in considerazione del fatto che esso tratta l'ipotesi di un danneggiamento colposo, sanzionato un modo ugualmente grave ed oneroso e soprattutto per la sua provenienza da attribuirsi alle originarie disposizioni degli ediles è la norma riguardante i danni provocati dalla caduta di oggetti lasciati cadere dai piani superiori delle abitazioni. Inoltre secondo Casavola, Studi, cit., 149, è possibile vedere fra le ‘actiones de feris, de effusis et deiectis e ‘de posito et suspenso un legame particolare, nato dalla loro comune destinazione alla sicurezza dei cives per le strade.

 

[31] L’inciso sibillino ‘quamvis eum non tenui, tale per l’ambiguo uso del pronome ‘eum’ grammaticalmente riferibile indifferentemente allo schiavo o al cane, viene analizzato nel recente contributo di Lohsse, Canem vel servum tenuit?, cit. L’Autore, esposta la sua lettura del passo (268) in favore di un riferibilità – sebbene senza elementi lessicali definitivi – dell’espressione al cane («If it is possible to construct any argument out of the wording of D. 9.2.11.5, it would therefore be one in favour of the dog being held. Both suggested arguments however are not strong enough to exclude the other possibility») dà conto – 266 – sia delle difficoltà interpretative sia della più autorevole dottrina in merito.

 

[32] Il passo, riportante i pareri di Proculo e Salvio Giuliano, viene ritenuto immune da rimaneggiamenti sostanziali da F. M. De Robertis, Damnum iniuria datum, II, Bari, 2002, 190.

 

[33] D. 9.2.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Si servus servave iniuria occisus occisave fuerit, lex Aquilia locum habet. Iniuria occisum esse merito adicitur: non enim sufficit occisum, sed oportet iniuria id esse factum.

 

[34] D. 9.2.5.1 (Ulpianus 18 ad ed.) Iniuriam autem hic accipere nos oportet non quemadmodum circa iniuriarum actionem contumeliam quandam, sed quod non iure factum est, hoc est contra ius, id est si culpa quis occiderit: et ideo interdum utraque actio concurrit et legis Aquiliae et iniuriarum, sed duae erunt aestimationes, alia damni, alia contumeliae. Igitur iniuriam hic damnum accipiemus culpa datum etiam ab eo, qui nocere noluit.

 

[35] Gai. 3, 219. Ceterum etiam placuit ita demum ex ista lege actionem esse, si quis corpore suo damnum dederit, ideoque alio modo damno dato utiles actiones dantur, velut si quis alienum hominem aut pecudem incluserit et fame necauerit, aut iumentum tam vehementer egerit, ut rumperetur; [...]. Il danno aquiliano viene normalmente associato alla locuzione ‘corpore corpori datum’. Sulla tassatività del requisito si potrebbe discutere a lungo visto che l'espressione, parafrasata, ricorre nuovamente nelle Institutiones imperiali I. 4.3.16 'Ceterum etiam placuit ita demum ex hac lege actionem esse, si quis praecipue corpore suo damnum dederit' dove non può sfuggire l'uso dell'avverbio 'praecipuae' ad indicare una notevole inversione di tendenza rispetto all'idea che Gaio doveva avere di questa previsione normativa.

 

[36] D. 9.2.27.17 (Ulpianus 18 ad ed.) Rupisse eum utique accipiemus, qui vulneraverit, vel virgis vel loris vel pugnis cecidit, vel telo vel quo alio, ut scinderet alicui corpus, vel tumorem fecerit, sed ita demum, si damnum iniuria datum est: ceterum si nullo servum pretio viliorem deterioremve fecerit, Aquilia cessat iniuriarumque erit agendum dumtaxat: Aquilia enim eas ruptiones, quae damna dant, persequitur. Ergo etsi pretio quidem non sit deterior servus factus, verum sumptus in salutem eius et sanitatem facti sunt, in haec mihi videri damnum datum: atque ideoque lege Aquilia agi posse. Il passo di Ulpiano pare in realtà non voler mettere in rilievo tanto le modalità concrete con le quali la condotta dannosa possa produrre le sue conseguenze lesive, quanto dare una spiegazione del verbo 'rumpere' impiegato nel terzo capo della lex Aquilia, in modo da rendere incontrovertibile la finalità estensiva della protezione da parte dell'ordinamento contro simili avvenimenti. Non di meno ritengo si possa desumere dalle parole del giurista, in particolar modo dalla menzione del ‘telum inteso come arma da lancio, la ricezione nell'ordinamento del principio per cui fosse definitivamente tramontata la stretta necessità sia del contatto diretto fra la fisicità dell'aggressore e quella dell'aggredito, sia quello – per così dire – semidiretto come nel caso di lesione provocata da un'arma saldamente impugnata dal danneggiante. Bisogna notare come il termine ‘telum possa assumere anche un significato più generico, comprendente anche spade ed asce ma, in questa situazione, tenderei a scartare questo contenuto semantico in quanto nel contesto esso è impiegato in contrapposizione ad armi da mischia come bastoni, fruste e pugni.

 

[37] Lohsse, Canem vel servum tenuit?, cit., 271. L’Autore nota come alla base della differente posizione sostenuta dai giuristi in merito alla tipologia d’azione processuale concedibile vi sia necessarimanete una diversa interpretazione del comportamento dell’animale «The instrument used for killing is not an inanimate object like a sword, a missile or a cart […], but there is a psychological element involved on the part of the instrument. […] Usually it is said, that Proculus regarded the dog as a kind of weapon like a sword or a beam. Julian’s opinion then is explained by reference to the own will of the dog. An animal could not be regarded as a simple tool, so that an additional corporeal act by the person to be held liable is necessary».

 

[38] Mi riservo nel prosieguo di mettere in evidenza le implicazioni cui questa considerazione conduce in relazione a D. 9.2.5.2 [...] Cessabit igitur Aquiliae actio, quemadmodum, si quadrupes damnum dederit, Aquilia cessat [...].

 

[39] Cfr. Kerr Wylie, Actio, cit., 469-470. L'Autore ricostruisce il tenore originale del passo in oggetto nel modo seguente: Item cum eo, qui canem irritaverat et effecerat, ut aliquem morderet, [quamvis eum non tenuit,] Proculus respondit Aquiliae actionem esse: sed Iulianus [eum demum Aquilia teneri] ait, [qui tenuit et effecit ut aliquem morderet: ceterum si non tenuit,] in factum agendum. Circa l’eventuale interpolazione del frammento, al contrario, Lohsse, Canem vel servum tenuit ?, cit., 277 ritiene, dopo aver cercato indizi utili allo scioglimento della questione nelle le posizioni sostenute da vari giuristi «[…] Alfenus, Mela and Proculus regarded these cases as falling under the scope of ‘occidere’ , whereas Ofilius Julian und Ulpian were prepared to give an ‘actio in factum’ only. D. 9.2.11.5. is a perfect example of this controversy and should therefore not be assumed to be interpolated».

 

[40] L’individuazione del confine fra le situazioni che i giuristi romani considerarono risolvibili per mezzo di formulae utiles piuttosto che in factum rimane tuttora un mistero – che molti autori si sono sforzati di risolvere impiegando la logica – sul quale rimangono quanto meno dei punti oscuri. Per una analisi della questione è d’aiuto il recente contributo della Ziliotto, Limputazione, cit., 61-78, cui rinvio, per un confronto critico fra le recenti tesi dottrinali in tema (Albanese, Valiño, von Lübtow, Sotty, Selb, Santoro). Quanto sappiano per certo in merito, in realtà si tratta semplicemente di una constatazione empirica, è quanto si evince da D. 19.5.11 (Pomponius 39 ad Q. Muc.) Quia actionum non plenus numerus esset, ideo plerumque actiones in factum desiderantur. Sed et eas actiones, quae legibus proditae sunt, si lex iusta ac necessaria sit, supplet praetor in eo quod legi deest: quod facit in lege Aquilia reddendo actiones in factum accommodatas legi Aquiliae, idque utilitas eius legis exigit. Nonché, in tema di actio negotiorum gestorum, D. 3.5.46(47) (Paulus Libro primo sententiarum) […] Nec refert directa quis an utili actione agat vel conveniatur, quia in extraordinariis iudiciis, ubi conceptio formularum non observatur, haec subtilitas supervacua est, maxime cum utraque actio eiusdem potestatis est eundemque habet effectum. Recentemente A. Corbino, Il danno qualificato, cit., 207-230, propone in merito delle interessanti riflessioni. Quello che pare poco verosimile, in una ottica di contestualizzazione storica delle parole dei giuristi, è l'attribuzione ad un caposcuola del primo secolo d. C., quale Proculo, di una soluzione così elastica, per non dire superficiale o spregiudicata, nella valutazione dei requisiti minimi per l'applicazione della lex Aquilia. Il giurista classico, come chiaramente esposto da Macqueron, Dommages, cit., 148, «Il est invresemblable que Proculus ait pu croire possible l'action directe: les Proculiens compraient ordinairement de la façon la plus stricte que le 'damnum' doit être 'corpore datum'». Vista la sede di queste considerazioni mi esimo, pur se il discorso potrebbe presentare alcuni spunti interessanti, dall'affrontare la questione del peso che queste modalità espressive potessero avere per i giuristi giustinianei i quali, ormai da diversi secoli, avevano intrapreso una via processuale ben diversa da quella per formulas, in cui i termini utilis ed in factum rivestivano un ruolo incomparabile rispetto a quello da loro giocato in ambito di cognitio extra ordinem.

 

[41] Come semplice esemplificazione, senza nessuna pretesa di esaustività, si vedano in merito i passi D. 9.2.11.9-10, D. 9.2.12, D. 9.2.27.32, D. 9.2.30.1 riguardo all'actio utilis ed i frammenti D. 9.2.7.6, D. 9.2.9pr., D. 9.2.9.2-3 esemplificativi delle azioni in factum concesse rispettivamente in mancanza di perfetta corrispondenza rispetto ai requisiti della lesione aquiliana e di situazioni ancor più distanti dall'originaria previsione normativa.

 

[42] Come si può notare, ad esempio nel passo che riporterò di seguito, la situazione presentata da Ulpiano è relativamente simile ma risolta in modo difforme: durante uno spostamento a cavallo l'animale viene fatto imbizzarrire dolosamente al fine di provocare la caduta in acqua dell'homo equitans ed il suo conseguente annegamento. D. 9.2.9.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Si servum meum equitantem concitato equo effeceris in flumen praecipitari atque ideo homo perierit, in factum esse dandam actionem Ofilius scribit: quemadmodum si servus meus ab alio in insidias deductus, ab alio esset occisus. Anche in questo caso si prende in considerazione una fattispecie in cui è solamente l'azione dell'animale – forzata dall'intenzionalità umana – a cagionare l'evento dannoso ma la soluzione giuridica in base alla quale chiedere giustizia e composizione pecuniaria, diversamente dal 'Aquiliae actionem esse', è esclusivamente identificata in una azione in factum. Si potrebbe argomentare a contrario questa situazione sostenendo che vi è la teorica possibilità che l'attacco del cane, diversamente dall'azione lesiva del cavallo, si sia verificato mantenendo un contatto – per lo meno simbolico – con il corpo del conduttore da identificarsi con il guinzaglio. L'ipotesi non mi sembra convincente per due ordini di ragioni, in primo luogo non credo sia paragonabile il comportamento di una spada o una freccia – indirizzate verso il bersaglio e spinte ad esso in funzione di un impulso fisico ed alla mira dell'uomo danneggiante – all'attacco di un animale, in cui vengono impiegate la forza, le capacità ed abilità innate dell'animale. In secondo luogo la sostanza dei fatti dimostra che in un caso di attacco ordinato all'animale, come quello prospettato da Proculo ed Ulpiano, il conduttore sarebbe portato a liberare preliminarmente l'animale dal guinzaglio o per tenersi lontano dalla mischia o per avere l'opportunità di attaccare anch'egli contemporaneamente il bersaglio con altri mezzi d'offesa. Solo incidentalmente, a conforto di questa ricostruzione empirica della situazione, mi sembra il caso di ricordare come nella nostra lingua sia accolto il significato del verbo 'sguinzagliare', accanto al predominante significato di «mandare alla ricerca di», quello di sinonimo di «aizzare contro».

 

[43] Mi riferisco all’evoluzione della procedura civile che ha comportato, col passare del tempo ed il sovrapporsi della procedura extra ordinem a quella formulare, un fisiologico disinteresse o un ridotto grado di attenzione dei giuristi alla tipologia (dal punto di vista della caratterizzazione formulare) della azione concedibile alle parti.

 

[44] Il contributo dell’Autrice – più volte citato – Limputazione, cit., meriterebbe maggiore spazio ma in questa sede mi limiterò a riportare alcuni punti salienti a pag. 10-11 «[…] Colpisce che i verba legis siano stati oggetto (in epoca classica) di una interpretazione evolutiva in senso estensivo e per altri, invece, di una interpretazione rigorosamente restrittiva. Sotto il primo profilo basti ricordare il processo interpretativo che ha portato i giuristi classici ad elaborare il concetto di colpa partendo da quello di iniuria; e inoltre il processo interpretativo in materia di danno […] ha indotto a valutare l’entità del danno in base all’interesse del danneggiato anziché in base al valore della cosa. Sotto il secondo profilo, quello cioè restrittivo, va invece notato che i giuristi […] restano ancorati ad una interpretazione rigorosa dei verbi attraverso i quali il testo originario individuava le condotte vietate». Inoltre a pag. 22 «L’affermazione secondo cui la giurisprudenza repubblicana interpretava estensivamente il termine occidere richiede una precisazione. […] Questo risultato era raggiunto facendo perno sull’elemento dell’iniuria e ‘saltando’ il problema della interpretazione letterale dei verbi (rectius: dei comportamenti tipici da essi connotati)».

 

[45] Si veda ad esempio la scelta dei frammenti utilizzati dai compilatori come incipit per il titolo in questione D. 9.2.4pr. (Gaius 7 ad ed. provinc.) Itaque si servum tuum latronem insidiantem mihi occidero, securus ero: nam adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere. D. 9.2.4.1 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Lex duodecim tabularum furem noctu deprehensum occidere permittit, ut tamen id ipsum cum clamore testificetur: interdiu autem deprehensum ita permittit occidere, si is se telo defendat, ut tamen aeque cum clamore testificetur. D. 9.2.5pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si quemcumque alium ferro se petentem quis occiderit, non videbitur iniuria occidisse: et si metu quis mortis furem occiderit, non dubitabitur, quin lege Aquilia non teneatur. Sin autem cum posset adprehendere, maluit occidere, magis est ut iniuria fecisse videatur: ergo et cornelia tenebitur. Sul valore e l’interpretazione del concetto di legittima difesa si veda A. Wacke, Defence, cit., 527 ss. ed in particolare «Similar considerations were employed to limit the fifth commandament ‘thou shalt not kill’. The prohibition to kill was, even by Agostinus, understood to imply the prohibition to commit suicide (‘non occides nec alterum ergo nec te’). He who tolerates to be slaughtered unresistingly was put on the same level as the one who committed suicide». Il contributo dell’Autore analizza inoltre i risvolti giuridici dell’aberratio ictus e dell’eccesso di difesa.

 

[46] Nel testo ricorrerò numerose volte al termine 'conduttore' in senso tecnico ma non giuridico. Ben lungi infatti dal volermi riferire a delle varie fattispecie di locatio conductio, intenderò il termine in relazione alla prassi di identificare in questo modo il soggetto che guida il cane e da esso viene obbedito, a prescindere dal fatto che la persona sia identificabile con il dominus o con un altro soggetto, come ad esempio un filius familias od uno schiavo, incaricato di accudire e sorvegliare l'animale.

 

[47] Mi permetto inoltre di segnalare quanto possa essere scolastico il caso di un cane che venga aizzato contro un bersaglio da un soggetto sconosciuto o con modalità casuali. Di norma solo un animale addestrato può agire su comando di una persona ma l'addestramento, contestualmente, impone all'animale di prendere ordini solo da soggetti noti. Naturalmente, ove l'animale non agisse su ordine altrui, palesemente non si avrebbe l'esistenza del requisito minimo per l'azione aquiliana.

 

[48]D. 9.2.44pr. (Ulpianus 42 ad Sab.) In lege Aquilia et levissima culpa venit.

 

[49] Si veda infra per ulteriori considerazioni in merito all'esegesi di D. 9.2.11.5.

 

[50] Solo incidentalmente mi pare il caso di ricordare come l'azione aquiliana abbia come scopo principale la persecuzione del soggetto che avesse provocato un danno materiale e pecuniariamente valutabile, in quanto causa di una diminuzione patrimoniale del soggetto leso. Il soggetto passivo della lesione non è dunque direttamente lo schiavo o il bene menomato ma il soggetto che lo aveva nel proprio patrimonium.

 

[51] Il passo presenta l'estensione analogica per altri casi di diminuzione patrimoniale dovuta a spese mediche a favore di un filius familias (di condizione ovviamente non servile), il quale abbia ricevuto un danno permanente a causa di un insegnante troppo zelante nell’infliggere dei correttivi. L'attenzione ed i dubbi dei giuristi citati non si incentrano infatti sullo status libertatis del danneggiato, quanto sulla esistenza o meno del requisito della iniuria nell'atto di danneggiare. D. 9.2.5.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Si magister in disciplina vulneraverit servum vel occiderit, an Aquilia teneatur, quasi damnum iniuria dederit? Et Iulianus scribit Aquilia teneri eum, qui eluscaverat discipulum in disciplina: multo magis igitur in occiso idem erit dicendum. Proponitur autem apud eum species talis: sutor, inquit, puero discenti ingenuo filio familias, parum bene facienti quod demonstraverit, forma calcei cervicem percussit, ut oculus puero perfunderetur. Dicit igitur Iulianus iniuriarum quidem actionem non competere, quia non faciendae iniuriae causa percusserit, sed monendi et docendi causa: an ex locato, dubitat, quia levis dumtaxat castigatio concessa est docenti: sed lege Aquilia posse agi non dubito […] D. 9.2.7pr. (Ulpianus 18 ad ed.) Qua actione patrem consecuturum ait, quod minus ex operis filii sui propter vitiatum oculum sit habiturus, et impendia, quae pro eius curatione fecerit.

 

[52] Situazioni di minore rilevanza, comunque espressamente contemplate nel titolo D. 9.2, parlano di legittimazione attiva – in fattispecie di azione in factum o utilis – anche a favore del titolare di un diritto reale minore, come ad esempio in D. 9.2.11.10, D. 9.2.12, D. 9.2.27.32. Non bisogna dimenticare infatti la natura pecuniaria dell'azione aquiliana, pensata per giungere alla riparazione di un danno esclusivamente patrimoniale, implichi una legittimazione processuale anche a favore di soggetti privi del diritto di proprietà, ma che abbiano subito, (sebbene collateralmente) un diminuzione patrimoniale, ad esempio causata dall'impossibilità di godere di un bene in usufrutto.

 

[53] D. 9.2.33pr. (Paulus 2 ad Plaut.) Si servum meum occidisti, non affectiones aestimandas esse puto, veluti si filium tuum naturalem quis occiderit quem tu magno emptum velles, sed quanti omnibus valeret. Sextus quoque Pedius ait pretia rerum non ex affectione nec utilitate singulorum, sed communiter fungi: itaque eum, qui filium naturalem possidet, non eo locupletiorem esse, quod eum plurimo, si alius possideret, redempturus fuit, nec illum, qui filium alienum possideat, tantum habere, quanti eum patri vendere posset. In lege enim Aquilia damnum consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur.

 

[54] In questo contesto mi permetto di impiegare congiuntamente tali concetti; bisogna però tenere conto, in un’ottica più generale, di come nella lunga storia evolutiva dell'azione aquiliana si sia passati da un concetto di quantificazione del danno a fini esclusivamente sanzionatori dell'azione penale (cfr. Cannata, Sul testo, cit., 34) a quello maggiormente risarcitorio del pregiudizio economico subito dal dominus. Si arrivò dunque ad un ripianamento del danno patrimoniale in una ottica reipersecutoria all'interno della quale, però, non venne mai cancellato il riferimento al maggior valore del bene leso, tanto che questa componente di ‘quid pluris’ garantì alla natura di questa azione, anche in epoca giustinianea, una connotazione mixta.

 

[55] D. 9.3.7 trae la propria importanza in questo contesto dalla possibilità di impiegare alcune delle norme giuridiche del titolo D. 9.3 ‘De his qui effuderint vel deiecerint’ ad integrazione delle nozioni in nostro possesso circa l’actio contemplata nell’edictum de feris in tema di danneggiamento da animale causato da colpa.

 

[56] Cfr. per esempio D. 9.2.23.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Idem Iulianus scribit aestimationem hominis occisi ad id tempus referri, quo plurimi in eo anno fuit: et ideo et si pretioso pictori pollex fuerit praecisus […].

 

[57]Si veda anche A. Marchi, Il risarcimento del danno morale secondo il diritto romano, in «BIDR.», XVI, 1904, 202.

 

[58] Come meglio dirò innanzi, tutt'altra soluzione si profilerà in relazione alle pauperies. Sebbene l'actio de pauperie oggi non ponga particolari problemi in relazione all'identificazione della sua natura, si vedano per tutti Marrone, Istituzioni, cit., 538 che definisce l'azione in questione come «nossale ma non penale poichè alternativo alla noxae deditio è un risarcimento, non il pagamento di una poena» e Kerr Wylie, Actio, cit., 466 «Theoretically, it seems, the 'actio de pauperie' was rekoned as penal in its nature. This, however, was merely a historical reminiscence. For pratical purposes the action in classical times fulfilled an exclusively function and its incidents were regulated on this footing». Contra, ma in modo isolato, De Robertis, Damnum, cit., 87 ss. per cui l'iter evolutivo dell'azione sarebbe esattamente opposto a quanto pensato dagli altri studiosi, per cui passando da una originaria natura reipersecutoria essa si sarebbe trasformata in penale, con le logiche conseguenze di elettività e cumulatività fra azioni. La questione, nel periodo precedente agli anni '30 del XX secolo, era invece molto più controversa e dibattuta. Ritengo, infatti, sia il caso di ricordare il vivace dissenso che coinvolse Biondi, Lenel e De Visscher in merito a diversi aspetti riguardanti le azioni nossali nel 1925, in seguito alla pubblicazione del lavoro del maestro italiano (Le 'actiones noxales' nel diritto romano, cit.). In particolare ritengo interessante sottolineare come, partendo da considerazioni in tema di capacitas iniuriarum e di capacità di prefigurazione delle conseguenze dei una propria azione, il Biondi ritenga impossibile, o quanto meno inesatto, inserire all'interno delle azioni nossali in senso proprio anche l'actio de pauperie. Essa infatti differisce dai casi di responsabilità di un soggetto sui iuris per azioni compiute da un figlio non emancipato o da uno schiavo in base alla lampante considerazione che non possono essere posti su uno stesso piano l’atto di un essere umano, per quanto eventualmente di condizione servile, e quello di un animale. A conforto della propria posizione Biondi ricorda l’introduzione e l’uso continuo di due termini tecnici differenti – come tali non fungibili – quali damnum e pauperies per definire l’azione lesiva rispettivamente compiuta da un filius o da uno schiavo in contrapposizione a quella causata da un qualsiasi animale. Biondi, In tema, cit., 373 si chiede «Se noxa si ricollega sempre ai concetti di pena e di colpa, e se d’altra parte i giuristi parlano tecnicamente di pauperies per gli animali appunto per distinguere il danno degli animali dalla iniuria è possibile che la terminologia ed il concetto di noxa e di actio noxalis si siano estesi anche ai danni commessi dagli animali?». L’Autore si risponde quindi facendo riferimento a D. 9.1.1.3: 'pauperies est damnum sine iniuria facientis datum: nec enim potest animal iniuria fecisse, quod sensu caret'. Posizione ribadita in Sistema, cit., 403 «Certamente actio de pauperie ed actiones noxales presentano elementi comuni, tanto che Giustiniano, come ho sostenuto, ha inquadrato la prima nelle seconde, ma ciò non toglie che fra i due istituti vi sia sostanziale differenza […]». In accordo con la teoria del Biondi sulla trasformazione postclassica di questa azione – ma con parole pungenti verso i giuristi del VI secolo – Kerr Wylie, Actio, cit., 464 «In the Justinian law, however, the noxal actions and the 'actio de pauperie' are assimilated, both being brought under a category of noxal actions in the wide sense. [...] The result of assimilation were in many respects grotesque: the policy of Justinian's Compilers in this matter was entirely retrograde and, in fact, tended to make the law enter in a second childhood. Whithout doubt, in primitive times injuries committed by animals were dealt with in the same way as injuries committed by subordinate persons, the vengeance idea being the basis of liability in both cases. The whole course of evolution, culminating in the classical law, was, however, towards a separation of the legal conseguences of the two categories of injuries». L'Autore (476) motiva ulteriormente la ragione che avrebbe mosso i compilatori verso una rinnovata responsabilizzazione del genus animale, indicandola in una concezione (definita «pseudo-philosophical») basata sul 'ius naturale'. I giustinianei, supponendo quindi l'esistenza di un disegno generale cui fossero inseriti uomini ed animali, non poterono esimersi dal teorizzare situazioni in cui anch'essi, discostandosene, agissero (usando l'espressione tanto discussa dalla critica) 'contra naturam'.

 

[59] L’ipotesi non doveva essere certo rara se il poeta Giovenale nella Satira III, 268-77 scrive 'Respice nunc alia ac diversa pericula noctis:/ quod spatium tectis sublimibus unde cerebrum/ testa ferit, quotiens rimorsa et curta fenestris/ vasa cadant, quanto percussum pondere signent/ et laedant silicem. Possis ignavus haberi/ et subiti casus inprovidus, ad cenam si/ intestatus eas: adeo tot fata, quot illa/ nocte patent vigiles te praetereunte fenestrae./ Ergo optes votumque feras miserabile tecum,/ ut sint contentae patulas defundere pelves'. Giovenale, Satire, trad. E. Barelli, Milano, 1989, 84-85 «E pensa ora a tutti i diversi pericoli della notte: la distanza da te alla cima dei tetti, da dove una tegola può sempre piombar giù e spaccarti la testa: i vasi crepati e rotti che spesso cadono dalle finestre: guarda che segni lasciano sul marciapiede! Può capitarti d’essere preso per un pigro o un improvvido, che non si cura degli incidenti improvvisi, se esci di casa per recarti ad una cena da qualche parte senza prima aver fatto testamento. Tante volte puoi morire, quante sono di notte le finestre aperte sulla strada per la quale tu passi. Augurati quindi, e porta con te miserevole speranza, che le finestre si accontentino di versarti sulla testa il contenuto dei loro catini».

 

[60] Per quanto l'animale non sia in grado di agire per iniuria, è indiscutibile il fatto che possa (sebbene in modo limitato), dissimilmente da un oggetto inanimato, prefigurarsi l'esito delle proprie azioni. E' sufficiente constatare – il fatto è lampante in un cane – come la forza dell'animale venga diversamente graduata nelle situazioni di gioco, di lotta per stabilire le gerarchie all'interno dei branco o, infine, nel caso estremo della caccia, qualora l'animale viva allo stato selvatico.

 

[61] Si confronti, a dimostrazione della persistenza di questa impostazione logica, anche il tenore di Fr. Aug. 4,87 '[...] Animalibus non est similis tractatio in poenis his quae ratione carent’.

 

[62] D. 4.3.7.6 è stato tacciato di numerosi rimaneggiamenti. Levy - Rabel, Index interpolationum, I, Weimar, 1929, segnalano un dubbio sulla originalità della seconda parte del passo ‘quamvis–excedit’; Pernice, Marcus Antistius Labeo, II, Halle, 1873, 210 nt. 1. Sempre sul passo Levy - Rabel, Index interpolationum, Supplementum, I, Weimar, 1929, segnalano come esito di una possibile modifica la porzione ‘si dominus’ fino al termine del passo. Si vedano in merito Haymann, Textkritische Studien zum römischen Obligationenrecht, in «ZSS.», 40 (1919), 199 nt. 3; Pringsheim, Subsidiarität und Insolvenz, in «ZSS.», 41 (1920), 255 nt. 7 e 257; Levy, Die Konkurrenz der Aktionen und Personen im klassischen römischen Recht, vol. II-1, Berlin, 1912, 189 nt. 6, 202 nt. 3, 226 nt. 1. E’ stata inoltre segnalata la possibilità che il passo, nell’ultima parte del passo da ‘quamvis’ fino al termine, da Krüger nel Supplementa adnotationum.

 

[63] La trattazione – dal punto di vista formale – si interrompe, dunque, per dar modo al giurista di sottolineare come la bontà delle proprie osservazioni fosse confermata da una coincidenza di vedute con il repubblicano Labeone. In questo caso, lo scopo della citazione dell’illustre giurista repubblicano, come in molti altri casi all’interno delle opere giuridiche dell’epoca, può essere individuato in una duplice finalità da parte dell’autore incerto o non sufficientemente convinto delle proprie argomentazioni: ottenere un’attestazione di validità ed anche, probabilmente, in considerazione del lungo lasso di tempo intercorso fra i periodi di attività dei due giuristi, di estrema stabilità e consolidamento della teoria giuridica su cui si fondano le argomentazioni del passo.

 

[64] In merito a questa ipotesi bisogna notare come l’insoddisfazione – parziale o completa che fosse – della legittima aspettativa dell’attore vittorioso ad una reintegrazione patrimoniale del danno subito non poteva essere sufficiente alla concessione di una nuova azione nei confronti di un diverso soggetto solvibile, a prescindere da quale fosse la ragione del suo coinvolgimento nella vicenda. Anche se l’azione si sarebbe potuta connotare di diversi elementi diversificanti rispetto a quella precedentemente concessa (il chiamato il giudizio nonché la causa petendi – si tratta, in effetti, della qualifica di dominus di un animale danneggiante in un’actio de pauperie rispetto all’ideazione di una attività lesiva in una actio doli – in funzione del quale rispondere del fatto) il pretore avrebbe potuto solo bloccare la nuova pretesa dell'attore. Interessante, sebbene per ampiezza del discorso al di fuori delle finalità di queste pagine, sarebbe identificare chiaramente il soggetto – e dunque le modalità – al quale sarebbe spettato il compito di farsi promotore di questa esigenza: se al nuovo convenuto mediante la richiesta di inserimento nella formula di un’exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae, oppure al pretore, anch'esso potenzialmente ignaro di quanto accaduto precedentemente alla chiamata in giudizio dell'istigatore dell'animale, in forza della propria autonomia nella creazione del iudicium connessa alla sua facoltà di denegare l'azione richiesta, con le inevitabili ripercussioni circa la necessità di svolgere o meno la fase apud iudicem del processo. Sull'argomento si veda, anche per i rinvii alla letteratura più recente, G. Impallomeni, Scritti di diritto romano e tradizione romanistica, Padova, 1996, 631-642 [= Studi in memoria di Augusto Cerino Canova, I, Bologna, 1992, 149-160]. Volendo proseguire però – ab absurdo – nella ricerca delle conseguenze dell’esistenza contemporanea delle due sentenze, esito della doppia concessione pretoria sia di un’actio doli sia di una actio de pauperie, si può notare come emerga una aporia logica in base alla quale l’ordinamento stabilirebbe che lo stesso avvenimento lesivo fosse contemporaneamente riconducibile a due soggetti diversi ed a due contegni non conciliabili fra loro. Esito, infatti, della doppia condanna basata su entrambe le azioni appena nominate sarebbe quello di individuare nel terzo e nell’animale i soggetti cui ricondurre la volontà lesiva, dato inverosimile poiché presupposto della condanna in funzione dell’actio de pauperie è per l’appunto l’autonoma determinazione dell’animale – per quanto le sue capacità mentali possano arrivare a compiere – alla realizzazione dell’azione lesiva, ovviamente inconciliabile con l’istigazione ad agire da parte di chiunque altro.

 

[65] Alla luce della finalità di reintegrazione della lesione patrimoniale subita, si pone il problema di bilanciare da un lato la problematicità di ottenere l’esborso della summa condemnationis da parte di un cattivo pagatore, rispetto alle maggiori difficoltà di giungere ad una effettiva condanna di convenuto solvibile. Ritengo, sull’onda di quello che mi pare essere implicitamente lo spirito del giurista, possa essere preferibile la prima delle due incognite favorendo l’azione che richieda, a carico dell’attore, il minor numero possibile di condizioni da appurarsi in sede processuale. L’azione de pauperie avrebbe il pregio, rispetto alle altre teoricamente a disposizione (dal cui numero si esclude quella ex lege aquilia per via del contenuto di D. 9.1.1.6), di richiedere per la condanna del convenuto di dimostrare solo che l’animale fosse soggetto alla proprietà del dominus citato in giudizio e che il suo comportamento non fosse riconducibile alla ‘naturale feritatem’ (D. 9.1.1.10) della sua specie. In definitiva si tratta di capitoli di prova il cui contenuto pare di agile raggiungimento, rispetto alla dimostrazione della colpa o (ancor peggio) del dolo di un terzo. A quest’ultuima ipotesi, pur sempre indicata con un ‘et placuit mihi, quod Labeo scribit’, l’estensore del frammento probabilmente, per completezza, riserva uno spazio per venire in contro a quelle situazioni in cui non vi fosse alcun tipo di rimedio meno avventuroso.

 

[66] Macqueron, Dommages, cit., 149-151. L'Autore, per giungere ad una conservazione del passo che eviti l'ipotesi per cui Ulpiano abbia effettivamente scritto le «hérésies juridiques que le texte lui attribue», teorizza una sintesi compilatoria di un caso complesso in cui il dolo del terzo non escludesse la responsabilità dell'animale. Si tratterebbe di una situazione nella quale l'azione dolosa del terzo abbia influenzato non tanto l’animale quanto il danneggiato al fine di fargli tenere un comportamento che abbia potuto scatenare la reazione dannosa dell'animale. La ricostruzione è senza dubbio affascinante e logica, sebbene non vi siano riscontri testuali che possano avvalorare le invasive integrazioni necessarie al suo sostegno.

 

[67] D. 4.3.1.1 (Ulpianus 11 ad ed.) Verba autem edicti talia sunt: quae dolo malo facta esse dicentur, si de his rebus alia actio non erit et iusta causa esse videbitur, iudicium dabo.

 

[68] La ricostruzione del tenore della clausola edittale secondo Lenel non prevede positivamente questa caratteristica – Lenel, Das Edictum, cit., 114 ss. – 'Verba autem edicti talia sunt: quae dolo malo facta esse dicetur, si de his rebus alia actio non erit et iusta causa esse videbatur, intra annum, cum primum experiundi potestas fuerit, iudicium dabo'. Per giungere poi alla ricostruzione di una formula di questo tenore 'Si paret dolo malo Ni. Negidii factum esse, ut As. Agerius No. Negidio (Lucio Titio) fundum quo de agitur mancipio daret neque plus quam annus est cum experiundi potestas fuit neque ea res arbitrio iudicis restituetur, quanti ea res erit, tantam pecuniam iudex Nm. Negidium Ao. Agerio condemnato; si non paret absolvito'.

 

[69] La questione della sussidiarietà dell’actio doli, specialmente in relazione alla insolvenza del chiamato, ha suscitato l’interesse degli studiosi senza risparmiare nemmeno l’apparente stabilità delle peculiarità dell’actio de dolo. Sulla questione si vedano A. Masi, Insolvenza dellobbligato e sussidiarietà dellactio doli, in «Studi Senesi», LXXIV, 1962, 40 ss., A. Guarino, La sussidiarietà dellactio doli, in «Labeo», VIII, 1962, 270 ss. [= Pagine di diritto romano, vol. VI, Napoli, 1995, 281 ss.], B. Albanese, Ancora in tema di sussidiarietà dellactio de dolo, in «Labeo», IX, 1963, 42 ss.; inoltre questo Autore già in precedenza si era occupato del contenuto di questo passo in La nozione del furtum fino a Nerazio, in «Annali Palermo», XXIII, 1953, 98. Proprio in conseguenza del dibattito fra Guarino ed Albanese, infatti, l’Autore napoletano scrisse (La sussidiarietà, cit., 290) «La sussidiarietà dell’actio de dolo, non stabilita espressamente nell’editto, più che in una ferma regola, era un orientamento generale, passibile, entro certi limiti, di molteplici deviazioni. La troppo rigida applicazione del principio di sussidiarietà si sarebbe risolta in una negazione di quelle esigenze equitative, cui aveva obbedito Aquilio Gallo nell’emanare l’edictum de dolo».

 

[70] Albanese, Ancora in tema di sussidiarietà, cit., 46, puntualizza come l’opera del magistrato nella creazione di una formula adeguata all’ipotesi di insolvenza in una fattispecie di questo tipo non rappresenti «una vera e propria estensione positiva; bensì soltanto una rinunzia all’interpretazione restrittiva. Non va dimenticato, infatti, che la clausola edittale diceva si alia actio non erat e che, quindi, il farla entrare in gioco anche nel caso di actio adversus alium costituiva una audace interpretazione (estensiva della clausola) restrittiva dell’applicazione dell’actio doli».

 

[71] B. Albanese, La sussidiarietà dellactio de dolo, estratto da «Annali del Seminario Giuridico di Palermo», Palermo, 1961, 49.

 

[72] Sintetizzando il pensiero dell’Autore (Albanese, La sussidiarietà dellactio, cit., 49-50), l’actio de dolo sarebbe stata esperibile non solo nei casi in cui non vi fosse a disposizione alcun tipo di formula specifica, ma anche in tutte le situazioni in cui vi fosse, da parte dell’ordinamento, un legittimo dubbio sulla concreta esperibilità di un mezzo processuale, proprio come nel caso della all’actio utilis ex lege Aquilia. A parere dell’Autore, al tempo di Labeone, il dubbio circa l’applicazione di una formula derivata dal plebiscito aquiliano doveva essere legittimo, per lo meno dal punto di vista di una sistematica applicazione di questo espediente processuale. Nell’epoca dei Severi e di Ulpiano, al contrario, non vi sarebbe dovuta essere alcuna perplessità circa l’esistenza di un rimedio alternativo all’actio de dolo ('an alia actio sit'), ragion per cui Albanese ritiene probabile che il giurista, nella redazione originale di questo passo, si fosse espresso contro l’applicazione del rimedio generale. L’Autore spiega la propria ricostruzione teorica della parte finale di D. 4.3.7.6 affermando che essa «Ben può spiegarsi con l’accertata volontà compilatoria di cancellare quanto più possibile ogni traccia dell’ actio utilis ex lege Aquilia. Quell’alterazione può spiegarsi, inoltre, con l’intento compilatorio di eliminare il contrasto storico tra le posizioni di Labeone e di Ulpiano».

 

[73] Albanese, La sussidiarietà dellactio, cit., 50 «Quel che è certo è che il cenno alla solvibilità o meno del dominus quadrupedis – legato com’è al presupposto assurdo d’una sua responsabilità de pauperie – non può ascriversi a mano classica».

 

[74] Naturalmente, malgrado l'antica connotazione penale della lex Aquilia, persa in favore di quella di actio mixta, il riferimento alla dazione nossale del colpevole risulterebbe abbastanza anomalo, essendo certamente più logico quello al pagamento di un quantum.

 

[75] Macqueron, Dommages, cit., 149-151.

 

[76] Si veda in aggiunta, in relazione alla valutazione esclusivamente patrimoniale ed oggettiva (fino all'inverosimile per i criteri odierni) del bene danneggiato il già citato (supra nt. 53) D. 9.2.33pr. (Paulus 2 ad plaut.) Si servum meum occidisti, non affectiones aestimandas esse puto [...]. In lege enim Aquilia damnum consequimur: et amisisse dicemur, quod aut consequi potuimus aut erogare cogimur.

 

[77] Ci si riferisce normalmente sia a caratteristiche fisiche sia d'indole quali la territorialità, l’aggressività, l’agilità e la resistenza fisica. Columella, De re rustica 7,12,1 enumera quali dovrebbero essere le caratteristiche di un cane in funzione della sua destinazione produttiva 'Quare vel in primis hoc animal mercari tuerique debet agricola, quod et villam et fructus familiamque et pecora custodit. Eius autem parandi tuendique triplex ratio est. Namque unum genus adversus hominum insidias eligitur, et id in villam quaequae iuncta sunt villae custodit. At alterum propellendis iniuriis hominum ac ferarum; [...] tertium venandi gratia comparatur; [...] Villae custos eligendus est amplissimi corporis, vasti latratus canorique ut prius audito maleficio, deinde etiam conspectu terreat, et tamen nonnunquam ne visus quidem horribili fremitu suo fuget insidiantem. Sit autem coloris unius; isque magis eligatur albus in pastorali, niger in villatico: nam varius in neutro est laudabilis. Pastor album probat, quoniam est ferae dissimilis, [...] Villaticus, qui hominum maleficiis opponitur, sive luce clara fur advenit, terribilior niger conspicitur [...]. Probantur quadratus potius quam longus aut brevis, capite tam magno ut corporis videatur pars maxima, deiectis et propedentibus auribus, nigris vel glaucis oculis acri lumine radiantibus, amplo villosoque pectore, latis armis, cruribus crassis et hirtis, cauda brevi, vestigiorum articulis et unguibus amplissimis, qui Graece δρακες appellantur'.

 

[78] D. 9.1.3 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Ex hac lege iam non dubitatur etiam liberarum personarum nomine agi posse, forte si patrem familias aut filium familias vulneraverit quadrupes: scilicet ut non deformitatis ratio habeatur, cum liberum corpus aestimationem non recipiat, sed impensarum in curationem factarum et operarum amissarum quasque amissurus quis esset inutilis factus. Wylie legge il passo in questione nel modo seguente: Ex hac lege iam non dubitatur [etiam liberarum personarum nomine] agi posse, [forte] si [patrem familias aut filium familias] <liberam personam> vulneraverit quadrupes: scilicet ut non deformitatis ratio habeatur, cum liberum corpus aestimationem non recipiat, [sed impensarum in curationem factarum et operarum amissarum quasque amissurus quis esset inutilis factus].

 

[79] D. 9.1.1.11 (Ulpianus 18 ad ed.) Cum arietes vel boves commisissent et alter alterum occidit [...].

 

[80] D. 9.1.1pr., D. 9.1.1.2, D. 9.1.1.4, D. 9.1.1.8, D. 9.1.1.9, D. 9.1.1.12, D. 9.1.1.15, D.9.1.3, D. 9.1.4, D. 9.1.1.9, D. 9.1.1.12, D. 9.1.1.15, il titolo del Digesto naturalmente contempla anche, per contrapposizione, categorie come quella delle ‘ferae’ e delle ‘bestiae’ in relazione alle caratteristiche di aggressività, senza riferimento alla classificazione fra le res mancipi o meno. Sull'impiego della nozione di ‘quadrupes si veda  Onida, Studi, cit., 213-55.

 

[81] Il lemma ‘bestia-ae’ pare essere un termine di origine piuttosto antica, impiegato frequentemente come sinonimo di ‘belva, utlizzato comunemente, nelle trattazioni di tipo giuridico, per indicare indifferentemente animali selvatici o domestici ma con una vocazione specifica ad indicare gli «animaux féroces terrestres». Il termine ‘fera’ non presenta alcun tipo di ambivalenza, indicando esclusivamente animali con caratteristiche opposte a quelle tipiche della mansuetudine. Per entrambi i lemmi cfr. A. Ernout – A. Meillet, Dictionnaire étimologique, cit., s. v. belva e fera. In contrapposizione all’accezione impiegata nel passo D. 3.1.1.6 (Ulpianus 6 ad ed.) […] Bestias autem accipere debemus ex feritate magis, quam ex animalis genere […].

 

[82] Dovendosi per ovvie ragioni far riferimento esclusivamente ad animali in dominio che possano presentare un margine di pericolosità non ininfluente, questi ultimi paiono essere gli unici realmente pericolosi. Sarebbe interessante verificare come i giuristi classici avrebbero risolto il problema delle lesioni provocate da uno sciame d’api allevato entro le proprietà di un civis. Questi insetti infatti non presentano il carattere di aggressività tale da renderle propriamente animali feroci, tanto che le persone dotate di debita esperienza possono maneggiare con relativa sicurezza le arnie. Nel caso, invece, di animali pericolosi ma d'indole naturalmente feroce sarebbe in ogni caso applicato l’edictum de feris, cfr. infra § 8.

 

[83] Si veda Levy - Rabel, Index interpolationum, Supplementum I, cit., sul passo si segnalano interpretazioni contrastanti di Krüger, in Novum Supplementum e di De Francisci, Synallagma. Storia e dottrina dei cosiddetti contratti innominati, II, Pavia, 1916, 66. Sono state segnalate, inoltre, le possibili interpolazioni nella parte ‘et-dedit’ da Haymann, Textkritische Studien, cit., in «ZSS.», 40 (1919) 199 n.3; Levy, Die Konk, II, cit., 226 nt. 7 e 227 n.1; F. Pringsheim, Beryt und Bologna, in Festschrift fur Otto Lenel zum Funfzigjahrigen Doctorjubilaum am 16 Dezember 1921, Leipzig, 1921, 257. Sulla porzione del passo ‘Et–ideoque’ ha espresso la propria opinione G. Beseler, Miscellanea, in «ZSS.», 45 (1925), 461.

 

[84] Volendo esemplificare la situazione di discrepanza fra atteggiamento prevedibile a priori e quello effettivamente tenuto da un animale, si possono illustrare due casi ben distinti: quello di un animale d’indole feroce, nato però in cattività ed abituato alla presenza degli umani, che verosimilmente terrà un atteggiamento meno aggressivo rispetto a quello dei propri simili vissuti in libertà, in contrapposizione a quello di una femmina, normalmente socievole e mansueta, che abbia da poco partorito ed avverta un pericolo per la prole. In questo secondo caso non stupirebbe che essa mostri segni di spiccata aggressività anche nei confronti di soggetti verso i quali, in precedenza, si era comportata in modo socievole. Dovendo valutare l’atteggiamento di chi si relaziona con l’animale, in altri termini stabilire se vi è responsabilità del futuro danneggiato per aver tenuto un contegno incauto, sarebbe ingiusto che si desse per scontato (in mancanza di informazioni specifiche) un atteggiamento diverso da quello che si sarebbe portati a tenere nella generalità delle situazioni.

 

[85] Pare eccessivo negare la protezione giuridica, di fatto onerando l'attore di un obbligo di diligenza exactissima e di una prudenza ai limiti del fattibile, nel caso in cui fosse possibile per il dominus dell'animale negare ogni tipo di responsabilità dimostrando che il proprio animale avesse l'abitudine di reagire aggressivamente contro alcune categorie di persone o in risposta ad alcune sollecitazioni (ad esempio contro tutti i cavalieri, nei confronti delle persone che portino con loro un bastone da passeggio o se accarezzato sulla schiena), malgrado questa peculiarità negativa potesse essere nota a chiunque avesse una minima consuetudine con l'animale.

 

[86] C. 7.24.1pr, D. 1.5.4.1, D. 9.1.1.7, D. 21.1.1.7, D. 33.8.6.1, D. 41.2.3.5, D. 41.2.3.5, D. 42.1.60, D. 44.4.1.1, D. 50.16.38, Gai. 3.149. In questa espressione Macqueron, Dommages, cit., 135, rinviene l’opera interpolativa dei compilatori adducendo una notevole letteratura che associa questo principio di responsabilità a metri di giudizio postclassici mettendone in rilievo la scarsa chiarezza del contenuto. Sempre a favore di questo inquadramento della espressione 'contra naturam' Kerr Wylie, Actio, cit., 471 «The whole idea of an animal acting 'contra naturam', is post-classic: the classical jurists expressly ruled out any suggestion of an animal being chargeable with wrongdoing or fault». Malgrado la logicità degli argomenti apportati, non mi sembra essi siano definitivi al fine di accettare o rifiutare questa interpretazione; non si può dimenticare, infatti, l’esistenza di diversi esempi in ambito giuridico dell’uso di questa espressione. Fra i vari, ve ne sono alcuni che meglio di altri esprimono le sfaccettature che essa può assumere, partendo da una connotazione più naturalistica – come per certi versi il passo da cui prendo spunto – D. 21.1.1.7 (Ulpianus libro primo ad ed. aedilium curulium) Sed sciendum est morbum apud Sabinum sic definitum esse habitum cuiusque corporis contra naturam, qui usum eius ad id facit deteriorem, cuius causa natura nobis eius corporis sanitatem dedit [...] oppure D. 50.16.38 (Ulpianus libro vicensimo quinto ad ed.) Ostentum Labeo definit omne contra naturam cuiusque rei genitum factumque. Duo genera autem sunt ostentorum: unum, quotiens quid contra naturam nascitur, tribus manibus forte aut pedibus aut qua alia parte corporis, quae naturae contraria est [...]. In altri casi, invece, l'espressione passa ad indicare casi maggiormente figurati come manifestazione di comportamenti fuori dalla normalità D. 27.1.36.1 (Paulus libro nono responsorum) Lucius Titius ex tribus filiis incolumibus unum habet emancipatum eius aetatis, ut curatores accipere debeat: [...] Sed cum filio suo curator petatur, contra naturales stimulos facit, si tali excusatione utendum esse temptaverit. Per giungere infine a svolgere un ruolo maggiormente esemplificativo, in ambito prettamente tecnico-giuridico, per l'impiego di un istituto al di fuori di quella che i giuristi identificavano esserne la ratio D. 33.8.6.1 (Ulpianus libro vicesimo quinto ad Sab.) Et si fuerit legatum peculium non deducto aere alieno, verendum, ne inutile legatum sit, quia quod adicitur contra naturam legati sit. Oppure il più ampio esempio in ambito processuale D. 44.4.1.1 (Paulus libro septuagensimo primo ad ed.) Ideo autem hanc exceptionem praetor proposuit, ne cui dolus suus per occasionem iuris civilis contra naturalem aequitatem prosit. Si vedano inoltre le celeberrime affermazioni circa il diritto di proprietà in D. 41.2.3.5 (Paulus libro quinquagensimo quarto ad ed.) Ex contrario plures eandem rem in solidum possidere non possunt: contra naturam quippe est, ut, cum ego aliquid teneam, tu quoque id tenere videaris. O in relazione alla natura del contratto di società in G. 3.149 [...] An ita coiri possit societas, ut quis maiorem partem lucreretur, minorem damni praestet. Quod Quintus Mucius contra naturam societatis esse exixstimavit.

 

[87] Si noti come venga impiegato il termine fera nella sua accezione neutra, o addirittura negativa, per indicare l'animale danneggiante in luogo di altri sostantivi come animal o quadrupes.

 

[88] D. 9.1.1.4 (Ulpianus 18 ad ed.) Itaque, ut Servius scribit, tunc haec actio locum habet, cum commota feritate nocuit quadrupes, puta si equus calcitrosus calce percusserit, aut bos cornu petere solitus petierit, aut mulae propter nimiam ferociam: quod si propter loci iniquitatem aut propter culpam mulionis, aut si plus iusto onerata quadrupes in aliquem onus everterit, haec actio cessabit damnique iniuriae agetur.

 

[89] Macqueron, Dommages, cit., 142 nt. 24. Conseguentemente l’Autore interpreta il sostantivo ‘fera’ come termine che nelle parole di Ulpiano dovesse avere il significato di animale feroce, vista la mancanza della specificazione dell’atto contra naturam, e che costantemente all’interno del titolo del Digesto debba essere semplicemente letto come sinonimo di animale aggressivo. Il fatto stesso di richiedere che l’azione dannosa debba verificarsi a causa di un animale che agisca contro i suoi normali istinti, implicherebbe dunque che esso non debba essere feroce di natura. Contra si veda supra nt. 81 per una diversa interpretazione etimologica del termine e quindi della questione.

 

[90] Il giurista a questo punto, invece di dilungarsi ulteriormente sulla specificità dell’azione in discussione, espone immediatamente il proprio parere riguardo l’esatta tipologia di azione aquiliana richiedibile, facendo seguire l'esposizione delle ragioni della sua decisione.

 

[91] Logicamente ogni peculiarità che possa con la sua presenza diminuire il valore di una res, quale sicuramente può essere considerata la tendenza a reagire in modo violento ed inappropriato alle sollecitazioni esterne, non può essere valutata se non come un vizio. D. 21.1.43pr. (Paulus 1 ad ed. aedil. curul.) Bovem qui cornu petit vitiosum esse plerique dicunt, item mulas quae cessum dant: ea quoque iumenta, quae sine causa turbantur et semet ipsa eripiunt, vitiosa esse dicuntur.

 

[92] A favore di questa interpretazione rimane la previsione legislativa per cui l'animale danneggiatore da dare a nossa dovesse essere necessariamente vivo, probabilmente in modo che su di lui si potesse abbattere la vendetta del danneggiato. D. 9.1.1.14 (Ulpianus 18 ad ed.) Noxae autem dedere est animal tradere vivum [...]. In merito il Biondi (Sistema, cit., 404) «Non credo infatti che si voglia ammettere che la deditio dell’animale abbia la stessa funzione punitiva della deditio dello schiavo o del filius. Questa diversità di funzione è segnalata accuratamente da Frag. Aug. 2,82, che, in piena corrispondenza con i resti del lacunoso Gaio veronese, ammette l’efficacia liberatoria del cadavere del filius o dello schiavo, mentre tutto ciò rimane escluso per l’animale che deve essere consegnato vivo. […] la consegna dell’animale morto non è consentita perché non ha la stessa funzione punitiva (impedirne la sepoltura) che ha la consegna del cadavere dell’uomo». Non è da escludere il fatto che, abbandonata l'ottica arcaica della conservazione della pax deorum, la ratio della noma volesse un simile comportamento al fine di concedere al danneggiato la via per ottenere un valore maggiore della condanna in proprio favore, potendo sfruttare anche la forza lavorativa dell'animale (fosse esso un cane da guardia, da pastore o un altro qualsiasi animale da lavoro). Del resto se talvolta è possibile attribuire all'animale un valore anche da morto, mi riferisco alla macellabilità di un animale aggressivo ma commestibile come un toro o un ariete, bisogna tener conto del fatto che in altri casi – per l'appunto nell'ipotesi di un cane – la nossa dell'animale non avrebbe sortito alcuna soddisfazione per il danneggiato, vista l'impossibilità di una efficace vendetta sul suo corpo inanimato od altro suo impiego. Ne consegue, dunque, che questa norma potrebbe avere lo scopo di garantire per lo meno un minimo di valore economico alla datio di un animale come un cane mordace. Kerr Wylie, Actio, cit., 463 «[...] In the case of injuries of animals the 'actio de pauperie', which lay against their owners, had, apparently even in the time of XII Tables, abandoned this basis (primitive vengeance idea). The legally-minded Romans, it would seem, had at comparatively early stage in their history perceived the futility of seeking to wreak an idle vengeance on brute beasts». Il passo seguente ricorda il principio generale – in ambito delle vere e proprie azioni nossali – della responsabilità dell'attuale dominus per le azioni delle persone e delle cose ricadenti nella sua sfera di controllo – manus, mancipium o dominium secondo il noto principio D. 9.1.1.12 (Ulpianus 18 ad ed.) Et cum etiam in quadrupedibus noxa caput sequitur, adversus dominum haec actio datur, non cuius fuerit quadrupes, cum noceret, sed cuius nunc est. Si vedano, in merito alla questione della qualificazione come propriamente nossale o meno dell'actio de pauperie (in funzione della sua contestualizzazione storica), le tesi di Biondi, De Visscher e Wylie supra nt. 58.

 

[93] Molto interessante è il passo di argomento processuale in funzione del quale l'azione va considerata come estinta nel momento in cui, proposta la formula mentre l'animale fosse in vita, esso morisse (senza che il convenuto ne fosse imputabile) prima della sentenza. Il giurista è assolutamente certo delle particolari conseguenze di questo fatto giuridico, rispetto all’esito che normalmente collegheremmo agli effetti della litis contestatio, da introdurre l’affermazione con l’avverbio 'plane'. D. 9.1.1.13 (Ulpianus 18 ad ed.) Plane si ante litem contestatam decesserit animal, extincta erit actio. Per Wylie la problematica dell'estinzione dell'azione nel caso di pauperies può essere riassunta secondo il principio per cui – nel VI secolo d. C. – la morte prima della litis contestatio dell'animale colpevole (per meglio dire, incolpato) estingua sempre l'azione; per l'Autore lo stesso lo stesso esito si avrebbe nel caso di morte del cane – fatto effettivamente notevole rispetto alle regole generali – dopo la litis contestatio in tutti i casi tranne quello in cui il convenuto (proprietario dell'animale danneggiatore) avesse a sua volta la possibilità di convenire in giudizio, senza dubbio in base al terzo capo della lex Aquilia, l'uccisore del cane. «The general principle of the Justinian law that an 'actio de pauperie' is extinguished by the death of the animal after litiscontestation, represent an application to this action of the Justinian rule governing noxal actions [...] I think, be equally little doubt that Javolenus used the words in question (D. 9.2.37.1, in tema di quantificazione del danno aquiliano in pendenza dell'altra azione) [...] because under the classical law the 'actio de pauperie' survived the animal's death before or after litiscontestation alike» Kerr Wylie, Actio, cit., 505-506.

 

[94] In questo senso si potrebbe citare il contenuto di un passo, infra § 9, citato per ragioni diverse, che pare alludere a questo genere di comportamenti potenzialmente produttivi di conseguenze nefaste: PS. 1.15.2 ‘[…] sive ab ipsa sive propter eam ab alio alteri damnum datum sit’. Nel passo pseudo paolino troviamo un accenno ad una doppia modalità di realizzazione della lesione, che sembra contrapporre un danno provocato da cane in modo diretto (‘sive ab ipsa’) ad un danneggiamento meno netto nelle modalità della sua realizzazione (‘sive propter eam’).

 

[95] La fattispecie che intendo affrontare non vuol essere confusa con la semplice possibilità per un animale di provocare un danno indirettamente, come conseguenza di una propria azione non immediatamente lesiva come descritto in D. 9.2.9.3, dove un cavallo concitatus, disarcionato in un fiume lo schiavo che lo cavalcava, ne provoca l’affogamento. Analogamente si veda D. 9.1.1.9 (Ulpianus 18 ad ed.) Sive autem corpore suo pauperiem quadrupes dedit, sive per aliam rem, quam tetigit quadrupes, haec actio locum habebit: ut puta si plaustro bos obtrivit aliquem vel alia re deiecta.

 

[96] Nella società arcaica esisteva almeno un caso di responsabilità senza colpa dell’animale gravante sull’animale stesso. Fest., De verborum significatu quae supersunt cum Pauli epitome, s.v. Termino 'Termino sacra faciebant, quod in eius tutela fines agrorum esse putabant. Denique Numa Pompilius statuit, eum qui terminum exarasset, et ipsum et boves sacros esse'. Il caso tratta di un animale da soma, nella fattispecie un bue, il quale avesse intaccato durante l’aratura di un campo i sacri confini del pomerium, esponendosi così automaticamente alle sanzioni giuridiche e religiose a composizione dell’offesa arrecata agli dei, pur non essendoci per l’animale né volontà lesiva né culpa imputabile: non solo esso veniva palesemente costretto al lavoro ma era indirizzato nello svolgimento di tale attività, senza contare il fatto che, ovviamente, non potesse in alcun modo recepire la portata e le conseguenze del proprio atto lesivo. Biondi, Sistema, cit., 401-2 «Io sono convinto della profonda diversità di struttura tra pauperies e delictum, che determina la separazione delle rispettive azioni; tale separazione, riconosciuta da non pochi autori, è negata da De Visscher, il quale ammette che la estensione della responsabilità degli animali, così sorprendente ai nostri occhi, si giustifichi con l’antica concezione della colpabilità degli stessi. […] Che in epoca prestorica si potesse parlare di responsabilità degli animali, considerati sullo stesso piano degli uomini, non si può né ammettere né nagare, a meno che questo vuoto non si voglia colmare con i dati di comparazione giuridica, la quale attesta la possibilità di processi e pene a carico degli animali». Concluso questo brevissimo excursus, terminerei affermando che non ritengo che il caso riportato da Festo sia in alcun modo assimilabile alla situazione oggetto del mio lavoro, per via della connotazione e dell’origine prettamente sacrale dell’atto e delle sue conseguenze, rispetto a fattispecie che traggono la loro ragion d’essere dalla quotidianità e dalle esigenze agricole, pastorali e di sicurezza cittadina in genere.

 

[97] Trattandosi di una fattispecie di responsabilità extracontrattuale la questione della costruzione probatoria a carico dell’attore doveva in ogni caso comportare una serie di problemi, specialmente in merito alle cause scatenanti il danneggiamento, ed alla sua connotazione come contra naturam. Posta la costante validità del brocardo ‘actore non probante, reus absolvitur’, non si può che pensare che ogni ulteriore fatto di cui venisse richiesta la prova apud iudicem non potesse che aggravare esponenzialmente l’onere probatorio dell’attore.

 

[98] Macqueron, Dommages, cit. 137 e poi nella nt. 14, ipotizza anche la situazione di un magistrato che, preceduto dalla sua scorta di littori, abbia occupato tutta la sede stradale, imponendo così ad un ignaro passante di rifugiarsi all'interno della taberna.

 

[99] Si veda anche Frag. Augustodunensia. 4.81 Committitur si per lasciviam aut fervorem aut feritatem damnum factum est et tenetur dominus ut aut damnum sustineat aut in noxam tradat animal. L'associazione della fattispecie alla possibilità di liberarsi della responsabilità con la dazione nossale dell'animale fa inequivocabilmente pensare all'actio de pauperie.

 

[100] Macqueron, Dommages, cit., 138

 

[101] Macqueron, Dommages, cit., 138

 

[102] Esiste almeno un'altra ricostruzione plausibile, a mio parere meno probabile, dei fatti prospettati in questo passo. Bisogna ricordare di come esista la possibilità che il termine taberna assuma il significato generico di baracca o casa di modesta levatura. In questo caso, non essendo ovviamente concepibile la presenza di servi deputati alla cura della porta, è facile pensare che una persona non autorizzata potesse essersi introdotta all'interno della costruzione (o del suo atrio) ed in quel luogo egli potesse aver effettuato lo sgradevole incontro. Cfr. E. Forcellini, Totius latinitatis lexicon, s.v. Taberna, III, Prati, 1845, riporta fra i significati sia 'omne utile ad habitandum aedificium' sia 'saepe dicitur de loco ubi merces venduntur, et ubi artifices artem suam profitentur'. Forcellini chiaramente riprende le parole di Ulpiano D. 50.16.183 (Ulpianus 28 ad ed.) 'Tabernae' appellatio declarat omne utile ad habitandum aedificium, non ex eo quod tabulis cluditur. Inoltre D. 50.16.185 (Ulpianus 28 ad ed.) 'Instructam' autem tabernam sic accipiemus, quae et rebus et hominibus ad negotiationem paratis constat.

 

[103] Sono celebri i mosaici rinvenuti ad Ercolano e Pompei che illustrano, con la didascalia 'cave canem', veri e propri moniti per i passanti sprovveduti o contro i malintenzionati.

 

[104] Naturalmente deve essere esclusa a priori la possibilità di collocare l'animale, come nelle case private, presso l'entrata se non altro per ragioni commerciali: qualsiasi cane feroce avrebbe senza dubbio scoraggiato ogni avventore dall'avvicinarsi.

 

[105] Ipotesi marginalmente affrontata anche da Macqueron, Dommages, cit., 139 nt. 19. Accanto alle competenze di ordine pubblico che erano prerogativa del praefectus urbi, l'ordinamento romano ha conosciuto la figura del praefectus vigilum, un soggetto normalmente nominato fra gli appartenenti all'ordine equestre che, esclusi i casi di maggior rilievo per i quali era competente il praefectus urbi, aveva compito di vigilare sia sulla prevenzione degli incendi sia sui reati di ordine pubblico quali furti, scassi, rapine e ricettazioni. Per tutti si veda M. Talamanca, Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, 483 ss.

 

[106] Resta in ogni caso sottinteso che dovesse essere esclusa ogni finalità lesiva, quale il furto, del soggetto entrato nella struttura, sarebbe infatti inconcepibile la concessione a suo vantaggio un’azione a riparazione del danno subito. Si veda, a scopo esemplificativo, un caso in cui nemmeno una lesione mortale provocata ad un ladro comporti la concessione di una azione: D. 9.2.4.1 (Gai. 7 ad ed. provinc.) Lex duodecim tabularum furem noctu deprehensum occidere permittit, ut tamen id ipsum cum clamore testificetur: interdiu autem deprehensum ita permittit occidere, si is se telo defendat, ut tamen aeque cum clamore testificetur.

 

[107] Cicerone, De natura deorum 2.158 'Canum vero tam fida custodia tamque amans dominorum adulatio tantumque odium in externos et tam incredibilis ad investigandum sagacitas narium tanta alacritas in venando quis significat aliud nisi se ad hominum commoditates esse generatos'; Catone, De agri cultura, ca 124, 'Canes interdiu clausos esse oportet, ut noctu acriores et vigilantiores sint'; Isidoro, Etymologiarum sive originum, 12.2.25-26, '[...] Nihil autem sagacius canibus; plus enim sensus ceteris animalibus habent. Namque soli sua nomina recognoscunt; dominos suos diligunt; dominorum tecta defendunt [...]'. Columella, De re rustica 7, 12,1 '[...] Canis falso dicitur mutus custos. Nam quis hominum clarius aut tanta vociferatione bestiam vel furem praedicat, quam iste latratu? Quis famulus amantior domini? Quis fidelior comes? Quis custos incorruptior? Quis excubitor inveniri potest vigilantior? Quis denique ultor aut vindex constantior?'.

 

[108] L'esistenza e la frequenza di questi esercizi commerciali, specialmente nelle vie di grande passaggio è dimostrata da alcuni scavi archeologici fra i quali spiccano quelli di Pompei ed Ercolano. In essi venivano spesso vendute, a seconda della stagione, bevande e pietanze calde o fredde.

 

[109] Solo marginalmente mi sembra il caso di aggiungere che le probabilità di una reazione aggressiva di un animale da guardia aumentino esponenzialmente nel caso in cui il comportamento scatenante la reazione fosse inconsueto, repentino o addirittura dettato da paura, come quello di un soggetto che si getta nel primo riparo possibile per sfuggire alla vista di uno scocciatore o magari di un magistrato accompagnato della propria scorta. Inoltre è possibile formulare anche l'ipotesi per cui il soggetto fosse non solo agitato ma addirittura in fuga da un funzionario pubblico al suo inseguimento.

 

[110] La parte del giorno durante la quale si svolge il danneggiamento pare avere una qualche influenza nella previsione giuridica del fatto. Si veda in merito infra anche l'accenno alla questione relativa alla esegesi di S. 1.15.1a.

 

[111] Incidentalmente desidero sottolineare come non potesse essere concepita dai giuristi romani, fino alla piena affermazione della cognitio extra ordinem, una alternativa fra la condanna al pagamento di una somma di denaro e la condanna alla dazione nossale dell’animale, la quale null’altro poteva essere che una facoltà concessa al convenuto, alternativa in toto ad una qualsiasi condanna. Impiegando le parole del Biondi a commento di Gai. 4.48, In tema, cit., 391, «Possiamo ben invocare come punto fermo l’attestazione gaiana per dire che una condemnatio in noxae deditionem non era consentita nel processo formulare, come non era consentita alcuna condanna in ipsam rem». Si veda anche Kerr Wylie, Actio, cit., 467.

 

[112] Di D. 9.1.1.5 si è interessata più volte la critica, segnalando alcune proposte di correzione del suo attuale tenore. Si vedano in proposito Levy – Rabel, Index interpolationum, I, cit., sostiene la sostituzione, tutto sommato dalle conseguenze minime, del verbo ‘induci’, probabilmente giustinianeo, in ‘duci’. Sul passo nuovamente Levy - Rabel, Index interpolationum, Supplementum, cit., segnala i pareri di Haymann, Zur Haftung für Tierschaden, cit., 386-388; Eisele, in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts, 24 (1886), 485; Müller-Erzbach, Gefährdungshaftung und Gefahrtragung II, in «Archiv für die civilistische Praxis», 109 (1912), 24 nt. 23.

 

[113] Kerr Wylie, Actio, cit., 482 ss. interpreta il passo come pesantemente interpolato e così lo ricostruisce: Sed et si canis, cum duceretur ab aliquo, asperitate sua evaserit et alicui damnum dederit: [si contineri firmius ab alio poterit vel si per eum locum induci non debuit,] haec actio [cessabit] <locum habebit> [et tenebitur qui canem tenebat]. Inoltre 485 «From the formal standpoint we note 'firmius', comparative of a suspicious adverb 'firmiter'; 'poterit' (perf. Subj.) – 'debuit' (perf. Ind.); 'eum locum' – what place?; [...] absence of any statement as to the nature of the action against the leader [...]».

 

[114] Il seguente comparativo ‘firmius’ fa pensare ad una situazione di questo tipo, piuttosto che alla capacità del conduttore di farsi ubbidire dall'animale per rispetto o timore.

 

[115] Albanese, Studi sulla legge Aquilia, cit., 127, nt. 1. definisce il frammento come «rielaborato a fini di semplificazione».

 

[116] Cfr. Macqueron, Dommages, cit., 140. L’Autore mette giustamente in risalto il fatto che sia il passo in analisi sia il precedente trattino di situazioni in cui l’azione de pauperie, per ragioni diverse, non può essere concessa. Ne consegue logicamente il fatto che, se i passi fossero originariamente stati accostati, sarebbe stato illogico introdurre la seconda situazione con una particella avversativa.

 

[117] D. 9.1.1.10 (Ulpianus 18 ad ed.) In bestiis autem propter naturalem feritatem haec actio locum non habet: et ideo si ursus fugit et sic nocuit, non potest quondam dominus conveniri, quia desinit dominus esse, ubi fera evasit: et ideo et si eum occidi, meum corpus est. In questo frammento l’azione verrebbe meno per due ragioni concomitanti: in primo luogo per il fatto, già affrontato, che l’animale deve manifestare un comportamento contra naturam per l’applicabilità di questa azione, praticamente incompatibile con la feritas ed in secondo luogo per la ragione squisitamente sostanziale per cui un animale selvatico (come nella fattispecie dell’orso), una volta uscito dallo stretto controllo del padrone, cessi immediatamente di essere di sua proprietà – riacquistando la condizione di res nullius – ed impedendo in questo modo che l’ormai ex-proprietario possa essere validamente chiamato in causa per rispondere degli atti compiuti dall’animale, come spiega Gai. 2.67-68 Itaque si feram bestiam […] nostrum esse intellegitur, donec nostra custodia coerceatur; cum vero custodiam nostram evaserit et in naturalem se libertatem receperit, rursus occupantis fit, quia nostrum esse desinit: naturalem autem libertatem recipere videtur, cum aut oculos nostros evaserit, aut licet in conspectu sit nostro, difficilis tamen eius persecutio sit. 68. In iis autem animalibus, quae ex consuetudine abire et redire solent, […] talem habemus regulam traditam, ut si revertendi animum habere desierint, etiam nostra esse desinant et fiant occupantium: revertendi autem animum videntur desinere habere, cum revertendi consuetudinem deserverint.

 

[118] C. A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto romano, Catania, 1996, 62. L'Autore considera in modo unitario le due situazioni di responsabilità evidenziate all'interno del passo e riferisce entrambe all'esperibilità della lex Aquilia, definendo sia l'incapacità di trattenere l'animale sia la scelta – rivelatasi dannosa – di condurre l'animale in un luogo inadatto come una colpa-imprudenza. Il concetto stesso di colpa imprudenza e negligenza, al contrario di quello più lineare di colpa imperizia, presenta numerose sfaccettature. Quello di cui possiamo essere assolutamente certi, nella valutazione dell'ipotesi contemplata in questo frammento, è il fatto che la conduzione di quest'animale, al contrario di quella delle mule da soma usate nei trasporti, non può essere valutata come una attività di tipo tecnico. Se poi debba essere ritenuta prevalente l'opportunità di qualificare il comportamento colposo del conduttore dell'animale in termini di imprudenza o, piuttosto, preferendo la sfumatura della negligenza, di fatto è una questione che non porta ad alcuna differenza sostanziale di disciplina giuridica della situazione.

 

[119] Si tenga presente Cannata, Sul problema, cit., 59-62. Ai fini della comprensione della fattispecie in analisi, si rivela importante ed interessante l'espressione 'contineri firmius ab alio poterit' impiegata da Ulpiano per individuare il modello altamente generico con cui effettuare il raffronto fra il comportamento tenuto dal conduttore del cane ed il modello astratto di comportamento corretto. Sappiamo come nelle attività di tipo tecnico e professionale sia stato elaborato il criterio per cui la diligenza dovesse essere commisurata all'opera di un artifex, inteso come soggetto astratto e scrupolosamente ligio a tutte le accortezze che non solo le leggi ma la pratica del mestiere gli suggerissero per evitare danni: D. 45.1.137.3 (Venonius 1 stipul.) [...] sed modus adhibendus est secundum rationem diligentis aedificatoris et temporum locorumque [...]. Invece, per attività non professionali, si pongono come metro di giudizio la responsabilità per negligenza e l’imprudenza, da valutarsi secondo le capacità medie di persone di età e condizioni simili D. 45.1.137.2 (Venonius 1 stipul.) [...] habita ratione temporis aetatis sexus valetudinis, cum id agat, ut mature perveniat, id est eodem tempore, quo plerique eiusdem condicionis homines solent pervenire [...]. Detto questo, valido particolarmente in situazioni contrattuali, bisogna tenere presente che in ambito extracontrattuale, dove non può rilevare la qualifica di artifex – diversamente da quanto accade nel frammento D. 19.2.9.5 (Ulpianus 32 ad ed.) ‘[...] eum praestare debere et quod imperitia peccavit, culpam esse: quippe ut artifex, inquit, conduxit’ – il concetto di colpa imperizia dovrà essere riferito esclusivamente alla tipologia dell’attività svolta, dalla quale sia scaturito il danno. Nel caso in cui l'attività, pur potendo essere potenzialmente pericolosa non sia identificabile con lo svolgimento di un’ars, come nel caso prospettato da D. 9.1.1.5 in analisi, la responsabilità non potrà essere che essere per negligenza e da raffrontarsi semplicemente col comportamento 'ab alio'.

 

[120] Cfr. Macqueron, Dommages, cit., 146, fa notare come l'espressione 'si contineri firmius ab alio poterit' pare corrispondere in modo evidente alla frase contenuta in I. 3.14.2 'si alius diligenter potuit rem custodire' – impiegata per definire la responsabilità del comodatario – che, a sua volta, corrisponde al concetto di 'et levissima culpa venit', in tema di danno aquiliano, rinvenibile in D. 9.2.44. L'Autore impiega questa assonanza (non solo concettuale) in connessione con i dubbi circa l'ineleganza della parte terminale del passo ‘tenebitur qui canem tenebat’ – di cui infra – per supportare la sua ipotesi di interpolazione del passo. Il raffronto con l'ipotesi di responsabilità del comodatario mi sembra alquanto forzato in relazione al principio per cui il criterio di attribuzione della responsabilità ad un soggetto sia tanto più stringente e invasivo quanto più il margine di vantaggio per il beneficiario sia ampio o il pericolo per la comunità sia esteso, che troverà espressione nel brocardo ‘cuius commoda eius et incommoda’. Si vedano ad esempio D. 40.12.13.1 (Gaius ad ed. pu. de liberali c.) Item certum est tam res nostras quam res alienas, quae tamen periculo nostro sunt, in hanc actionem deduci, veluti commodatas et locatas: certe depositae apud nos res, quia nostro periculo non sunt, ad hanc actionem non pertinent. D. 19.2.40 (Gaius 5 ad ed. provinc.) Qui mercedem accipit pro custodia alicuius rei, is huius periculum custodiae praestat. Dunque ritengo questo parallelismo, dal punto di vista logico e non formale, debba essere posto in secondo piano, a meno che l'avere in proprietà un cane non fosse sentito all'epoca come una attività assolutamente inutile oppure eccessivamente pericolosa rispetto ai benefici apportati, fatto di cui non mi pare vi sia riscontro e che venga anzi smentito dalle fonti.

 

[121] Sarebbe eccessivo ai fini della individuazione dei criteri di responsabilità, specialmente se gravosa come quella relativa all’actio legis Aquiliae, includere situazioni di forza maggiore o caso fortuito; entrambe vengono escluse dal fatto che sicuramente, impiegando l'espressione del giurista, il cane ‘ab alio contineri poterit’. Il tema della cosiddetta forza maggiore in ambito aquiliano è affrontato con maggiore estensione nella casistica in tema nautico D. 9.2.29.2 (Ulpianus 18 ad ed.) Si navis tua impacta in meam scapham damnum mihi dedit, quaesitum est, quae actio mihi competeret. Et ait Proculus, si in potestate nautarum fuit, ne id accideret, et culpa eorum factum sit, lege Aquilia cum nautis agendum, […] sed si fune rupto aut cum a nullo regeretur navis incurrisset, cum domino agendum non esse. D. 9.2.29.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Item Labeo scribit, si, cum vi ventorum navis impulsa esset in funes anchorarum alterius et nautae funes praecidissent, si nullo alio modo nisi praecisis funibus explicare se potuit, nullam actionem dandam […]. D. 9.2.29.4 (Ulpianus 18 ad ed.) Si navis alteram contra se venientem obruisset, […] sed si tanta vis navi facta sit, quae temperari non potuit, nullam in dominum dandam actionem: sin autem culpa nautarum id factum sit, puto Aquiliae sufficere.

 

[122] Ritengo infatti vi sia spazio per interpretare la seconda situazione trattata dal giurista come connessa ad un tipo di azione più specifica.

 

[123] Macqueron, Dommages, cit., 146.

 

[124] Vi è anche la possibilità che il riferimento all’atto di ‘tenere’ un cane possa riguardare l’atto di cingere fra le proprie braccia l’animale. La situazione è senza dubbio plausibile ma (sebbene fosse frequente come dimostrano le parole riferite da Plutarco, Vite parallele - Fabio Massimo, 1.1, trad. R. Guerrini, Milano, 1999, 132 per cui era la moda importata dall’estero di portare in braccio dei cuccioli) in questo caso non ritengo possa essere dato molto peso a questa eventualità per il semplice fatto che le lesioni provocate da un cane di piccola taglia, o ancor peggio da un cucciolo, non possono essere sicuramente paragonate (per gravità e rilevanza) alle altre ipotizzate dai giuristi. Cfr. Macqueron, Dommages, cit., 148.

 

[125] Per apprezzare quanto siano connessi il danneggiamento aquiliano e l'actio de pauperie, con tutti gli insormontabili limiti di questa geniale opera, si veda la ricostruzione del libro XVIII ad edictum di Ulpiano di O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, volumen alterum, Lipsia 1889, rist. 2000, 520 ss.

 

[126] Macqueron propone la seguente ricostruzione del passo: D. 9.1.1.5 (Ulpianus 18 ad ed.) Sed et si canis, cum duceretur [ab aliquo], asperitate sua evaserit et alicui damnum dederit: si contineri firmius ab alio poterit [vel si per eum locum induci non debuit,] haec actio cessabit et <actione in factum tenebitur qui canem ducebat>; <Sed si (caso espunto) Aquilia> tenebitur qui canem tenebat. Macqueron, Dommages, cit., 147. L’ipotesi è plausibile ma, per la stessa necessità di ricorrere a così ampie integrazioni, ne è impossibile la verifica. L’idea dell’Autore pone inoltre il problema della completa espunzione del riferimento alla seconda fattispecie esplicitamente affrontata all’interno del passo riconducendola, da un raffronto con i Basilici (scolio 60.11), ad una completa innovazione – vista la supposta mancanza di commento da parte di Cirillo – introdotta in un momento non meglio determinabile. Anche in questo caso la congettura è plausibile. Rimanendo però aderenti al dato testuale è possibile constatare come il riferimento alla azione esercitabile, scartata l’applicabilità dell’actio de pauperie, è assolutamente implicito e, quindi, viene lasciato all’interprete il compito di desumere, rimanendo saldo solamente il dato di cosa non fosse consentito, quale fosse il rimedio processuale adeguato.

 

[127] Per completezza, Macqueron, Dommages, cit., 141 nota come il giurista consideri implicitamente nel passo una terza ipotesi. Vi è, in aggiunta, la possibilità che l’ordinamento consenta la valida proposizione dell’actio de pauperie essendosi verificato il danneggiamento in un luogo all’interno del quale non solo non fosse proibito condurre l’animale, ma in una situazione in cui non si potesse pretendere dal conduttore alcuna ulteriore precauzione rispetto a quelle adottate.

 

[128] Cfr. D. 9.1.2.1 […] ‘agi canis nomine’. Cfr. Supra § 6.

 

[129] Cannata, Sul problema, cit., 62.

 

[130] In merito si veda inoltre, infra § 9, quanto specificato in merito alla esegesi di D. 21.1.42.

 

[131] Si potrebbe, come esercizio intellettuale, ragionando in prospettiva storica su casi ipotetici, valutare quale potesse essere la soluzione effettiva nel momento intermedio fra l'emanazione delle due norme giuridiche. Parlo di casi ipotetici poiché tutti i passi citati sono databili – per logica lapalissiana – per lo meno al periodo di vita del giurista cui fa riferimento l'inscriptio tramandata dai compilatori giustinianei, ed ognuno di essi è vissuto dopo l'emanazione dell'ultimo dei provvedimenti citati in queste pagine. Purtroppo, senza una valida e solida datazione sia del plebiscito aquiliano sia dell'editto sugli animali feroci, l'unica certezza è che i due provvedimenti abbiano convissuto per lo meno per sei secoli. L'interpretazione di D. 9.1.1.5 (e soprattuto della tematica che ne è alla base) riveste maggior importanza sia dal punto di vista quantitativo sia nell'ambito dell'evoluzione della interpretazione delle norme giuridiche nel periodo di compresenza dei due provvedimenti.

 

[132] Lenel, Das Edictum, cit., 566.

 

[133] Lenel, Das Edictum, cit., 566, nt. 13. L’Autore scrive anche 'Im Edikt heisst es: iudicium dabimus, ut [...] condemnetur'.

 

[134] L'esistenza contemporanea di entrambi i requisiti rende impossibile l'inserimento dell'edictum de feris nella categoria che oggigiorno in diritto penale definiamo dei reati di pericolo astratto o presunto (come l'incendio art. 423 c., anche di cosa propria se idoneo a danneggiare terzi), in cui la punibilità è stabilita dall'ordinamento semplicemente in funzione di una regola d’esperienza, in base alla quale al compimento di una certa azione si possa collegare l'insorgere di un pericolo. La correlazione 'et-et' e l'impossibilità di giungere a valida quantificazione della condanna in caso di mancanza di un danno materiale, sono elementi sicuramente sufficienti ad affermare che la disposizione edittale non era diretta a colpire una semplice condotta incurante dei pericoli ad essa connessi, quanto a sanzionare colui che con il suo comportamento poco lungimirante avesse permesso che il proprio animale feroce provocasse un danno.

 

[135] A. Guarino, 'Actiones in aequum conceptae', in «Labeo», VIII, 1962, 10-11: «Ma è discutibile che Ulpiano riporti letteralmente il tenore dell'editto de feris. Come ha giustamente osservato il Lenel, la citazione letterale si ferma a 'damnum dare possit' [...]».

 

[136] Scialoja, Nota, cit., 81 ss. interpreta creativamente questo illogico inserimento del termine ‘minorem’ come il risultato dell'opera di uno scrupoloso copista il quale, rinvenuta una abbreviazione o una parola di dubbia lettura, colto da un dubbio interpretativo, fece seguire alla lettura maggiormente probabile -maialem- quella più improbabile, facendola però precedere da una sua nota nella quale esplicitava la propria incertezza di lettura con un vel. Dal successivo inglobamento della nota del copista all'interno del testo sarebbe dunque derivato per l'Autore il 'maialem vel minorem' che oggi leggiamo.

 

[137] Lenel, Das Edictum perpetum, cit., 566 nt. 7. Si veda in merito anche il parere di Ph. E. Huschke, Zur Pandektenkritik. Ein versuch sie auf festere wissenschaftliche grundsätze zurückzuführen, Leipzig, 1875, 52.

 

[138] Scialoja, Nota, cit., 82-83 «Né di migliore accoglienza mi par degna la correzione di proposta da Huschke, alla quale Lenel ha fatto troppo buon viso. [...] Sarebbe poi addirittura assurdo che si fossero preoccupati di menzionare espressamente il porco castrato (maialem) accanto al porco intero (verrem), laddove per gli altri animali non hanno nemmeno distinto la femmina dal maschio; [...] Già persino il distinguere tra verres e aper doveva parer molto, per quanto tale distinzione fosse di grande importanza e preparasse in certo modo la transizione da animali domestici pericolosi ad animali selvaggi. [...] Le parole da togliere nel nostro testo sono le sole 'vel minorem' [...]».

 

[139] Lenel, Das Edictum perpetum, cit., 566, nt. 11.

 

[140]Il fatto che dovesse essere sentita come prioritaria la sicurezza della circolazione, specialmente in una città – che in alcuni momenti della storia possiamo definire metropoli – è dimostrato anche da un altro passo tratto dal titolo de effusis vel deiectis: D. 9.3.1.1 (Ulpianus 23 ad ed.) Summa cum utilitate id praetorem edixisse nemo est qui neget: publice enim utile est sine metu et periculo per itinera commeari. Per proseguire quindi con l'estensione logica, in funzione della finalità di proteggere la sicurezza e l'incolumità dei passanti, non solo nei luoghi pubblici ma ovunque vi fosse realmente transito, D. 9.3.1.2 (Ulpianus 23 ad ed.) Parvi autem interesse debet, utrum publicus locus sit an vero privatus, dummodo per eum volgo iter fiat, quia iter facientibus prospicitur, non publicis viis studetur: semper enim ea loca, per quae volgo iter solet fieri, eandem securitatem debent habere. Ceterum si aliquando vulgus in illa via non commeabat et tunc deiectum quid vel effusum, cum adhuc secreta loca essent, modo coepit commeari, non debet hoc edicto teneri. Si tenga però conto anche del parere di L. Rodriguez Ennes, Estudio sobre el edictum de feris, Madrid, 1992, 23, per cui il concetto di 'utilitas publica' non potrebbe essere ricondotto né a principi giuridici né a modalità espressive propri dell’epoca repubblicana o classica e dovrebbe essere dunque inteso come una interpolazione postclassica. Si veda in merito anche J. Gaudemet, Utilitas publica, in «RHD.», XXIX, 1951, 465 ss. [= Etudes de droit romain, 2, Napoli, 1979, 174-75]. L'Autore, ripercorsa l'evoluzione del concetto di utilità pubblica in senso sia filosofico sia giuridico a partire dall'epoca repubblicana, illustra a pag. 476 come solamente con «le triomphe de l'absolutisme» politico dei Severi, si possano trovare nelle parole della «triade di giureconsulti» a cavallo del terzo secolo, riferimenti alla pubblica utilità intesa nell'accezione di «intérête direct de l'Etat», intesa in contrapposizione al concetto di utilitas privatorum. L'espressione in oggetto in D. 9.3.1.2 però, a prescindere dall'attribuzione dalla sua paternità e dunque dalla sua datazione, non può essere, a mio avviso, inserita logicamente in un contesto di contrapposizione fra finalità dello Stato ed interesse dei cittadini, quanto piuttosto in una più piana accezione di salvaguardia della collettività da rischi evitabili. Si vedano anche D. 9.3.5.6 (Ulpianus 23 ad ed.) Praetor ait:'ne quis in suggrunda protectove supra eum locum, [qua] (quo) volgo iter fiet inve quo consistetur, id positum habeat, cuius casus nocere cui possit. Qui adversus ea fecerit, [...] in factum iudicium dabo. Si servus insciente domino fecisse dicetur, aut noxae dedi iubebo'; D. 9.2.28pr.-1 (Paulus 10 ad Sab.) Qui foveas ursorum cervorumque capiendorum causa faciunt, si in itineribus fecerunt eoque aliquid decidit factumque deterius est, lege Aquilia obligati sunt: at si in aliis locis, ubi fieri solent, fecerunt, nihil tenentur. 1- Haec tamen actio ex causa danda est, id est si neque denuntiatum est neque scierit aut providere potuerit: et multa huiusmodi deprehenduntur, quibus summovetur petitor, si evitare periculum poterit.

 

[141] Si noti come nell’esposizione di questi argomenti relativi a situazioni di responsabilità extracontrattuale, le parole iniziali del titolo relativo all'actio de pauperie – D. 9.1.1.3 (Ulpianus 18 ad ed.) Ait praetor 'pauperiem fecisse'. Pauperies est damnum sine iniuria [...] – nonché quelle relative alla lex Aquilia adottino la stessa modalità espressiva di riferimento letterale al testo originale del provvedimento – D. 9.2.1.1 (Ulpianus 18 ad ed.) Quae lex Aquilia plebiscitum est, cum eam Aquilius tribunus plebis a plebe rogaverit. D. 9.2.2pr. (Gaius 7 ad ed. provinc.) Lege Aquilia capite primo cavetur: 'ut qui servum servamve alienum [...] occiderit, quanti id in eo anno plurimi fuit, tantum aes dare domino damnas esto'.

 

[142] Secondo Rodriguez Ennes (Estudio, cit., 30) la menzione del cinghiale e del maiale sarebbe superflua ed indicativa di un confuso rimaneggiamento, non potendola presumere una glossa esplicativa per una doppia ragione: i due animali si sarebbero dovuti distinguere per un diversissimo grado di aggressività senza contare il fatto che, vista la loro diffusione, una tale precisazione sarebbe risultata superflua.

 

[143] Vista la concisione del giurista sulla natura degli espedienti impiegati per evitare morsi, balzi o zampate dell'animale non vi è modo di essere più chiari. Verosimilmente, nel caso di trasporto od ostentazione di leoni o pantere, dovevano essere presumibilmente adottati diversi meccanismi di sicurezza, dimostrandosi palesemente inadeguati guinzagli o museruole.

 

[144] Si noti però come nelle fonti sia ricordata l'esistenza di intere zone dell'antico Lazio dedicate all'allevamento di animali esotici fra cui quelli feroci da destinare ai ludi. Ad esempio Plinio, Naturalis historiae 8.78 'Vivaria eorum ceterarum silvestrium primus togati generis invenit Fulvius Lippinus: is in Tarquiniensi feras pascere instituit [...]'; Varrone, Rerum rusticarum de agri cultura 3.12-15 'T. Pompeus tantum saeptum venationis, ut circiter ∞ ∞ ∞ ∞ passum locum inclusum habeat. [...] Apros quidem posse haberi in leporario nec magno negotio ibi et captivos et cicuris, qui ibi nati sint, pingues solere fieri scis, inquit, Axi. [...] Nam silva erat, ut dicebat, supra quinquaginta iugerum maceria saepta, quod non leporarium, sed therotrophium appellabat [...] ut tanta circumfluxerit nos cervorum aprorum et ceterarum quadripedum moltitudo, ut non minus formosum mihi visum sit spectaculum, quam in Circo Maximo aedilium sine Africanis bestiis cum fiunt venationes'. Inoltre si vedano in merito le diverse citazioni in riferimento alle opere di Varrone e Columella evidenziate da Polara, Le venationes, cit., 98 nt. 60 e 102 nt. 66 e 67.

 

[145] Non è da escludersi in verità che in ipotesi di questo genere potessero rientrare anche i trasporti degli animali feroci da destinarsi ai ludi pubblici, per i quali, forzando leggermente la terminilogia, potremmo probabilmente parlare di trasporti di pubblica utilità, poiché indirizzati – nel contesto romano – verso una finalità di ampia rilevanza.

 

[146] F. Casavola, cit., 160, mette a confronto l'edictum de feris e l'actio de posito et suspenso per quanto riguarda l'ordine delle previsioni edittali fra morte e semplice lesione del passante. Nel caso dell'editto in analisi, secondo l'Autore, la previsione riguardo la lesione mortale sarebbe esaminata con precedenza rispetto all'altro caso poiché, in caso di attacco di un animale feroce, sarebbe più probabile l'esito maggiormente nefasto.

 

[147] Si vedano, fra gli altri, in merito alla questione ed alla attendibilità del tenore del frammento Beretta, Condemnatio in bonum et aequum, in «Studi in onore di Siro Solazzi nel cinquantesimo anniversario del suo insegnamento universitario», Napoli, 1949, 274 ss. nt. 19 e implicitamente Impallomeni (Leditto, cit., 87) il quale commenta il tenore della norma senza far riferimento alla possibile alterazione del concetto rispetto alla sua iniziale formulazione. Inoltre Guarino, Actiones, cit., 7 puntualizza i limiti della libertà concessa al giudice individuandoli entro ristretti margini di discrezionalità e tali da essere riconducibili a valutazioni tecniche, che nel concreto sarebbero state uniformi anche fra giudici diversi poiché basate su riscontri oggettivi: si veda incidentalmente, circa i metri di valutazione, D. 9.2.33pr., già citato per esteso supra nt. 53. L'Autore propone inoltre una correzione al concetto di condanna 'in bonum aequum' (op. cit., 11) «Il carattere edittale di 'bonum aequum' è dunque tutt'altro che sicuro: anzi, la evidente derivazione del nostro editto da quello de effusis et deiectis autorizza a supporre che anche in esso figurasse, almeno originariamente, solo 'aequum'». Inoltre, a pag. 12, l'Autore aggiunge «Il ricorso a valori astratti di aequitas, di iustitia, di bonum et aequum fu compiuto (o iniziato) solo dalla giurisprudenza classica, a partire probabilmente da Celso, con il risultato primario di travolgere i significati originari degli istituti pretori». Successivamente l’Autore – s.v. Equità (diritto romano), in «NNDI.», VI, Torino, 1975, 623 – tornando sull’argomento confermò l’attendibilità dei concetti espressi dal giurista severiano, pur rimanendo convinto, probabilmente a ragione, della sua tesi «L’elenco preciso di queste azioni (con condemnatio in quantum aequum videbitur) è contestato e qualcuno ha anche sostenuto che la condemnatio fosse originariamente formulata nel ‘quantum bonum et aequum’ (il che sembra confermato dal testo edilizio de feris, riportato da Ulpiano, D. 21.1.42, in una lezione, peraltro, guasta)». Si veda inoltre, in tema di quantificazione del danno, S. Tafaro, Linterpretatio ai verba quantum ea res est' nella giurisprudenza romana. Lanalisi di Ulpiano, Napoli, 1980, in particolare p 139 ss. e 219 ss.

 

[148] Cfr. D. 9.2.7pr. Supra nt. 51.

 

[149] D. 9.2.2.1 (Gaius 7 ad ed. provinc.) Et infra deinde cavetur, ut adversus infitiantem in duplum actio esset.

 

[150] Si noti come, oltre all’incipit più esteso del frammento tratto dalla legge romanico barbarica, vi sia o un errore di trascrizione o una degradazione del latino relativo alla parola ‘ligamen’ che vede una variazione di vocale tale da renderla scarsamente conciliabile con il contesto, secondo l'ortografia del periodo classico.

 

[151] LRB. 13.1 Si animal cuiuscumque damnum intulerit, aut estimationem damni dominus solvat, aut animal cedat; quod etiam de cane et bipede placuit, observari, secundum speciem Pauli sententiarum libro primo sub titulo: si quadrupes pauperiem fecerit. PS. Int. 1.15.1 Si alienum animal cuicumque damnum intulerit aut alicuius fructus laeserit, dominus eius aut aestimationem damni reddat aut ipsum animal tradat. Quod etiam de cane similiter est statutum. S. 1.15 Si quadrupes pauperiem fecerit damnumve dederit quive depasta sit, in dominum actio datur, ut aut damni aestimationem subeat aut quadrupem dedat: quod etiam Lege Pesolania de cane cavetur. Il secondo passo, forse tratto dal pensiero di Paolo, è stato inoltre spesso commentato in riferimento alla menzione di una fantomatica legge Pesolania, riguardante la disciplina giuridica sancita in merito al cane. Purtroppo non vi sono riscontri definitivi riguardo ad una sua effettiva esistenza, fatto che ha condotto diversi Autori ad ipotizzare che in realtà essa fosse una citazione di una altrettanto ignota Lex Solonia de cane (si vedano infra ntt. 168 e 169 i riferimenti al pensiero di Cujacio e Pothier), ma difficilmente pare sostenibile l'ipotesi di una influenza sul punto del mondo greco su quello latino. Circa l'esistenza della legge in discussione si vedano Macqueron, Dommages, cit., 136; F. Girard, Les actions noxales, in «Nouvelle revue historique de droit francais et etranger», XI, 1888, 316 e soprattutto E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit, ntt. 9-13, 293-294 per una esaustiva e recente panoramica in merito alle posizioni assunte dalla letteratura in merito all'esistenza ed al contenuto della Lex Pesolania.

 

[152] Solo incidentalmente, a dimostrazione di quanto l'actio de pauperie e l'azione derivante dall'edictum de feris fossero ritenute collegate dal punto di vista sostanziale, interessa in questa sede il passo delle Institutiones giustinianee in cui, trattando dell'actio de pauperie, viene citato in modo strettamente legato, il contenuto della seconda disposizione I. 4.9.pr.-1 Animalium [...] pauperiem fecerint, noxalis actio lege duodecim tabularum prodita est [...]. 1- Ceterum sciendum est aedilitio edicto prohiberi nos canem, [...] ibi habere qua vulgo iter fit.

 

[153] Naturalmente non ci è dato sapere se il ligamen in questione fosse adatto solo a trattenere il cane, come un semplice guinzaglio, oppure se contemporaneamente bloccasse le fauci dell’animale sommando alla costrizione dei movimenti anche gli effetti di una museruola.

 

[154] Se vi fosse necessità di ulteriori considerazioni in merito alla difficile collocazione delle Pauli sententiae fra le opere riconducibili al giurista da cui prendono il nome, si potrebbe accennare al fatto che in un testo, come quello in analisi, teoricamente redatto in un'epoca, quale il terzo secolo d. C., formalmente di transizione per la maggior parte delle province dell'impero fra due procedure processuali, per formulas e cognitio extra ordinem, sarebbe stato più logico, se non altro per uniformità verso le generali modalità espressive adottate dai giuristi, attendersi un formulazione più vaga nel riferimento alla tipologia giudiziaria, piuttosto che una presa di posizione verso l'applicazione esclusiva della più recente. Sfugge dalla materia di questo scritto affrontare in modo appropriato l’affascinante questione della evoluzione delle tipologie processuali. Mi sia semplicemente permesso far cenno alla questione della presunta abolizione nel 342 d. C. da parte degli Imperatori Costanzo e Costante della procedura formulare: data ovviamente inconciliabile con l’esclusiva menzione da parte del giurista Paolo della cognitio extra ordinem quale modalità procedurale per ottenere la soluzione della controversia. Si veda in merito G. Bassanelli Sommariva, Costanzo e Costante hanno davvero abolito il processo formulare?, in «Rivista di Diritto Romano – Periodico di Storia del Diritto Romano, di diritti antichi e della tradizione romanistica medioevale e moderna», pagina web http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/dirittoromano0102bassanelli.pdf , pubblicata nel gennaio 2002.

 

[155] Si veda il pensiero di Macqueron, Dommages, cit., 144 «Cela signifie qu'une bête féroce ne doit pas être enchainée dans le rues, autrement dit qu'on doit laisser divaguer in liberté! Le rédacteur maladroit a certainement voulu dire que la présence d'une 'fera bestia' était interdite dans le rues, même si elle est enchainée». L’Autore, esposto il suo rifiuto per il tenore letterale con cui questo testo ci è giunto, espone la ricostruzione che più di ogni altra, dal punto di vista contenutistico, ci saremmo aspettati di trovare in un passo di questo argomento.

 

[156] Ibidem.

 

[157] Il tenore originale del passo potrebbe in questo caso essere ipotizzato come: [Feram bestiam] <Feras bestias> in ea parte qua populo iter est [colligari] <collegi>, praetor prohibet. Et ideo, sive ab ipsa sive propter eam ab alio alteri damnum datum sit, pro modo admissi extra ordinem actio in dominum vel custodem datur, maxime si ex eo homo perierit.

 

[158] Gai. 2.67 Itaque si feram bestiam aut volucrem aut piscem ceperimus, simul atque captum fuerit hoc animal, statim nostrum fit, et eo usque nostrum esse intellegitur, donec nostra custodia coerceatur; cum vero custodiam nostram evaserit et in naturalem se libertatem receperit, rursus occupantis fit, quia nostrum esse desinit: naturalem autem libertatem recipere videtur, cum aut oculos nostros evaserit, aut licet in conspectu sit nostro, difficilis tamen eius persecutio sit.

 

[159] Nel qual caso, decisamente più complesso, si sarebbe dovuto far riferimento alle consuete norme per l'attribuzione della legittimazione passiva in capo al dominus per responsabilità del fatto altrui con eventuali ripercussioni, una volta di più, in campo nossale. Salvo naturalmente che il padrone non fosse stato a sua volta mandante o consapevole dell'intento lesivo, fatto che gli avrebbe non solo inibito la facoltà di liberarsi dalla responsabilità con la noxae deditio dello schiavo, ma avrebbe implicato la sua responsabilità diretta per la lesione provocata, escludendo quindi quella del servo. D. 9.4.2.1 (Ulpianus 18 ad ed.) [...] Celsus tamen differentiam facit inter legem Aquiliam et legem duodecim tabularum: nam in lege antiqua, si servus sciente domino furtum fecit vel aliam noxam commisit, servi nomine actio est noxalis nec dominus suo nomine tenetur, at in lege Aquilia, inquit, dominus suo nomine tenetur, non servi [...]. Si veda anche lo studio basato su D. 9.4.2 e D. 9.4.4 – per alcuni versi esplicitamente in contraddizione col Biondi – di B. Albanese, Sulla responsabilità del 'dominus sciens' per i delitti del servo, in «BIDR.», LXX, 1967, 120 «Noi riteniamo che, al contrario, avessero ragione gli studiosi meno recenti (Pampaloni, specialmente), che pensavano essere stata una innovazione giustinianea la generalizzazione dell'accennata rilevanza della scientia domini, mentre i classici avrebbero ammesso quella rilevanza solo per un limitato numero di fattispecie di illecito privato» continuando – circa la questione di nostro interesse – a pag. 129 «In conclusione, sembra estremamente probabile l'esistenza di una previsione espressa della scientia nel plebiscito aquiliano. Tanto più che [...] sarebbe veramente far troppo credito alla giurisprudenza l'attribuirle il potere di derogare così gravemente al principio civilistico del normale regime nossale [...] in mancanza di un appiglio diretto nel testo legislativo aquiliano». A favore di quest'ultima affermazione la ricostruzione della lex Aquilia teorizzata da Cannata – Il terzo capo, cit., 111 – in cui l'Autore inserisce in calce al terzo capo della legge le parole 'Si servus sciente domino faxit, adversus erum in solidum actio esto, si insciente, noxalis esto'. Come eccezione al regime comunemente ricondotto alle azioni nossali – ed in particolare al brocardo noxa caput sequitur – ritengo di grande interesse D. 9.4.2.1 (Ulpianus 18 ad ed.) Is qui non prohibuit, sive dominus manet sive desiit esse dominus, hac actione tenetur: sufficit enim, si eo tempore dominus, quo non prohibeat, fuit, in tantum, ut Celsus putet, si fuerit alienatus servus in totum vel in partem vel manumissus, noxam caput non sequi: nam servum nihil deliquisse, qui domino iubenti obtemperavit. A favore Kerr Wylie, Actio, cit., 468 «If the animal were alienated, there was no passing of liability from the alienor to the alienee. On the contrary, the alienor simply lost his power of making a transfer of the animal to the injured party (unless, of course, he could persuade the alienee to restore the animal), and had no alternative but to pay pecuniary damages: in no case did the alienee incur any obligation». Si veda inoltre sulla responsabilità del dominus in ambito aquiliano D. 9.2.45pr. (Paulus 10 ad Sab.) Scientiam hic pro patientia accipimus, ut qui prohibere potuit teneatur, si non fecerit.

 

[160] D. 9.2.27.9 (Ulpianus 18 ad ed.) Si fornicarius servus coloni ad fornacem obdormisset et villa fuerit exusta, Neratius scribit ex locato conventum praestare debere, si neglegens in eligendis ministeriis fuit: ceterum si alius ignem subiecerit fornaci, alius neglegenter custodierit, an tenebitur qui subiecerit? Nam qui custodit, nihil fecit, qui recte ignem subiecit, non peccavit: quid ergo est? Puto utilem competere actionem tam in eum qui ad fornacem obdormivit quam in eum qui neglegenter custodit, nec quisquam dixerit in eo qui obdormivit rem eum humanam et naturalem passum, cum deberet vel ignem extinguere vel ita munire, ne evagetur. Si veda inoltre in merito, anche se il passo esula dal contesto aquiliano, D. 44.7.5.6 (Gaius 3 aur.) Item exercitor navis aut cauponae aut stabuli de damno aut furto, quod in nave aut caupona aut stabulo factum sit, quasi ex maleficio teneri videtur, si modo ipsius nullum est maleficium, sed alicuius eorum, quorum opera navem aut cauponam aut stabulum exerceret: cum enim neque ex contractu sit adversus eum constituta haec actio et aliquatenus culpae reus est, quod opera malorum hominum uteretur, ideo quasi ex maleficio teneri videtur.

 

[161] Pare quasi superfluo precisare che la situazione sarebbe nuovamente mutata verso la colpa semplice nel momento in cui il dominus fosse stato al corrente della incapacità dello schiavo di portare a termine il compito affidatogli.

 

[162] Si veda Rodriguez Ennes, Estudio, cit., 49.

 

[163] In altre parole si potrebbe dire che si tratta di una situazione in cui – non esistendo alcun nesso soggettivo fra il comportamento, le precauzioni adottate dal dominus dell'animale e la lesione verificatasi – può constatarsi esclusivamente un rapporto diretto fra il diritto di proprietà e la legittimazione passiva all'azione, tipico della responsabilità oggettiva.

 

[164] Onida, Studi, cit., 237-38 nt. 48; Macqueron, Dommages, cit., 144.

 

[165] In merito le Institutiones, malgrado usino una perifrasi per indicare l'edictum de feris, sono chiare sulla questione del cumulo d'azioni: I. 4.9.1 Ceterum sciendum est aedilitio edicto prohiberi nos canem, verrem, aprum, ursum, leonem ibi habere qua vulgo iter fit: et si adversus ea factum erit et nocitum homini libero esse dicetur, quod bonum et aequum iudici videtur, tanti dominus condemnetur, ceterarum rerum, quanti damnum datum sit, dupli. Praeter has autem aedilicias actiones et de pauperie locum habebit: numquam enim actiones praesertim poenales de eadem re concurrentes alia aliam consumit. Al contrario, in merito al periodo classico, non ci sono stati tramandati passi altrettanto indicativi, Kerr Wylie, Actio, cit., 472 «But whether the classical jurisprudence allowed 'cumulation' to operate freely, so that the plaintiff could recover under both concurrent actions, or whether the cumulation was restricted by some form of 'pretorian' or 'judicial' consumption these are hard questions into which we cannot possibly enter here».

 

[166] In questa sede mi limito a trascrivere il testo del frammento tratto dalla legge dei Burgundi rinviando, per un esame comparato dei due frammenti allo scritto di E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 279-280. L.B.R. 13.1. Si animal cuiuscumque damnum intulerit, aut estimationem damni dominus solvat, aut animal cedat; quod etiam de cane et bipede placuit, observari, secundum speciem Pauli Sententiarum libro primo sub titulo: si quadrupes pauperiem fecerit.

 

[167] Interessante ma solo da segnalarsi, vista la marginalità rispetto al fulcro di della ricostruzione delle varie tipologie di responsabilità in cui potesse incorrere il padrone di un cane, è la considerazione sull'accezione dei termini damnum e pauperie in questo testo. E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 281, ipotizza che «La menzione del damnum sia gradualmente apparsa [...] nelle varie rielaborazioni del testo delle Sententiae, non con riferimento al damnum tecnico, del terzo capo della legge Aquilia, ma come espressione di una dilatazione di questo concetto [...]».

 

[168] J. Cujacio, Opera, tomo V, Prato, 1838, 2042 ss. L'Autore nel titolo XXIII intitolato 'Si quadrupes damnum intulerit' scrive a proposito del nome della legge in questione 'Sed idem etiam de lege, inquit, Pesulania de cane cavetur. In libro Lutetiae edito, curante Almarico Bouchardo, duobus annis antequam Basiliensem editionem Jo. Sichardus procurasset, legitur Pesolonia. Equidem legendum opinor: Solonia'. In nota al nome Solonia si legge inoltre 'Hanc Cujacii conjecturam magnopere probarunt Antonius [...] Sed sane vocabuli terminatio magis Romanam quam Atticam legem videtur indicare. Quis unquam Solonis leges vocavit Solonias? Et cur Paulus in libro, quo prima juris Romani elementa complexus est, legem quamdam Graecam adduxisset? Si recte se habet scriptura, ac non potius Petidiana, vel alio modo scriptum fuit, vero similius est Pesulanum quemdam quisquis is demum fuerit, Tribunum plebis speciatim de cane sanxisse quod lex XII tabularum generatim de quadrpedibus sanxerat, adeoque lege Pesulaniam plebiscitum quoddam esse, cujus tamen auctorem aeque ac aetatem scimus juxta cum ignarissimis'.

 

[169] R. G. Pothier, Pandette di Giustiniano, I, Venezia, 1841, 453. Pothier da credito alla lezione che vuole in ‘Lege Pesulania il corretto riferimento a questa legge.

 

[170] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 283 «Sicché la congettura, pur antica ed autorevolmente ripresa, di un richiamo erudito di Paolo alla legge ateniese sembra smentita da tutta la storia testuale successiva. D'altra parte il testo di Plutarco – Solon. 24.3, si veda inoltre la letteratura citata dalla Autrice – serva la menzione di moj di Solone contenente in un'unica legge previsioni sui quadrupedi (tÀtrapodwn), fra le quali figuravano anche disposizioni sui cani, con la singolare sanzione che il cane che avesse morso qualcuno doveva essere punito portando al collo un collare di tre cubiti. Troppe differenze, evidentemente, sia per ipotizzare un richiamo di Paolo fornito di un contenuto comparatistico di qualche attendibilità sia per negare qualunque fede a tre testi che, citando o meno la lex Pesolania, alludono comunque ad un provvedimento legislativo specifico per i cani e diverso, dunque, dalla previsione decemvirale delle pauperies compiute da quadrupes. Si aggiunga che la fonte greca sembra sottolineare il il carattere di misura di sicurezza pubblica [...] che mira a porre il cane, rivelatosi mordace, in condizioni di non nuocere».

 

[171] Si veda anche Provera, Lezioni, cit., 324-325. Brevemente l'Autore, oltre a propendere per la lezione lex Pesolana, ricostruisce il regime introdotto da questa norma con l'estensione dell'actio de pauperie la quale sarebbe stata esclusa per il cane in quanto fera bestia per i giuristi romani. A giustificazione dell'inclusione di questo animale nella schiera degli animali feroci, espressa comunque in forma dubitativa, sarebbe la concatenazione fra S. 1.15.1 e S. 1.15.1a, in considerazione del fatto che in questo secondo passo il caso esposto riguarda un 'saevus canis'.

 

[172] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 283. In questo senso del resto, già nel 1936, Kerr Wylie, Actio, cit., 465 «Originally, it may be, this action ('actio de pauperie') applied only to such quadrupeds as fell within the category of the 'res mancipi'. Then it may have been extended to all grazing quadrupeds, the category mentioned in the first chapter of the 'lex Aquilia', and finally to non-grazing quadrupeds as well, all species of quadrupeds being thus included. The process of extention may have been carried out partly by interpretation and partly by statute: as to the 'lex Pesolania'».

 

[173] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 286.

 

[174] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 287.

 

[175] Ponendosi in contrapposizione con la tesi (di tenore esattamente opposto) sostenuta da Giangrieco Pessi, Ricerche, cit., 155 ss. ed in particolare 156-157 «[...] La dottrina , in genere ha dubitato dell'esistenza della legge Pesolania, o ha tentato, modificandone il nome (ad es. Pesolania in Soloniana) di spostarne il significato da citazione di un precedente normativo dell'ordinamento romano a richiamo di diritto comparato di un precedente normativo dell'ordinamento greco. A noi sembra questa la via da percorrere. Concordiamo, infatti, con chi sostiene che il passo sia autentico e che la legge sia attribuibile all'ordinamento romano – probabilmente posteriore alla lex Aquilia ed antecedente all'editto de feris – anche se deformata, in quanto al nome, dai copisti».

 

[176] «Ma la congettura, pur finemente argomentata, non sembra convincente. Le fattispecie di questi due editti erano del tutto diverse tra loro e non può stupire che il comportamento dell'effudere vel deiecere, lecito peraltro di notte, meritasse una sanzione meno grave di chi conducesse a spasso un leone. Sicchè escluderei che nella diversità fra le due condanne abbia avuto 'gran parte quella distanza nel tempo che è sempre accompagnata da un aggravamento della condanne pecuniarie'». E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 291. Si veda supra § 1 per maggiori dettagli in merito alla tesi di Casavola.

 

[177] E. Caiazzo, Lex Pesolania, cit., 312 nt. 151.