ds_gen N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro

 

foto AM5Attilio Mastrocinque

Università di Verona

 

omnes civitates divisae sunt in

duas partes”. una Testimonianza

di cesare sulla funzione tribunizia

 

 

Cesare, nel de bello Gallico[1], descrive la struttura sociale delle comunità galliche in questo modo:

 

In Gallia non solum in omnibus civitatibus atque in omnibus pagis partibusque, sed paene etiam in singulis domibus factiones sunt earumque factionum sunt principes, qui summam auctoritatem eorum iudicio habere existimantur, quorum ad arbitrium iudiciumque summa omnium rerum consiliorumque redeat. Idque eius rei causa antiquitus institutum videtur, ne quis ex plebe contra potentiorem auxilii egeret. suos enim quisque opprimi et circumveniri non patitur neque, aliter si faciat, ullam inter suos habet auctoritatem. Haec eadem ratio est in summa totius Galliae; namque omnes civitates divisae sunt in duas partes.

 

In Gallia non solo tutte le città, le comunità rurali e i gruppi, ma addirittura quasi tutte le famiglie sono divise in fazioni. A capo di esse sta chi, secondo l’opinione dei Galli, è considerato più autorevole, ed egli è arbitro e giudice in tutti gli affari e le deliberazioni. A quanto pare, l’istituzione risaliva a tempi antichi, al fine di garantire alla gente del popolo aiuto contro i più potenti. Infatti, il capo di ogni fazione non permette che la sua gente subisca violenze o raggiri; in caso contrario, tra i suoi perde ogni autorità. Lo stesso sistema regola ogni cosa in Gallia, tant’è vero che tutti i popoli sono divisi in due parti.

Non è facile dire quanto questa testimonianza di Cesare descriva obiettivamente le strutture sociali dei Galli[2] e quanto la descrizione sia influenzata dalla mentalità politica e sociale di Cesare stesso. Da un lato è vero che lo stesso autore, in altre occasioni, parla di due partiti, o fazioni che si contendevano il potere presso alcuni popoli gallici: Diviciacus contro Dumnorix, Indutiomarus contro Cingetorix, Vercingetorix contro Gobannitio. D’altro canto, egli usa un termine, auxilium, che è tipico della potestà dei tribuni della plebe, che potevano portare aiuto a ciascun cittadino, per proteggerlo da ogni ingiustizia da parte dei potenti. E inoltre Cesare dice che l’auxilium viene fornito dai capi ai membri della plebs contro i potentiores. Certamente Cesare usa terminologia e schemi sociali tipicamente romani per definire realtà galliche. In ogni caso questo rispecchia una certa visione che Cesare aveva della società, delle sue partizioni e delle dinamiche costituzionali[3].

Se ammettiamo che l’autore fosse stato condizionato dal suo forte retroterra politico-istituzionale, allora ne ricaveremmo una ben precisa concezione della repubblica romana, che non è affatto in sintonia con lo schema tripartito con cui Polibio, nel VI libro[4], descrive la costituzione romana. Lo storico greco seguiva le tradizionali categorie con cui Platone e Aristotele avevano classificato le costituzioni: monarchia, aristocrazia e democrazia, e asseriva che in Roma erano compresenti i tre tipi di poteri espressi in quelle tre forme costituzionali. 

Nella letteratura moderna, dall’Ottocento ai giorni nostri, tale visione polibiana ha avuto un notevole successo, ma nel 1974 Pierangelo Catalano[5] ha avanzato una rilevante ed organica serie di testimonianze, desunte soprattutto (ma non solo) dalle antiche formule del diritto pubblico, che provano come lo schema tripartito della costituzione romana non fosse affatto radicato nella concezione che i Romani stessi avevano della loro costituzione. Innanzi tutto, il Catalano ha notato l’assenza, tra i poteri nella repubblica romana menzionati da Polibio, dei sacerdozi e del tribunato, ai quali Cicerone[6] assegna l’importanza loro dovuta. Ma anche passando oltre queste omissioni, risulta particolarmente importante il binomio populus plebesque, che indica il tutto e la parte, la quale tendenzialmente si identifica con il tutto, mentre l’espressione populus plebesve caratterizza le citazioni di leggi o plebisciti, i quali, dopo la legge Hortensia (287 a.C.) furono equiparati fra loro. Importantissimo anche il binomio populus Romanus Quirites, che indica il popolo nella sua collettività e i singoli membri del popolo[7], e populus senatusque che testimonia l’importanza sempre maggiore acquisita dal Senato, specialmente quando la respublica formulava provvedimenti di legge, approvati dal populus e resi autorevoli e validi dal Senatus. Un passo di Quintiliano[8] chiarisce che, da un lato, le parti in cui la repubblica si divide sono incerte, mentre certe sono le forme in cui la repubblica può essere retta: democratica, oligarchica o monarchica. Polibio dunque si riferiva alle forme, mentre spessissimo la giurisprudenza romana metteva in evidenza le partes, che generalmente si trovano ad essere due. 

Il pensiero politico di Sallustio e di Tacito si rifanno alla bipartizione populus - senatus[9], tipica delle formule del diritto, in cui la sovranità romana viene espressa da tale binomio.

Il clima delle guerre civili accentuò la dualità dell’ordinamento della repubblica romana, in cui un unico popolo si trovava diviso in due parti, di cui l’una era la plebe con i suoi tribuni e l’altra il Senato con i suoi sostenitori. Cicerone[10] sosteneva che il tribunato di Tiberio Gracco aveva creato in una sola repubblica, per così dire, due Senati e due popoli. Meno estremo è il giudizio storico di Appiano, il quale scrive:

 

«Ed una volta che la plebe, mentre era in armi, venne a un contrasto di tal fatta, non impiegò le armi, che pure aveva in mano, ma, ritiratasi sul monte, che da questo avvenimento fu detto Sacro, non commise neppure allora alcuna azione violenta ed istituì una magistratura a propria tutela e la chiamò tribunato della plebe, con lo scopo di contenere soprattutto i consoli, che venivano scelti fra i patrizi, perché non fosse esclusivamente in mano loro il potere politico. Di conseguenza, da questo momento, le due magistrature si trattarono in maniera ancor più ostile e litigiosa, ed il Senato e la plebe si schierarono con quelle, poiché da un aumento di potere di quelle magistrature ciascuna delle due parti avrebbe avuto il sopravvento sull’altra»[11].

 

Gli autori romani ai quali Appiano si era ispirato[12] non concepivano la compresenza dei tre poteri nella repubblica, ma la vedevano schierata in due parti, ciascuna delle quali si riferiva a poteri diversi, quello consolare e senatoriale da una parte, e quello tribunizio dall’altra. 

La testimonianza di Cesare va nel medesimo senso: egli riconosceva presso i Galli una situazione simile a quella di Roma, in cui la comunità si trova divisa in due parti, e in cui certi capi hanno la funzione di portare auxilium ai plebei. Appiano e Cesare riflettono i punti di vista, rispettivamente, degli optimates e dei populares, ma giungono a definizioni non molto differenti fra loro. Il valore delle loro testimonianze è però diverso da quello delle formule giuridiche del tipo di Senatus populusque o populus plebesve. Infatti le loro testimonianze riflettono le idee costituzionali dell’epoca delle guerre civili, quando stava ripetendosi la divisione fra due corpi civici che si era conosciuta sul Monte Sacro.

 



 

[1] De bello Gallico VI.11.

 

[2] M. RAMBAUD, L’art de la déformation historique dans les Commentaires de César, Paris 1966, 327-8, ha rilevato come Cesare in questi capitoli etnografici dei Commentarii abbia generalizzato fenomeni che si verificavano solo in certi momenti presso certi popoli.

 

[3] Potremmo essere di fronte ad un atteggiamento etnografico analogo a quello di Erodoto, studiato dallo Hartog (Le miroir d’Hérodote).

 

[4] Part. capp. 11-13.

 

[5] La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, 667-691.

 

[6] Nel quale troviamo la tripartizione sacra, sacerdotia, magistratus.

 

[7] Cf. però A. MASTROCINQUE, Propriété foncière archaïque et modèles d’interprétations modernes, in La question agraire à Rome: droit romain et société. Perceptions historiques et historiographiques, Como 1999, 101-109.

 

[8] Inst. V.10.63; valorizzato in proposito dal Catalano, 689.

 

[9] Cf. S.L. UTSCHENKO, Der weltanschaulich-politische Kampf in Rom am Vorabend des Sturzes der Republik, Berlin 1956; R. SYME, Sallustius, Berkeley 1964; E. KOESTERMANN, Cornelius Tacitus, Annalen, Heidelberg 1963-1968; CATALANO, 690-1.

 

[10] Rep. II.31: cur in una re publica duo senatus et duo paene iam populi sint? Nam, ut videtis, mors Tiberii Gracchi et iam ante tota illius ratio tribunatus divisit populum unum in duas partis.

 

[11] B.c. I.1 (trad. Gabba).

 

[12] Soprattutto Livio; cf. E. GABBA, Appiani Bellorum civilium liber primus, Firenze 1967, 2a ed., XXVIII e XXXI.