ds_gen N. 7 – 2008 – Contributi

 

Democrazia e qualità dei cittadini*

 

Virgilio Mura

Preside della

Facoltà di Scienze Politiche

Università di Sassari

 

 

1. – Secondo la revisione della teoria classica operata da Schumpeter, la democrazia si configura non come governo del popolo, bensì come governo approvato dal popolo. In una tale prospettiva il valore della democrazia risiede non nell’essere, alla lettera, un sistema di autogoverno, ma un metodo di scelta dei governanti basato sul consenso liberamente espresso dalla maggioranza dei cittadini in funzione della selezione di una leadership all’interno di una rosa di candidati che competono per il voto popolare, impegnandosi a realizzare, se eletti, un determinato programma politico[1].

Ridotto all’essenziale, il fondamento assiologico e la base di giustificazione della democrazia risiedono dunque nella libertà-potere dei cittadini di scegliersi i governanti, ergendosi ad arbitri della competizione elettorale[2].

In questo principio guida della democrazia rappresentativa consiste la differenza fra elitismo democratico ed elitismo tout court. Un conto è, infatti, come aveva giustamente rilevato Filippo Burzio, un’élite che si impone, altro è un’élite che si propone[3]. Nel far derivare dal basso il potere di legittimazione dei governanti, nell’istituire l’unica relazione possibile di tipo ascendente di un potere formale e istituzionalizzato, è questo principio a segnare storicamente il passaggio dallo status di suddito a quello di cittadino. Le elezioni, libere e periodiche, costituiscono infatti il momento dell’investitura, l’atto solenne che conferisce l’autorizzazione a comandare, che fonda, per gli eletti, il diritto di legiferare e governare e da cui consegue, per i cittadini-elettori, l’obbligo politico, cioè il dovere di osservare e rispettare le leggi e gli outputs governativi.

Ma questo meccanismo ha senso se al centro del processo di legittimazione si colloca la categoria dell’interesse generale. Per quanto a molti osservatori appaia come una nozione ormai anacronistica, un valore posticcio legato alla retorica del buon governo, un residuo enfatico della cultura politica veteroccidentale - a fronte di una realtà caratterizzata dagli sfrenati particolarismi dei gruppi, da dinamiche di tipo corporativo e settoriale, da procedure legittimanti anonime e impersonali - la nozione di interesse generale svolge ancora un ruolo essenziale nella definizione della grammatica dei sistemi democratici. Non a caso è un concetto continuamente evocato, specie in occasione delle campagne elettorali, come elemento che qualifica il punto di congiunzione nel rapporto fra governanti e governati. E non solo perché tradizionalmente - da Aristotele in poi – è la categoria che serve a discriminare fra le forme buone e le forme corrotte di governo. Il che, sia detto per inciso sarebbe di per sé sufficiente ad escludere dal novero delle azioni razionali il conferimento del potere di governare a chi, tramite quel potere, intendesse perseguire non gli interessi della Città, ma i propri o quelli del gruppo di appartenenza. Ma anche perché è la categoria che fornisce il contenuto materiale ai processi di legittimazione del potere politico e ne stabilisce, al contempo, i limiti invalicabili. L’interesse generale, inoltre, segnala e registra la disponibilità o la propensione di un determinato aggregato politico-sociale a superare il particolarismo e i conflitti ad esso connessi e, quindi, a rappresentarsi in modo unitario. Per queste ragioni, l’individuazione e il perseguimento dell’interesse generale è l’unico obiettivo che giustifica l’autorizzazione a prendere decisioni sugli altri (in nome e per conto loro), e, perciò, sorregge in ultima analisi l’intera impalcatura logico-funzionale della democrazia. In altre parole, è la categoria dell’interesse generale a costituire il nucleo centrale sulla base del quale si struttura l’etica pubblica e il fulcro intorno al quale ruotano i processi elettorali e decisionali del sistema democratico, di cui, peraltro, rende intelligibili i postulati fondamentali.

 

2. – Un sistema che, come sottolinea lo stesso Schumpeter, tanto meglio funziona quanto più è elevata la qualità della leadership selezionata[4]. Il che significa che l’ideale della democrazia possibile e realizzabile dovrebbe corrispondere ad un sistema nel quale i cittadini conferiscono il diritto di governare ai migliori (i più illuminati, affidabili e disinteressati sul piano personale)[5].

Nella concezione di Schumpeter non c’è, però, spazio per analoghe raccomandazioni riguardo alla qualità dei cittadini. Anzi, al contrario, si dà per acquisito che l’uomo medio, quando entra nel raggio della politica, subisca una sorta di decremento del proprio rendimento mentale. Ne risulta non solo il paradosso che agli incapaci è demandato il compito di selezionare i capaci, ma soprattutto un’incomprensibile sottovalutazione della delicata (e cruciale) funzione che i cittadini svolgono nel momento elettorale, il punto focale della ratio e del funzionamento della democrazia rappresentativa, ossia dell’unica forma di democrazia conosciuta e sperimentata nell’età moderna.

Il fatto è che l’elevata qualità della leadership è una variabile dipendente dall’elevata qualità dei cittadini. Ma, anche, viceversa. La bassa qualità dei cittadini può essere l’effetto dell’azione diseducativa svolta dai codici di comportamento della classe politica. Comunque sia, la questione dell’educazione alla cittadinanza, che Norberto Bobbio annoverava fra le promesse non mantenute della democrazia[6], è una questione di vitale importanza, perché è proprio dal deficit di senso civico che nascono le principali distorsioni strutturali e le più evidenti deviazioni funzionali delle democrazie contemporanee.

Il problema del cittadino senza qualità si riflette sull’intero tessuto della convivenza organizzata, ma si rivela in maniera particolarmente acuta nelle fasi elettorali, che rappresentano il momento nel quale si invera visibilmente il principio della sovranità popolare, l’atto fondamentale nel quale si consuma il processo di partecipazione attiva dei cittadini alla determinazione, ancorché mediata, degli indirizzi politici del sistema di governo.

L’osservazione spregiudicata dei fatti porta, infatti, ad individuare la molla dell’agire politico nel particolarismo degli interessi di cui sia gli elettori che gli eligendi si fanno portatori. Interessi che vengono perseguiti nel mercato politico attraverso lo scambio del voto con la promessa di benefici personali e vantaggi immediati, la qual cosa riduce il rapporto politico ad una sorta di contratto di tipo privatistico. Nel risolvere la politica in una enorme ragnatela di scambi reciproci, non si fa altro che prendere atto, realisticamente, di una delle caratteristiche peculiari della democrazia pluralistica, che appunto funziona, per dirla con Bobbio, sul «continuo scambio tra produttori e consumatori di consenso» o, il che è lo stesso, sul continuo scambio «tra consumatori e produttori di potere»[7].

Si configuri come meccanismo interno al momento elettorale, oppure come una rete di rapporti, più o meno istituzionalizzati, che si sviluppano nei periodi infra-elettorali in forma bilaterale, come transazione fra singoli gruppi organizzati e il governo, o in forma trilaterale (il c.d. «neo-corporativismo»), o in modi multilaterali e multilivello (il c.d. fenomeno della governance) lo scambio politico costituisce la modalità principale della dinamica politica delle democrazie pluralistiche. Questo è ormai un dato acquisito nella letteratura specialistica[8]. Quel che può trasformare la categoria dello scambio politico, intesa come una «combinazione fra la logica del mercato e la logica dell’autorità»[9], in un sottoprodotto degenerativo della democrazia contemporanea è il contenuto specifico, l’oggetto dello scambio. Un conto è infatti lo scambio fra i gruppi e il governo, che sfocia nella stipulazione di contratti collettivi di rilevanza generale, o lo scambio fra i partiti politici, che struttura i rapporti del «grande mercato», altro è lo scambio che avviene nel «piccolo mercato» tra singoli individui, tra elettori ed eletti, governati e governanti. È soprattutto questo secondo tipo di scambio che appare esposto ai rischi della degenerazione, al punto da risultare il più delle volte niente più che un volgare baratto, e, talvolta, un mero mercimonio. Beninteso, tutto dipende dal contenuto, perché perfino il voto di opinione, valutato universalmente in senso positivo in quanto identifica una parte dell’elettorato normalmente qualificata come razionale e matura, può essere interpretato come una specie (una delle specie nobili) del voto di scambio, dal momento che accordare sostegno, critico e selettivo, ad un determinato programma di governo equivale in ultima analisi a scambiare consenso con la promessa di una prestazione futura. Ed anche il voto di appartenenza, caratterizzato da una miscela di elementi di tipo emotivo, fideistico e tradizionale, può configurarsi come una specie (pur essa nobile) del voto di scambio, in quanto punta ad ottenere, attraverso una sorta di investimento fiduciario, la conservazione o il rafforzamento di ambiti di solidarietà e di identità di tipo collettivo. Voto di scambio in senso deteriore è invece quello che porta a svendere il voto, il diritto-potere di selezionare la leadership e dunque il potere di legittimazione dei governanti, per interessi particolaristici o favori personali. In questo caso il cittadino si spoglia delle proprie prerogative «sovrane», abdica al proprio ruolo di «produttore» dell’autorità costituita, trasforma una funzione pubblica in una merce messa all’asta per il migliore offerente. È questa specie di voto di scambio, che, fra l’altro, presenta anche profili penalmente rilevanti, a trasformare i cittadini-elettori in clientes di patronati personali o di partito e a mantenerli in uno stato di perenne sudditanza[10].

 

3. – La responsabilità del ricorso a questo tipo deteriore di voto di scambio va naturalmente divisa in parti uguali. Se si pretende, giustamente, che i governanti abbiano senso dello Stato e cura della cosa pubblica, non si vede perché non si debba esigere altrettanto dai cittadini. Ciò non toglie, però, che il deficit di coscienza civile possa essere letto come il risultato dell’azione diseducatrice svolta da una classe politica i cui codici di comportamento sono l’effetto di processi di formazione e di modi di selezione che rinviano alla profonda involuzione che ha gradualmente trasformato la natura e il ruolo dei partiti politici.

Due tipiche funzioni dei partiti politici, in particolare, hanno subito negli ultimi trent’anni una radicale trasformazione. Il riferimento è all’articolazione, aggregazione e trasmissione delle domande e alla selezione (o reclutamento) della classe politica[11]. Per quanto riguarda il versante delle domande, i principali compiti normalmente attribuiti ai partiti sono, da un lato, quello di definire i problemi della società, ordinandoli secondo la gerarchia dei valori che è propria di ciascun partito, e, dall’altro, quello di indicare i provvedimenti necessari (le politiche) per risolverli. In questo modo i partiti individuano e recepiscono i bisogni o i desideri, li articolano, li convertono in domande generali (o generalizzabili), che poi combinano o aggregano. Su queste proposte richiedono, ricercano, raccolgono (o organizzano) il consenso, supporto indispensabile per rendere possibile la conversione delle domande in risposte da parte degli apparati di governo, composti normalmente – tranne nel caso, piuttosto raro, dei governi puramente tecnici – da esponenti degli stessi partiti. C’è da aggiungere che è attraverso l’elaborazione di programmi generali che i partiti producono processi di identificazione collettiva. Per quel che attiene al reclutamento del personale politico, la insostituibile funzione dei partiti, che sono gli attori principali nel processo di strutturazione del voto, si configura come selezione dei candidati proposti per l’elezione nelle diverse istituzioni rappresentative. La formazione delle liste elettorali assume così il significato di una predeterminazione (e di una semplificazione) del quadro delle scelte possibili da parte del cittadino-elettore.

Queste due funzioni – strettamente collegate, in quanto si esplicano l’una nella formulazione dei programmi di governo e l’altra nell’indicazione delle persone proposte per realizzarlo – identificano i partiti come strumenti indispensabili per il processo decisionale democratico. Ed è inutile sottolineare che la qualità del processo o il grado di funzionamento di una democrazia dipende, in buona misura, dalle modalità di espletamento di queste funzioni. Ebbene, a partire dagli inizi degli anni Settanta, queste due insopprimibili funzioni subiscono delle profonde modifiche in connessione con le trasformazioni sociali indotte dallo sviluppo economico (si compie il processo di industrializzazione) e dalla nascita dello Stato sociale. Il primo fenomeno produce il frazionamento e il particolarismo degli interessi, e quindi delle domande, che risultano sempre più difficili da aggregare e comporre. Di conseguenza i programmi dei partiti diventano sempre più vaghi e generici – essendo ormai l’imperativo funzionale quello di intercettare il maggior numero possibile di voti – e le risposte sempre più particolaristiche e specifiche (proliferano le c.d. leggine ed i provvedimenti ad hoc). Il secondo fenomeno, che in Italia assume la forma caricaturale o deteriore dello Stato assistenziale, provoca la dilatazione della sfera del pubblico, effetto dell’interventismo crescente dello Stato, e la conseguente istituzione di una grande varietà di enti parastatali e comunque strumentali alle nuove politiche ispirate al welfarismo. Si verifica così una crescita ipertrofica del sottogoverno, una ramificata e capillare rete di istituzioni deputate, in teoria, ad assicurare efficacia agli outputs, garantendo i collegamenti funzionali fra il centro e la periferia. La «risposta» del settore privato (la c.d. società civile) si concreta, d’altra parte, nell’incremento del pluralismo organizzativo, nella crescita dell’associazionismo dei più vari tipi, nel moltiplicarsi dei gruppi di pressione.

Compressi dalla concorrenza dei gruppi di interesse, i partiti di fatto abdicano al loro ruolo: abbandonano il terreno della formulazione dei programmi generali, che risultano sempre più generici e indistinti, e trasmettono domande sempre più specifiche e particolaristiche. E subiscono una metamorfosi strutturale perché, sfumate le differenze ideologiche, si trasformano in macchine elettorali (in all catch parties), organizzandosi in gruppi interni, in correnti più o meno ufficiali, in fazioni più o meno riconosciute o tollerate. Insomma, sul versante delle domande i partiti perdono ogni funzione specifica o esclusiva. Dietro la facciata delle sigle e dei simboli, ormai non più storici, appaiono per quello che sono: gruppi di interesse fra i gruppi di interesse.

Sul versante del reclutamento del personale politico, la proliferazione degli enti strumentali comporta un rafforzamento del potere di nomina dei partiti ad ogni livello di governo (nazionale, regionale, provinciale, comunale). Impotenti sul piano dell’elaborazione di programmi generali, i partiti agiscono in regime di pressoché totale monopolio nel distribuire cariche e nell’esercitare il potere di nomina del personale del sottogoverno. Una ragnatela fittissima di enti e consorzi, qualche volta inutili, altre volte fasulli, in genere non direttamente né funzionalmente collegati e coordinati con gli indirizzi programmatici e gli orientamenti delle istituzioni madri. In questo modo il potere di nomina, esercitato nel chiuso delle segreterie dei partiti, si risolve prevalentemente in una pratica di tipo clientelare, che segue logiche spartitorie ed è rivolta alla mera occupazione di posti di potere, secondo precisi criteri di lottizzazione, ossia è rivolta a produrre, attraverso lo scambio deteriore, quel consenso che i partiti non riescono più a raccogliere in base ai loro evanescenti (e posticci) programmi generali. La c.d. «occupazione» della società civile – sistematica e pervasiva oltre ogni limite – costituisce quindi non soltanto l’elemento «simbolico» della forza dei partiti, ma la principale risorsa per la quale i partiti ormai competono[12]. Strettamente collegata al fenomeno del frazionamento e del particolarismo delle domande, che comporta risposte altrettanto frazionate e particolaristiche, l’occupazione dei posti – poiché ogni posto occupato vale anche per gli ulteriori posti che permetterà di occupare, direttamente o indirettamente – si pone come il fattore fondamentale della produzione del consenso e dunque dell’accrescimento o della conservazione del potere relativo dei partiti. In altre parole, il sottogoverno, proprio perché costituisce la risorsa fondamentale per il loro automantenimento, è diventato il fine primario e, spesso esclusivo, dei partiti.

Tutto ciò implica un uso distorto delle istituzioni, in quanto funzionale non all’interesse pubblico, bensì all’interesse privato dei partiti e delle loro clientele. In questo quadro, in cui lo scambio degenera nel “piccolo mercato”, dove si fa mercimonio della funzione pubblica e si barattano voti con favori e privilegi, sia le opzioni elettorali che le politiche pubbliche diventano “beni” messi all’asta per il miglior offerente. Ma se il particolarismo degli interessi diventa la molla esclusiva dell’agire politico, la materia che circola nei canali di trasmissione delle domande e nei centri di conversione delle domande in risposte, allora si inverte il circolo virtuoso della democrazia.

 

4. – Pur evitando di scivolare nella retorica esaltazione delle antiche «virtù repubblicane» o in vaghi e moralistici appelli al senso civico, non si può non riconoscere che una democrazia che si regge sulla diffusione capillare delle pratiche clientelari, spesso veicolate attraverso gli apparati del sottogoverno, in cui si annidano i germi del favoritismo e della corruzione, è una democrazia malata.

Un vecchio adagio, degno del signor de La Palisse, recita che ogni società ha i governanti che si merita. La classe politica non è né migliore né peggiore della cosiddetta società civile: semplicemente ne è lo specchio. Ciò porta a concludere che l’elevata qualità della leadership, in cui consiste, secondo Schumpeter, l’ideale di ogni democrazia, è un obiettivo che può essere realizzato solo a condizione che sia elevata la qualità di cittadini. Problema di non facile soluzione, ne convengo. Inutile nascondersi che il tema delle virtù civiche difficilmente può diventare un ideale di massa nelle poliarchie contemporanee, che sono sistemi votati a produrre e consumare particolarismo, reticoli interattivi congegnati soprattutto per canalizzare il pulviscolo degli interessi privati di cui i vari micro-corporativismi sono portatori. Anzi, a giudicare dal disinteresse che le principali agenzie di strutturazione del consenso (partiti, gruppi di pressione, mass media) riservano al problema, si può tranquillamente sostenere che sia un ideale destinato a rimanere decisamente impopolare. Eppure, nonostante, ciò, è un ideale da coltivare. Il realismo, che nel campo delle considerazioni politiche è pur sempre il miglior consigliere, induce al pessimismo della ragione, non però necessariamente pure al fatalismo. Anche perché non c’è niente di più irrealistico del fatalismo.

Cittadini si nasce, se si ha la fortuna di venire al mondo in una democrazia. Buoni cittadini si diventa, se ci sono le condizioni. E la prima condizione è che la classe politica non remi contro, non abbia, cioè, un preciso interesse a operare sistematicamente per favorire la diseducazione civica, in quanto ritenuta funzionale alla propria perpetuazione. In questo caso l’impresa si fa più difficile, non, però, impossibile, benché richieda soluzioni radicali che implicano la rottura del rapporto fiduciario con i rappresentanti eletti, una decisa contrapposizione culturale con i laudatores dello status quo, insomma una rivoluzione etico-politica che parta dal basso e porti al rifiuto del voto di scambio deteriore, delle pratiche clientelari, dell’uso del potere pubblico per fini privati e personali.

Il cittadino consapevole della dignità della propria funzione, rispettoso dei doveri ed educato al responsabile esercizio dei diritti-poteri inerenti al proprio ruolo, è una figura che rinvia ad una “mentalità” che rifiuta come indegna ogni forma, sia pure larvata, di sudditanza e che si colloca esattamente all’estremo opposto di quella, tipicamente questuante, del cliente o di quella, avvilente, dell’adulatore e del cortigiano di mestiere. Una simile figura presuppone, ovviamente, identificazione con i valori basilari della democrazia e saldi legami di appartenenza al sistema politico-istituzionale, che non deve essere eroso da minacce di separatismi e secessionismi (per quanto incredibili e folcloristici), né da transizioni che risultino incerte, ondeggianti e perennemente incompiute.

In definitiva, è l’elevata qualità dei cittadini, più che i meccanismi ingegneristici dei politologi e gli espedienti tecnici dei costituzionalisti, a costituire l’antidoto più efficace contro il pericolo, in democrazia sempre incombente, delle derive populistiche e plebiscitarie, per tacere delle insidie che provengono dagli inganni dei demagoghi di turno, che attizzano torbidi umori per suscitare reazioni viscerali, e dalle pratiche manipolatorie degli immarcescibili corifei del paternalismo che continuano imperterriti, autentici residuati medioevali, ad offrire protezione (in questo e nell’altro mondo, non importa) in cambio di obbedienza incondizionata.

Ragione ulteriore per riprendere e riproporre il discorso sull’educazione alla cittadinanza, anche se, me ne rendo conto, oggi in Italia gli appelli al senso civico rischiano di apparire velleitari, se non addirittura come declamazioni puramente accademiche, vane esercitazioni di retorica o di arte predicatoria. Ma il campionario delle ideologie contemporanee, fra i prodotti di più largo consumo – fra quelli, beninteso, non scaduti - offre forse qualcosa di meglio? O c’è, forse, una riforma più urgente e necessaria per tentare di salvare il salvabile di quel che resta del nostro sistema di convivenza disegnato dalla Costituzione repubblicana sessant’anni fa?

 

 



 

* Relazione presentata nel Convegno su: Stato democratico e società civile in Europa. Luci e ombre. Fondazione Luigi Firpo – Torino 23 giugno 2008.

 

[1] J. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy [1942], G. Allen & Unwin, London 1954 (tr. it., Capitalismo, socialismo e democrazia, Comunità, Milano 1964, 257 ss.).

 

[2] Per una articolata disamina delle concezioni moderne della democrazia mi permetto di rinviare a V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 2004, cap. 8, Democrazia, 313-433.

 

[3] F. Burzio, Essenza e attualità del liberalismo, Utet, Torino 1945, 19.

 

[4] Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, cit., 276.

 

[5] Sotto il profilo prescrittivo – sul piano del dover essere – la democrazia può essere definita, come suggerisce G. Sartori (Democrazia. Cos’è, Rizzoli, Milano 1993, 117; The Theory of Democracy Revisited, Chatham House Publishers, Chatham [NJ] 1987, 167-69) alla stregua di una “poliarchia selettiva” ovvero di una “meritocrazia elettiva”.

 

[6] N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino 1984, 18-21.

 

[7] Ivi, 138.

 

[8] G. Rusconi, Scambio, minaccia, decisione. Elementi di sociologia politica, Il Mulino, Bologna 1984, 19 ss.; A. Mastropaolo, Il ceto politico, Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, 22 ss.

 

[9] Rusconi, Scambio, minaccia, decisione, cit., 25.

 

[10] Bobbio, Il futuro della democrazia, cit., 19, 136.

 

[11] Sul punto, cfr. A. Pizzorno, I soggetti del pluralismo, Il Mulino, Bologna 1980, 15 ss.

 

[12] Ivi, 41.