ds_gen N. 7 – 2008 – Memorie//MMD-Giuramento-plebe-Monte-Sacro

 

SolidoroLaura Solidoro

Università di Salerno

 

Tassi usurari e giurisdizione

 

 

Sommario: 1. Faeneratores e vittime dell’usura tra V e III sec. a.C. – 2. La più antica legge antiusura. – 3. Le sanzioni per gli inosservanti: le procedure rimesse all’iniziativa dei privati. – 4. Segue: i rapporti tra la legge Marcia in Gai 4.23 e la manus iniectio quadrupli. – 5. Un nuovo esperimento di politica legislativa. – 6. La repressione pubblica del prestito usurario. – 7. Il plebiscito Sempronio. – 8. Il mancato coordinamento tra le disposizioni legislative e la loro divaricazione rispetto alla prassi: disagi nell’esercizio dell’attività giurisdizionale.

 

 

1. – Faeneratores e vittime dell’usura tra V e III sec. a.C.

 

Oggetto della prima parte di questo studio è l’esame dei problemi legati alla tutela e alla repressione giurisdizionale del faenus con riferimento alle rivendicazioni della plebe tra V e III sec. a.C., e dunque con riguardo a un periodo in cui, secondo una opinione molto diffusa, il ricorso al prestito era finalizzato alla mera sopravvivenza o al pagamento di debiti preesistenti, non certo all’impiego in settori produttivi o a finanziamenti in attività commerciali[1]. Se si accoglie questa impostazione, occorre supporre che non prima della metà del III sec. a.C. il faenus avrebbe perso la sua originaria caratteristica di ‘prestito di consumo’, in quanto tale totalmente improduttivo; solo questo mutamento avrebbe fatto sì che si cominciasse a considerare giustificata la previsione degli interessi.

Quanto appena esposto postula però una economia povera e stagnante anche nell’età della monarchia etrusca; il che sembra molto opinabile, se si considera la rete di vantaggiosi rapporti commerciali che certamente crearono gli etruschi[2] e che poi bruscamente venne a cadere con il rovesciamento della monarchia[3]. Concordo invece nel ritenere che le XII Tavole attestano il ritorno ad una economia legata a modeste attività agropastorali[4]: occorre attendere il finire del IV secolo per l’emersione di segnali di piena ripresa, quale la costruzione della via Appia, probabilmente voluta da Appio Claudio il Cieco, al fine di incrementare le relazioni commerciali tra Roma e Capua, cui era dedita la plebe urbana (liberti, mercanti, banchieri)[5]. Ma tale dato, se da un lato insinua il dubbio che già all’epoca i prestiti potessero essere finalizzati all’investimento in imprese commerciali anche da parte della plebe (urbana, e forse anche rustica), per altro verso scuote pure la tradizionale rappresentazione di un ceto plebeo omogeneo e monolitico, nella sua pervicace avversione alla pratica dei prestiti feneratizi.

E’ comunque da rivedere attentamente l’immagine – trasmessa da Livio – di un patriziato dedito all’usura, praticata ai danni della plebe, ceto indigente e compatto, tanto nella sua composizione interna, tanto nella condizione di povertà: in realtà, strati emergenti della plebe disponevano di grosse quantità di aes già nel V sec. a.C., come nel caso di Spurio Melio[6], mentre le indagini prosopografiche dimostrano[7] che, all’indomani delle leggi Licinie Sestie, esponenti di spicco della plebe si coalizzarono con alcuni patrizi, condividendone attività economiche, fortune, e indirizzi di politica legislativa.

Anche la pretesa ‘improduttività’ del prestito di consumo, fino al III sec. a.C., è, probabilmente, un luogo comune da sottoporre a puntuale riesame. Il calcolo dell’interesse risulta essere una pratica antica quanto il prestito stesso, ed è senz’altro antecedente l’avvento dell’economia monetaria: il prestito di solidarietà più antico è, infatti, il prestito di derrate alimentari (farro), di pellami – questi sì, improduttivi –, ma anche di semi e di bestiame. Oltre che presso i Romani, come più avanti si preciserà, la richiesta di prestiti in natura e a breve termine, da restituire con il nuovo raccolto, è stata osservata anche con riguardo ad altri popoli antichi[8]. La nozione di interesse e la determinazione del suo tasso si sono create sulla base di due elementi: a) il calcolo della prole e dei prodotti degli animali o dei semi prestati; b) la verifica del danno cagionato dal ritardo o dalla mancata restituzione del ‘capitale’ prestato entro il termine stabilito, comportamento che si è reputato passibile di rigorose sanzioni. E’ stato sostenuto che la nozione di interesse deve essere in origine sorta con il prestito di bestiame[9]. La congettura trae forza dall’osservazione che i popoli indoeuropei più antichi calcolavano in prevalenza l’interesse composto[10], non quello semplice: operazione di computo troppo complessa, se rapportata ad una economia monetaria antica, ma perfettamente comprensibile se posta in rapporto alla moltiplicazione naturale del bestiame (e, credo di potere aggiungere, della semente).

Queste esperienze appaiono tutt’altro che lontane dalle realtà economiche dell’area italica. E infatti, a Roma anticamente il valore dei beni si stimava in bestiame (ed è possibile che l’aes signatum della fase più recente recasse l’effige di un animale proprio perché ormai il lingotto aveva sostituito il bestiame, come mezzo di scambio[11]). Significativa, forse, è anche la circostanza che gli autori latini asserivano la derivazione etimologica di faenus da fetus[12]. Considerato, poi, che i Romani allevavano per lo più montoni, la cui gestazione dura solo cinque mesi, e i cui prodotti (lana e latte) erano ritenuti assai pregiati, si spiega perfettamente l’enormità del tasso di interessi leciti in Roma antica, che Tacito (ann. 6.16), come a breve si esporrà, riferisce alla disposizione decemvirale: faenus unciarium indica probabilmente un dodicesimo mensile, dunque il 100% annuo[13]. Presso i popoli dediti ad attività agropastorali l’interesse segue la semplice regola della restituzione del doppio[14].

‘Prestito improduttivo’ era dunque solo il prestito di pellami e di derrate alimentari. Il prestito di danaro lo fu solo nella fase precedente l’espansione dei commerci.

 

 

2. – La più antica legge antiusura

 

E’ alle leggi delle XII tavole[15] che verosimilmente risale la prima limitazione legale degli interessi. Lo asserisce Tacito, nel corso di una sintetica – ma estremamente efficace – descrizione delle prime misure repressive delle usure:

 

Tac. Ann. 6.16: …Nam primo duodecim tabulis sanctum, ne quis unciario faenore amplius exerceret, cum antea ex libidine locupletium agitaretur; dein rogatione tribunicia ad semuncias redactum, postremo vetita versura: multisque plebiscitis obviam itum fraudibus quae totiens repressae miras per artes rursum oriebantur...

 

Una norma sul tasso d’interesse sembra coerente con il più ampio progetto dei decemviri, se è vero che l’ascesa del ceto plebeo (vale a dire quello che, all’epoca, subiva in massima parte le vessazioni degli usurai) ebbe un ruolo significativo nell’intera vicenda del decemvirato[16]. Il plebiscito Duilio Menenio del 357 a.C., cui Livio (ab u.c. 7.16.1; 7.19.5) riconduce il limite del faenus unciarium, fu probabilmente solo una reiterazione dell’antica norma, caduta in desuetudine dopo l’incendio gallico[17].

E’ però poco credibile che in età decemvirale il fenomeno del prestito si realizzasse già esclusivamente nei modi tipici dell’economia monetaria: l’espressione tacitiana faenus unciarium (interesse nella misura dell’oncia) sembra fare riferimento ad una economia monetaria, eppure l’aes signatum allora circolante era bronzo, dunque metallo scambiato a peso, non moneta numerata a corso legale[18]. Solo nel IV sec., con il conio campano-laziale, si verificò una circolazione monetaria statale. Ma ci risulta che nel VI sec. a.C. circolava a Roma, oltre all’aes signatum, anche moneta coniata fuori Roma[19]. Dunque, la moneta circolava; sono però da escludere pratiche di investimento massiccio in attività mercantili, considerato il regresso, verificatosi nel V sec., a forme di economia agropastorale. Può ritenersi che in età decemvirale il bestiame fosse tornato in auge, come merce di scambio, pur non soppiantando del tutto il bronzo, che, sebbene facilmente accessibile solo alle fasce sociali più elevate, veniva usato, per esempio, nel rituale della mancipatio[20].

Un riscontro di quanto appena esposto si può avere dall’osservazione dell’antica disciplina delle mulctae: mentre in età predecemvirale le multe pubbliche venivano irrogate in aes signatum, la lex Maenenia Sextia del 454 a.C. e poi la lex Aternia Tarpeia datata al 448 a.C. reintrodussero la possibilità di pagare le multe con capi di bestiame, stabilendo i criteri sulla base dei quali potesse procedersi ad una conversione tra bestiame ed aes[21].

Eppure, non possono sussistere dubbi sulla diffusa pratica del prestito nel V sec. Ne fanno fede troppe testimonianze univoche, che evidenziano quanto la piaga dei debiti opprimesse vasti strati della popolazione, già a partire dal 498 a.C.[22].

Sulla base dei dati disponibili, si deve ritenere che i debiti e gli interessi relativi, verso la metà del V sec., concernessero tanto beni naturali, quanto aes signatum. L’ipotesi che ancora buona parte dei debiti dell’età decemvirale derivasse da prestiti in natura deriva dalla considerazione che l’impoverimento generale conseguente alla caduta della monarchia etrusca colpì soprattutto gli strati più bassi della popolazione, esclusi dalla circolazione dell’aes, depauperati dal servizio militare e dalle devastazioni belliche[23], e perciò costretti a ripiegare sulle attività agropastorali.

Il divieto, attestato da Tacito, di exercere (resta dubbio se il significato da attribuire a tale vocabolo sia ‘esercitare’ o ‘esigere’) il faenus in misura esorbitante l’uncia (su base annuale o mensile?) del capitale prestato (bestiame, sementi, metallo) non contrasta necessariamente con il quadro tracciato. Anche nell’aspetto terminologico può ravvisarsi una curiosa esemplificazione del carattere ‘misto’ dell’economia dell’epoca, presa in considerazione dallo storico: faenus da fetus, secondo l’etimologia, con ogni probabilità esatta, testimoniata dalle fonti, è un inequivocabile richiamo all’economia pastorale, mentre unciarium opera un possibile riferimento all’uso del metallo.

Se è vero che l’uncia designa la dodicesima parte della libbra, non si deve, per ciò, meccanicamente giungere alla conclusione che l’espressione unciarium presuppone già circolante l’aes grave librale e che non può, dunque, riferirsi ad avvenimenti antecedenti il IV sec. a.C. In realtà, il termine unciarium non va necessariamente inteso come percentuale di una determinata quantità di denaro (per esempio, Columella, in de re r. 3.2.2, utilizza la parola unciaria in un’accezione ponderale: ‘acini rossi dal peso di un’oncia’). Difatti la libbra, quale unità di misura ponderale, era largamente usata negli scambi di merci, e di merci con metallo, già anteriormente al V sec.[24]. Neppure si può validamente obiettare che sarebbe risultato troppo difficile, per la mentalità dell’epoca, calcolare interessi in metallo qualora i prestiti fossero stati fatti in natura: il metallo, quale merce di scambio, veniva quantizzato abitualmente sin da tempi antichissimi con criteri ponderali, o numerici, o formali[25], e la pronta realizzabilità della conversione tra beni naturali ed aes è dimostrata dal contenuto delle leggi Maenenia Sestia e Aternia Tarpeia (i cui criteri di conversione tra bestiame ed aes erano stati ispirati, probabilmente, dai canoni e dalle valutazioni all’epoca ricorrenti nei commerci privati)[26].

 

 

3. – Le sanzioni per gli inosservanti: le procedure rimesse all’iniziativa dei privati

 

Al riguardo sussistono quattro testimonianze; secondo l’opinione corrente, esse sono pertinenti alla stessa procedura giurisdizionale, che avrebbe peraltro costituito l’unico strumento privatistico di difesa per le vittime dell’usura. Come si constaterà, questo luogo comune probabilmente deve essere rivisto.

La disposizione decemvirale con la quale si poneva il divieto di superare, nella richiesta di interessi, il limite del faenus unciarium ci si presenta come una lex imperfecta, cioè come una legge senza alcuna comminatoria a carico degli inosservanti (benché sia improprio, a rigore, il richiamo ad una tricotomia di elaborazione ben più tarda[27], rispetto al fenomeno all’esame). Nessuna sanzione (né la rescissione dell’atto, né una sanzione pecuniaria) risulta infatti ricondotta da Tacito all’ipotesi di violazione del divieto. D’altra parte, l’intera legislazione fenebre si caratterizza per la mancata previsione dell’invalidità dell’atto compiuto in violazione di ciò che si fosse disposto[28]: fattore che ha alimentato i sospetti circa la natura essenzialmente politico-demagogica delle leggi in parola[29].

Oltretutto, il tasso del 100% annuo è quello tipico di una economia agricola, e non sembra che la fissazione di questo limite potesse avere costituito un significativo successo per le vittime dell’usura: il faenus unciarium, in altri termini, non introduceva un tasso inferiore, rispetto alla prassi dell’epoca. I problemi sorsero, verosimilmente, quando si cominciò ad applicare il tasso del 100% annuo, proprio dell’economia agro-pastorale, a prestiti che ormai si innestavano su una economia monetaria, denotata da un timido rifiorire dei commerci. Non essendo ancora esplosa l’economia mercantile, il prestito di danaro costituì inizialmente un prestito ‘improduttivo’[30]. Non a caso, proprio nel IV sec. (in concomitanza con il primo conio di moneta bronzea romana, datato al 338 a.C.) il tasso d’interesse divenne il punto centrale dello scontro sociale[31]. L’economia romana cominciò ad abbandonare il tradizionale carattere rurale, per compiere il suo percorso verso la monetizzazione[32], ma, lungo questo tragitto, l’imposizione di alti tassi di interesse ai prestiti in denaro si rivelò un peso insopportabile per i meno abbienti. Di qui, l’esigenza di una repressione efficace degli abusi.

Tacito, però, con il ricorso al vocabolo exercere (nel senso di ‘praticare’, ‘esercitare’, o piuttosto di ‘esigere’?) non chiarisce se vietata fosse la convenzione degli interessi superiori all’uncia o se vietata ne fosse solo la riscossione. Qualora si dovesse propendere per la seconda ipotesi, andrebbe riveduta l’opinione comune, secondo cui le antiche leggi antiusura sarebbero imperfectae: e infatti, se al divieto di esigere (e non di ‘concordare’) usurae ultra modum fosse stata connessa la sanzione del quadruplum, si dovrebbe piuttosto qualificare la norma limitatrice degli interessi (benché impropriamente utilizzando una concettualizzazione successiva) come minus quam perfecta[33].

E’ probabile, a mio giudizio, che la violazione del vetusto limite del faenus unciarium fosse sanzionata sin dall’origine con un’azione penale privata in quadruplum. Catone il Censore fa risalire ai maiores un’azione penale con condanna in quadruplum, collegata alla violazione dei divieti in tema di usurae e già posta nelle ‘leges’:

 

Cat. de agr. praef. 1: Maiores nostri sic habuerunt et ita in legibus posiverunt, furem duplum condemnari, feneratorem quadrupli.

 

Nel passo, si effettua un accostamento con la pena decemvirale del furto, ma è difficile affermare con certezza che anche la pena nel quadruplo per l’usuraio era prevista nelle XII Tavole, quale conseguenza della violazione del limite, ivi fissato, del faenus unciarium[34]. Un indizio in questo senso si potrebbe vedere nell’uso dell’espressione in legibus: è questo l’elemento che dovrebbe indurre, a mio giudizio, a rivedere un luogo comune, l’affermazione, cioè, che le più antiche leggi antiusura fossero leges imperfectae, cioè prive di qualunque comminatoria a carico del trasgressore. Le antiche leges fenebres andrebbero più propriamente qualificate come leges minus quam perfectae[35], vale a dire come leggi che, pur non prevedendo la rescissione dell’atto costitutivo di usure ultra modum, comminavano una sanzione penale per l’inosservante.

Nessuno, comunque, dubita che l’importanza della testimonianza catoniana risieda nel ricordo di una poena quadrupli (privata) contro gli usurai[36]. Tale sanzione era forse collegata ad un’azione esecutiva (manus iniectio in quadruplum) nei confronti di un faenerator iudicatus (vale a dire, condannato, dopo un regolare processo di accertamento in ordine all’esazione di interessi in misura illecita); oppure, più probabilmente, ad un procedimento direttamente esecutivo, quale la manus iniectio pura in quadruplum, cui il processo di accertamento faceva seguito solo nell’ipotesi di contestazione da parte dell’usuraio. Questo secondo collegamento è stato suggerito dalla lettura congiunta di altre tre testimonianze, che tuttavia appartengono, o fanno riferimento, ad una età successiva.

Apprendiamo da uno scolio alla divinatio in Q. Caecilium di Cicerone dello Pseudo Asconio (IV o V sec. d.C.)[37], che quadruplator, in relazione ai processi (pubblici), era denominata la persona che avesse conseguito la quarta parte del patrimonio del reo, attraverso la delazione di un crimen, o che avesse accusato coloro che poi venivano condannati nella misura del quadruplo per gioco d’azzardo, o per avere praticato l’usura ad un tasso superiore rispetto al mos maiorum, e per altri crimina dello stesso genere, attraverso l’esercizio di una azione penale (privata?) a ‘legittimazione generale’[38] (non è però specificato se la summa condemnationis era lucrata dall’attore):

 

Ps. Asc. ad Cic. in div. 7.24 (194 ed. Stangl): Quadriplatores delatores erant criminum publicorum, in qua re quartam partem de proscriptorum bonis quos detulerant consequbantur. Alii dicunt quadriplatores esse eorum reorum accusatores qui convicti quadrupli damnari soleant, aut aleae aut pecuniae gravioribus usuris foeneratae quam pro more maiorum aut eiusmodi aliorum criminum.

 

Colpisce, nel dettato complessivo del testo[39], da un lato il richiamo a un mos maiorum sul limite dei tassi usurari, dall’altro lato l’uso di espressioni chiaramente allusive a forme più proprie della repressione pubblica (proscriptio bonorum, accusatores reorum, criminum), non già privata; ma la scelta terminologica si spiega forse con la datazione del testo ad una età in cui non sussisteva più un’apprezzabile differenza tra repressione pubblica e privata. Nulla aggiunge ai contenuti del passo ora esaminato

 

Ps. Asc. ad Cic. in Verr. 2.7.21 (261 ed. Stangl): Accusatores sive delatores criminum publicorum sub poena quadrupli: sive quod ipsi ex bonis damnatorum, quos accusaverant, quartam partem consequebantur.

 

Risulta invece compatibile con forme repressive private

 

Paul. Diac. apd. Fest. s.v. quadruplatores (309 ed. Lindsay): Quadruplatores dicebantur, qui eo quaestu se tuebantur, ut eas persequerentur, quarum ex legibus quadrupli erat actio.

 

Si afferma che i quadruplatori lucravano la condanna al quadruplo, ma non vi è alcuna allusione agli usurai.

Per il 197 o 196 a.C. (secondo la datazione tradizionale del Persiano, che tuttavia potrebbe anche essere stato scritto tra il 215 e il 184), da Plauto apprendiamo di un procedimento che forse si può individuare come una forma più evoluta rispetto al rimedio menzionato da Catone e riferito ai maiores:

 

Plaut. Persa 61-76:

neque quadrupulari me volo, neque enim decet

sine meo periclo ire aliena ereptum bona

neque illi qui faciunt mihi placent. planemque loquor?

nam publicae rei caussa quiquomque id facit

magis quam sui questi animus induci potest

eum esse civem et fidelem et bonum.

sed si legerupam qui damnet, det in publicum

dimidium; atque etiam in ea lege adscribier:

ubi quadruplator quempiam iniexit manum,

tantidem ille illi rursus iniciat manus,

ut aequa parte prodeant ad trisviros:

si id fiat, ne isti faxim nusquam appareant

qui hic albo rete aliena oppugnant bona.

sed sumne ego stultus qui rem curo publicam

ubi sint magistratus quos curare oporteat?

 

Il comico attribuisce al parassita Saturnione una feroce invettiva contro i quadruplatores, nel corso della quale allude ad una manus iniectio in quadruplum contro i faeneratores (immediatamente esecutiva?)[40], a legittimazione generale, in cui la condanna al quadruplo andava per intero a vantaggio dell’attore, manum iniciens. Nel testo, Plauto, per bocca di Saturnione, commenta ironicamente che il mestiere di quadruplator era altamente redditizio, perché l’abuso del potere di azione, riconosciuto a qualunque cittadino, consentiva di attentare impunemente, cioè senza rischio, al patrimonio altrui[41], e – precisa – non certo nel nome del pubblico interesse. Il Sarsinate, perciò, propone una riforma: che il denunziante dia la metà della condanna all’erario, e che ogni qualvolta un quadruplator effettua la manus iniectio, l’iniectus effettui a sua volta la manus iniectio nei confronti del quadruplator, per essere alla pari quando si compare dinanzi ai tresviri. Solo in questo modo, prosegue Plauto con le parole del parassita, sparirebbero dalla circolazione quei tali che si servono dell’albo del pretore come di una rete, per pescare nei beni del prossimo.

Il Sarsinate non si esprime con molta chiarezza su alcuni profili giurisdizionali e procedurali. In ordine alla manus iniectio menzionata nel Persa (così come in relazione ad altre manus iniectiones per particolari illeciti, all’epoca non passibili di persecuzione criminale), dalla dettagliata descrizione della riforma auspicata dal comico risulta verosimile (ma non certa[42]), la competenza dei tresviri capitales (su incarico stabile del pretore, o forse sulla base di un autonomo potere di giudicare)[43]. Plauto non è esplicito neppure sulla natura della procedura (era una manus iniectio pura?) e sui suoi presupposti; ma si può dedurre che la manus iniectio in quadruplum non colpiva la convenzione degli interessi in misura illecita, bensì la loro esazione. Dunque, la procedura esecutiva «presupponeva l’avvenuta riscossione da parte del creditore degli interessi vietati, al cui ammontare andava rapportata la misura della poena»[44].

In ogni caso, la procedura menzionata da Plauto sembra appartenere al novero (già all’epoca vasto, a giudicare dal tenore del testo[45]) delle azioni penali ‘private’ popolari, cioè esperibili da qualunque cittadino, volte a «preservare l’osservanza di leggi a tutela del pubblico interesse»[46]. Colpisce il riferimento operato da Plauto nel ‘Persiano’ alla scarsa tutela del pubblico interesse (publicae rei caussa), cui il comico suggerisce che nel futuro sia informata la procedura in oggetto (e non più solo preordinata, dunque, alla tutela degli interessi del tutto privati del delatore)[47]. Anche questo riferimento alla necessità di una riforma per fare sparire «la triste genia» dei delatori (con la proposta di limitare al dimidium – dell’intera pena dovuta dal colpevole – l’utile del quadruplator, destinando l’altra metà all’erario, forse ad imitazione delle leggi greche, in forza delle quali il delatore spesso riceveva la metà della pena pecuniaria[48]) richiama la prassi giudiziaria delle azioni popolari, «le quali consentivano a lestofanti di promuovere un processo contro cittadini incorsi in qualche violazione di norme penali o accusati di ciò»[49].

Ancora, è significativa nello stesso senso la probabile competenza dei tresviri, per quanto risulta ancora da Plauto[50], nel procedimento in quadruplo contro gli usurai, così come per altri illeciti in ordine ai quali l’ordinamento prevedeva una pena multipla (quale il gioco d’azzardo): casi «tutti in qualche modo collegati con il controllo dell’ordine cittadino»[51], ambito nel quale si esplicavano le funzioni di ‘polizia’ dei tresviri capitales. Non sappiamo, però, in quale fase del procedimento intervenissero i tresviri: se nella fase iniziale, o per instaurare il processo di accertamento eventualmente promosso da colui che aveva subito la manus iniectio (che dai tresviri ci si recasse dopo la manus iniectio sembra suggerito dall’espressione ‘ut aequa parte prodeant ad trisviros’, allusiva ad un momento successivo rispetto alla manus iniectio). Sotto un profilo più generale, va comunque notato che questa mansione giurisdizionale, in qualche misura, finiva per rapportarsi ai compiti dei tresviri nel campo della repressione criminale, riferendosi, quindi, «se non ad illeciti pubblicistici perseguiti penalmente (quanto possiamo essere sicuri della romanità di tali costruzioni?)»[52], almeno ad attività lato sensu di ‘controllo sociale’[53].  

Nel passato, si tendeva ad assimilare l’azione cui allude Catone con il rimedio descritto da Plauto, ma una più attenta lettura complessiva dei brani qui all’esame ha indotto, in tempi recenti, a ritenere piuttosto che l’azione predisposta dai maiores rivestisse caratteristiche diverse, rispetto alla procedura descritta nel ‘Persiano’[54]. Ritengo senz’altro più aderente al dettato delle fonti tale ultima valutazione.

A mio giudizio, intanto, è probabile che la condanna in quadruplum menzionata da Catone fosse collegata ad un’azione privata penale più antica del procedimento esecutivo per manus iniectionem a legittimazione generale descritto da Plauto: forse, addirittura una legis actio (e non necessariamente un ‘procedimento esecutivo’[55]), esperibile in origine dalle sole vittime dell’usura – non da un quivis de populo – dopo il pagamento degli interessi in misura illecita al creditore[56] (una sorta di ‘azione di ripetizione’, di cui però non ci è giunta traccia). E infatti, non va dimenticato che solo tra la fine del III e l’inizio del II sec. a.C.[57] la procedura in quadruplum contro i faeneratores per l’esazione di interessi in misura illecita sembra essere divenuta esperibile da un quivis de populo (ove il diretto interessato non avesse preso l’iniziativa): le nuove caratteristiche procedurali, impresse all’antico rimedio, evidenziavano l’emersione di interessi nuovi e più ampi, che travalicavano l’interesse privato e individuale della vittima dell’usura. Di qui la manus iniectio quadrupli, caratterizzata da natura, come si è accennato, ibrida, a cavaliere tra il ‘privato’ e il ‘pubblico’ (e non è neppure da escludersi, anche su questo specifico punto, qualche contaminazione con i diritti greci[58]).

Concordo nell’escludere – per la totale assenza di dati testuali in tal senso – che l’azione con condanna in quadruplo potesse consistere in un rimedio giurisdizionale esperibile, dalla vittima dell’usura, anteriormente al pagamento degli interessi ultra modum. Ciò non significa, però, a mio giudizio, che fino alla comparsa delle exceptiones nella procedura formulare il debitore potesse ottenere tutela giuridizionale esclusivamente dopo la corresponsione degli interessi illeciti. La tesi tradizionale, in materia, è che nel sistema delle legis actiones, non sussistendo per il convenuto la possibilità di opporre una exceptio[59], il debitore, chiamato in giudizio dal creditore per il pagamento delle usure, non poteva che essere condannato al pagamento degli interessi, benché illeciti; solo in un secondo momento, dopo averli effettivamente prestati, avrebbe potuto esperire l’azione penale, per ottenere la condanna in quadruplo del faenerator[60] (e qualora vi avesse rinunciato, l’iniziativa sarebbe potuta essere presa da un quivis de populo).

Questa ricostruzione mi sembra nel complesso opinabile, sia perché presuppone l’identità dei rimedi processuali, forse invece eterogenei, descritti rispettivamente da Catone, Plauto, Festo, Pseudo Asconio, sia perché esclude aprioristicamente che nel processo per legis actiones la vittima dell’usura, convenuta in giudizio dal faenerator per il pagamento degli interessi illeciti, fosse priva di qualsivoglia possibilità di assoluzione. A tale riguardo, mi sembra che si debba prestare maggiore attenzione alla recente fioritura di studi sui poteri del giudice, nelle legis actiones, nel campo delle valutazioni discrezionali[61]. In altri termini, non reputo affatto improponibile l’ipotesi che il debitore, convenuto in giudizio dal creditore, con una legis actio, per il pagamento di interessi in misura illecita, potesse essere assolto dal giudice, in considerazione della violazione delle disposizioni contenute nelle leggi antiusura, benché ancora non fosse stato introdotto lo strumento processuale dell’exceptio.

 

 

4. – Segue: i rapporti tra la legge Marcia in Gai 4.23 e la manus iniectio quadrupli

 

Ignoriamo se il procedimento esecutivo nel quadruplo, illustrato da Plauto, costituisse una forma evoluta del rimedio introdotto già dai maiores nelle XII Tavole, o se fosse piuttosto da ricondursi ad una lex Marcia di incerta datazione (352 a.C., o 196 a.C.?)[62], di cui abbiamo notizia solo da Gaio:

 

Gai 4.23: Sed aliae leges ex quibusdam causis constituerunt quasdam actiones per manus iniectionem, sed puram, id est non pro iudicato: veluti lex Furia testamentaria … item lex Marcia adversus faeneratores, ut si usuras exegissent, de his reddendis per manus iniectionem cum eis ageretur.

 

Sembra questo l’unico testo in cui viene precisato a chiare lettere che la manus iniectio adversus faeneratores era pura, ma va anche rilevato che tale caratteristica è ricondotta da Gaio alle disposizioni contenute nella legge Marcia: colui che aveva corrisposto le usure non dovute poteva attuare direttamente la manus iniectio (non, dunque, previo processo di accertamento), per ottenere la restituzione degli interessi ingiustamente pagati, e l’iniectus poteva procedere all’infitiatio senza l’intervento del vindex.

Si può notare che Gaio menziona la semplice restituzione delle usurae pagate, senza alcuna allusione al quadruplum. E’ possibile che tale discrepanza tra le fonti sia solo apparente, e possa trovare spiegazione attraverso la più attenta valutazione del procedimento in oggetto. Caratteristica generale della manus iniectio pura era la facoltà riconosciuta all’esecutato di promuovere un processo di accertamento anche senza l’intervento del vindex. Nella fattispecie, dunque, il faenerator avrebbe potuto manum sibi depellere, non essendo necessario l’intervento del vindex, e pro se lege agere[63]. E’ verosimile che, se l’esecutato non avesse effettuato alcuna contestazione, gli sarebbe stata imposta la semplice restituzione delle usure supra modum riscosse (‘reddere usuras’); mentre, qualora fosse risultato soccombente nel processo di accertamento da lui stesso richiesto (infitiatio), la condanna sarebbe stata nel quadruplum.

Va a questo punto ricordata l’ipotesi tradizionale, facente capo a Huschke[64], secondo cui il riferimento al quadruplum andrebbe valutato in termini di doppia liscrescenza (duplum del duplum): dapprima il debitore che avesse resistito al pagamento degli interessi stabiliti in misura illecita con un negozio venuto a conclusione, sarebbe stato tenuto (con manus iniectio) a pagare il doppio al creditore usurario (per la natura di lex minus quam perfecta della disposizione che aveva posto il divieto), ma, in un secondo momento, il debitore che aveva corrisposto il duplum, avvalendosi della damnatio legale del faenerator, avrebbe conseguito da quest’ultimo, nell’eventualità di sua opposizione all’esecuzione per la restituzione delle usurae illecite, il doppio del doppio, cioè, appunto, il quadruplum. Tale costruzione, però, non convince, per più ragioni: innanzitutto essa presuppone – inverosimilmente – una prima infitiatio del debitore, circoscritta ai soli interessi eccedenti il limite legale[65]; in secondo luogo, la fattispecie ipotizzata non collima con l’attestazione gaiana, di una manus inectio contro gli usurai, intesa alla semplice ‘restituzione’ degli interessi illecitamente riscossi (reddere usuras); infine, quale considerazione di carattere generale, occorre ricordare che nessuna fonte afferma per esplicito la regola per cui a seguito di infitiatio, successiva a manus iniectio pura, la condanna era stabilmente commisurata nella misura del doppio[66].

La differente disciplina prima ipotizzata (semplice restituzione delle usure a carico dell’esecutato – con manus iniectio pura – non infitians, condanna al pagamento del quadruplo dell’esecutato condannato a seguito di infitiatio), invece, potrebbe anche spiegare, e comporre, l’apparente contraddizione tra il resoconto gaiano del procedimento ex lege Marcia e l’attestazione in Ulp. tit. pr.2 (dove alla lex Furia testamentaria, che Gaio accosta e assimila alla lex Marcia, si riconnette una poena quadrupli), benché in linea generale non sia inconfutabilmente attestato dalle fonti che l’esecutato infitians in caso di soccombenza fosse condannato ad un multiplo prefissato[67]. Si potrebbe addirittura individuare nel procedimento esecutivo della manus iniectio pura (quando esente da contestazione, e dunque finalizzato al semplice reddere, a carico dell’esecutato) il precedente storico dell’azione di restituzione.

Se si deve riconnettere un qualche significato al silenzio di Gaio sull’antica poena quadrupli descritta da Plauto, Festo e dallo Pseudo Asconio, due sono le possibilità. O bisogna concludere che l’azione ex lege Marcia aveva perso la sua originaria natura penale nel corso del tempo, divenendo reipersecutoria, e mirando semplicemente alla restituzione delle usurae illecite pagate[68]; costruzione che, se da un lato si giustificherebbe tenendo presente come al tempo di Gaio la corresponsione di interessi fosse largamente accettata dalla prassi, come nelle leggi, per altro verso trova un ostacolo nella lettura congiunta di Gai 4.23 con Ulp. tit. pr.2. Oppure si deve ipotizzare che la lex Marcia (se si attribuisce non al 352 a.C., ma al 192, 186, o 104 a.C., comunque ad anni successivi, rispetto alla composizione del Persa plautino[69]) avesse riformulato la precedente procedura per manus iniectionem quadrupli descritta dal Sarsinate, forse riportandola in qualche misura agli originari connotati dell’età decemvirale descritti da Catone, ma soprattutto trasformandola in una sorta di ‘azione di ripetizione’, riconosciuta per l’‘ingiusto arricchimento’, e raccordata ai principi della condictio[70].

In ogni caso, ritengo assai dubbio: a) che la manus inectio quadrupli abbia mantenuto inalterati i suoi caratteri nel corso dei secoli[71] e b) che tale procedura costituisse l’unica forma repressiva privatistica delle usure illecite.

A quest’ultimo riguardo, torno su una considerazione già accennata nelle pagine precedenti: credo che si debba inserire qualche elemento di dubbio nell’assolutezza della posizione tradizionale, secondo cui, nel sistema processuale delle legis actiones, il debitore che avesse promesso il pagamento di interessi in misura superiore al faenus unciarium, se convenuto in giudizio per il pagamento del dovuto, sarebbe stato senza meno condannato. Al contrario, possiamo supporre, allineandoci sulle posizioni di Corbino, che almeno nella fase più evoluta del processo per legis actiones, dunque tra III e II sec. a.C., fosse uso, se non ancora di ammettere, da parte del pretore, che il debitore convenuto in giudizio paralizzasse la pretesa dell’attore in ordine al pagamento di usurae supra modum, almeno da parte del giudice – dunque nella seconda fase del processo –, accogliere difese «consentite dal pensiero giurisprudenziale consolidato o da leggi delle quali il giudice dovesse tenere conto»[72].

In altri termini, rientrava nei poteri del giudice (non del magistrato!), che si trovasse di fronte a una lex imperfecta o minus quam perfecta, realizzare già, sulla base delle sue libere valutazioni (pur senza appoggiarsi su di una ‘difesa’ – poi evolutasi in exceptio – segnalata al magistrato nella fase in iure), una efficace tutela dei concreti interessi dei debitori; per i quali, certo, da un lato la repressione pubblicistica mediante multe edilizie (su cui mi soffermerò più avanti) non poteva risultare satisfattoria (la multa non veniva incamerata dalla vittima dell’usura!) e, per altro verso, il tortuoso meccanismo della manus iniectio quadrupli (ammesso che poi la pena del quadruplo fosse stata lucrata dalla vittima dell’usura, e non da un terzo, più rapido nel prendere l’iniziativa processuale) avrebbe implicato la necessità di un iniquo pagamento preventivo. Una indiretta conferma della verosimiglianza del quadro ora tracciato si può vedere nel resoconto fornito dalle fonti circa le ragioni dell’uccisione del pretore Asellio, verificatasi nell’89 a.C., sul quale mi soffermerò più avanti.

Se si accetta questa ricostruzione, la manus iniectio in quadruplum deve essere considerata come un rimedio soggetto a numerose modifiche, e dunque non strutturato stabilmente nei termini in cui ci viene descritto da Plauto; ma anche, probabilmente, a partire all’incirca dal III sec. a.C., come un rimedio residuale, cui, cioè, faceva ricorso il malaccorto debitore che avesse pagato le usure in quantità superiore alla misura consentita[73], e poi, pentitosi, ne chiedesse la restituzione (lucrando il quadruplo nell’ipotesi di soccombenza dell’esecutato infitians).

Quanto al concorso con la procedura pubblica edilizia[74], va sottolineata la scarsa credibilità dell’ipotesi secondo cui la manus iniectio quadrupli sarebbe stata introdotta ex novo, come procedura a legittimazione generale, solo nel 196 a.C. Secondo questa impostazione, l’unica sanzione anteriormente applicabile sarebbe stata quella della multa edilizia, di cui peraltro non risultano tracce per l’epoca anteriore al 344 a.C. Ma la congettura si pone in contraddizione con il riferimento operato da Catone ai maiores, quali autori della condanna in duplum dei fures, e in quadruplum dei faeneratores: tale sanzione privata a carico degli usurai (che avessero contestato il procedimento esecutivo per manus iniectionem) era, se si presta fede a Catone, più antica ancora delle multe edilizie e rispondeva a un meccanismo processuale forse più vicino a quello previsto dalla legge Marcia, nei termini in cui i suoi contenuti ci sono descritti da Gaio, che non a quello illustrato da Plauto.

Va poi considerato l’intreccio di questi profili repressivi con l’evoluzione del mutuo e della sua tutela giurisdizionale. A partire dal III sec. a.C. (dunque successivamente al plebiscito Genucio), in forza della poco conosciuta legge (o plebiscito?) Silia[75], fu possibile agire per i crediti di danaro con la legis actio per condictionem[76], una procedura più snella (non si richiedeva più il sacramentum, ma solo la sponsio tertiae partis), e soprattutto caratterizzata dalla c.d. astrattezza processuale (mancava il richiamo alla causa giustificativa, che invece era richiesta negli altri modus dichiarativi[77]). A rigore, il creditore (e, specificamente, il mutuante) avrebbe potuto esperire quest’azione per ottenere il pagamento del capitale, non invece delle usurae, che all’epoca dovevano essere stipulate a parte, con una stipulatio usurarum; in ipotesi, il creditore poteva essere così scaltro di farsi promettere anche le usure a titolo di capitale (se il credito era stato promesso mediante sponsio o stipulatio), o di documentare una consegna di denaro maggiorata dell’importo delle usure (in caso di obligatio contracta a suo tempo re), approfittando della formulazione astratta dell’azione (nel processo formulare, dell’intentio). L’astrattezza processuale implicava infatti la possibilità di evitare ogni allusione al concreto rapporto di credito, data «la non obbligatorietà della nominatio causae al momento di intentare l’azione»[78]: tutto ciò che si richiedeva era l’asserzione dell’obbligo di restituire. E non è da escludere, a mio parere, la possibilità che questa azione (sulle misteriose ragioni della cui introduzione Gaio ancora si interroga[79]), così concepita, fosse stata applicata proprio per consentire ai faeneratores di vincolare, con obligationes contractae verbis, litteris o re, i debitori alla restituzione del capitale insieme agli interessi, dopo che il plebiscito Genucio aveva vietato in assoluto il fenus.

Potrebbe dunque essere significativo, proprio in questo senso, il dato che la legis actio per condictionem fosse caratterizzata «dall’astrattezza del formulario, non venendo in essa menzionata, a differenza che nelle altre legis actiones in personam, la causa del credito fatto valere»[80]. E’ già stato rilevato, in generale, che «l’astrattezza processuale dovette costituire un importante momento di rottura dell’ordine fino a quel momento costituito»[81]. E certamente l’introduzione di questa azione conferì ai creditori la certezza che i debitori sarebbero stati tenuti all’adempimento (‘certum est debitum iri’)[82], forse anche se ne fosse stata oggetto la corresponsione di interessi in misura illegale. Solo quando si cominciò ad ammettere l’incidenza delle valutazioni discrezionali del giudice nelle procedure per legis actiones, o, nelle procedure formulari, con la proposizione di una praescriptio pro reo[83] e, in epoca più recente, di una exceptio[84] che facesse riferimento allo specifico rapporto di mutuo sottostante e che risultasse fondata su un divieto normativo[85] (come sembra suggerito dall’episodio di Asellio), il debitore convenuto in giudizio avrebbe potuto respingere la domanda dell’usuraio sulla base dei divieti legislativi: l’inserimento della praescriptio nella formula, prima dell’intentio, se fondata, avrebbe precluso l’esame della pretesa azionata[86], mentre la concessione dell’exceptio avrebbe consentito al convenuto di ottenere l’assoluzione.

 

 

5. – Un nuovo esperimento di politica legislativa

 

Nell’anno 352 fu approvata una lex de creandis quinqueviris mensariis[87]. Lo attesta solo Livio (7.21.5-8) e l’assenza di riscontri ha dato luogo a non pochi sospetti e perplessità sulla storicità dell’episodio[88]; certo, gli elementi di dubbio non mancano, a cominciare dalla occasionale ingerenza dei comitia – a detta di Livio – in una materia che generalmente esulava dalle sue competenze.

Ritengo opportuno soffermarmi brevemente su questa disposizione, anche perché essa presenta particolare interesse ai fini della individuazione dell’estrazione sociale di faeneratores e vittime dell’usura nel IV sec. a.C.

Seguiamo, innanzitutto, il racconto della tradizione. Gli eventi che avevano preceduto l’emanazione della legge in parola erano stati particolarmente turbolenti (Liv. 7.21.1-6), per le sofferenze della plebe in relazione all’alto tasso di interessi cui era assoggettato il prestito (Liv. 7.21.3: proprior dolor plebi foenoris ingravescentis erat…; 6.14.7: mergentibus sempre sortem usuris, obruptum fenore esse; 2.23.1: … inter patres plebemque flagrabat odio, maxime propter nexos ob aes alienum). Si può subito osservare che, evidentemente, il caput de aere alieno approvato circa quindici anni prima tra le leggi Licinie Sestie non aveva alleviato il peso dei debiti[89].

Così continua Livio: considerato che la questione del prestito a interessi era in quel momento la sola a generare disunione, si decise di conferire al problema della estinzione dei debiti carattere di interesse pubblico (è degna di nota l’espressione liviana solutionem alieni aeris in publicam curam verterunt). La coppia consolare composta dal patrizio (dall’atteggiamento democratico) P. Valerio Publicola e dal plebeo – di cui si ricordano altri interventi in materia di res fenebris[90] – Caio Marcio Rutilio (la cui famiglia riscuoteva consensi anche presso i patrizi[91]) propose la creazione di un collegio di magistrati straordinari (dunque non sottoposti al limite dell’annualità), i mensarii, a composizione mista (tre plebei e due patrizi[92]), cui affidare il compito (rem difficillimam, precisa Livio[93]) di risolvere la questione dei debiti, e questa volta non attraverso attività giurisdizionali repressive, ma con l’ausilio della res publica: si trattava, dunque, di una iniziativa del tutto nuova, ricalcata su modelli in uso nel mondo ellenico[94]. I cinque mensarii avrebbero dovuto fornire, con l’intervento dello Stato, anticipazioni ai debitori morosi in grado di offrire idonee garanzie, o assisterli nella cessione dei loro beni, dopo averne effettuato una giusta valutazione (di interesse è il richiamo all’aequitas):

 

Liv. 7.21.5-6: …inclinatis semel in concordiam animis novi consules faenebrem quoque rem, quae distinere una animos videbatur, levare adgressi solutionem alieni aeris in publicam curam verterunt quinqueviris creatis, quos mensarios ab dispensatione pecuniae appellarunt… fuere autem C. Duilius, P. Decius Mus, M. Papirius, Q. Publilius et T. Aemilius.

 

Liv. 7.21.8: …tarda enim nomina et impeditiora inertia debitorum quam facultatibus aut aerarium mensis cum aere in foro positis dissolvit, ut populus prius caveretur, aut aestimatio aequis rerum pretiis liberavit, ut non modo sine iniuria sed etiam sine quaerimoniis partis utriusque exhausta vis ingens aeris alinei sit.

 

L’iniziativa era volta a offrire ai cittadini modalità agevoli per l’estinzione di debiti già scaduti[95], e non a predisporre misure per i debiti futuri (con illusorie riduzioni dei tassi di interesse). D’altronde, la disposizione aveva di mira anche la restituzione del capitale, non il solo problema degli interessi. I quinqueviri esercitarono il loro mandato nel Foro, ed agirono – è stato notato – come banchieri di una temporanea banca di prestito dello Stato, nel cui nome espletarono le operazioni previste dalla legge. Essi non mettevano in discussione il diritto acquisito dai creditori, ma offrivano ai debitori, che “per trascuratezza” non avevano estinto i debiti scaduti, la possibilità di liberarsi con il denaro anticipato dall’erario (ma a condizione che fossero in grado di offrire pubblica garanzia); oppure, ai debitori che volessero cedere le proprietà, proponevano una stima equa dei beni, di modo che il creditore ricevesse in pagamento il fondo o il bene mobile stimato (presumibilmente, a seguito di vendita forzosa)[96].

Dunque, il tesoro dello Stato anticipava ai morosi le somme necessarie per l’estinzione del debito (il ricorso al prestito pubblico era frequente nel mondo ellenico); ma ciò solo a condizione che costoro potessero garantire il rimborso. Pare che i creditori avrebbero invece dovuto accettare una dazione in luogo del pagamento (una sorta di datio in solutum necessaria)[97], qualora i morosi avessero preferito offrire beni (equamente stimati dai mensarii) in cambio del denaro dovuto.

Dalla valutazione complessiva del resoconto liviano risulta chiaro che questa disposizione aveva di mira non l’alleviamento delle sofferenze della plebe povera, vessata dagli usurai, bensì la sollecitazione del pagamento di debiti scaduti contratti da cittadini benestanti, che tentassero di frodare i creditori occultando i propri beni. Gli scaltri morosi, usufruendo del prestito pubblico, o cedendo i loro beni, avrebbero evitato la temuta esecuzione personale; d’altra parte, anche ai creditori poco avrebbe giovato rifarsi sul corpo di un debitore agiato (dal momento che i beni sarebbero rimasti ai figli dell’insolvente[98]).

Che l’operazione riguardasse ceti piuttosto elevati della popolazione si evince dall’accenno liviano alla ‘trascuratezza’ dei morosi, inertia debitorum (in luogo della ‘impossibilità’ per miseria: quam facultatibus), dal presupposto della pubblica garanzia, per il conseguimento del finanziamento statale (gli indigenti non avrebbero potuto garantire in alcun modo il rimborso del debito pubblico), infine dalla possibilità di liberazione dal credito mediante cessione delle proprietà stimate[99]; potrebbero rivestire un qualche significato nello stesso senso anche l’‘anomalo’ intervento dei comitia con una delibera popolare su una materia che restava generalmente al di fuori della sua competenza[100], nonché il notevole rischio assunto dallo Stato in questa operazione di mutuo garantito (si noti che Livio non fa alcun cenno alla restituzione delle somme prestate). In linea generale, conferma ulteriormente questa lettura della vicenda quanto afferma il Patavino per gli anni immediatamente successivi l’incendio gallico (387 a.C.): nemmeno i cittadini più benestanti erano riusciti ad evitare di contrarre debiti (Liv. 6.11.9: et erat earis alieni magna vis, re damnosissima etiam divitibus aedificando contracta)[101]. Si noti che questa notizia si riferisce proprio al ventennio precedente la lex de quinqueviri mensariis.

E’ significativo che la prima deroga alla tradizionale regola dell’esecuzione personale fosse stata introdotta per venire incontro all’indebitamento di proprietari terrieri. Le difficoltà nella individuazione del patrimonio immobiliare di debitori benestanti, da parte dei creditori, poteva derivare dall’assenza di un ‘catasto’ aggiornato (l’ultima operazione censitaria era stata effettuata nel 403 a.C.), congiunta, ovviamente, alla scaltrezza e alla mala fede dei mutuatari.

Rilevanza ed estensione dell’operazione furono enormi: l’assegnazione ai creditori dei beni immobili dei debitori morosi, da parte dei mensarii, creò una tale incertezza nelle proprietà, da rendere necessaria l’elezione della coppia censoria nell’anno successivo (con riferimento al 351 a.C., Liv. 7.22.6: … quia solutio aeris alieni multarum rerum mutaverat dominos, censum agi placuit).

Comunque, l’opera dei magistrati straordinari, conclusasi sine iniuria[102] e sine quaerimoniis, fu apprezzata a tal punto che i loro nomi vennero menzionati in tutti gli annali (Liv. 7.21.6: …ut per omnium annalium monumenta celebres nominibus essent…)[103]; stupisce, quindi, che successivamente il procedimento non fosse stato riattivato. Al contrario, si scelse di tornare al vecchio metodo dei divieti legislativi: pochi anni dopo fu votato il plebiscito de foenore semiunciario[104], con cui si dimezzava il prestito a interessi.

Un provvedimento analogo, almeno in parte, a quello ora illustrato fu fatto applicare solo molti anni dopo, da Cesare, nel 49 a.C.[105]: secondo la narrazione del dittatore, per rimediare alla crisi del credito, con il decreto (forse identificabile nella lex Iulia de pecuniis mutuis)[106] si stabilì, con riguardo alle precedenti obbligazioni da mutuo rimaste inadempiute, che i debitori potessero pagare con i loro fondi, anziché in denaro. Alle parti in lite sarebbero stati nominati arbitri, con l’incarico di effettuare la stima dei beni mobili e immobili dei debitori, rivalutati secondo i prezzi in vigore anteriormente allo scoppio della guerra civile, e di provvedere al trasferimento di tali beni ai creditori[107].

Nell’intervento, così come descritto da Cesare, taluni hanno visto un precedente della lex Iulia de bonis cedendis, promulgata da Augusto nel 17 a.C.[108]. Svetonio[109] narra invece che Cesare, una volta deluse le diffuse aspettative sull’abolizione dei debiti[110] (tabulae novae, in attesa delle quali i debitori avevano smesso di pagare), decretò che i debiti potessero essere adempiuti mediante la stima degli immobili dei debitori, da effettuarsi in rapporto al valore delle possessiones anteriormente alla guerra civile, e detraendo gli interessi già pagati in contanti, o con altre modalità, ‘con il risultato della diminuzione di un quarto del credito’ (qua condicione quarta pars fere crediti deperibat); frase, quest’ultima, la cui ambiguità crea non pochi problemi in sede di interpretazione complessiva del provvedimento, non risolti neppure dai cenni ricavabili da Plutarco, Appiano, Cassio Dione[111].

Complessivamente, non sembra, comunque, che il decreto avesse disposto propriamente una cessio bonorum (dal momento che la cessio bonorum non realizzava un trasferimento della proprietà dei beni, consentendo solo di ottenere soddisfazione attraverso la venditio bonorum)[112], né una espropriazione con successiva assegnazione ai creditori (non vi è alcun elemento, nelle fonti, per sostenere tale tesi); il provvedimento del 49 a.C. previde piuttosto una datio in solutum (ma non una datio in solutum necessaria, in quanto manca menzione del provvedimento del giudice con cui questo avrebbe eventualmente assegnato il bene del debitore al creditore, al quale non sarebbe stato consentito di rifiutare[113]). La dazione del bene stimato non risulta avvenisse per opera dell’autorità, anzi la traditio, cui fa riferimento Cesare, doveva essere compiuta dai debitori stessi, secondo le stime degli arbitri. Svetonio parla di satisfactio ad opera dei debitori. E’ verosimile[114] che Cesare avesse impartito istruzioni al pretore affinché, tramite la denegatio actionis, si bloccasse di fatto l’esercizio delle azioni ordinarie per il recupero dei crediti, e si procedesse alla nomina degli arbitri, allo scopo di valutare il patrimonio immobiliare dei debitori: con il consenso di questi ultimi[115], i creditori venivano soddisfatti direttamente con i beni della controparte.

 

 

6. – La repressione pubblica del prestito usurario

 

Accanto alle già illustrate procedure rimesse all’iniziativa privata (esercizio di un’actio in quadruplum e una sporadica ‘cessione dei beni’[116]), risulta l’esistenza di una procedura pubblica affidata agli edili.

In generale, gli edili, se curuli, comminavano multe nell’esercizio del potere coercitivo (multam dicere), proprio dei magistrati patrizi; ma la multae inrogatio si affermò originariamente come l’esercizio di un generico potere giurisdizionale da parte dei tribuni, in progresso di tempo svolto congiuntamente all’assemblea della sola plebe ed esorbitante dai ‘limiti legali’ (vera e propria ‘Criminalstrafe’)[117]. Si è ipotizzato che già in età predecemvirale le leggi Aternia Tarpeia del 454 e Maenenia Sestia del 452 a.C. avessero esteso a tutti i magistrati (tra cui tribuni ed edili della plebe, questi ultimi eletti, come è noto, a decorrere dal 494 a.C.[118]) il potere, originariamente proprio dei soli consoli, di multare, disciplinandone anche l’esercizio, mediante l’indicazione dell’importo massimo delle ammende irrogabili, e la concessione della provocatio ad populum al cittadino colpito da una multa eccedente l’ammontare massimo[119]. Mancano però elementi per sostenere che al tempo del decemvirato fosse già stata introdotta la provocatio avverso multe[120].

Gli edili della plebe, dunque, su incarico dei tribuni[121], potevano comminare multe; ma solo successivamente alle XII Tavole si consolidò la prassi dell’instaurazione di uno iudicium populi, quando l’importo delle ammende superava la misura della multa maxima (fissata in tremilaventi assi, ovvero in trenta buoi e due pecore, dalla legge Menenia Sestia[122]).

Anche gli edili curuli (istituiti dal patriziato nel 367, con funzioni di carattere ‘amministrativo’, forse omologhe a quelle già spettanti agli edili plebei, e la cui efficacia non si dispiegava nei confronti della sola plebe[123]) presero ad esercitare il più rilevante tra i compiti affidati agli edili plebei, cioè quello di perseguire i rei di crimini comuni con l’irrogazione di ammende; ma questa funzione si svolse non apud plebem, bensì al cospetto del comizio tributo[124]. E’ importante ricordare, per meglio comprendere la natura ‘politica’ dei processi edilizi per usura, che l’edilità curule divenne accessibile ai plebei forse già nel 364 a.C., o, con maggiore certezza, nel 304 a.C.[125]. Sarebbe forse opportuna una più attenta riflessione sulla circostanza che le testimonianze relative ai processi edilizi per usura sono tutte successive alla creazione dell’edilità curule (la prima notizia risale al 344) e che l’iniziativa di comminare multe feneratizie risulta presa costantemente, tranne forse in un caso, da edili curuli. Si ipotizza, al riguardo, che l’attività repressiva edilizia nei confronti dei faeneratores fosse competenza esclusiva degli edili curuli, ma tale illazione non è autorizzata da alcuna fonte; anzi, a proposito del primo iudicium populi per irrogazione di multe feneratizie, risalente al 344, Livio menziona genericamente gli ‘edili’, il che non consente di escludere che quell’iniziativa fosse stata intrapresa dagli edili plebei[126], benché l’instaurazione di processi da parte di edili non curuli (cioè plebei) sia in genere indicata nelle fonti in modo specifico[127].

Sembra, poi, ancora da discutere la questione se si possa correttamente qualificare ‘giurisdizionale’ la funzione svolta dagli edili nella irrogazione delle multe. Sul punto, è opinione diffusa, ma non corroborata da espliciti dati testuali, che la ‘giurisdizione’ penale dell’edilità (plebea e curule) avesse a suo fondamento il potere ‘amministrativo’, a questa ab origine riconosciuto[128].

Quanto alla correlazione instaurabile tra la manus iniectio e le sanzioni penali pubblicamente irrogate dagli edili con frequenza, a carico dei faeneratores, tra il IV e il II sec. a.C., il silenzio delle fonti non consente di giungere sul punto a conclusioni sicure. Ma non vi è ragione di escludere che l’azione privata potesse astrattamente cumularsi con quella penale pubblica[129]. 

Lo studio degli interventi edilizi nella repressione delle usure, illustrati da Livio e da Plinio il Vecchio[130], rivela che a partire dal 344 a.C. (dunque 23 anni dopo il 367, anno in cui fu creata l’edilità curule, per la cura urbis, ludorum e annonae[131], con il potere di infliggere multe[132]), e fino al 192 a.C., furono imposte numerose multae faeneraticiae edilizie, a seguito di veri e propri iudicia populi[133] (in relazione ai quali restano oscure le modalità di acquisizione della notitia criminis da parte degli edili[134]), conclusisi con una condanna. La difficoltà consiste nell’individuare con precisione sia le caratteristiche tecniche, sia lo spirito politico dell’attività repressiva svolta dagli edili (probabilmente gli edili curuli[135]) adversus faeneratores.

Come si è esposto, all’epoca coesistevano probabilmente due procedure, contro gli usurai: una, rimessa all’iniziativa privata e consistente in una manus iniectio forse già immediatamente esecutiva, esercitabile solo dopo il pagamento delle usure illecite; la seconda, pubblica e facente capo all’attività giurisdizionale degli edili. L’imposizione delle multe edilizie si colloca nel periodo in cui la questione dei debiti rappresentava uno dei temi principali delle rivendicazioni plebee (oltre alle vicende delle secessioni, va anche considerato il significato della legge Petelia Papiria de nexis). Ma desta meraviglia che la prima notizia sulle multe edilizie a carico di usurai risalga al 344 a.C., e non già ad anni compresi tra il 367 e il 344. Per tutto il periodo di vigenza del limite unciario (almeno dall’anno 357, in cui fu emanata la lex Duilia Menenia, e fino al 344) non vi è alcuna traccia di iudicia populi adversus faeneratores. A questo dato si può attribuire – sebbene solo in via ipotetica – un significato ben preciso: forse il dodicesimo mensile, e quindi il 100% annuo, con il passaggio all’economia monetaria era divenuto un tasso assai gravoso per i debitori, e vantaggioso per i creditori, sicché questi ultimi non avevano difficoltà ad attenervisi, e non avvertivano l’esigenza di chiedere interessi in misura eccedente quella legale[136].  

Sta di fatto che i primi resoconti su processi contro gli usurai risalgono agli anni immediatamente successivi alla lex de quinqueviris mensariis (approvata otto anni prima) e al plebiscito del 347 d.C., il plebiscitum de foenore semiunciario[137], con il quale, solo tre anni prima, su iniziativa dei tribuni della plebe, la misura degli interessi massimi consentiti era stata dimezzata, concedendosi inoltre la possibilità di rateizzare in tre anni il pagamento del dovuto, purché la quarta parte fosse pagata immediatamente. La plebe non rimase soddisfatta da questo nuovo limite (Liv. 7.23.3-4: …levatae-supersessum), ma, evidentemente, neppure gli usurai. Con una frase laconica, Livio riferisce che nel 344 furono emesse severe condanne contro usurai chiamati in giudizio dagli edili:

 

Liv. 7.28.9: Iudicia eo anno populi tristia in faeneratores facta, quibus ab aedilibus dicta dies esset, traduntur.

 

Le pene inflitte, superiori all’importo della multa maxima, furono dunque considerevoli. Ma le multe cui vennero condannati i faeneratores non dovettero essere sempre di importo elevato, a giudicare dal fatto che negli ultimi anni del IV sec. a.C. l’edile Gneo Flavio, con il ricavato delle multe da lui stesso imposte ai faeneratores, fece costruire solo un tempietto di bronzo nella Graecostasis[138]. Livio, viceversa, descrive come processi popolari tristia quelli del 344, conclusisi con l’imposizione di ammende talmente elevate, da consentire la realizzazione di opere di particolare grandezza[139]. La scarna notizia del Patavino riguarda però un periodo, ben precedente quello di Gneo Flavio, nel quale il fenomeno dell’usura doveva avere raggiunto livelli talmente intollerabili da richiedere punizioni esemplari: nei tre anni successivi alla emanazione del plebiscito che dimezzò il tasso legale degli interessi, si verificarono, evidentemente, frequenti violazioni di notevole entità, che indussero gli edili a comminare multe superiori a quella maxima, poi confermate dal popolo[140].

I creditori, dunque, non si erano adattati alle nuove disposizioni sul faenus semiunciarium. D’altra parte, negli stessi anni il fenomeno della richiesta di prestiti di denaro era verosimilmente molto aumentata. Le ragioni di questa recrudescenza dell’usura, negli anni a partire almeno dal 347 e fino al 344, sono forse attribuibili da un lato alle disastrose conseguenze dell’incendio gallico (si registrò infatti un ritorno a prestiti di consumo, al cui ricorso non riuscirono a sottrarsi, all’epoca, neppure i più benestanti, secondo quanto attesta Livio)[141], cui neppure la misura straordinaria del 352 era riuscita a porre completamente rimedio, dall’altro lato al progressivo rifiorire degli scambi, dei commerci transmarini, e quindi ad una maggiore circolazione di aes signatum[142] . Questo secondo fenomeno ci richiama però a una tipologia di prestiti non di consumo, ma finalizzati all’investimento, dunque coinvolgenti gli strati più elevati della plebe urbana: quanti ricorrevano al faenus non più solo per sopravvivere, ma per avviare attività economiche, avevano bisogno di prestiti di lunga durata: perciò, per queste specifiche e nuove esigenze, anche il faenus semiunciarium doveva sembrare eccessivamente gravoso[143]. D’altronde, l’apparente assenza, anche in questo caso, della sanzione della nullità dell’atto concluso in violazione del divieto, o di sanzioni penali, confermerebbe la natura demagogica della lex fenebris del 347 a.C.[144] (a meno di non volere supporre che proprio il plebiscito del 347 avesse previsto l’irrogazione delle multe edilizie a carico degli usurai). 

I primi tristia iudicia adversus faeneratores furono dunque celebrati nel 344. Due anni dopo, nel 342, si verificò una secessione fra le legioni di stanza in Campania e poste sotto il comando di C. Marcio Rutilio, connessa con il problema dei debiti[145]. Tra i tentativi di sedare la rivolta, vi fu quello dei patrizi e del senato che, mediatore Valerio Corvo, accettò di decretare la remissione totale dei debiti (ma si sarebbe trattato di una misura eccezionale[146]), e quello del tribuno Genucio, il quale propose un plebiscito sul divieto assoluto di prestare denaro a interesse

 

Liv. 7.42.1: Praeter haec invenio apud quosdam L. Genucium tribunum plebis tulisse ad plebem, ne faenerare liceret …

 

Tac. ann. 6.16: …postremo vetita versura…

 

In questa disposizione[147], alcuni hanno visto l’origine della gratuità del mutuo (e nella stipulatio usurarum il mezzo più semplice ed immediato per eludere la norma)[148]; aggiungerei, alle ipotesi già formulate nella letteratura sul tema, che forse nella successiva legge Silia, introduttiva della legis actio per condictionem, si può vedere la predisposizione di un efficace strumento di esazione delle usure, volto a contrastare l’operatività del plebiscito Genucio (almeno fino a quando i giudici non cominciarono ad accogliere le difese dei convenuti, fondate sulla violazione dei divieti legislativi)[149].

In favore della veridicità della notizia liviana – e dunque di una proibizione legislativa del faenus in assoluto – si può addurre la gravità della contingenza da cui il c.d. plebiscito Genucio sarebbe scaturito[150]; ma nessuna fonte ci informa con chiarezza sul punto se la proposta di Genucio fosse stata effettivamente approvata dalla plebe e se poi avesse ottenuto l’auctoritas patrum, rivestendo valore vincolante per tutto il popolo. Quest’ultima eventualità si prospetta improbabile, perché l’espressione liviana tulisse ad plebem (7.42.1), congiunta con la formula di poco successiva item aliis plebis scitis (7.42.2) e con i dubbi espressi dallo stesso Livio nelle parole conclusive del suo resoconto sull’intervento di Genucio (quae si omnia concessa sunt plebi), lascia al massimo ipotizzare un’approvazione plebiscitaria.

D’altronde, sembra difficile credere che una disposizione così drastica incontrasse il favore dei ceti egemoni: essa sarebbe anzi entrata in rotta di collisione tanto con gli interessi delle famiglie patrizie, tanto con le nuove mire degli esponenti facoltosi della plebe, che avrebbero visto ostacolata l’agognata ascesa economica dal venir meno di una attività particolarmente redditizia. Non vi sono dubbi, infatti, sulla progressiva diversificazione di censo, di condizioni di vita, di attività economiche, di esigenze ed obiettivi, all’interno del gruppo plebeo, nel corso del IV sec. a.C., e sull’affermarsi, almeno a partire dal 367 a.C., di una élite plebea che cominciò a far fronte comune con alcuni esponenti del patriziato[151]. Ma, forse, l’aggravarsi della piaga dell’indebitamento e la gravità della rivolta del 342 furono tali da travolgere e sovrastare persino gli interessi economici dei ceti egemoni: lo scotto da pagare per il ripristino della concordia fu l’accettazione dell’invisa regola della gratuità del prestito.

Le notizie sulle multe edilizie successive ci riportano addirittura agli ultimi anni del IV sec., ed è strano che di fronte ad un divieto assoluto di faenus non vi fossero stati tentativi di aggirare o di violare apertamente una norma così severa. Evidentemente, i faeneratores erano ricorsi alla stipulatio usurarum, o forse già al nuovo espediente della intestazione dei crediti a stranieri, o, ancora, avevano trovato una comoda soluzione nell’esercizio della legis actio sacramenti in personam, probabilmente anch’essa astratta[152], come la successiva legis actio per condictionem. Comunque, i successivi episodi sono ricordati – come accennato – da Plinio il Vecchio[153], il quale allude a multe assai modiche imposte dall’edile curule Gneo Flavio nel 304; poi da Livio[154] per l’edilità curule di Cneo e Quinto Ogulnio del 296 a.C., con menzione di multe più consistenti; e a punizioni severe irrogate dagli edili curuli fa riferimento ancora Livio (35.41.9.10 [155]) per il 192 a.C.

 

 

7. – Il plebiscito Sempronio

 

Quest’ultimo intervento edilizio (192 a.C.) risulta successivo di un anno al plebiscito Sempronio del 193 a.C.[156], voluto per porre rimedio ad un espediente invalso nell’uso, al fine di aggirare i divieti posti dalle leggi antiusura: l’intestazione dei crediti a socii italici (i quali non erano soggetti alle leggi romane), mediante il nomen transscripticium. Tanto afferma Livio a chiare lettere:

 

Liv. 35.7.2-5: Instabat enim cura alia, quod civitas faenore laborabat et quod, cum multis faenebribus legibus constrincta avaritia esset, via fraudis inita erat ut in socios, qui non tenerentur iis legibus, nomina transcriberent; ita libero faenore obruebantur debitores. Cuius coercendi cum ratio quaererentur, diem finiri placuit Feralia quae proxime fuissent, ut qui post eam diem socii civibus Romanis credidissent pecunias profiterentur, et ex ea die pecuniae credatae quibus debitor vellet legibus ius creditori diceretur. Inde postquam professionibus detecta est magnitudo aeris alieni per hanc fraudem contracti, M. Sempronius tribunus plebis ex auctoritate patrum plebem rogavit plebesque scivit ut cum sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum civibus Romanis esset.

 

Il racconto dà adito a non poche perplessità. Innanzitutto, non è spiegato quale fosse il vantaggio dell’autodenuncia posta a carico degli alleati intestatari di crediti nei confronti dei cittadini romani, ovvero a quale inconveniente andassero incontro gli alleati che omettessero la denuncia (la perdita del credito?). Inoltre, poco chiaro è il ruolo della transscriptio (a persona in personam, come si deduce dall’espressione liviana ut in socios …nomina transcriberent) nella frode illustrata dallo storico patavino, dal momento che la transscriptio a persona in personam non era uno strumento tecnicamente idoneo a realizzare una novazione soggettiva attiva: il creditore non poteva essere che il proprietario del codex accepti et expensi[157]. Eppure, il racconto liviano allude chiaramente ad una interposizione fittizia nel lato attivo del rapporto (al posto di un creditore romano, si faceva figurare come creditore apparente uno straniero)[158]. E’ stato al riguardo osservato che le leggi romane antiusura sarebbero state più semplicemente ed efficacemente aggirate se si fosse fatto risultare come creditore il socio italico sin dall’inizio (dunque, senza ricorso ad alcun nomen transscripticium). La considerazione appare pienamente condivisibile per due ordini di ragioni: in primo luogo, prestare piena fede al resoconto liviano sull’applicazione della transscriptio in socios implica l’incerta conclusione che anche i socii fossero muniti di codex accepti et expensi; poi, si dovrebbe presupporre il consenso e la collaborazione del debitore all’operazione[159]. In definitiva, sembra probabile che Livio avesse richiamato l’istituto romano della transscriptio in modo improprio e impreciso[160], mentre si presenta molto più verosimile l’ipotesi che, per aggirare le leges fenebres romane, i creditori facessero figurare ab initiio i socii compiacenti come creditori.

Nel tentativo di comprendere meglio i meccanismi fraudolenti cui allude Livio, esaminiamo innanzitutto il contesto storico in cui si collocano gli avvenimenti narrati.

Già il senato aveva stabilito (Liv. 35.7.2-5) che in occasione dei Feralia (21 febbraio) i socii creditori di cittadini romani avrebbero dovuto farne formale dichiarazione, e da quel giorno avrebbero ricevuto giustizia secondo le regole scelte dai debitori romani.

Questa notizia riferita da Livio va verosimilmente intesa non nel senso che si riconosceva al debitore romano la facoltà di scelta tra le varie azioni processuali romane applicabili alla fattispecie (il cambiamento di rito, nell’eventualità che la parte attrice avesse scelto una procedura diversa da quella gradita dal convenuto, avrebbe creato troppa confusione), quanto piuttosto nel senso che il debitore, convenuto in giudizio dal socio italico, avrebbe potuto invocare in giudizio le leggi romane sull’usura, precedentemente inapplicabili nei confronti dei creditori stranieri[161]. Per quanto concerne la determinazione del foro competente, è probabile che già anteriormente al plebiscito Sempronio si applicassero le regole del forum rei (se per attore e convenuto non era competente la stessa autorità, la questione della competenza andava risolta secondo il foro del convenuto) e del forum contractus (era competente l’autorità del luogo dell’esecuzione, non quella del luogo dove si era contratta l’obbligazione)[162].

Ma il numero esorbitante di denunzie dei crediti rivelò un’entità della frode inizialmente imprevista, e allora il tribuno M. Sempronio, ex auctoritate patrum, portò la questione dinanzi ai concilia plebis. 

Con il plebiscito Sempronio (cui a taluni è sembrato potersi collegare la notizia di Tacito ann. 6.16: … postremo vetita versura…[163]), si prevedeva, nei confronti dei creditori latini e soci italici, l’applicazione dello stesso diritto valevole per i cittadini romani (… ut cum sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum civibus Romanis esset). Al debitore romano, così, nei confronti degli alleati, si assicurava una protezione analoga a quella di cui egli godeva nei confronti dei creditori concittadini. Il che non significava estendere le leggi romane antiusura ai socii Italici: gli alleati intestatari dei crediti sarebbero stati giudicati secondo il diritto romano solo a condizione che la controparte processuale fosse civis Romanus[164]. Attraverso tale revisione dei criteri di giurisdizione (misura, che, come meglio si esporrà più avanti, andava apparentemente ben oltre le esigenze della situazione contingente), si garantiva il rispetto dei divieti contenuti nelle precedenti ‘leges minus quam perfectae’ antiusura[165], anche a fronte della nuova frode (intestazione dei crediti a stranieri) ideata dai faeneratores romani. Questo il circostanziato racconto di Livio:

 

Liv. 35.7.2-5: Instabat enim cura alia, quod civitas faenore laborabat et quod, cum multis faenebribus legibus constricta avaritia esset, via fraudis inita erat ut in socios, qui non tenerentur iis legibus, nomina transcriberent; ita libero faenore obruebantur debitores. Cuius coercendi cum ratio quaererentur, diem finiri placuit Feralia quae proxime fuissent, ut qui post eam diem socii civibus Romanis credidissent pecunias profiterentur, et ex ea die pecuniae creditae quibus debitor vellet legibus ius creditori diceretur. Inde postquam professionibus detecta est magnitudo aeris alieni per hanc fraudem contracti, M. Sempronius tribunus plebis ex auctoritate patrum plebem rogavit plebesque scivit ut cum sociis ac nomine Latino creditae pecuniae ius idem quod cum civibus Romanis esset.

 

Si deve tenere presente che già antecedentemente al plebiscito Sempronio (dal 242 a.C.) le controversie tra Romani e stranieri potevano essere risolte sia mediante il rito formulare, sia, se la parte processuale straniera era titolare di ius commercii, con le legis actiones. Ma è chiaro che la scelta della procedura spettava a chi dava impulso al procedimento. Verosimilmente, nella fattispecie in oggetto, era parte attrice il creditore straniero, se il debito non era stato pagato; ed era dunque al socio o al Latino che spettava scegliere se litigare per formulas o con le legis actiones.

Invece, nelle liti tra cittadini romani, all’epoca del plebiscito Sempronio, non era ancora (fino alla legge Ebuzia, del 130 a.C. circa) applicabile la condictio formulare: ai cittadini Romani erano riservate la legis actio sacramenti in personam (forse causale) e la legis actio per condictionem (astratta)[166]. Per i rapporti tra Romani, incentrati su pecunia credita, l’unica possibilità che si prendesse in considerazione lo specifico rapporto di mutuo dedotto in giudizio, e dunque la convenzione di interessi vietati dalle leggi, era che il giudice, nella seconda fase del processo, discrezionalmente riconoscesse giuridica rilevanza alla dimostrazione fornita in tal senso dal debitore convenuto. Recenti studi consentono di ritenere quanto meno ipotizzabile, come ho già esposto, che i giudici fossero sensibili a contestazioni di tal fatta, da parte dei debitori convenuti in giudizio per il pagamento di interessi illeciti. Di qui, forse, la prassi fraudolenta dell’intestazione dei crediti a stranieri, i quali, non essendo soggetti alle leggi romane, avrebbero potuto impostare l’azione processuale secondo regole estranee all’ordinamento giuridico romano.

Questa, allora, la finalità del senatoconsulto che precedette l’emanazione del plebiscito Sempronio: riconoscere al debitore romano il diritto di essere giudicato secondo le leggi (antiusura) valevoli tra Romani. Ciò significa, però, (e questa deduzione conferma l’ipotesi precedentemente esposta) che nel diritto romano già esistevano, in quegli anni, strumenti giurisdizionali idonei alla tutela del debitore, ulteriori e diversi, rispetto alla procedura per manus iniectionem. Livio afferma chiaramente che gli usurai romani presero a intestare i crediti agli stranieri perché questi non erano soggetti alle leggi antiusura romane (quia non tenerentur iis legibus). Ma, se il plebiscito Sempronio, per stroncare questa frode, aveva disposto di ius dicere, tra creditori stranieri e debitori romani, secondo le leggi romane, significa che, antecedentemente al 193, le leggi antiusura nei tribunali romani erano applicate anche per contrastare la richiesta giudiziale di usurae supra modum, e potevano condurre all’assoluzione dei debitori.

Mi sembra senz’altro da escludere che il rimedio giurisdizionale esteso con il plebiscito alle liti con stranieri fosse il procedimento esecutivo della manus iniectio quadrupli, attivabile dopo il pagamento delle usure (procedimento al quale già prima del 193 gli alleati muniti di ius commercii erano probabilmente soggetti). Dal racconto liviano emerge con chiarezza che tanto il senatoconsulto, quanto il plebiscito del 193 erano piuttosto intesi a bloccare l’esazione giudiziale degli interessi da parte dei creditori stranieri (il censimento dei crediti di Latini e soci nei confronti dei Romani non riguardava evidentemente pagamenti già eseguiti!)[167]. Il riconoscimento ai debitori romani del diritto di invocare in giudizio le leggi antiusura significa che in Roma già esistevano strumenti per proteggere le vittima dell’usura dalla richiesta giudiziale di interessi illeciti, e che dunque la tutela dei debitori non aveva necessariamente quale presupposto il già avvenuto pagamento degli interessi vietati.

E’ però dubbio se tale strumento di difesa nei confronti dei faeneratores sia da ricercare nell’ambito delle legis actiones o delle procedure formulari. Che il senatoconsulto e che il successivo plebiscito Sempronio presupponessero l’ammissione di Latini e socii Italici all’uso tanto delle legis actiones quanto delle formule è, a mio avviso, congettura verosimile, considerata l’antica concessione, a quelli, del commercium[168]. E tale strumento di tutela (diverso dalla manus iniectio quadrupli), nelle procedure per legis actiones, non poteva che essere la valutazione discrezionale da parte del giudice privato[169]; invece, nelle procedure formulari, all’epoca del plebiscito Sempronio, la praescriptio pro reo.

Naturalmente, la verosimiglianza di questa conclusione si basa sull’ipotesi che già nelle legis actiones fosse ammessa la possibilità di una sorta di difesa, a favore del convenuto in giudizio per l’inadempimento di un obbligo assunto in violazione di un divieto legislativo (benché introdotto attraverso una cd. lex minus quam perfecta, o addirittura imperfecta). E proprio con riferimento a tale sistema procedurale acquista un senso ben preciso il mezzo impiegato dal plebiscito Sempronio per sventare le frodi degli scaltri faeneratores. Infatti, è stato osservato che per prevenire gli espedienti fraudolenti degli usurai romani sarebbe stato sufficiente dichiarare applicabili a socii e Latini le leggi antiusura romane, anziché stabilire una (ultronea) equiparazione tra stranieri e cives quanto a ius pecuniae creditae[170]. In realtà, la struttura delle legis actiones (a differenza delle procedure formulari) non avrebbe comunque consentito l’applicazione delle leggi antiusura in favore del debitore convenuto in giudizio, dal momento che costui non aveva facoltà di formulare eccezioni. Mentre l’assoggettamento della parte attrice peregrina (munita di commercium) allo ius pecuniae creditae romano apriva le porte alle valutazioni discrezionali del giudicante (in questo caso fondate non solo sulle leggi antiusura violate, ma anche sulla ben più grave rottura della fides).

Qualora invece si preferisse prestare credito alla diversa ricostruzione, secondo cui il plebiscito Sempronio avrebbe consentito ai debitori convenuti in giudizio da creditori latini o soci italici di ottenere che il processo si svolgesse secondo il solo rito delle procedure formulari (e non anche con le legis actiones), allora lo strumento di difesa per la vittima dell’usura andrebbe individuato nella praescriptio pro reo (con riferimento alle valutazione del magistrato nella fase in iure e non più, come congetturato per l’età precedente, del giudice, nella seconda fase del processo).

Si può supporre che la mancanza di notizie di pubblici processi per l’applicazione di multe edilizie, segnalata prima come assai sospetta, sia da collegare all’uso, invalso dopo la stangata inferta dal plebiscito Genucio, di intestare crediti con tassi di interesse illeciti a stranieri, i quali, peraltro, non potevano essere sottoposti neppure ai iudicia populi. Ma dopo il plebiscito Sempronio i feneratores smisero di rivolgersi a prestanome stranieri, tornando ad agire personalmente: e, una volta tornati allo scoperto, furono colpiti con rinnovata severità dagli edili.

In definitiva, la tutela privata accordata contro gli usurai, nel II sec. a.C., non colpiva ancora la mera convenzione di interessi vietati. Verosimilmente, però, erano stati introdotti prima nella prassi, poi attraverso l’editto pretorio, alcuni meccanismi processuali idonei a bloccare la richiesta in giudizio del pagamento degli interessi, in forza di una pattuizione contraria alle leges fenebres. Se il creditore intentava l’azione per il pagamento di capitale e interessi (o dei soli interessi), nel sistema delle legis actiones il giudice poteva discrezionalmente mandare assolto il convenuto, richiamandosi alla violazione delle leggi antiusura da parte dell’attore. Con l’avvento della procedura formulare, il debitore convenuto poteva far respingere (o non fare neppure esaminare) la domanda dell’usuraio, mediante una praescriptio pro reo (poi evolutasi in exceptio), fondata su di un divieto legislativo. Se invece gli interessi erano già stati pagati spontaneamente, si poteva ricorrere, nei confronti dell’usuraio, alla manus iniectio, che forse solo in caso di infitiatio dava luogo ad una condanna nel quadruplo. Con il plebiscito Sempronio, leggi antiusura e relativi strumenti di tutela processuale furono estesi ai rapporti creditizi con gli alleati, in opportuna considerazione dell’effettività del fenomeno, che ormai sconvolgeva una collettività ben più vasta di quella individuabile nella civitas Romana.

 

 

8. – Il mancato coordinamento tra le disposizioni legislative e la loro divaricazione rispetto alla prassi: disagi nell’esercizio dell’attività giurisdizionale

 

Quanto fin qui ipotizzato in ordine alla tutela processuale progressivamente accordata alle vittime dell’usura può essere avvalorato dalla riflessione sulla oscura vicenda processuale che, nell’89 a.C., condusse all’uccisione del pretore Asellio.

Appiano[171], con dovizia di particolari, e più sinteticamente Livio[172] e Valerio Massimo[173] riportano questo episodio, della cui storicità, a mio giudizio, non è dato dubitare. Nell’89 a.C., alcuni creditori si rivolsero al pretore Sempronio Asellio per il riconoscimento dei loro diritti; secondo Appiano, non essendo stato in grado di fronteggiare le contestazioni dei debitori e di mediare tra le opposte esigenze, il magistrato avrebbe rimesso ai giudici di decidere, in ordine agli interessi sui prestiti, o in base alle consuetudini, o in base alla legge[174]. E’ in questo contesto che Appiano opera un riferimento ad una ‘antica legge’ – invocata dai debitori, nella vertenza in oggetto –, con la quale si sarebbe vietato il prestito a interesse, comminando una sanzione penale per i trasgressori (il riferimento è forse al plebiscito Genucio, o alla legge Marcia); ma i creditori avrebbero insistito sulla consuetudine, non essendo certo loro conveniente l’applicazione dell’‘antica legge’. Secondo Livio e Valerio Massimo, invece, il magistrato Asellio avrebbe preso le parti dei debitori. Comunque, tutti gli scrittori concordano sul tragico epilogo della vertenza: i creditori, fomentati in modo determinante – precisa Valerio Massimo – dal tribuno della plebe Lucio Cassio, uccisero il pretore Asellio, nel corso di un sacrificio offerto a Castore e Polluce, assassinandolo in una taverna dove si era rifugiato.

Non sappiamo come fu decisa la lite, e si potrebbe riflettere meglio sui vantaggi che ai creditori avrebbe potuto apportare la morte del pretore[175]. Ma la evidente natura di ‘reato d’impeto’ dell’omicidio in oggetto sembra escludere ogni genere di programmazione razionale da parte dei creditori indignati. Quanto allo svolgimento della procedura, va premesso che ci troviamo qui senza dubbio nell’ambito di un processo privato; a prestare fede ad Appiano, il creditore invocava la prassi, il debitore una severa legge antiusura. La legge la cui applicazione era avversata dalla parte attrice, per quanto antica, non poteva ritenersi abrogata per desuetudine[176]; e proprio perché non poterono efficacemente invocarne l’abrogazione per desuetudine, i creditori, esasperati, «ricorsero all’assassinio del pretore»[177].

E’ di difficile identificazione il meccanismo processuale che dette adito alla violenta reazione dei creditori. Appleton[178] ipotizzava che ad agire, dopo il pagamento degli interessi in misura illecita, fossero stati i debitori, contro i faeneratores, con la procedura della manus iniectio ex lege Marcia (104 a.C.), poi sfociata in un processo di accertamento, mediante legis actio. La congettura è, a mio avviso non insostenibile[179], se si pensa che la introduzione di questo rimedio, benché incentrato sulle vetuste legis actiones, rimontava a pochi anni addietro, ammesso che si voglia credere nella legge Marcia del 104 a.C.[180], o, se non vi si crede, comunque agli anni compresi tra la fine del III e gli albori del II sec. a.C., periodo della comparsa della manus iniectio pura in quadruplum a legittimazione generale, tanto vivacemente descritta e bersagliata da Plauto nel Persa. Deporrebbe in favore di questa ricostruzione anche il richiamo di Appiano[181] all’antica legge che, nel vietare il prestito feneratizio, imponeva ai trasgressori il pagamento di un’ammenda (questo accenno, se veritiero, corrobora l’inquadramento delle leggi antiusura come ‘leges minus quam perfectae’): tale ammenda potrebbe essere identificata nella condanna in quadruplum dell’infitians.

In astratto convince, d’altra parte, anche la ricostruzione di Tilli[182], condivisa da Poma[183], secondo cui ad agire sarebbero stati invece i faeneratores, ai quali non erano stati corrisposti gli interessi, concordati e promessi in misura illecita con una stipulatio usurarum (strumento utilizzato nella prassi per aggirare la gratuità del mutuo). Verosimilmente, al fine di bloccare l’actio ex stipulatu promossa dai creditori, i debitori avrebbero opposto una eccezione (o, forse, chiesto una praescriptio pro reo), adducendo la frode della parte attrice, che pretendeva il pagamento di interessi, in violazione del divieto posto dall’antica norma: contro la decisione del pretore, di inserire una siffatta clausola nello iudicium, rimettendo la decisione al giudice, si sarebbe scatenata la furia omicida dei creditori, perché, indubbiamente, la remissione al giudice con una formula di tal fatta avrebbe implicato un esito sfavorevole alla parte attrice.

Questa ipotesi potrebbe da un lato trovare un ostacolo nell’astrattezza della stipulatio usurarum (i debitori convenuti in giudizio avrebbero dovuto dimostrare che il rapporto sostanziale consisteva in un mutuo oneroso, in violazione di un’antica norma), e per altro verso non risultare aderente al dettato di tutte le fonti citate: mentre da Livio e da Valerio Massimo risulta che il magistrato aveva ‘preso le parti dei debitori’ (e questa impostazione è compatibile con l’ipotesi della eccezione) da Appiano invece risulta che il magistrato rimise al giudice la decisione se applicare la legge (divieto assoluto o relativo di interessi) o la consuetudine (richiesta di interessi, o, rispettivamente, di un tasso illecito di interessi). In altre parole, nel racconto appianeo il magistrato non avrebbe preso posizione in favore dell’una o dell’altra parte in causa (cosa che invece avrebbe fatto, se avesse accettato di inserire l’eccezione del convenuto nella formula); Asellio aveva lasciato impregiudicata la questione, rimettendo il tutto al prudente apprezzamento del giudice.

Certo, la versione appianea dei fatti verrebbe spiegata più facilmente se si pensasse all’esercizio di una legis actio, procedura nella quale non spettava al magistrato, nella fase in iure, accordare o negare l’eccezione al convenuto, ma al giudice, nella fase apud iudicem valutare discrezionalmente le ragioni delle parti; mentre nella procedura per concepta verba il magistrato doveva decidere se accordare o meno l’eccezione al convenuto, condizionando così l’esito della lite[184]. Il resoconto di Appiano si adatterebbe perfettamente all’ipotesi di un procedimento per manus iniectionem puram, cui avesse fatto seguito un processo mediante legis actio, che magari minacciava di sfociare nella condanna in quadruplum degli usurai. Tuttavia, nell’ambito di una processo per legis actiones riesce difficile immaginare come invece il magistrato avrebbe potuto evitare di incorrere nelle ire dei creditori, prendendo le loro parti.

Allo stato delle attuali conoscenze, non sembra di potere andare oltre. Certo pare solo che, per avere invitato il giudice a scegliere tra la tesi della parte attrice (che invocava la prassi) e la difesa dei convenuti (che faceva perno su una antica legge antiusura), e dunque per avere rimesso al giudice la decisione se applicare la legge o la consuetudine, Asellio fu ucciso. Il magistrato, insomma, peccò forse di eccessivo idealismo e pagò con la vita per una presa di posizione che rimase, in definitiva, un episodio isolato[185].

Ma perché a sobillare i creditori fu un tribuno della plebe? L’atteggiamento assunto da Asellio andava a tutto vantaggio dei debitori, contrastando gli interessi degli usurai: «La perdita della lite avrebbe costituito un pericoloso precedente, capace di limitare al solo capitale la riscossione dei crediti in scadenza ed annullando così, oltretutto in un periodo di crisi, le aspettative di guadagno della classe finanziaria»[186]. Gli interessi in gioco dovevano essere enormi, anche a giudicare dalla taglia posta (invano) dal senato sul capo degli assassini. L’episodio potrebbe allora inquadrarsi nell’ambito di un conflitto tra nobilitas indebitata ed equites, detentori del potere finanziario: un indizio in questo senso si è visto nella circostanza che a fomentare l’ira contro Asellio fu il tribuno della plebe L. Cassio, il quale era stato collega di Papirio Carbone, ricordato per avere proposto invano, proprio in quell’anno, una lex semiunciaria, dunque un ripristino degli interessi legali[187]. Quando l’esigenza di norme antiusura cominciò ad avvertirsi all’interno della nobilitas, le leggi si approvarono senza bisogno di ricorrere a sedizioni o secessioni, e anzi se ne anticiparono gli effetti attraverso un senatoconsulto: emblematico, al riguardo, il racconto in Liv. 35.7, sopra esaminato. Ma in qualche occasione gli usurai riuscirono ad avere il sopravvento sui patres: l’imposizione di una taglia sugli uccisori di Asellio, da parte del senato, si rivelò un insuccesso, e l’anno successivo si ottenne l’approvazione della lex Cornelia Pompeia unciaria, che ripristinò le usure, come attesta Appiano[188], in un tasso indeterminato.

I resoconti a noi giunti sulla uccisione di Asellio non consentono di capire se i creditori avessero agito per ottenere il pagamento delle sole usure (se il capitale era già stato loro corrisposto), ovvero di capitale e interessi. In assenza di indicazioni nelle fonti pervenuteci, entrambe le ipotesi restano possibili e la ricostruzione della vicenda dipende, in ultima analisi, anche dalle ragioni che si vogliano credere alla base della gratuità del mutuo romano. La gratuità del mutuo potrebbe infatti farsi derivare proprio dal divieto di usure contenuto nel plebiscito Genucio, che avrebbe reso necessario il ricorso alla conclusione di un patto aggiunto (la stipulatio, o sponsio, usurarum) ove si volesse gravare il mutuo di interessi[189]; oppure, negandosi la riconducibilità del mutuo gratuito al plebiscito Genucio, si dovrebbe postulare l’esistenza, ab antiquo, tanto del contratto reale gratuito di mutuum (tutelato prima con la legis actio per condictionem, poi con le actiones certae crediate pecuniae e certae rei), tanto di un mutuo oneroso contratto verbalmente (verbis, non re), il faenus (tutelato anticamente dalla legis actio per iudicis arbitrive postulationem e nel processo formulare dall’actio ex stipulatu)[190].

Se si fosse usata la stipulatio per ledere il divieto di prestito a interessi introdotto dal plebiscito Genucio, il creditore avrebbe dovuto esercitare due azioni: una per il capitale, l’altra per gli interessi.

Certamente, la vicenda di Asellio attesta una disordinata stratificazione delle varie leggi limitatrici degli interessi e la contestuale persistenza di una prassi che, avvalendosi di ogni espediente (stipulatio usurarum esigibili mediante actio ex stipulatu[191] astratta, promessa contestuale di restituzione di capitale e interessi esigibili mediante legis actio per condictionem astratta, intestazione dei crediti agli stranieri), largamente disattendeva tutte le leggi antiusura progressivamente emanate; prassi di cui, a quanto traspare dall’episodio di Asellio, nei tribunali persino magistrati e giudici dovevano tenere largamente conto. In questo senso si è parlato – e a mio giudizio a ragion veduta, anche se con una certa esagerazione – di una ‘inutilità’ delle leges fenebres emanate nel corso del IV e III sec. a.C.[192]. Probabilmente, i debitori, nella vicenda in esame, avevano invocato la disposizione, tra le varie che si erano susseguite nel tempo, a loro più favorevole, benché forse superata da successive disposizioni meno drastiche e, soprattutto, da una prassi largamente diffusa che in pieno la disattendeva.

Questa drastica divaricazione tra dettato normativo e prassi (fraudolenta), spesso avallata dai tribunali, viene efficacemente descritta da Tacito, nel già citato passo in ann. 6.16.2 (multisque plebiscitis obviam itum fraudibus, quae totiens repressae miras per artes rursum oriebantur), ove si afferma che alla proibizione di ‘versura’ fecero seguito molti plebisciti volti a reprimere le frodi alla norma, frodi che tuttavia puntualmente rispuntavano. Una testimonianza del pari significativa si ritrova nel Curculio[193] (ritenuto di epoca non anteriore al 193 a.C.) di Plauto, dove, nel bel mezzo di una invettiva contro gli usurai (condotta attraverso l’accostamento di questi ultimi ai lenoni, di cui si afferma addirittura la ‘superiorità morale’, rispetto ai faeneratores!), sostanzialmente si conferma la complessiva veridicità del racconto tradizionale, a un tempo, sulle leggi antiusura (‘acqua bollente’, destinata però a divenire frigida per desuetudine o ripetute violazioni)[194] e sugli stratagemmi fraudolenti escogitati dai faeneratores per aggirarle:

 

Plaut. Curc. 507-511:

Hi saltem in occultis locis prostant, vos in foro ipso;

vos faenori, hi male suadendo et lustris lacerant homines.

rogitationes plurumas propter vos populus scivit

quas vos rogatas rumpitis: aliquam reperitus rimam;

quasi aquam ferventem frigidam esse, ita vos putatis leges.

 

[I lenoni, almeno, fanno i loro sudici affari di nascosto, voi usurai nel bel mezzo del Foro. Quelli rovineranno gli esseri umani con le loro diaboliche tentazioni, voi invece con lo strozzinaggio. Il popolo ha approvato contro di voi più di una legge, ma voi le avete violate, trovate sempre modo di aggirarle con l’inganno. Voi pensate che le leggi siano come l’acqua bollente, che tanto, poi, si raffredda].

 

 



 

[1] Così P. Capone, Gli interventi edilizi nella repressione delle “usurae”, in Labeo 45, 1999, 197 s., sulle orme di un cospicuo filone storiografico: G. Salvioli, Il capitalismo antico. Storia dell’economia romana, Bari 1929, 15 ss., 193 ss.; F. M. Heichelheim, Storia economica del mondo antico, tr. it. Bari 1972, 849 ss.; J. Ph. Lévy, L’economia antica, tr. it. Napoli 1984, 67 ss.

 

[2] Per l’epoca, sussiste un’ampia documentazione sulla fioritura della produzione artigianale (assai significativa, al riguardo, la tradizione che riconduce a Numa l’origine dei collegia opificum: v. soprattutto Plut. Numa 17.1-4, su cui rinvio a quanto ho esposto in I più antichi divieti di riunione: gruppi, ripartizioni sociali e potere regio nelle istituzioni romane arcaiche, in Index 29, 2001, 113 ss., specialm. 120 ss., con altra bibl.) e tracce di una vivace economia di scambio (documentazione in F. De Martino, Storia economica di Roma antica, I, Firenze 1979, 10 ss.), indirettamente dimostrata anche da una fase di apertura linguistica (G. Devoto, Storia politica e storia linguistica, in ANRW. I.1, 1972, 4457 ss.). D’altra parte, l’antichità degli istituti del commercium e del connubium costituisce l’evidente prova della frequenza, in età monarchica, dei rapporti commerciali tra Roma e le città latine: F. De Martino, Storia economica, I, cit., 9; v. anche A. Torrent, Moneda credito y derecho penal monetario en Roma (s. IV a.C.-IV d.C.), in SDHI. 73, 2007, 111 ss., specialm. 120.

 

[3] Per altri spunti, oltre alle ben note considerazioni tradizionali basate sui rilievi archeologici, si l. M. Crawford, Coinage and money under the Roman Republic, London 1985, 19 ss.; L. Peppe, Studi sull’esecuzione personale. I, Debito e debitori nei primi due secoli della repubblica romana, Milano 1981, 85 ss., sostiene che i disagi gravarono prevalentemente sulla plebe rustica.

 

[4] F. De Martino, Storia economica, I, cit., 13 ss.; A. D. Manfredini, Tre leggi nel quadro della crisi del V secolo, in Labeo 22, 1976, 198 ss.

 

[5] F. Cassola, I gruppi politici romani nel III sec. a.C., Trieste 1962, 129 e passim; L. Loreto, La censura di Appio Claudio, l’edilità di Cn. Flavio e la razionalizzazione delle strutture interne dello stato romano, in AeR. 36, 1991, 197 ss.

 

[6] Liv. 4.13.1; Dion. Hal. 12.1.1; Zonar. 7.20; A. Pollera, La carestia del 439 a.C. e l’uccisione di Spurio Melio, in BIDR. 82, 1979, 146 s.; A. Romano, Economia naturale ed economia monetaria nella storia della condanna arcaica, Milano 1986, 113 ss., dove lett. prec.

 

[7] V. soprattutto F. Cassola, I gruppi politici romani, cit., passim.

 

[8] C. Appleton, Contributions à l’histoire du prêt à intérêt à Rome. Le taux du “fenus unciarium”, in RHD. 1, 1919, 467, con prec. bibl.

 

[9] M. Kowalewski, Coûtume contemporaine et loi ancienne, Paris 1893, 129 ss.; C. Appleton, Le taux, cit., 470 ss.

 

[10] Sull’anatocismo, ampia trattazione in M. G. Gómez Rojo, Historia juridica del anatocismo, Barcelona 2003; C. Vittoria, Le “usurae usurarumconvenzionali e l’ordine pubblico economico a Roma, in Labeo 49, 2003, 291 ss.; F. Fasolino, L’anatocismo nell’esperienza giuridica romana, in Scritti in onore del prof. Vincenzo Buonocore, I, Milano 2005, 283 ss., ora in Studi sulle “usurae”, Salerno 2006, 13 ss.

 

[11] Plin. nat. hist. 18.12; Varro de re r. 2.19; Varro de vita pop. Rom., apud Non. Marc. 189 (ed. Müller). Sull’attendibilità di tali testimonianze, rinvio a dati e bibl. in L. Solidoro Maruotti, Datazione e caratteri dei più antichi divieti usurari, in Problemi di storia sociale nell’elaborazione giuridica romana, Napoli 1994, 23 e nt. 45.

 

[12] Varro apud Gell. 16.2.7-8; Non. Marc. 54.5-6, sui cui contenuti v. C. Appleton, Le taux, cit., 475 s.

 

[13] L’entità degli interessi è frutto di ipotesi: secondo una differente opinione, il calcolo del fenus unciarium sarebbe da farsi su base annua (l’interesse dovrebbe allora intendersi fissato nella misura dell’8,33% annuo), non mensile: cfr. le differenti ricostruzioni di C. Appleton, Le taux, cit.; G. Billeter, Geschichte des Zinsfusses im griechisch-römischen Altertum bis auf Justinian, Leipzig 1898, 115 ss.; V. Scialoja, “Unciarium fenus”, in BIDR. 33, 1922, 240 ss.; H. Zehnacker, “Unciarium fenus” (Tacite. Annales, VI, 16), in Mélanges P. Wuilleumier, Paris 1980, 353 ss., 362 (i quali tutti accolgono la costruzione qui proposta, che deriva peraltro dall’interpretazione di Accursio e Gotofredo); diversamente R. P. Maloney, Usury in Greek, Roman, and Rabbinic Thought, in Traditio 27, 1971, 89; ma riafferma la fondatezza della congettura tradizionale G. Cervenca, voce Usura (dir. rom.), in Enc. dir. XLV, Milano 1992, 1126. Ulteriore discussione del tema infra, nel testo.

 

[14] C. Appleton, Le taux, cit., 472 ss., 564 ss.; L. Peppe, Studi sull’esecuzione, cit., 94; P. Capone, Gli interventi, cit., nt. 84, con altra lett.

 

[15] E precisamente all’ottava tavola, almeno secondo la ricostruzione tradizionale, in FIRA. I. 2a ed. 161 (XII tab. 8.18a). Annotazioni critiche in O. Diliberto, Materiali per una palingenesi delle XII Tavole, I, Cagliari 1992, 216.

 

[16] F. D’Ippolito, Questioni decemvirali, Napoli 1993, 5.

 

[17] Macrobio ricorda (Macrob. Sat. conv. 3.17.8) che spesso le leggi decemvirali per lungo tempo disattese vennero riproposte dai Romani con leggi successive; d’altra parte, la presenza, nel testo decemvirale, di una norma antiusura sembra corroborata da Cat. de agric. praef. 1, su cui infra.

 

[18] T. L. Comparette, “Aes signatum”, in American Journal of Numismatic 52, 1918, estr. New York 1919, rist. an. Chicago 1978, 3 ss.; A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 201 nt. 10.

 

[19] V. l’ampia esposizione e discussione dei dati in H. Zehnacker, La numismatique de la République Romain, Bilan et perspectives, in ANRW. LI, 1972, 266 ss.; M. Crawford, Roman Republican coinage, 2 voll., Cambridge 1974; F. De Martino, Postilla a ‘Riforme del IV sec. a.C.’, in Diritto privato e società romana, Roma 1982, 555 ss.; A. Romano, Economia naturale, cit., 100 ss.; altra bibl. in L. Solidoro Maruotti, Datazione e caratteri, cit., 14 e nt. 4.

 

[20] A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 202 ss.

 

[21] Fonti in A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 209 ss.; J. GagÉ, La “lex Aternia”, l’estimation des amendes (“multae”) et le fonctionnement de la commission décemvirale des 451-449 av. J.-C., in Ant. Class. 47, 1978, 70 ss.; v. anche L. Solidoro Maruotti, Datazione e caratteri, cit., 18 s., e ora A. Torrent, Moneda, cit., 123, con altra bibl.

 

[22] V. soprattutto Dion. 5.53.2; 5.63.1; 5.64.2; 5.65.1, 5; 5.66-68.2; 5.69.1-3; 6.22.1-2; 6.25-90; Liv. 2.22-23. Per ulteriori dati rinvio a Datazione e caratteri, cit., 20 s.

 

[23] A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 198 ss.

 

[24] E. Ciaceri, Le origini di Roma, Milano-Genova-Roma-Napoli 1937, 177 ss.; A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 202 nt. 12; M. Crawford, La moneta in Grecia e a Roma, Roma-Bari 1982, 98.

 

[25] Bibl. in A. Romano, Economia naturale, cit., 95 ss.

 

[26] Ampiamente, A. D. Manfredini, Tre leggi, cit.

 

[27] La definizione della lex imperfecta, come legge quae vetat aliquid fieri et, si factum sit, nec rescindit nec poenam iniungit ei, qui contra legem fecit, qualis est lex Cincia rell., ci deriva dalla integrazione proposta da Ph. E. HUSCHKE a Ulp. tit. pr.1-2: F. Senn, “Leges perfectae, minus quam perfectae et imperfectae”, Paris 1902; A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 4a ed., Napoli 1980, 200 ss.

 

[28] Così L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio del 193 a. C. e la repressione delle “usurae”, in Atti dell’Accademia di scienze morali e politiche 95, 1984, 268.

 

[29] Così P. Capone, Gli interventi, cit., 199 nt. 19.

 

[30] Per il rapporto tra monetazione e disagi sociali, verso la metà del IV sec., v. L. Pedroni, Censo, moneta e rivoluzione della plebe, in MEFRA. 107.1, 1995, 197 ss.

 

[31] Ampia dimostrazione in A. Storchi Marino, “Quinqueviri mensarii”. Censo e debiti nel IV secolo, in Athenaeum 81.1, 1993, 213 ss.

 

[32] L. Peppe, Studi, cit., 94, sulle orme di M. Crawford, Coinage, cit., e v. ora A. Torrent, Moneda, cit., 124 s., 129.

 

[33] E’ questa la terminologia adottata molto più tardi da Ulpiano, in Tit. 1.2, che naturalmente qui si richiama solo per comodità espositiva. Qualifica correttamente le leggi antiusura repubblicane come minus quam perfectae A. Torrent, Moneda, cit., 142.

 

[34] Lett. in L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio, cit., ntt. 53 ss.

 

[35] Ulp. tit. pr. 2: Minus quam perfecta lex est quae vetat aliquid fieri, et si factum sit, non rescindit, sed poenam iniungit ei qui contra legem fecit: qualis est lex Furia testamentaria…; v. ora correttamente, con riferimento alle disposizioni della legge Marcia, C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 365 e passim; A. M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”. Storia di un dovere giuridico, Napoli 2007, 98.

 

[36] Lo ricorda P. Capone, Gli interventi, cit., 202, con bibl.

 

[37] Fonte di cui sono ben note l’‘atecnicità’ e l’imprecisione: S. Di Salvo, “Lex Laetoria”. Minore età e crisi sociale tra il III e il II sec. a.C., Napoli 1979, 139 nt. 99, con altra bibl.

 

[38] Sulla figura del quadruplator, v. soprattutto F. De Martino, I “quadruplatores” nel “Persa” di Plauto, in Labeo 1, 1955, 43 [anche in Id., Diritto e società nell’antica Roma, Roma 1979, 477 ss.]; L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio, cit., 13 ss.; Y. Revière, Les “quadruplatores”: la répression du jeu, de l’usure et quelques autres délits sous la République romaine, in MEFRA. 109, 1997, 577 ss.; C. Russo Ruggeri, Leggi sociali e “quadruplatores” nella Roma postannibalica, in Labeo 47, 2001, 349 ss.

 

[39] Sul quale v. anche i cenni in C. Cascione, “Tresviri capitales”. Storia di una magistratura minore, Napoli 1999, 190 nt. 95, con altra bibl.

 

[40] Dettagli e discussione su questo tormentato testo, in S. Di Salvo, “Lex Laetoria”, cit., 139 e nt. 98; J. G. Camiňas, Sobre los “quadruplatores”, in SDHI. 50, 1984, 472 ss.; A. Pollera, In tema di repressione del gioco d’azzardo: dati e problemi, in St. de Sarlo, Milano 1989, 323 ss.; C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 349 ss., dove altra bibl.; cenni in A. M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”, cit., 195 s. Occorre tenere presente che, secondo l’opinione più diffusa, nel passo sono cadute alcune parole dopo il sed, e numerose sono state le proposte di integrazione: v. soprattutto F. Bettini, Il parasito Saturnio, una riforma legislativa ed un testo variamente tormentato (Persa, vv. 65-74), in Studi classici ed orientali 25, 1977, 86 ss.

 

[41] Non vi è però esplicita menzione della calumnia, come esercizio doloso di azioni infondate: D. Centola, Il “crimen calumniae”. Contributo allo studio del processo criminale romano, Napoli 1999, 91 nt. 60.

 

[42] Condivido, al riguardo, la cautela di C. Cascione (“Tresviri”, cit., 185 ss.), nell’esegesi dei passi plautini generalmente addotti (v. M. B. G. Niebuhr, Römische Geschichte, Berlin 1874, 357 ss., con AA. ivi citt.) quale prova della competenza dei tresviri, e di C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 377 ss., la quale da un lato rileva l’impossibilità di dimostrare una competenza generale dei tresviri a giudicare nella legis actio sacramenti, ma ammette, sulla base della testimonianza di Plauto, la verosimiglianza dell’idea che questi magistrati intervenissero nei procedimenti che si svolgevano per manus iniectionem: con riguardo alla manus iniectio pura, probabilmente i tresviri giudicavano quando l’esecutato si opponeva alla manus iniectio (ibid. 381 ss.). In tema, amplius infra, nel testo.

 

[43] Pensava a una delega pretoria Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Leipzig 1887, II, 3a ed., 599 nt. 3; sulle sue orme, P. Girard, Histoire de l’organisation judiciaire des Romains, Paris 1901, I, 177 ss.; mentre ipotizza un autonomo potere di giudicare dei magistrati minori in oggetto F. Cancelli, A proposito dei “tresviri capitales”, in St. P. de Francisci, III, Milano 1956, 24 ss. Sui tre luoghi plautini che attestano la competenza dei tresviri nel procedimento della manus iniectio, C. Cascione, “Tresviri capitales”, cit., 185 ss., con bibl.

 

[44] L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio, cit., 16, argomentando da Plaut. Truc. 760 ss. (quae adversum legem accepisti a plurimis pecuniam…) e, per analogia, dai caratteri della manus iniectio quadrupli accordata nei confronti di chi avesse acquisito un lascito mortis causa in violazione della lex Furia testamentaria (Gai 2.225; 4.23).

 

[45] Il brano plautino «dimostra una diffusione alquanto ampia dell’azione popolare, presumibilmente al di là delle sole ipotesi dell’usura e dell’alea»: S. Di Salvo, “Lex Laetoria”, cit., 138 s.

 

[46] F. De Martino, I “quadruplatores”, cit., 37.

 

[47] Si è ipotizzata la caduta, dal testo, dopo il sed, della «menzione di una legge, che costringa l’attore a versare all’erario la metà del profitto»: F. DE MARTINO, I “quadruplatores”, cit., 32 s. Sul significato giuridico della contrapposizione tra rei publicae causa e suum quaestum, F. BOTTA, Legittimazione, interesse ed incapacità all’accusa nei “publica iudicia”, Cagliari 1996, 130 s. nt. 220. Va d’altra parte ricordato che la manus iniectio costituì la forma procedurale più antica delle azioni popolari: D. Mantovani, Il problema dell’accusa popolare. Dalla “quaestio” unilaterale alla “quaestio” bilaterale, Padova 1989, 142.

 

[48] Che la procedura per manus iniectionem fosse effettivamente quella romana, mentre la riforma vagheggiata si ispirasse a modelli greci, è ipotesi formulata da J. Partsch, Römisches und griechisches Recht in Plautus “Persa”, in Hermes 45, 1910, 599. Non nutre dubbi sulla rispondenza alle realtà romane dell’epoca del quadro sociale e istituzionale risultante dal brano plautino all’esame, C. Russo Ruggeri (Tre leggi, cit., 331 s., con altra lett. orientata nello stesso senso), la quale opportunamente adduce a sostegno di tale convinzione il contenuto dei due scolii dello Pseudo Asconio, riportati supra, nel testo.

 

[49] F. De Martino, I “quadruplatores”, cit., 34.

 

[50] Le sole attestazioni sulla manus iniectio quadrupli sono plautine, ed ancora in soli tre testi di Plauto si allude, più o meno esplicitamente, alle competenze dei tresviri nell’ambito della manus iniectio: C. Cascione, “Tresviri”, cit., 185, 194 nt. 114; diversa impostazione in C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 377 ss.

 

[51] C. Cascione, “Tresviri”, cit., 194.

 

[52] C. CASCIONE, “Tresviri”, cit., 196.

 

[53] «Insomma, i giudizi che si tenevano davanti ai tresviri dovevano avere una qualche connotazione criminalistica»: C. CASCIONE, Tresviri, cit., 195.

 

[54] Sullo spunto di P. Capone, Gli interventi, cit., 202, v. gli approfondimenti di C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 357.

 

[55] Sulla distinzione tra azione esecutiva nei confronti dello iudicatus, e procedimento esecutivo (attivabile senza precedente processo, come nel caso delle ‘domande privilegiate’, fondate ad es. sulla lex Publilia de sponsu: Gai 4.22) cfr. soprattutto L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana, tr. it. Milano 1938, 224 s.; ampia discussione del problema e della prec. lett. ora in A. M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”, cit., 93 ss.

 

[56] E’ noto che non tutte le azioni implicanti la condanna in quadruplo erano a legittimazione generale: non lo erano le azioni pretorie furti manifesti (lo sottolinea S. Di Salvo, “Lex Laetoria”, cit., 136 nt. 91) e vi bonorum raptorum.

 

[57] Per la comparsa, in questo periodo, delle prime azioni a legittimazione generale, ampia trattazione in S. Di Salvo, Lex Laetoria”, cit., 134 ss.; v. anche C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 355.

 

[58] Con riguardo al testo di Plauto, sulla possibile dipendenza da modelli greci, sempre valide le trattazioni di U. E. Paoli, Nota giuridica su Plauto (Plaut. Persa vv. 66-71), in IURA. 4, 1953, 174, e, più in generale, ID., Comici latini e diritto attico, Milano 1962, 5 ss.; cui adde quanto precisano E. Lefèvre, E. Stärk, G. Vogt-Spira, in “Plautus barbarus”, Sechs Kapitel zur Originalität des Plautus, Tübingen 1991, ove altra bibl. Non mancano però opinioni opposte, che riconducono esclusivamente al contesto romano i versi plautini: ragguagli in C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 351.

 

[59] Attualmente, si propende per l’ipotesi di un riconoscimento al convenuto di questa possibilità anche prima della piena affermazione del sistema formulare (ancora di recente A. Corbino, Eccezione di dolo generale: suoi precedenti nella procedura ‘per legis actiones’, in L’eccezione di dolo generale. Diritto romano e tradizione romanistica, Padova 2006, 17 ss., con prec. lett.), ma non certo prima del III sec. a.C.

 

[60] Cfr. P. Capone, Gli interventi, cit., 200 s. e nt. 21, con ampio ragguaglio bibl.; anche la tradizionale gratuità del mutuo era un ostacolo facilmente aggirabile mediante il ricorso a una stipulatio accessoria, avente ad oggetto le sole usurae, oppure a un’unica stipulatio, comprensiva di capitale e interessi: ibid., 199 s., nt. 20.

 

[61] V. ora A. Corbino, Eccezione, cit., e lett. ivi. cit.

 

[62] Rassegna delle differenti opinioni ed ipotesi in L. Di Lella, Il plebiscito Sempronio, cit., nt. 68; P. Capone, Gli interventi, cit., 201 ss., 226 ss.; C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 358 s., 365 s.; A. M. Salomone, “Iudicati velut obligatio”, cit., 94 ss. e nt. 80.

 

[63] In generale, su questa procedura, L. WENGER, Istituzioni, cit., 225; nella specifica applicazione qui segnalata, F. La Rosa, Note sui “tresviri capitales”, in Labeo 3, 1957, 235 ss., specialm. 243; S. Di Salvo, “Lex Laetoria”, cit., 303 s.; C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 378 ss. Tale ultima A., sulla base anche di Fest. voce sacramentum (468 ed. Lindsay), e in particolare dell’espressione exigere sacramenta iudicaretque, ritiene probabile una competenza dei tresviri nel procedimento dichiarativo che si apriva qualora il convenuto si fosse avvalso della facoltà di manum sibi depellere e pro se lege agere: i magistrati avrebbero avuto il compito di pretendere il sacramentum e di giudicare la controversia. Ai tresviri, in definitiva «sarebbe stata riconosciuta una competenza piena in materia di quadruplatio, nel senso che essi non solo presiedevano alle manus iniectiones cui era legittimata questa particolare categoria di delatori [scil. i quadruplatores], ma ne giudicavano anche le relative controversie in caso di contestazione» (ibid. 383 nt. 171).

 

[64] Ph. E. Huschke, Über das Recht des “nexum” und das alte römische Schuldrecht, Leipzig 1846, rist. Aalen 1980, 143 nt. 198; sulle sue orme G. Billeter, Geschichte, cit., 218.

 

[65] Il rilievo è di R. Cardilli, “Plebiscita et leges” antiusura, Relazione svolta in occasione del MMD Anniversario del giuramento della plebe al Monte Sacro, presso la Città Universitaria di Roma, il 18 dicembre 2007 [ora in Diritto @ Storia 7, 2008: http:// ]

 

[66] Lo ricorda L. Wenger, Istituzioni, cit., 225 e nt. 18.

 

[67] Che in caso di manus iniectio pura la condanna del soccombente fosse costantemente in duplum o in un altro multiplo è ipotesi non avvalorata dalle fonti: lo sostiene comunemente la manualistica, sotto la suggestione di F. L. Von Keller, Über Litis Contestation und Urtheil nach klassischen römischen Recht, Zürich 1827, 99, ma siffatta ricostruzione è stata contestata, come infondata, da L. Wenger, Istituzioni, cit., 225 e nt. 18. Per l’esame delle fonti v. anche J. Paoli, “Lis infitiando crescit in duplum”, Paris 1933.

 

[68] Così F. La Rosa, Note sui “tresviri capitales”, cit., 237 nt. 25.

 

[69] Esposizione dei problemi di datazione in L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 17 nt. 68.

 

[70] Fugaci spunti in O. Karlowa, Der römische Civilprocess zur Zeit der Legisactionen, Berlin 1872, 347 ss., il quale però ipotizza che tale supposta azione di ripetizione per l’ingiusto arricchimento esistesse già in età antichissima e costituisse il ‘precedente storico’ della condictio, e in F. La Rosa, Note sui “tresviri capitales”, cit., 237, nt. 25, 243. V. anche F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, Paris 1929, 8a ed., 935 nt. 1. Che la manus iniectio ex lege Marcia adversus feneratores illustrata da Gaio non comportasse condanna in quadruplum è però una conclusione assai incerta, considerato che invece la pena prevista per la violazione del divieto posto dalla legge Furia (che Gaio menziona insieme alla Marcia) era del quadruplo; tanto apprendiamo da Ulp. pr.2 (…qualis est lex Furia testamentariaet adversus eum qui plus ceperit quadrupli poena constituit): cfr. L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 16.

 

[71] Condivido al riguardo le convinzioni, solidamente argomentate, di C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., specialm. 357.

 

[72] Così, con riferimento ai ‘precedenti’ dell’exceptio doli, A. Corbino, Eccezione, cit., 21; dalla lettura di Plaut. Rud. 1375-1382 emerge l’esistenza di strumenti di difesa rispetto al comportamento doloso dell’avversario, esercitabili dal convenuto, anche prima dell’introduzione dell’exceptio doli. Tali difese sarebbero state liberamente valutabili nella fase apud iudicem.

 

[73] Senza attendere di essere dal creditore convenuto in giudizio, sede nella quale (apud iudicem) avrebbe potuto sperare nell’attenta valutazione della fattispecie da parte del giudicante.

 

[74] Su cui v. infra, § 5.

 

[75] Ne siamo informati da Gai 4.17.b-19, ma è possibile che tanto la lex Silia, tanto la lex Calpurnia fossero plebisciti. Se la legge Silia, come sembra probabile, prevedeva l’obbligo del giuramento (B. Santalucia, in Aa.Vv., Lineamenti di storia del diritto romano, 2a ed., Milano 1989, 280), si può vedere un collegamento con Plaut. Curc. 496; Pers. 478; Rud. 14, con l’ulteriore ipotetica conclusione che la legge Silia è anteriore al 197 o 196 a.C., data di composizione del Persa: così G. Niccolini, I fasti dei tribuni della plebe, Milano 1934, 399 s. Interessanti spunti in V. Giuffrè, Il ‘mercato comune’ nel s. IV a.C., il credito e la “lex Silia”, in Credito e moneta nel mondo romano. Atti degli incontri capresi di storia dell’economia antica, a cura di E. Lo Cascio, Bari 2003, 32 ss.

 

[76] Su cui ora ampiamente A. Saccoccio, “Si certum petetur”. Dalla “condictio” dei “veteres” alle “condictiones” giustinianee, Milano 2002, 12 ss., cui rinvio anche per ragguagli bibl.

 

[77] La legis actio per iudicis arbitrive postulationem, introdotta dalle XII Tavole e anch’essa probabilmente astratta, si applicava ai soli debiti promessi mediante sponsio, non alle obbligazioni da mutuo.

 

[78] A. Saccoccio, “Si certum petetur”, cit., 22, il quale espone anche le ragioni che a suo avviso portarono alla scelta del meccanismo dell’astrattezza (53 ss.).

 

[79] Gai 4.20.

 

[80] L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 13 (sulla l.a.p.c. v. l’approfondita trattazione in C. A. Cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano. I, Le “legis actiones”, Torino 1980, 70 ss.). Contra G. Tilli, “Postremo vetita versura”, in BIDR. 86/87, 1984, 160 ss., il quale rifiuta di credere nell’astrattezza dell’intentio della l.a. per condictionem, e sostiene, di conseguenza, che le leggi Silia e Calpurnia vadano inquadrate nell’ambito delle leges fenebres, in quanto avrebbero introdotto nel sistema delle legis actiones un meccanismo molto simile a quello dell’exceptio formulare, a tutto vantaggio dei debitori convenuti in giudizio per il pagamento di interessi illeciti.

 

[81] A. Saccoccio, “Si certum petetur”, cit., 23.

 

[82] Cfr. Gai 3.124-125: … certum est … debitum iri rell., su cui ampiamente A. Saccoccio, “Si certum petetur”, cit., 44 ss., 51.

 

[83] Gai 4.133; v. ora R. Fiori, “Ea res agatur”. I due modelli del processo formulare repubblicano, Milano 2003, 18 ss., 28 ss.

 

[84] V. sul punto L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 7 e nt. 33.

 

[85] Si v. la clausola edittale “Si quid contra legem senatusve consultum factum esse dicetur”: O. Lenel, EP., 3a ed., 513.

 

[86] Così G. I. Luzzatto, s.v. Eccezione (diritto romano), in Enc. dir. XIV, Milano 1965, 139; C. A. Cannata, Profilo istituzionale del processo privato romano II, Il processo formulare, Torino 1982, 54 nt. 2, 118 ss.

 

[87] Esposizione dettagliata con note prosop. e bibl. in A. Pollera, Un intervento di ‘politica economica’ nel IV sec. a.C.: “lex de crendis quinqueviris mensariis” (352 a.C.), in Index 12, 1983/1984, 447 ss.

 

[88] Excursus sulle differenti opinioni in A. Storchi Marino, “Quinqueviri”, cit., 220 ss.

 

[89] Lo sottolinea A. Pollera, Un intervento, cit., 448.

 

[90] Il nome di Marcio Rutilio è infatti legato al provvedimento del 357 sul fenus unciarium e agli iudicia tristia celebrati dagli edili a carico degli usurai nel 344 (egli ricopriva il consolato in entrambi gli anni). Ancora a Marcio Rutilio alcuni attribuiscono la legge Marcia ricordata da Gai 4.23, datandola al 352 a.C. (anno per il quale Livio effettivamente riferisce che i consoli intesero levare rem fenebrem): ampia esposizione delle differenti opinioni in L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 17 e nt. 68.

 

[91] «Plebeo emergente che si muove in clima di collaborazione con una parte almeno dei patres», lo definisce A. Storchi Marino, “Quinqueviri mensarii”: censo e debiti nel IV secolo, in Athenaeum 81, 1993, 234 s.

 

[92] Liv. 7.21.6.

 

[93] Liv. 7.21.7.

 

[94] Il prestito pubblico era in uso presso i Greci: C. Nicolet, A Rome pendant la seconde guerre punique: technique financiaires et manipulations monetaires, in AESC., 1963, 417 ss. Questo A. sospetta che la notizia liviana sia una anticipazione storica della più tarda magistratura dei triumviri mensarii, di cui abbiamo notizia per il 216, 214, 210 (in quest’ultima occasione essi furono incaricati di incassare per l’erario, da senatori e cittadini, metalli preziosi da restituire dopo la guerra).

 

[95] Verosimilmente, ciascun debito doveva essere estinto per intero, dal momento che il creditore poteva innanzitutto rifiutare il pagamento parziale e, se lo accettava, conservava il diritto di agire nel futuro contro il debitore per il residuo, con l’eventuale esito dell’esecuzione personale.

 

[96] Una mancipatio, o forse più credibilmente una in iure cessio, certo un atto idoneo a trasferire il diritto di proprietà, considerato che nell’anno successivo gli immobili ceduti vennero censiti.

 

[97] G. Rotondi, “Leges publicae populi Romani”, Milano 1912, rist. an. Hildesheim 1966, 224.

 

[98] L. Wenger, Istituzioni, cit., 220 ss.; G. Pugliese, IL processo civile romano I, Le “legis actiones”, Roma 1961, 2, 303 ss.; L. Peppe, Studi, cit., 105, 135, 145.

 

[99] Lo intuisce A. Storchi Marino, “Quinqueviri”, cit., 249.

 

[100] Cenni in A. Pollera, Un intervento, cit., 451, il quale però non collega questo singolare intervento dei comitia con il ceto sociale cui appartenevano verosimilmente i debitori avvantaggiati dalla disposizione in oggetto.

 

[101] Sul testo, L. Peppe, Studi, cit., 99, il quale ricorda che negli stessi anni (e più precisamente nel 377), «ad aggravare la situazione, alla imposizione ordinaria del tributum, si era aggiunta quella straordinaria del tributum in murum a censoribus locatum saxo quadrato faciundum» (Liv. 6.32.1).

 

[102] Sembra questo un riferimento tecnico alla mancata commissione di illiceità o di attività pregiudizievoli per gli interessi di debitori e creditori, da parte dei mensarii. Taluni attribuiscono invece ad iniuria il significato ‘politico’ di ‘misure prese contro la plebe’ (A. Storchi Marino, “Quinqueviri”, cit., 220 e nt. 36), ma mi sembra che questa interpretazione si scontra con i richiami liviani al clima di concordia, alla moderatio e all’aequitas dei mensarii, allusivi, a mio avviso, piuttosto ad una ‘equidistanza politico-istituzionale’ dei mensarii rispetto alle parti interessate.

 

[103] Su cosa Livio intendesse con l’espressione per onmium annalium monumenta, A. Storchi Marino, Quinqueviri”, cit., 216 s.

 

[104] Liv. 7.27.3; Tac. ann. 6.16.

 

[105] Z. Yavetz, Fluctuations monétaires et condition de la plèbe, in AA.VV., Recherches sur les structures sociales dans l’antiquité classique, Paris 1970, 148; A. Saccoccio, Un provvedimento di Cesare del 49 a.C. in materia di debiti, in AA.VV., L’usura ieri e oggi, a cura di S. Tafaro, Bari 1997, 99 ss.

 

[106] Approfondita discussione in A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 117 ss.

 

[107] Caes. bell. civ. 3.1.2.

 

[108] V. soprattutto J. Carcopino, Julius César, Paris 1935, tr. it., da cui cito, Milano 1975, 554; M. W. Frederiksen, Caesar. Cicero and the problem of debt, in JRS. 51, 1966, 135 ss.; V. GiuffrÈ, La c.d. “lex Iulia de bonis cedendis”, in Labeo 18, 1972, 173 ss.; Id., voce Mutuo (storia), in Enc. dir. XXVII, Milano 1977, 421 nt. 25; Id., Sulla “cessio bonorum ex decreto Caesaris”, in Labeo 30, 1984, 90 ss.; v. sul punto le considerazioni di P. Pinna Parpaglia, La “lex Iulia de pecuniis mutuis” e la opposizione di Celio, in Labeo 22, 1976, 30 ss.; Id., Ancora sulla “lex Iulia de pecuniis mutuis”, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi IV, Milano 1983, 115 ss.

 

[109] Vita XII Caesarum. Caes. 42.2.

 

[110] Cfr. Cic. ad Att. 10.8.2. V. soprattutto M. P. Piazza, “Tabulae novae”. Osservazioni sul problema dei debiti negli ultimi decenni della Repubblica, in Atti del II Seminario romanistico Gardesano promosso dall’Istituto milanese di Diritto romano e Storia dei diritti antichi, 12-14 giugno 1978, Milano 1980, 37 ss.

 

[111] Plut. Caes. 37.1-2; App. bell. civ. 2.48; Dio C. 41.37.3; 42.22, 51, per il cui esame critico rinvio all’approfondita trattazione di A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 101 ss.

 

[112] Così A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 143 s.

 

[113] In tale senso A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 144 ss., con ulteriori approfondimenti.

 

[114] A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 167.

 

[115] La necessità del consenso dei debitori è una congettura, ma avvalorata dai contenuti di Caes. bell. civ. 3.20.3; mentre non vi è alcun indizio, nelle fonti, in favore dell’opposta ipotesi (avanzata, tra gli altri, da J. Carcopino, Iulius César, cit., 554, e largamente condivisa), che l’offerta del debitore fosse vincolante: ampia discussione in A. Saccoccio, Un provvedimento, cit., 149 ss.

 

[116] La cessione dei beni riguardava però il problema del pagamento dei debiti scaduti, non quello delle usurae ultra modum, né rivestiva finalità repressive.

 

[117] A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 206 s., nt. 22, con bibl.

 

[118] Sulla datazione, v. L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei “iudicia populi”, Padova 1989, 32.

 

[119] Potere, questo, probabilmente sorto sulla solida base della sacrosanctitas tribunizia riconosciuta dalla plebe nel 494 a.C.: F. De Martino, Storia della costituzione romana, I, 2a ed., Napoli 1972, 358, 364 s., da cfr. con L. Garofalo, Il processo, cit., 24 ss., 29 ss., 60 ss. e passim.

 

[120] Al contrario, il silenzio di Cic. rep. 2.31.53-54 sulle leggi Aternia Tarpeia e Menenia Sestia, nel suo excursus storico sulla provocatio, sembra avvalorare l’ipotesi che tali leggi non introdussero affatto la provocatio in materia di multe: L. Garofalo, Il processo, cit., 65 s.

 

[121] L. Garofalo, Il processo, cit., 28 s.

 

[122] Fest. s.v. multam maximam (129 ed. Lindsay); A. D. Manfredini, Tre leggi, cit., 211 ss.

 

[123] Dion. Hal. 6.90.2-3; 6.95; Zon. 7.15, su cui cfr. F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, 238 s.; L. Garofalo, Il processo, cit., 135, nt. 183.

 

[124] Sulla creazione della magistratura patrizia degli edili curuli, Liv. 6.42.12-14.

 

[125] Ma sembra che pure dopo l’ingresso della plebe nella edilità curule, la persecuzione dei crimini comuni multatici continuò a svolgersi al cospetto del comizio tributo, forse per l’esigenza, sentita dal patriziato, di non lasciare per intero questa funzione nelle mani della plebe: segue questa tesi tradizionale anche L. Garofalo, Il processo, cit., 136.

 

[126] La terminologia adoperata da Livio per la narrazione dell’evento è astrattamente compatibile con una eventuale iniziativa della edilità plebea.

 

[127] V. ad es. Gell. 10.6.3: ... aediles plebi, multam dixerunt…

 

[128] Diffusamente, sul punto, E. De Ruggiero, voce Aedilitas”, in Enc. giur.it 1/2, Milano 1892 (ma 1912), 398 ss.; Id., voce “Aedilis”, in Diz. ep. 1, rist. Roma 1961, 209 ss.; più sfumata la posizione di L. Garofalo, Il processo, cit., 136 ss., il quale sostiene uno sviluppo speculare dei due poteri.

 

[129] Cfr. F. De Martino, Riforme del IV sec., in BIDR. 78, 1975, 29 ss. [= Id., Diritto e società nell’antica Roma, Roma 1979, 219 ss.]; G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 153 s., con altra bibl.; P. Capone, Gli interventi, cit., 201 e nt. 24.

 

[130] Per un esame dettagliato delle fonti si rinvia a P. Capone, Gli interventi, cit., 194 ss.

 

[131] Nelle quali funzioni era ricompresa evidentemente l’attività dei faeneratores, che avessero prestato denaro a tassi di interesse superiori al massimo previsto dalla legge: fonti e lett. pertinenti in P. Capone, Gli interventi, cit., 193 ss.

 

[132] Già posteriormente alla codificazione decemvirale, si era consolidato, pur in assenza di una norma specifica in materia, il potere degli edili plebei di comminare multe o di instaurare iudicia populi quando l’ammontare delle multe superava l’importo, fissato dalle leggi, di trenta buoi e due pecore, ovvero di tremilaventi assi. Creati poi nel 367 gli edili curuli, anche a questi fu riconosciuta la facoltà di infliggere multe, ma l’assemblea chiamata a pronunziarsi sulle multe da loro inflitte ed eccedenti la misura massima fu il comizio tributo (anche se gli edili curuli erano plebei): fonti e bibl. in L. Garofalo, Il processo, cit., passim.

 

[133] Da Livio si evince che si trattò di veri e propri iudicia populi adversus faeneratores, come indicano i termini iudicia e diem dicere (espressione, quest’ultima, con cui tecnicamente si indicava l’accusa): L. Garofalo, Il processo, cit., 141 ss.; P. Capone, Gli interventi, cit., 206 e nt. 40.

 

[134] L. Garofalo, Il processo, cit., 143 nt. 23.

 

[135] Cfr. sul punto P. Capone, Gli interventi, cit., 196 nt. 11.

 

[136] Così F. De Martino, Storia economica, I, cit., 145 s.

 

[137] Liv. 7.27.3-4; Tac. Ann. 6.16; P. Capone, Gli interventi edilizi, cit., 224 s.

 

[138] Plin. nat. hist. 33.6.19.

 

[139] Liv. 10.23.11-13.

 

[140] In tal senso già P. Capone, Gli interventi, cit., 225 s.

 

[141] Livio (6.11.9) insiste sul malcontento della plebe per gli alti tassi di interesse praticati dopo l’incendio gallico: v. al riguardo C. Appleton, Le taux, cit., 502 ss.

 

[142] F. De Martino, Storia economica, I, cit., 31 ss., 145.

 

[143] P. Capone, Gli interventi, cit., 224 ss.

 

[144] Così P. Capone, Gli interventi, cit., 225.

 

[145] Liv. 7.38-39; App. Samn. 1.1-2; Dion. 15.3.15; Auct. de vir. ill. 29.3.

 

[146] Tanto si evince da Auct. de vir. ill. 29.3; App. Samn. 1.2.

 

[147] Sul plebiscito Genucio si l. anche App. bell. civ. 1.54.234. In letteratura, oltre agli AA. citt. alle ntt. successive, si l. L. Fascione, La legislazione di Genucio, in Legge e società nella Repubblica romana II, Napoli 2000, 179 ss.

 

[148] C. Appleton, Le taux, cit., 531 nt. 1; ricostruzione parzialmente diversa in G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 155 ss. Sull’utilizzo della stipulatio quale strumento di elusione dei divieti feneratizi, J. Michel, Gratuité en droit romain, Bruxelles 1962, 110.

 

[149] Si tenga presente che la legis actio per iudicis arbitrive postulationem era applicabile ai crediti promessi mediante sponsio, ma aveva struttura causale, come si evince da Gai 4.17: dettagli in P. Frezza, Osservazioni sulla “legis actio per iudicis postulationem”, in Studi in memoria di F. Ferrara I, Milano 1943, 273 ss., ora in Scritti I, Roma 2000, 329 ss.; e, sulla struttura causale, discussione soprattutto in A. Corbino, La struttura dell’affermazione contenziosa nell’“agere sacramento in rem”, in Studi in onore di C. Sanfilippo VII, Milano 1987, 139 ss., specialm. 157 ss., e in A. Saccoccio, “Si certum petetur”, cit., 15 s., ntt. 31 s.

 

[150] Alla notizia si è tradizionalmente propensi a prestare credito: v. soprattutto G. Billeter, Geschichte, cit., 134 ss.; C. Appleton, Le taux, cit., 529 ss.; G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 147 ss.; G. Poma, Il plebiscito Genucio ne fenerare liceret (Liv. VII, 42,1), in RSA. 19, 1989, 67 ss.; L. Fascione, La legislazione, cit., 179 ss.

 

[151] V. soprattutto F. Cassola, Lo scontro fra patrizi e plebei, in AA.VV., Storia di Roma I, Torino 1988, 459 ss.

 

[152] L’astrattezza processuale dell’antica legis actio sacramenti in personam sembra risultare dalla formula A.T.M.D.O. aio te mihi dare oportere, in Val. Prob. De litteris sing. Fragmentum 4.1 (in Probi Donatii Servii qui feruntur de arte grammatica libri, ed. Kiel, Lipsiae, teubneriana, 1864, 273). Ma, per l’ambiguità di altri dati testuali, non si tratta di una conclusione da tutti condivisa: esame critico delle diverse costruzioni in A. Saccoccio, “Si certum petetur”, cit., 14 s. nt. 31. La struttura causale della legis actio per iudicis arbitrive postulationem è invece attestata da Gai 4.17.

 

[153] Plin. nat. hist. 6.3.19: Hoc actum P. Sempronio L. Sulpicio cos. Flavius vovit aedem Concordiae, si populo reconciliasset ordines, et, cum ad id pecunia publice non decerneretur, ex multaticia faeneratoribus condemnatis aediculam aeream fecitin Graecostasi, quae tunc supra comitium erat, inciditque in tabella aerea factam eam aedem CCIIII annis post Capitolinam dedicatam.

 

[154] Liv. 10.23.11-13: Eodem anno Cn. et Q. Ogulnii aediles curules aliquot faeneratoribus diem dixerunt; quorum bonis multatis, ex eo quod in publicum redactum est, aenea in Capitolio limina et trium mensarum argentea vasa in cella Iovis Iovemque in culmine cum quadrigis, et ad ficum Ruminalem simulacra infantium conditorum urbis sub uberibus lupae posuerunt semitamque saxo quadrato a Capena porta ad Martis straverunt.

 

[155] Liv. 35.41.9-10: Iudicia in faeneratoribus eo anno multa severe sunt facta, accusantibus privatos aedilibus curulibus M. Tuccio et P. Iunio Bruto. De multa damnatorum quadrigae inauratae in Capitolio posiate, et in cella Iovis supra fastigium aediculae duodecim clupea inaurata, et iidem porticum extra portam Trigeminam inter lignarios fecerunt.

 

[156] Su cui v. soprattutto L. Di Lella, Il plebiscito, cit.; S. Schipani, Intervento conclusivo. Livio 35.7; Gaio D.13.4.3 e il problema del debito internazionale, in AA.VV., L’usura ieri ed oggi, cit., 271 ss., 279 ss.

 

[157] Che la transscriptio a persona in personam servisse solo ai fini della novazione soggettiva passiva risulta da Gai 3.130. Vi sono tracce di una disputa giurisprudenziale sull’accessibilità del nomen transscripticium a persona in personam e a re in personam ai peregrini, conclusasi nel senso della estensibilità di tali figure ai debitori stranieri: Gai 3.133, su cui v. P. Catalano, Linee del sistema soprannazionale romano I, Torino 1965, 128 nt. 4. E’ comunque altamente probabile che l’espressione liviana nomina transcribere fosse stata adoperata da Livio con una valenza non squisitamente tecnica: cfr. M. Kaser, Zum Begriff des “commercium”, in St. Arangio-Ruiz II, Napoli 1953, 290 ss.

 

[158] Così L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 3.

 

[159] V. soprattutto R. M. Thilo, Der “codex accepti et expensi” im römischen Recht. Ein Beitrag zur Lehre der Litteralobligation, Göttingen 1980, 309 s.

 

[160] Lo suggerisce M. Kaser, Vom Begriff, cit., 290 ss.

 

[161] Cfr. L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 4, con altra lett.; vigeva infatti il principio secondo cui la legge vincolava solo i membri della comunità, anche quando la peregrinitas si inquadrava nel par ius cum populo Romano: Fest. s.v. status dies (314 ed. Lindsay). Sul punto, P. Catalano, Linee, cit., 71, 76 nt. 22; P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3a ed., Roma 1974, 394 ss.; S. Schipani, Intervento, cit., 283.

 

[162] Fonti (ma relative a un periodo più tardo rispetto a quello qui considerato) in L. Wenger, Istituzioni, cit., 41 s.

 

[163] Così L. Di Lella, Il plebiscito, cit., e P. Capone, Gli interventi, cit., 43 ss., benché resti assai dubbio il significato tecnico del termine versura. Il collegamento tra la notizia di Tacito e il plebiscito Genucio è invece proposto da A. Storchi Marino, Quinqueviri”, cit., 245 nt. 144, la quale però ipotizza, quale oggetto del plebiscito Genucio, la proibizione di cedere il credito ad altri (così l’A. interpreta il significato di versura).

 

[164] E’ questa la lettura di M. Wlassak, Römische Processgesetze, II, Leipzig 1891, 153 s.; C. Appleton, Les lois romaines sur le cautionnement, in ZSS. 26, 1905, 23 nt. 3.

 

[165] L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 280 ss., il quale interpreta la disposizione nei termini di un invito rivolto al pretore peregrino.

 

[166] Rinvio sul punto alla trattazione di C. A. Cannata, Profilo, II, cit., 53 s., con lett. ivi cit.; sulla legis actio per condictionem e la sua astrattezza, Id., Profilo istituzionale del processo privato romano I, Le “legis actiones”, Torino 1980, 70 ss., 74 ss.

 

[167] Lo sottolinea L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 7.

 

[168] La questione generale del contenuto del commercium è ancora aperta: sulla capacità dei peregrini di lege agere gravano molti dubbi, ma si è concordi nel ritenere che la condizione giuridica dei Latini fosse diversa (fondamentale sul punto Ulp. reg. 19.45), e più favorevole (in questo senso P. Catalano, Linee, cit., 106 ss., specialm. 107, ntt. 3-4, 109 ss.). Propende per escludere la credibilità dell’ipotesi secondo cui i peregrini fossero ammessi a lege agere L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 10 e nt. 43, con altra lett., ma si deve tenere nel debito conto che il plebiscito Sempronio aveva riguardo non a tutti i creditori stranieri, ma ai soli Latini e soci Italici, sulla cui particolare condizione giuridica (rispetto a quella degli altri stranieri) v. soprattutto P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in SDHI. 4, 1938, 363 ss.; SDHI. 5, 1939, 161 ss., ora in Scritti I, Roma 2000, 367 ss., 435 ss.; L. Capogrossi Colognesi, “Ius commercii, connubium, civitas sine suffragio”. Le origini del diritto internazionale privato e la romanizzazione delle comunità latino-campane, in AA.VV., Le strade del potere, a cura di A. Corbino, Catania 1994, 3 ss., 19 ss. Cenni anche in L. Solidoro Maruotti, Sulla condizione giuridica dello straniero nel mondo romano, in Rivista della Scuola superiore dell’economia e delle finanze 1, 2006, 21 ss.

 

[169] In questo senso ritengo che vada corretto lo spunto offerto da J. Pétrau-Gay, Evolution historique des “exceptiones” et des “prescriptiones”, Paris 1916, 76 ss., il quale congetturava l’esistenza delle exceptiones nelle procedure per legis actiones, nonostante Gai 4.108, su suggestione di quanto inizialmente ipotizzato da M. Wlassak, Der Gerichtsmagistrat im gesetzlichen Spruchverfahren, in ZSS. 28, 1907, 100 s. (il quale, però, già nel 1910 aveva notevolmente ridimensionato la portata delle sue affermazioni: M. Wlassak, Der Ursprung der Römischen Einrede, ora in Labeo 13, 1967, 231 ss.); v. anche L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 9 e nt. 37.

 

[170] Lo rilevano C. Appleton, Les lois, cit., 31 nt. 3; S. Schipani, Intervento, cit., 281.

 

[171] App. bell. civ. 1.54.234.

 

[172] Liv. per. 74.

 

[173] Val. Max. mem. 9.7.4.

 

[174] Benché la vicenda si inquadri in un periodo storico corrispondente al sistema processuale per concepta verba, in questa testimonianza delle fonti trova ulteriore conferma, a mio avviso, l’ipotesi che quando il magistrato non volesse, o non potesse, accogliere le difese del convenuto, era devoluto al giudice il libero apprezzamento delle ragioni delle parti: v. quanto già esposto supra, nel testo.

 

[175] V. anche G. Poma, Il plebiscito Genucio, cit., 75 ss.; F. De Martino, Diritto e società, cit., 220 s.; G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 154 ss.; P. Pinna Parpaglia, Per una interpretazione della “lex Cornelia”, cit., 98 ss.; P. Capone, Gli interventi, cit., 34 e nt. 117, 44 e nt. 143.

 

[176] S. Solazzi, La desuetudine della legge, in AG. 102, 1929, 6 (= Id., Scritti III, Napoli 1960, 277).

 

[177] F. De Martino, Diritto e società, cit., 221.

 

[178] C. Appleton, Le taux, cit., 533.

 

[179] Per le ragioni che espongo nel testo, non condivido infatti le critiche espresse da G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 154 nt. 19.

 

[180] G. Rotondi, “Leges publicae populi Romani”, cit., 326.

 

[181] Bell. civ. 1.54.

 

[182] G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 154 ss.

 

[183] G. Poma, Il plebiscito Genucio, cit., 80 ss.

 

[184] F. De Martino, Riforme, cit., 67, il quale, reputando incongruente, su questo punto, il resoconto di Appiano, avanza seri dubbi sulla credibilità della sua versione dei fatti.

 

[185] Così Z. Yavetz, Fluctuations monétaires et condition de la plèbe à la fin de la République, in Recherches sur les structures sociales dans l’antiquité classique, Colloque nationaux du Centre national de la recherché scientifique, Caen 25-26 avril 1969, Paris 1970, 154.

 

[186] G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 205 nt. 20.

 

[187] Su L. Cassius e C. Papirius Carbo, cfr. G. Niccolini, I fasti, cit., 225 ss. V. sul punto G. Tilli, “Postremo vetita versura”, cit., 155 nt. 20.

 

[188] App. bell. civ. 1.54.

 

[189] Tale teoria fa capo a C. Appleton, Le taux, cit., 531 nt. 1.

 

[190] Questa seconda ricostruzione è proposta da C. A. Maschi, La gratuità del mutuo classico. Strutture giuridiche e realtà sociale, in St. Balladore Pallieri, Milano 1978, 289 s. Si v. al riguardo, per la differenza tra mutuum e fenus, Non. 706 L.: “Mutuum a fenore hoc distat, quod mutuum sine usuris, fenus cum usuris sumitur”, testo che tuttavia, nel rappresentare l’assetto definitivo delle due figure, lascia a mio avviso impregiudicati i problemi di origine, e pertanto non si pone affatto in antitesi con la ricostruzione di Appleton.

 

[191] Le cui origini risalgono alla legis actio per iudicis postulationem e alla successiva l.a. per condictionem: Van Oven, Les actions issues de la stipulation, in T. 27, 1959, 391 ss. Dunque, è possibile che lo stratagemma della stipulatio usurarum fosse precedente quello della stipula complessiva di capitale e interessi, da esigere con la l.a. per condictionem (espediente al quale si ricorse, forse, dopo un eventuale divieto di stipulationes usurarum in misura illecita: allo stato delle attuali conoscenze, l’ipotesi è, però, destinata a rimanere tale).

 

[192] L. Fascione, “Fraus legi”. Indagini sulla concezione della frode alla legge nella lotta politica e nell’esperienza giuridica romana, Milano 1983, 40 ss.; reputano eccessiva tale definizione G. Poma, Il plebiscito Genucio “ne fenerare liceret” (Liv., VII, 42,1), in RSA. 19, 1989, 82 ss.; L. Di Lella, Il plebiscito, cit., 262 nt. 5.

 

[193] Z. Yavetz, Fluctuations, cit., 149.

 

[194] Questa efficace immagine richiama quanto altrove afferma Plauto (in Fest. voce muneralis [127 ed. Lindsay]) anche in tema di lex lenonia e di lex muneralis: C. Russo Ruggeri, Leggi sociali, cit., 356, 362 ss.; sul brano v. E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto, Torino 1890, rist. an. Roma 1968, 410.