ds_gen N. 7 – 2008 – Tradizione Romana

 

onidaPietro paolo Onida

Università di Sassari

 

Dall’animale vivo all’animale morto: modelli

filosofico-giuridici di relazioni fra gli esseri animati

 

 

 

Sommario. I. Premesse metodologiche – 1. Categorie giuridiche e condizione animale. – 2. La rilevanza giuridica di due modelli filosofici di relazioni fra uomo e altri animali. – II. Sistema giuridico romano: ars boni et aequi. – 1. Fonti: i responsi dei giuristi romani, le leggi, le costituzioni imperiali. – a. La condizione degli animali non umani nella letteratura latina: la questione della tutela degli altri animali da parte dell’uomo. – b. L’affinità fra tutti gli animali, umani e non, nei responsi dei giuristi romani e nelle costituzioni imperiali: ius naturale e sacrificio cruento. – 2. Terminologia: le tassonomie giuridiche generali relative agli animali non umani: animal e bestia. – a. L’affinità fra l’uomo e gli altri animali: animal come tassonomia comune a tutti gli animali. – b. La rottura della contiguità classificatoria fra l’uomo e gli altri animali: bestia come tassonomia (tendenzialmente) esclusiva degli animali non umani. – c. Dall’animale vivo all’animale morto: il valore degli animalia quae collo dorsove domantur. – III. Legislazione italiana e Costituzioni europee. – 1. La condizione giuridica dell’animale non umano nel codice civile italiano del 1942. – 2. La tutela dell’animale non umano fra giurisprudenza e legislazione italiana. – 3. Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’animale alle Costituzioni europee. – a. La condizione dell’animale non umano alla luce della Dichiarazione universale dei diritti dell’animale. – b. La condizione dell’animale non umano fra Costituzione della Unione Europea e Costituzioni dei paesi europei. – IV. Verso la formulazione di alcuni principi.

 

 

I. Premesse metodologiche

 

1. – Categorie giuridiche e condizione animale

 

Per i filosofi greci identificare la natura dell’animale non umano significa, anzitutto, precisare lo spazio che l’uomo e gli altri esseri animati, nelle loro relazioni, occupano nell’universo e, dunque, anche interrogarsi sul valore etico-giuridico della vita, umana e non umana[1].

Le riflessioni molto articolate e le dispute particolarmente accese, che in materia di condizione animale dividono i filosofi greci, come si vedrà, hanno importanti riflessi nei giuristi romani. Nel diritto romano, infatti, aspetti fondamentali della condizione dell’animale sono intimamente connessi alla identificazione della sua natura, con risvolti particolarmente significativi, per la esperienza giuridica odierna, soprattutto per quanto attiene all’inquadramento dogmatico del suo stato.

Attraverso il riferimento alla natura, da intendere come somma delle qualità essenziali che l’animale (umano e non) possiede in quanto essere dotato di vita propria[2], la giurisprudenza romana attribuisce rilevanza giuridica anche al comportamento di esseri animati diversi dall’uomo[3].

La riflessione della giurisprudenza romana, proprio a causa del rilievo attribuito alla natura animale, non può essere considerata, come invece spesso si ritiene, il precedente dogmatico della dottrina moderna secondo cui l’animale non umano è un mero oggetto di diritto[4]. Tale riflessione, però, non può neppure essere assimilata completamente alla dottrina, oggi assai diffusa, secondo cui l’animale non umano è un soggetto di diritto, sebbene con essa vi siano anche alcuni elementi comuni soprattutto per quanto riguarda l’affermazione di una generale e simpatetica condizione giuridica fra tutti gli esseri animati[5].

L’analisi delle riflessioni e delle dispute fra i filosofi greci, che qui naturalmente può essere appena abbozzata, offre l’occasione per richiamare l’attenzione su due grandi questioni fondamentali per la scienza giuridica.

La prima questione è quella relativa al nesso antico tra filosofia greca e diritto romano, con particolare riguardo a una prospettiva di più ampio respiro sul piano generale rispetto al tema specifico della condizione giuridica dell’animale non umano. Su un piano generale tali riflessioni e dispute, connesse al tema della condizione giuridica dell’animale non umano, costituiscono le premesse della celebre enunciazione del ius naturale, come diritto che la natura insegna a tutti gli esseri animati, enunciazione formulata, nel terzo sec. d.C., dal giureconsulto romano Ulpiano, che si richiama però a idee espresse già dai filosofi greci, in particolare (ma non solo come si vedrà[6]) da Pitagora e che i compilatori giustinianei pongono in apertura del Digesto[7].

Non avere tenuto adeguatamente conto della importanza giuridica di alcuni precedenti relativi alla idea di una ‘comunanza’ di diritto fra uomo e altri esseri animati[8], riconducibili dapprima alla filosofia greca e poi alla scienza giuridica romana, ha condotto parte considerevole della dottrina romanistica a mettere in ombra siffatta enunciazione, fino a ritenerla propria di scienze diverse da quella giuridica o addirittura a confinarla nel novero delle amenità[9]. In realtà, la idea di un ius comune a tutti gli esseri animati non è importante sul piano giuridico (soltanto) in quanto enunciazione vagamente ‘animalistica’ o persino meramente ‘filantropica’. Essa è fondamentale in quanto costituisce una chiave di lettura utile, per certi aspetti necessaria, alla comprensione delle relazioni giuridiche tra uomo e uomo, uomo e altri esseri animati, uomo e ambiente. È quindi importante, sin da ora, considerare con la massima attenzione che la giurisprudenza romana perviene da un tema specifico, sia pure essenziale, qual è la condizione giuridica dell’animale non umano, a una concezione generale del diritto con risultati importanti anche per il piano dell’intero ius civile[10].

La seconda questione è quella relativa al nesso attuale tra scienza giuridica moderna e scienza giuridica antica, con particolare riguardo all’uso delle categorie dogmatico/sistematiche gaiano/giustinianee e/o pandettistiche. La scienza giuridica non si è ancora occupata, attraverso una prospettiva storica, della condizione giuridica degli animali non umani. Tale prospettiva, attraverso la considerazione delle riflessioni filosofiche e giuridiche antiche in tema di relazioni fra uomo e altri esseri animati, consente una visuale diversa rispetto a quella che può derivare alla scienza giuridica odierna dal quadro offerto dalle rigide categorie moderne di soggetto e di oggetto di diritto[11].

L’analisi della condizione dell’animale non umano, sul piano dogmatico, non può essere svolta esclusivamente attraverso l’impiego di tali categorie, né attraverso quelle connesse di soggettività e di personalità. Tali categorie non sono particolarmente appropriate soprattutto, ma non solo, per la valutazione della condizione giuridica dell’animale non umano[12]. Esse, specialmente se applicate alle relazioni fra uomo e animali non umani, sono espressione di una visione antropocentrica, che non consente di superare il vicolo cieco in cui versa la dottrina moderna quando, il più delle volte, sembra ridurre la questione animale al problema se l’animale sia o non sia un soggetto di diritti. Un problema tutto sommato non così essenziale, come invece normalmente si ritiene, in quanto non particolarmente fecondo di conseguenze significative sul piano della reale tutela giuridica degli altri esseri animati.

 

2. – La rilevanza giuridica di due modelli filosofici di relazioni fra uomo e altri animali

 

Come si diceva, nella filosofia greca è possibile riscontrare due grandi orientamenti in merito alla condizione filosofico-giuridica dell’animale non umano. Il primo orientamento è riconducibile in particolare a Pitagora. Il secondo orientamento è ascrivibile in particolare ad Aristotele.

Pitagora, sulla base della comune natura tra tutti gli esseri animati, rifiuta la uccisione di un altro animale da parte dell’uomo. La credenza nella trasmigrazione e la condanna dei maltrattamenti inferti agli animali non umani[13], il divieto di sacrifici animali a scopo religioso[14] e la proibizione della sarcofagia[15] sono per Pitagora strumento di ascesi e modalità di distinzione rispetto alla genie impura di coloro che non esitano a uccidere gli altri esseri animati[16]. Al centro della speculazione scientifica di Pitagora vi è dunque un animale vivo che l’uomo deve rispettare e tutelare[17].

Aristotele, nel solco di una certa tradizione antropocentrica, sostiene la idea di un primato dell’uomo sul resto degli esseri animati attraverso la descrizione e la esaltazione di due caratteristiche ritenute proprie prevalentemente del genere umano: il possesso della stazione eretta e il possesso delle mani[18]. Lo Stagirita non nega che gli animali non umani possiedano una qualche forma d’intelligenza, ma ritiene che la capacità di discernere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto sia propria solo dell’uomo[19]. Aristotele, sebbene consideri l’uomo animale politico assieme alle api, alle formiche e alle gru[20], rifiuta quelle tesi che ammettevano rapporti giuridici tra uomo e animale non umano[21].

Nei due modelli ora descritti riecheggia la questione della partecipazione degli animali al diritto con riferimento alla quale si può qui ricordare, in estrema sintesi, l’esistenza di un orientamento incline a negare la partecipazione degli animali al diritto e di uno invece teso ad ammetterla sia pure in forme diverse. Se così Esiodo[22], i Sofisti[23], e come sembra anche Epicuro[24], e poi ancora gli Stoici negano l’esistenza di un diritto comune anche agli animali non umani[25], altri come Empedocle[26], Senocrate[27], Teofrasto[28], Plutarco[29], riconoscono la partecipazione di tutti gli esseri animati ad una comune giustizia diffusa nell’universo.

La storia della riflessione scientifica attorno alla condizione animale non umana è soprattutto la storia della contrapposizione fra due grandi orientamenti filosofici: l’orientamento aristotelico-‘antropocentrico’ e l’orientamento pitagorico-‘simpatetico’. Nonostante nella riflessione scientifica sulla condizione animale in generale l’orientamento aristotelico tenda a prevalere fin quasi a far dimenticare quello pitagorico, nella riflessione scientifica sulla condizione giuridica dell’animale in particolare permangono elementi significativi di un modello scientifico teso alla esaltazione del valore della vita animale.

 

 

II. Sistema giuridico romano: ars boni et aequi

 

1. – Fonti: i responsi dei giuristi romani, le leggi, le costituzioni imperiali

 

a. La condizione degli animali non umani nella letteratura latina: la questione della tutela degli altri animali da parte dell’uomo

 

La riflessione filosofico-letteraria sulla questione animale, a Roma, si concentra ancora sulle caratteristiche che già in Grecia erano state ritenute a volte esclusive, a volte no, del genere umano.

La adesione alla dottrina stoica, secondo cui il mondo è stato creato in funzione dell’uomo[30], conduce Cicerone a ritenere, nel de finibus, che gli animali non umani, in quanto privi di ragione, non possano vivere secondo diritto[31]. Nonostante ciò, egli sembra ammettere la esistenza di una qualche affinità, sul piano giuridico, fra tutti gli esseri animati quando osserva che vi sono specie quali le formiche, le api e le cicogne, le quali mostrano la tendenza a compiere azioni a vantaggio degli altri[32] oppure quando ricorda, nel solco di una tradizione ricorrente, il divieto di uccisione del bue[33]. Ma sopratutto, nel De republica, egli rammenta le dottrine di Pitagora e di Empedocle[34], facendosi tramite nella cultura giuridica romana della idea di una comune condizione giuridica tra tutti gli esseri animati e del carattere delittuoso dell’azione di colui che arrechi nocumento agli animali[35]. Egli, nel De officiis, rievoca ancora l’idea di un’unica condicio iuris fra tutti gli esseri animati questa volta in una chiave societaria[36]. La prospettiva della riflessione ciceroniana, per il cenno al tema del coniugium e della societas liberorum, non è dissimile da quella adottata da Ulpiano nella definizione del ius naturale come diritto comune a uomini e ad altri esseri animati, ove si fa riferimento alla coniunctio, alla procreatio e alla educatio liberorum[37].

L’idea di una comunione di diritto fra tutti gli esseri animati, alla luce delle fonti letterarie, non è isolata nella cultura giuridica romana. Essa si trova anche in un brano del De clementia di Seneca, in cui si parla di un diritto comune a tutti gli esseri animati[38]. In nome di un commune ius animantium, Seneca può richiamare la esistenza di limiti a ciò che appare lecito nei confronti degli esseri animati, uomini e non.

Nel solco di questa concezione, l’idea di una comune natura fra tutti gli esseri animati costituisce in Lucrezio il presupposto fondamentale sulla base del quale affermare la tutela etico-giuridica anche degli animali non umani. Il poeta ammette la possibilità che tra uomo e animale si possano istituire relazioni aventi rilevanza giuridica[39]. Nel suo poema sulla natura Lucrezio afferma che l’uomo ha il dovere di prendersi cura degli animali: «tutti, o Memmio, affidati alla tutela dell’uomo»[40].

Il tema della tutela è poi presente con una forza particolare anche in Virgilio[41], il quale riconosce la dignità di tutti gli esseri viventi e afferma l’obbligo dell’uomo di prendersi cura degli altri animali[42], a lui simili per il possesso di sentimenti e di memoria[43].

In conclusione, si può dire che anche nella cultura filosofico-giuridica romana vi sono tracce significative di un modello di relazioni fra uomo e altri animali fondato sulla reciproca affinità e quindi sul necessario rispetto della vita. La stessa capacità al lavoro dell’animale non umano, esaltata tra gli altri da Varrone, Columella e Virgilio, costituisce il fondamento di una prima forma di tutela, in una visione in cui rispetto dell’animale e rilevanza economica di esso non sono sempre opzioni in contrasto. Certo con la nascita delle grandi venationes, degli allevamenti su scala industriale destinati all’abbattimento degli animali a scopo alimentare, tra la fine della Repubblica e gli inizi del Principato[44], la valutazione di siffatta capacità passa spesso in secondo piano.

Nella storia del pensiero scientifico, spezzato il legame simpatetico fra l’uomo e gli altri animali, l’orientamento aristotelico, in cui l’animale è considerato un dato della conoscenza, finisce per prevalere su ogni altro possibile modello relazionale, in cui emerga la complessità e la multiformità delle relazioni fra l’uomo e gli altri animali. La distinzione fra la prospettiva dell’animale-vivo e la prospettiva dell’animale-morto, fra le quali ancora esistevano elementi di contatto, tenderà a sostanziarsi nella dogmatica contemporanea nel quadro di una dicotomia incomunicante fra animale-oggetto e animale-soggetto in cui, in definitiva, l’unica rappresentazione possibile è, per l’una e l’altra prospettiva, quella antropocentrica.

 

b. L’affinità fra tutti gli animali, umani e non, nei responsi dei giuristi romani e nelle costituzioni imperiali: ius naturale e sacrificio cruento

 

L’idea della affinità fra tutti gli esseri animati e, conseguentemente, del rispetto per gli animali non umani si trasmette, dalla cultura filosofica greca alla scienza giuridica romana, in particolare attraverso due vie espressive: la elaborazione di un diritto (ius naturale[45]) comune a uomini e ad animali non umani e la celebrazione di sacrifici cruenti[46].

La prima via – la elaborazione di un diritto comune a uomini e ad animali non umani – è attestata anzitutto, ma non solo, nella celebre enunciazione della nozione di ius naturale, formulata, nel terzo sec. d.C., dal giureconsulto romano Ulpiano sulla base delle riflessioni filosofiche greco-romane sulla condizione giuridica animale[47].

La nozione elaborata da Ulpiano del ius naturale come ius che la natura insegna a tutti gli animali, nel riconnettersi evidentemente a tali riflessioni, si fonda sul riconoscimento della affinità esistente fra gli esseri animati. Tale nozione, in cui gli esseri non umani sono enti di riferimento del diritto, presuppone una sua valenza concreta che si evidenzia in particolare nel cenno all’ambiente in cui vivono le diverse specie animali: quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. La esemplificazione di situazioni giuridiche fondamentali, inoltre, dall’unione tra individui di sesso maschile e femminile alla procreazione e alla educazione della prole[48], riscontrabili nella loro base naturale negli uomini e negli altri animali, accentua tale visione concreta.

Il fatto che la partecipazione degli animali non umani fosse un problema avvertito nella filosofia greca e romana mostra che la enunciazione ulpianea è tutt’altro che assurda[49]. Non si spiegherebbe altrimenti perché i compilatori giustinianei l’abbiano ritenuta talmente rilevante da averla posta in apertura del Digesto.

Per comprendere il valore giuridico della nozione del diritto naturale può essere utile fare riferimento alla categoria di ‘sistema giuridico’, che è funzionale alla esigenza di liberarsi dal carattere fattuale connesso alla categoria di ‘ordinamento giuridico’[50] attraverso il principio di effettività.

La elaborazione della nozione del ius naturale, nella scienza giuridica romana, attraverso l’attenzione per la condizione giuridica degli animali non umani, fonda per la comprensione dell’intero ius una prospettiva, la quale resta ancora oggi di fondamentale importanza. L’adozione, da parte di Ulpiano, di una terminologia differente per la designazione degli istituti, riservati agli uomini, e per i corrispondenti istituti comuni a uomini e animali, se, da un lato, permette di distinguere il piano del ius naturale da quello del ius gentium e del ius civile, in un quadro dal quale, comunque, pare emergere l’unità del sistema giuridico, dall’altro consente di accomunare tutti gli animali, umani e non umani[51].

La seconda via – la celebrazione di sacrifici cruenti – è largamente attestata nel sistema giuridico-religioso romano in seno al quale il rito risulta centrale per la conservazione della pax deorum[52]. La centralità del sacrificio cruento è una espressione fondamentale della affinità esistente fra gli uomini e gli altri esseri animati[53]. Ma lo è anche la condanna del sacrificio cruento che da alcuni autori latini[54] giunge fino alle costituzioni dell’Imperatore Costantino con le quali si introducono limiti alle pratiche sacrificali soprattutto connesse alla divinazione[55].

Il rifiuto costantiniano del sacrificio cruento, nell’incontro e nella combinazione ‘mediterranei’ della cultura filosofico-giuridica greco-romana e della cultura teologica giudaico-cristiana, apre la strada alla concezione del ius naturale che Giustiniano riprende, attraverso una linea di continuità, per il tramite specifico di Ulpiano, e prima ancora, ma più in generale, di Marciano, e pone ormai in posizione centrale, all’interno del sistema giuridico romano, oltre che nei Digesta, nelle Institutiones[56].

 

2. – Terminologia: le tassonomie giuridiche generali relative agli animali non umani: animal e bestia

 

a. L’affinità fra l’uomo e gli altri animali: animal come tassonomia comune a tutti gli animali

 

In una prima indagine sui termini utilizzati nella lingua latina per rappresentare l’essere animale in generale – animal e bestia – è facile osservare che mentre l’impiego del primo, a designare l’insieme degli esseri animati, richiama nell’ambito delle grandi classificazioni zoologiche l’affinità fra l’uomo e gli animali non umani, l’uso del secondo, a indicare normalmente l’essere animato non umano, rinvia al distacco tra la comunità degli uomini e quella degli animali non umani. Tra queste accezioni, in qualche modo estreme e antitetiche, che spesso corrispondono a due diversi modi di intendere il rapporto tra l’uomo e il resto degli esseri animati, l’uno e l’altro termine conservano una pregnanza descrittiva di zone d’ombra o di confine.

Nelle fonti letterarie il termine animal è utilizzato in una pluralità di accezioni. In una prima accezione generale esso indica tutti gli esseri animati[57]. In un’altra accezione specifica designa l’uomo, la cui condizione, a volte contraddistinta dal possesso di determinate caratteristiche, è presa in considerazione ora ad esclusione del resto degli altri esseri animati[58], ora invece in relazione agli altri esseri animati[59]. In un’altra accezione ancora, ugualmente specifica, animal individua invece l’animale non umano, a volte qualificato come bestia fera[60] o come domestica[61], ora senza riferimento all’uomo[62], ora in antitesi alla persona umana[63].

Anche nelle fonti giuridiche il termine animal, in una prima accezione, allude, secondo una concezione simpatetica, a ogni essere animato[64]. In una accezione simpatetica si può ricordare il frammento in cui Ulpiano, mentre afferma, nel solco di una dottrina risalente, che all’interno dell’instrumentum debbano essere compresi tutti gli animali presenti nel fondo per le sue esigenze[65], richiama la tesi opposta di Alfeno, il quale, con riferimento al caso specifico di un legato, esclude che i servi che si trovano nel fondo, in quanto esseri animati, facciano parte per ciò stesso dell’instrumentum[66]. È probabile, come è stato sostenuto[67], che Alfeno abbia qui risentito della influenza della concezione aristotelica secondo la quale gli esseri animati, in quanto collocati a un livello più alto di quello delle res inerti, non possono essere destinati al servizio di queste ultime. Si può però anche ritenere che l’opinione di Alfeno sia esemplificativa di come la giurisprudenza romana impieghi il concetto di res con un valore descrittivo senza volere contrapporre il mondo delle res a quello delle personae, i quali anzi, come mostra la classificazione del servus, persona e res allo stesso tempo, sono comunicanti[68]. Il valore descrittivo di res esclude l’appiattimento della condizione degli esseri animati, in particolare dai servi agli animali non umani, verso il basso, assieme agli oggetti inanimati, fino a determinare la esclusione di essi da una specifica categoria funzionale qual è quella dell’instrumentum, quando vi sia il rischio di una loro confusione sul piano ontologico con le cose non animate. La opinione di Alfeno può quindi inserirsi, a pieno titolo, nel solco di quelle concezioni filosofico-giuridiche in cui gli animali non umani sono considerati in una relazione simpatetica con gli uomini.

Il rapporto simpatetico fra tutti gli esseri animati si esprime ancora, sul piano giuridico, in maniera direi speculare, nella prospettiva connessa alla classificazione comune delle species animali, umani e non umani, all’interno del genus unico delle res. In tale prospettiva, peraltro, la giurisprudenza romana non manca di esprimere, sul piano classificatorio, le differenze fra la condizione delle res inerti e quella delle res dotate di vita propria. Si può citare a questo proposito, ad esempio, un frammento di Ulpiano, in cui egli, con riferimento alla ammissibilità della rivendica delle cose singole, siano esse res mobili, siano esse res immobili, anche dopo l’esperimento dell’azione per la petizione della eredità, riconduce entro il comune genus delle res (mobili) sia gli esseri animati, sia le cose inanimate[69].

Celso, con riferimento a un problema specifico di oggetto del legato[70], dopo avere osservato che con il termine moventia si possono intendere sia le cose inerti, sia quelle dotate di vita propria, scrive che il legato relativo dovrà avere ad oggetto solo gli animali quando risulti che il testatore utilizzava il termine per indicare soltanto essi[71], al di là della soluzione specifica al caso prospettato, gli animali sono in una posizione differente, sul piano classificatorio, da quella in cui si trovano le cose inerti, poiché essi sono dotati di vita propria: quia se ipsa moverent[72].

L’impiego giuridico del termine animal delinea un insieme di relazioni simpatetiche fra gli esseri animati fondato sul riconoscimento del valore della vita. Il riferimento alla affinità fra tutte le creature animate è presente anche quando i giuristi romani utilizzano il termine animal per alludere esclusivamente agli animali non umani, la cui condizione è tenuta distinta ma non contrapposta a quella dell’uomo. Così, nel testo in cui Pomponio osserva che le azioni edilizie sono relative non solo agli uomini in condizione servile ma anche agli animali non umani[73], l’estensione della classificazione degli animalia si chiarisce attraverso la relazione di essi con quel particolare essere animato che è l’uomo in condizione servile[74], la cui posizione, sin dalla filosofia greca[75], è particolarmente vicina all’animale non umano sotto diversi aspetti della relativa disciplina giuridica: dalla classificazione delle res mancipi, in cui gli uomini in considerazione servile sono considerati assieme agli animalia quae collo dorsove domantur (boves, muli, asini, equi)[76] a quello del danneggiamento disciplinato dalla lex Aquilia[77]. Si pensi a come Gaio, nel suo commento al primo caput della lex Aquilia, D. 9,2,2,2 (Gai. 7 ad ed. provinc.), rilevi che ai servi sono equiparati i quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur, per escludere poi dall’ambito di applicazione della lex Aquilia, in ragione della natura fera, specie animali quali orsi, leoni, pantere, mentre definisce mixta la natura di elefanti e cammelli[78]. È importante osservare che in Gaio la prospettiva con cui si guarda agli esseri animati è unificante, come avviene, ad esempio, anche nelle Institutiones, quando egli si sofferma sulla possibilità di costituzione dell’usufrutto mediante in iure cessio[79]. L’espressione et hominum et ceterorum animalium mostra che il giureconsulto non intende contrapporre gli uomini agli altri animali, ma ricomprendere i primi entro il genere comune dei secondi. Si tratta di una impostazione ricorrente nella giurisprudenza romana[80], in cui emerge nella visione dei rapporti fra uomini e animali non umani un quadro di differenze entro, però, la prospettiva prevalente della comune appartenenza di tutti gli esseri animati ad un unico genus.

In questo senso, della massima importanza sul piano classificatorio è l’impiego, nella enunciazione ulpianea del ius naturale, del termine animal, che racchiude in una prospettiva unificante sia gli uomini, sia gli altri animali, come enti del sistema giuridico-religioso romano.

 

b. La rottura della contiguità classificatoria fra l’uomo e gli altri animali: bestia come tassonomia (tendenzialmente) esclusiva degli animali non umani

 

La rottura della contiguità classificatoria fra l’uomo e gli altri animali è attestata nella tassonomia individuata dal termine bestia, impiegato tendenzialmente a designare solo gli animali non umani[81]. Nelle fonti giuridiche, come in quelle letterarie[82], la classificazione delle bestiae è improntata, attraverso il riferimento alle capacità offensive di determinate specie animali, sul distacco esistente tra uomini e altri animali. Si può citare a questo proposito il frammento di Ulpiano in cui egli analizza il divieto di postulare pro aliis per coloro che abbiano locato la propria opera per combattere con le bestiae[83]. Qui il giureconsulto afferma che per valutare l’esistenza dei presupposti per l’applicazione della sanzione non si deve considerare semplicemente se un animale rientri o no in un determinato genus, ma è anche necessario esaminare concretamente se esso sia un esemplare in possesso della feritas. Tale requisito è quindi quello sulla base del quale si fonda la differenza tra animal e bestia[84].

L’uso del termine bestia, con riferimento a specie animali determinate, è attestato anche in Gaio, nel suo commento all’editto provinciale, in cui è contenuta una sintetica riflessione, dal punto di vista giuridico, sulle principali tassonomie zoologiche[85]. L’esordio quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur richiama, oltre naturalmente ai quadrupedes, la classificazione dei pecudes e quella degli animalia quae gregatim habentur, con il problema di definire l’ampiezza di ciascuna delle tre differenti classificazioni[86].

Alla classificazione dei quadrupedes, divisa da un lato nella serie di animali in grado di offrire lana e carne (oves e caprae) o suscettibili d’impiego nel lavoro agricolo e nei trasporti (boves, equi, muli e asini), e dall’altro in quella dei quadrupedi a statuto incerto tra condizione domestica o selvatica (sues e canes), si aggiunge, infine, la classificazione delle bestiae ferae, la cui descrizione avviene ancora attraverso l’esposizione di un elenco esemplificativo di specie animali: veluti ursi leones pantherae. Operazione questa, con la quale vengono a delinearsi i termini di una contrapposizione netta, ma allo stesso tempo flessibile, tra specie domestiche, o assoggettate ad un potere di controllo da parte dell’uomo, e specie invece prive, nel loro insieme, della capacità di avere una relazione con l’uomo. Tra l’uno e l’altro di questi due termini contrapposti s’insinuano delle specie a statuto misto - elefanti e cammelli - che anche se idonee al lavoro, come gli altri iumenta, conservano, però, una natura tendenzialmente fera, ove con questo termine s’intende la conservazione di uno stato sostanzialmente indipendente dall’uomo, anche in condizione di cattività[87].

 

c. Dall’animale vivo all’animale morto: il valore degli animalia quae collo dorsove domantur

 

La rottura della affinità fra tutti gli esseri animati è attestata dalla controversia tra Proculeiani e Sabiniani, relativa alla classificazione degli animalia quae collo dorsove domantur[88] all’interno delle res mancipi[89]: mentre i primi giureconsulti ritenevano che boves, muli, asini, equi dovessero annoverarsi nel catalogo dei beni mancipi sulla base dell’addestramento al lavoro e, nella sola ipotesi che un esemplare di tali specie fosse insuscettibile alla domatura, sulla base del raggiungimento dell’età di addestramento, i secondi sostenevano che tali animali dovessero essere considerati res mancipi sin dalla nascita[90].

In dottrina si è discusso su quale fra le opinioni delle due diverse scuole di giureconsulti si debba considerare più risalente. Nonostante la tesi autorevolissima di chi ritiene che la opinione dei Proculeiani sia più recente[91], sembra preferibile sostenere, con larga parte della dottrina, che essa sia invece più risalente[92].

La classificazione degli animali nell’ambito delle res mancipi, che Gaio definisce res pretiosiores[93], doveva avvenire sulla base di un valore aggiunto che era dato all’animale dal suo addestramento[94]. Le regole medico-religiose previste per l’animale da lavoro[95] e il riconoscimento per esso di un riposo sacrale[96] sono attestazioni di un prestigio sociale prima ancora che economico, che esprime un quadro vivo di affinità fra tutti gli esseri animati.

Nell’età arcaica si deve ritenere che l’inclusione dei quadrupedi da lavoro nel catalogo delle res mancipi fosse effettuata sulla base della valutazione concreta delle qualità possedute dall’animale. In particolare l’addestramento al lavoro non doveva essere dato per scontato, ma verificato individualmente per ogni singolo capo. Espressione significativa della importanza sul piano giuridico e sociale degli animali da lavoro era data dall’impiego della mancipatio per il trasferimento del dominium sugli animalia quae collo dorsove domantur e dal ricordo del divieto di uccisione del bue da lavoro[97].

La polemica tra le due scuole dei giuristi sottintende quindi un mutamento di valore della condizione animale[98], dovuto soprattutto alla nascita di grandi aziende di tipo ‘capitalistico’, ove l’allevamento di un gran numero di capi era finalizzato all’abbattimento a scopo alimentare, senza che fosse più possibile un rapporto di quotidiano e diretto contatto nel lavoro tra uomo e animale. In tali aziende, la capacità di alcune specie ad essere sottoposte all’addestramento era del tutto o quasi irrilevante, in modo che la scuola proculeiana, introducendo un primo temperamento alla regola generale, cerca di esprimere le trasformazioni di valore non solo economico ma anche sociale a cui erano ormai andati incontro gli animalia quae collo dorsove domantur[99].

Con la nascita delle grandi aziende in cui l’allevamento è finalizzato alla uccisione degli animali, la celebrazione effettiva della mancipatio poteva essere un vuoto rituale, in quanto essi non erano più uno strumento da lavoro e di creazione di ulteriore reddito, vicini anche socialmente all’uomo, ma direttamente il bene ultimo della produzione. E da qui la mancipatio divenne un rituale talvolta ingombrante al quale i giuristi romani tentarono di porre un rimedio, per consentire agevolmente le vendite nei mercati anche di grandi quantità di bestiame[100].

A seguito della trasformazione della economia e dell’inesorabile decadenza delle res mancipi, i Sabiniani disconoscono il valore della domatura, in base al quale l’animale era stato incluso tra le res mancipi, livellando gli animali da tiro e da soma in un’unica condizione indipendentemente dalle capacità concretamente possedute da un singolo esemplare. L’animale da essere in grado di assicurare all’uomo una utilità, che presupponeva anziché l’inerzia di un oggetto, la vitalità e la collaborazione con il dominus, non più considerato per qualità ed attitudini possedute da vivo, diviene ormai, in una ottica meramente economica, un essere la cui utilità presuppone la morte.

 

 

III. legislazione italiana e costituzioni europee

 

1. – La condizione giuridica dell’animale non umano nel codice civile del 1942

 

La dottrina civilistica, solo negli ultimi anni, in considerazione della attenzione dedicata in generale dalla società alla questione animale, si è posta il problema di una riconsiderazione dello status giuridico dell’animale non umano[101], che fino a non molti anni fa del tutto pacificamente e sbrigativamente era identificato con quello di cosa[102]. Si tratta di una qualificazione, quella compiuta dalla dottrina civilistica, che pretendeva di trovare un fondamento scientifico nella classificazione da parte della giurisprudenza romana degli animali non umani all’interno delle res. In realtà, la dottrina civilistica, come già la dottrina romanistica, nel qualificare l’animale come cosa, operazione di per sé ammissibile se compiuta in maniera neutra, finiva per formulare più o meno esplicitamente una valutazione di tipo ontologico sulla condizione animale, apparendo fortemente condizionata dall’innesto delle rigide, in quanto contrapposte, categorie giuridiche moderne di soggetto e oggetto di diritto sulla esperienza giuridica romana, nella quale invece le partizioni res e persona erano piuttosto improntate a una elasticità classificatoria altrimenti difficilmente percepibile[103].

La considerazione dell’animale come cosa, attraverso il condizionamento operato dalla recezione delle categorie moderne ora menzionate, influenza la dottrina civilistica anche nella adozione di schemi classificatori effettivamente presenti nelle fonti giuridiche romane, il cui senso non viene però colto completamente. Può essere citata, a questo proposito, la distinzione propria del diritto romano fra bestiae ferae, mansuetae e mansuefactae, nel recepire la quale la dottrina civilistica finisce per attribuire all’animale un valore ‘oggettivistico’ diverso da quello attribuito alla distinzione dalla giurisprudenza romana, in cui grande rilevanza si dava al comportamento dell’animale non umano[104]. Emblematica in questo senso è la disposizione relativa all’animale dotato di animus revertendi, contenuta nell’art. 925 del codice civile, la quale consente che il proprietario dell’esemplare possa inseguire l’animale nel fondo altrui.

Ora la conservazione della proprietà di tale animale non si fonda, come nel diritto romano, sul possesso dell’animus revertendi che spinge un animale a tornare nel luogo ove si trova il proprio ricovero, ma si basa semplicemente sul decorso del tempo, in quanto il proprietario ha il diritto di recuperare l’animale entro venti giorni a partire dal momento in cui sia venuto a conoscenza del luogo in cui esso si sia rifugiato.

Nel solco poi della qualificazione giuridica dell’animale non umano come cosa si deve ricordare la norma, contenuta nell’art. 820 c.c., in cui si stabilisce che esso sia compreso all’interno della nozione di frutto naturale. Si devono citare le disposizioni degli artt. 842 e 843 c.c., in tema di caccia, in cui il legislatore, ponendosi l’obiettivo di una tutela degli interessi contrapposti del proprietario del fondo e del cacciatore, mostra di valutare l’animale solo in relazione al suo valore economico come essere morto. Si può ricordare in questo senso anche la disposizione contenuta nell’art. 2052 c.c., che sancisce per il danneggiamento inferto dall’animale la responsabilità del proprietario di esso o di colui che lo abbia in uso, fermo restando che la esclusione della responsabilità non è prevista sulla base della valutazione della natura dell’animale, ma sulla base della sussistenza del caso fortuito.

Anche sulla base della adozione di una classificazione apparentemente improntata alla recezione di schemi della giurisprudenza romana, ma in realtà fortemente condizionata dalla visione moderna fondata sulla contrapposizione rigida fra soggetto e oggetto di diritto, la qualificazione dogmatica dell’animale si è per così dire sdoppiata. Da un lato, nell’ambito della dottrina civilistica, l’animale non umano appare come cosa né più né meno delle altre cose inerti. Dall’altro, nell’ambito della dottrina penalistica, l’animale è andato affermandosi sempre di più come un essere senziente, meritevole di una tutela di per sé[105].

La tutela dell’animale non umano ed anche la sua qualificazione dogmatica sul fronte dei cosiddetti diritti degli animali si è quindi concentrata sul versante del diritto penale. Eppure una nuova concezione del rapporto tra uomo e altri esseri animati non può non passare attraverso una riconsiderazione delle categorie civilistiche impiegate per definire e qualificare la condizione degli animali non umani. Non si tratta semplicemente di definire l’animale non umano come soggetto di diritto. Si tratta anzitutto di riconoscerne uno statuto che sia rispondente alla sua natura di essere animato. Stupisce, ad esempio, che ancora oggi, nonostante la questione della soggettività giuridica animale, poca attenzione si sia dedicata al problema se sia ammissibile riconoscere una proprietà dell’uomo sull’animale non umano[106]. Non è un caso che negli ultimi anni si sia invece iniziato ad affrontare la questione della meritevolezza della tutela in una chiave non necessariamente legata alla soggettività giuridica[107].

 

2. – La tutela dell’animale non umano fra giurisprudenza e legislazione italiana

 

La disposizione penale contenuta nell’art. 727 del codice Rocco del 1930[108], che riprendeva la norma contenuta nell’art. 491 del codice Zanardelli del 1889, ha avuto per lungo tempo una importanza essenziale per la tutela dell’animale non umano[109]. Si è più volte osservato però in dottrina e in giurisprudenza che la disposizione del codice Rocco, contenuta nei reati previsti contro la moralità pubblica e il buon costume, come quella del codice Zanardelli[110], non tutelava l’animale come essere senziente ma pur sempre l’uomo. Più precisamente essa si motivava con l’obiettivo di evitare il sentimento di orrore che l’uomo avverte di fronte a forme di incrudelimento nei confronti di altri esseri animati[111]. L’animale, si diceva anche, è semmai l’oggetto materiale, la cosa sulla quale si è diretta la condotta materiale dell’autore del reato, non l’oggetto della tutela che è quindi ancora l’uomo[112]. Non è un caso che illustri penalisti insistessero molto sul sentimento di umanità e mai sulla ‘animalità’ per trovare il fondamento della fattispecie in tema di maltrattamenti verso gli altri animali, quasi a estromettere l’uomo dal genere animale. Altri ancora invocavano, lungo questa linea, il “sentimento di pietà”[113] o la “mitezza dei costumi”[114] secondo l’adagio che saevitia in bruta est tirocinium crudelitatis in homines[115].

È noto che contro questa lettura dell’art. 727 c.p. da più parti si erano proposte interpretazioni che miravano a riconoscere anche all’animale non umano una tutela diretta in quanto essere vivente in grado di provare dolore[116]. Fino a che si è giunti a una sentenza della Corte di Cassazione (Sez. III Penale, 14 marzo 1990, est. Postiglione) che ha recepito e proposto all’attenzione anche dei non giuristi una interpretazione più consona a quello che ormai appariva il comune sentire di una tutela degli animali non umani in quanto tali. Si è così parlato di una tutela che nel nostro ordinamento per la prima volta si è concentrata direttamente, come si legge nella massima, sugli «animali in quanto autonomi esseri viventi, dotati di sensibilità psico-fisica e capaci di reagire agli stimoli del dolore». Una tutela che, si legge ancora nella sentenza, «è dunque rivolta agli animali in considerazione della loro natura»[117].

Anche sulla spinta dell’orientamento scientifico alla base della sentenza della Cassazione, nella nuova formulazione dell’art. 727 codice penale, a seguito della legge 22 novembre 1993, n. 473, si era finalmente dato peso alla natura animale, che ora rilevava sotto diversi profili: dalla necessità di valutare, ai fini della integrazione della fattispecie, le «caratteristiche anche etologiche» degli animali alla possibilità di ritenere integrato il maltrattamento pure nel caso di detenzione di animali attuata «in condizioni incompatibili con la loro natura».

Molto si è detto circa l’impianto complessivo dell’articolo del codice così modificato: in particolare si è lamentato che il reato manteneva la natura contravvenzionale e non assumeva quella delittuosa che avrebbe avuto una funzione deterrente superiore. Ad ogni modo, si è anche riconosciuto che la novella legislativa portava a un ampliamento della nozione di maltrattamento, integrato ora non solo nel caso di strazio e sevizie dell’animale, ma anche, secondo un certo indirizzo dottrinale, pure nel caso di sofferenze di tipo psicologico in relazione alla natura della specie di appartenenza dell’animale[118].

La nuova formulazione dell’art. 727 del codice penale, con la legge 22 novembre 1993, si inseriva in un processo che vede ancora oggi la scienza giuridica impegnata nella riformulazione dei presupposti dogmatici della legislazione animale, sulla spinta della rilevanza ormai comunemente riconosciuta alla tutela dell’ambiente, in una ottica che da più parti si è auspicato dovrebbe superare l’antropocentrismo caratteristico delle soluzioni normative del passato.

Nel senso ora auspicato, si può qui citare la legge n. 281 del 14 agosto 1991 intitolata «Legge quadro in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo», la quale si pone come obiettivo, fra l’altro, di «favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente». La legge ha introdotto il principio del rispetto della vita animale sia attraverso la norma che sancisce il divieto di controllare la diffusione canina e felina con la uccisione, sia attraverso il divieto di sottoposizione degli animali ricoverati nei canili a vivisezione[119]. Ma soprattutto ha stabilito che l’animale non può essere ucciso salvo il caso in cui non sia gravemente ammalato o pericoloso[120].

Nel luglio del 2004 è stata quindi approvata la legge n. 189 in materia di «Disposizioni concernenti il divieto di maltrattamento degli animali, nonché di impiego degli stessi in combattimenti clandestini o competizioni non autorizzate», con la quale si è introdotto nel codice penale una nuova tipologia di «Delitti contro il sentimento per gli animali»[121]. La denominazione di tali delitti risente ancora di un atteggiamento antropocentrico, che nel testo invece licenziato alla Camera dei Deputati era stato superato con la previsione di un titolo direttamente dedicato ai “delitti contro gli animali”, il cui primo capo significativamente era «Dei delitti contro la vita e l’incolumità degli animali»[122]. Si tratta di una rivoluzione copernicana perché i reati contro gli animali non sono più considerati come reati contro la proprietà o contro la polizia dei costumi, ma sono ora previsti in funzione della tutela dell’essere vivente sul quale si attuata la condotta criminosa.

Senza entrare nel merito della disciplina, la eliminazione della distinzione prima imperante fra la ipotesi del maltrattamento e la ipotesi della uccisione dell’animale proprio (art. 727 c.p.) e la uccisione dell’animale altrui (art. 638 c.p.), ipotesi tutte ora comprese nella disposizione dell’art. 544-bis in cui si stabilisce che «chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi», mette in evidenza che oggetto della tutela diviene l’animale in quanto tale. La legge ha poi previsto, oltre al divieto di uccisione dell’animale conseguente ad atti di crudeltà o privi di necessità (art. 544-bis), il divieto di maltrattamenti (art. 544-ter), ora divenuto delitto e non come in passato semplice contravvenzione, il divieto di spettacoli o manifestazioni che comportino strazio per gli animali (art. 544-quater), ipotesi ugualmente delittuosa, e quindi, finalmente, il divieto di combattimenti o competizioni non autorizzate tra animali quando esse «possono metterne in pericolo l’integrità fisica» (art. 544-quinques). La legge ha anche sostituito il vecchio art. 727 sui maltrattamenti con un nuovo articolo in tema di abbandono di animali, che prevede per colui che abbandoni animali domestici o animali che abbiano conseguito una abitudine alla cattività l’arresto fino ad un anno e una ammenda da 1.000 a 10.000 euro. La legge, infine, ha introdotto, all’art. 2, il divieto di utilizzare pelli e pellicce di cani e di gatto a fini commerciali, prevedendo la sanzione dell’arresto da tre mesi a un anno e una ammenda da 5.000 a 100.000 euro.

Gli sviluppi successivi della legislazione in tema di condizione animale, pur in assenza di un progetto complessivo di riordino della disciplina, nella quale continua quindi a riflettersi una ambiguità delle relazioni fra uomo e animale non umano, hanno messo in luce l’idea che al centro della disciplina sia l’animale in quanto essere senziente capace di provare dolore. Il Decreto Legislativo n. 116 del 1992 (con cui si è recepita la direttiva CEE n. 609 del 1986 sulla protezione degli animali da laboratorio), abrogando pressoché completamente la legge n. 924 del 1931, che vietava la vivisezione solo quando essa non fosse stata diretta a «promuovere il progresso della biologia e della medicina sperimentale», ha posto al centro la questione del benessere degli animali da sottoporre all’esperimento: l’obbligo del ricorso ad «altro metodo scientificamente valido» prima di effettuare la vivisezione (art. 4 comma 1); la somministrazione della anestesia generale o locale (art. 4 comma 3); il divieto di impiego dell’animale a scopi scientifici per più di una volta (art. 4 comma 4); la uccisione dell’animale nel caso in cui anche dopo la anestesia esso soffra eccessivamente (art. 6 comma 2); il divieto di rendere afono l’animale (art. 6 comma 5) sono tutti aspetti della disciplina che si pongono nella linea di una tutela dell’animale in quanto tale[123].

Non si deve tacere, naturalmente, che nel nostro ordinamento giuridico continuano ad essere in vigore disposizioni che spesso contrastano con questa finalità di tutela. Basti pensare a quelle relative ai circhi, agli zoo e alle feste popolari, in cui animali patiscono sofferenze o trovano la morte in modo spesso atroce[124]. L’idea della tutela dell’animale in quanto tale può però guidare la interpretazione anche di tali disposizioni.

Impostazione metodologica che è possibile applicare anche nella interpretazione di quelle disposizioni numerose, in tema di allevamento e di macellazione, in cui è ancora presente la finalità di garantire, come è stato detto, più la salute dell’animale che il suo effettivo benessere, in modo da assicurare al consumatore un ‘prodotto’ di qualità[125]. Così, ad esempio, la legge del 2 agosto 1978, n. 439, sulla macellazione degli animali, stabilisce che essa debba essere preceduta dallo stordimento dell’animale in modo da evitare ad esso “sofferenze inutili”, disposizione poi recepita nel decreto legislativo n. 333, del 1 settembre 1998, con riferimento alle quali norme è possibile, attraverso la interpretazione, dar corso anche alle ragioni di tutela dell’animale stesso e non semplicemente alla salute dei consumatori[126].

La legge n. 968 del 1977 sulla caccia e la successiva legge n. 157 del 1992 «per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio» hanno reso la fauna «patrimonio indisponibile dello Stato», inserendosi quindi nell’ambito del problema più generale della tutela dell’ambiente. Anche una interpretazione, nel senso ora indicato, di queste disposizioni, in cui è spesso presente la finalità di una tutela delle specie animali più che dell’animale in quanto individuo, può forse servire a trovare una soluzione giuridica equilibrata che tenga conto anche del valore della vita animale in quanto tale.

 

3. – Dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’animale alle Costituzioni europee

 

a. La condizione dell’animale non umano alla luce della Dichiarazione universale dei diritti dell’animale

 

La Dichiarazione universale dei diritti dell’animale, presentata a Bruxelles il 26 gennaio 1978 e quindi proclamata a Parigi, ad iniziativa dell’UNESCO, il 15 ottobre 1978, contiene alcuni principi di grande rilievo giuridico. A cominciare dall’art. 1 in cui si stabilisce che “Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all’esistenza”. Come per la definizione del ius naturale in Ulpiano, anche per la Dichiarazione, così significativa sul piano etico-giuridico, vi è chi ha parlato di assurdità[127]. Si tratta di una visione che si può spiegare solo con una errata impostazione della questione giuridica di fondo legata a una visione tesa a individuare più la norma giuridica che i principi.

Di grande rilievo è anzitutto il fatto che la Dichiarazione sia stata improntata a una visione non antropocentrica ma biocentrica, intendendo con ciò fare riferimento al fatto che essa sembra proporsi di trovare un equilibrio fra le diverse forme di vita. Questa impostazione centrale della Dichiarazione risulta sin dalla Premessa nella quale si afferma, dopo l’esordio in cui gli animali non umani sono considerati titolari di diritti, il riconoscimento da parte dell’uomo del “diritto all’esistenza” delle altre specie come “fondamento della coesistenza delle specie nel mondo”. Essa si esplica ancora nell’art. 2, in cui si afferma il diritto dell’animale ad essere rispettato; nell’art. 3, in cui si prevede che l’animale non debba essere sottoposto a maltrattamenti; negli artt. 4 e 5, in cui si stabilisce il diritto dell’animale a vivere in un ambiente adeguato alla specie di appartenenza.

Il rifiuto dell’uso di animali per divertimento (art. 10), della uccisione senza necessità (art. 11), della violenza connessa alla alimentazione o alle diverse forme di sfruttamento commerciale, dell’impiego di animali per la ricerca medica e commerciale quando la sperimentazione implichi sofferenza fisica o psichica (art. 8), della uccisione di animali in competizioni (corride, rodei, combattimenti etc.) (art. 10) sono tutte attestazioni di una nuova vecchia forma di equilibrio dell’uomo con le altre specie animali all’interno della natura. Ma soprattutto è espresso il principio del valore della vita nelle sue diverse manifestazioni. Così la uccisione di un animale non umano benché ancora tollerata non può avvenire se essa provochi “ansietà e dolore” (art. 9).

La qualificazione giuridica della condizione dell’animale non umano alla luce della Dichiarazione universale dei diritti dell’animale deve essere profondamente rivista. Non si tratta ancora una volta di riconoscere semplicemente all’animale lo status di soggetto di diritti. Si tratta invece di utilizzare i principi che emergono nella Dichiarazione per porre al centro della questione animale anzitutto il problema del valore della vita animale.

 

b. La condizione dell’animale non umano fra Costituzione della Unione Europea e Costituzioni dei paesi europei

 

Il rispetto della vita animale, come principio fondamentale al centro della disciplina giuridica relativa alla condizione animale, è ora contenuto nel Trattato che istituisce la Unione Europea, all’art. III-121, ove si legge: «Nella formulazione e nell’attuazione delle politiche dell’Unione nei settori dell’agricoltura, della pesca, dei trasporti, del mercato interno, della ricerca e dello sviluppo tecnologico e dello spazio, l’Unione e gli Stati membri tengono pienamente conto delle esigenze in materia di benessere degli animali in quanto esseri senzienti, rispettando nel contempo le disposizioni legislative o amministrative e le consuetudini degli Stati membri per quanto riguarda, in particolare, i riti religiosi, le tradizioni culturali e i patrimoni regionali».

Si è detto che la norma è frutto di un compromesso perché essa fa ancora riferimento alle legislazioni nazionali, nella parte in cui esse consentono eventi in cui l’animale è spesso vittima, come ad esempio la corrida o le sagre, che non sarebbero propriamente un modello da valorizzare in ambito europeo[128]. Ad ogni modo il riconoscimento dell’animale come essere senziente, all’interno del Trattato che istituisce la Costituzione della Unione Europea, rappresenta una grande vittoria della nuova sensibilità giuridica nell’affrontare la questione animale.

La norma del Trattato era stata preceduta, nel 1991, dalla Dichiarazione approvata a Maastricht sulla protezione degli animali, poi seguita da un Protocollo sul benessere animale del 1997 ad Amsterdam, che conteneva una disposizione analoga in tema di benessere animale in cui si riconosceva l’animale come essere senziente.

In connessione alla nuova sensibilità animalistica anche le Costituzioni degli Stati europei hanno riconosciuto agli animali non umani un certo status. Nella costituzione svizzera del 2000, agli artt. 78, 79 e 80, sono previste alcune disposizioni a tutela della protezione della natura, in tema di caccia e pesca, e a protezione degli animali. Nella prima di tali disposizioni si stabilisce che la Confederazione si propone come obiettivo la tutela della natura e del paesaggio; tutela la fauna e la flora avendo riguardo agli spazi vitali delle diverse specie che protegge dalla estinzione. Nella seconda si stabilisce che caccia e pesca debbano essere disciplinate in funzione della conservazione degli animali. Nella terza, infine, specifica in tema di tutela degli animali, la Confederazione si riserva di emanare norme sui più diversi aspetti della protezione animale, tra cui la detenzione e la cura degli animali, la sperimentazione su animali vivi, l’utilizzazione, l’importazione, il commercio e il trasporto, l’uccisione di animali, stabilendo che la esecuzione delle norme spetti ai Cantoni.

In Germania, preceduta da alcune costituzioni di Länder, in cui sono presenti disposizioni che riconoscono a livello costituzionale la protezione degli animali come esseri viventi, è stata emanata nel 2002 l’art. 20a del Grundegesetz, in cui si prevede che la protezione degli animali sia compito dello Stato. Si tratta di una disposizione con la quale si è recepita a livello costituzionale una riflessione scientifica, che durava almeno dagli anni ’80, sulla necessità di superare nella impostazione della disciplina giuridica la prospettiva antropocentrica. Emblematica in questo senso è stata la promulgazione della legge del febbraio del 1993, la Tierschutzgesetz, che si prefigge di tutelare l’animale non più in relazione al sentimento di pietà che suscita in un uomo la sofferenza animale, ma direttamente in quanto essere vivente. Particolarmente significativa è la circostanza che la legge sfugge alla rigidità della contrapposizione tra le categorie di soggetto e di oggetto di diritto, preferendo, invece, in termini più elastici, riconoscere all’animale la qualità di ‘creatura giuridica’.

Nella dottrina costituzionalistica italiana la tutela degli animali non umani ha risentito delle difficoltà interpretative connesse alla nozione di paesaggio di cui all’art. 9, per lungo tempo interpretato in una visione estetizzante in cui non vi era spazio che per il concetto di “bellezza naturale” e da cui era quindi esclusa ogni tutela ambientale che non fosse sostenibile in ragione di una contiguità disciplinare con altri valori costituzionali tra i quali in particolare quello della sanità. A partire dalla fine degli anni ’80 la dottrina costituzionalistica ha iniziato una riflessione scientifica che l’ha condotta a fornire le basi per la approvazione della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, “Modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione”, in cui la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema è affidata allo Stato, mentre alla competenza concorrente di Regioni e Stato è affidata la valorizzazione dei beni ambientali e culturali. Sembra quindi convincente la tesi che gli animali abbiano già trovato uno spazio nella Costituzione ma in dottrina si è sostenuta, non del tutto a torto, la opportunità di una esplicita previsione costituzionale del valore della vita animale. In questo senso si possono qui ricordare i progetti di legge costituzionali volti a prevedere a livello costituzionale il rispetto per gli animali non umani[129].

 

 

IV. Verso la formulazione di alcuni principi

 

L’analisi delle problematiche relative al danneggiamento da animale non umano ha permesso di richiamare l’attenzione su due grandi questioni, quali quella relativa al nesso antico tra filosofia greca e diritto romano e quella relativa al nesso tra scienza giuridica moderna e scienza giuridica antica.

Sarebbe opportuno che i giuristi di diritto positivo e gli altri scienziati, che oggi si affannano lodevolmente per attribuire agli animali non umani uno statuto etico-giuridico, tenessero conto del fatto che la soluzione della cosiddetta questione animale non passa, necessariamente, attraverso il modello antropocentrico della estensione dei diritti soggettivi e della soggettività giuridica agli ‘altri’ esseri animati. La prospettiva del sistema giuridico-religioso romano, di particolare interesse, sotto questo profilo, in quanto essa, scevra dai condizionamenti ideologici legati alle moderne categorie giuridiche di soggetto e di oggetto, risulta improntata sulla analisi e sulla rilevanza della natura dell’animale non umano e dunque sulle qualità da esso posseduto in vita, anziché sulle qualità, il cui esame presuppone la morte dell’animale, come avviene nelle moderne tassonomie zoologiche, attraverso una linea di continuità che può essere fatta risalire ad Aristotele.

È la considerazione dell’animale non umano nella prospettiva della sua morte, anziché in quella della sua vita, che giustifica l’impostazione scientifica dominante, erroneamente ritenuta riconducibile ad una visione propria della giurisprudenza romana, impostazione secondo la quale la condizione dell’animale stesso può essere ridotta alla condizione di cosa, e dunque, attraverso una equazione non perfettamente verificata, alla condizione di oggetto di diritto. Impostazione scientifica oggi giustamente posta in discussione, ma in termini sbagliati, in quanto del tutto speculari a quella stessa impostazione avversata, attraverso la estensione della soggettività giuridica agli ‘altri’ esseri animati. Sia l’una impostazione, ‘oggettivistica’, sia l’altra impostazione, ‘soggettivistica’, rischiano soprattutto di perdere di vista la sostanza della questione animale, che non può essere risolta solo attraverso una estensione di categorie giuridiche, ma necessita di un più generale mutamento degli schemi culturali di fondo dell’intera società.

Lo studio della condizione dell’animale non umano, nel sistema giuridico romano, consente di superare una impostazione fondata sull’uso delle moderne categorie di soggetto e oggetto di diritto, per partire dalla analisi della rilevanza del comportamento dell’animale, capace di modificazioni della realtà giuridica. E il richiamo alla natura animale, come elemento sul quale si fonda la affinità fra tutti gli esseri animati, permette di comprendere la nozione fondamentale, per la scienza giuridica, del diritto naturale.

 

 



 

[1] Per le fonti si veda infra II 1. Cfr. a questo proposito M. Vegetti, Il coltello e lo stilo, 3a ed., Milano 1996, 127 ss.

 

[2] Sulla natura animale si veda P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano, Torino 2002, 95 ss.

 

[3] Sulla rilevanza giuridica del comportamento animale si rinvia a P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit. 399 ss.

 

[4] Sulla qualificazione dell’animale come cosa si veda infra Parte III cap. 1.

 

[5] Per una prima analisi della letteratura sulla “questione animale”, con riferimenti alla soggettività animale, si vedano: Aa.Vv., I diritti degli animali. Prospettive bioetiche e giuridiche (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Bologna 1985; Aa.Vv., I diritti degli animali (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Centro di Bioetica-Genova, Atti del Convegno nazionale, Genova 23-24 maggio 1986, Genova 1986; Aa.Vv., In difesa degli animali (a cura di P. Singer), tr. it. di S. Nesi Sirgiovanni, Roma 1987; Id., Liberazione animale: il libro che ha ispirato il movimento mondiale per la liberazione degli animali (a cura di P. Cavalieri), tr. it. di E. Ferreri, Roma 1987; T. Regan-P. Singer, Diritti animali, obblighi umani, tr. it. di P. Garavelli, Torino 1987; P. Singer, Il movimento di liberazione animale (a cura di P. Cavalieri-A. Pillon), Torino 1989; T. Regan, I diritti animali, tr. it. di R. Rini, Milano 1990; Aa.Vv., Il Progetto Grande Scimmia: eguaglianza oltre i confini della specie umana (a cura di P. Cavalieri-P. Singer), tr. it. di S. Bigi-A. Bosco, Roma 1994; L. Battaglia, Etica e diritti degli animali, Roma-Bari 1997; P. Cavalieri, La questione animale. Per una teoria allargata dei diritti umani, Torino 1999; V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti, nuova edizione riveduta e aggiornata, Roma-Bari 2005; F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti, Torino 2005; B. De Mori, Che cos’è la bioetica animale, Roma 2007.

 

[6] Si veda infra Parte II cap. 1.

 

[7] Sulla enunciazione ulpianea del ius naturale, in D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.), si veda infra Parte II cap. 1 par. b.

 

[8] Sulle diverse accezioni in cui è possibile parlare di una comunanza di diritto fra uomo e altri animali, si veda C. Esposito, Lineamenti di una Dottrina del Diritto, Fabriano 1930, 124 ss. (= Estratto dagli Annali dell’Università di Camerino, Sezione giuridica, IV, 1930).

 

[9] Sull’atteggiamento di estremo scetticismo, da parte della della dottrina romanistica, circa il rilievo giuridico della enunciazione ulpianea si veda infra Parte II cap. 1 par. b.

 

[10] Sulla concezione naturalistica del diritto romano si vedano soprattutto: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 158 ss.; A. Burdese, “Ius naturale”, in Noviss. Dig. it., IX, Torino 1963, 383 ss.; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, 2a ed., Torino 1967, 99 ss.

 

[11] Sull’uso delle categorie in questione si vedano: R. Orestano, Il problema delle fondazioni in diritto romano, Parte Prima, Torino 1959, 3 ss.; Id., Il «problema delle persone giuridiche» in diritto romano, I, Torino 1968, 7 ss.; P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, 169 ss.; Id., “Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12”, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca, II, Napoli 2001, 97 ss.; G. Melillo, Personae e status in Roma antica, Napoli 2006, 1 ss.

 

[12] Un esempio particolarmente significativo, per comprendere la inutilità e la inadeguatezza delle categorie di soggetto e di oggetto di diritto, si ha in tema di qualificazione giuridica della condizione del servus. Si veda P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano cit., 163 ss.; Id., “Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12” cit., 97 ss.

 

[13] Sull’invito di Pitagora a rispettare gli animali non umani anche in relazione alla idea della trasmigrazione si veda Senofane, 21 B 7 DK= fr. 7 West= Gentili-Prato (Diogene Laerzio, VIII,36). La notizia secondo cui nella filosofia pitagorica si sarebbe teorizzata la trasmigrazione dell’anima umana in un altro animale è confermata da Aristotele, De an., 407 b 20 = 58 B 39 DK e da Erodoto, II,123 = 14 A 1 DK. Sulla trasmigrazione, nella filosofia pitagorica, si vedano: A. Rostagni, Il verbo di Pitagora, Torino 1924 (rist. Forlì 2005 [da cui si cita]), 73 ss.; M.V. Bacigalupo, Il problema degli animali nel pensiero antico, Torino 1965, 11 ss.; E. Zeller-R. Mondolfo, La filosofia dei Greci nel suo sviluppo storico (a cura di M. Isnardi Parente), I, tr. it. di E. Pocar, Firenze 1974, 125 ss.; W. Burkert, I Greci. Età arcaica. Età classica (sec. IX-IV), t. 2, tr. it. di P. Pavanini, Milano 1984, 430 ss.; G. Sole, Il tabù delle fave. Pitagora e la ricerca del limite, Soveria Mannelli 2004, 13 ss.

 

[14] Le fonti sono: Eudosso, fr. 36 Gisinger = 325 Lasserre (14 B 9 DK) (Porfirio, Vita Pyth., 7) e Onesicrito, FGrHist 134 F 17 (Strabone, XV,1,63-65). Sul sacrificio religioso nella filosofia pitagorica si vedano: M. Detienne,La cuisine de Pythagore”, in Archives de sociologie des religions, 29, 1970, 141 ss. (=Id., Les Jardins d’Adonis, Paris 1972, 76 ss.); Id., “Pratiche culinarie e spirito di sacrificio”, in Aa.Vv., La cucina del sacrificio in terra greca (a cura di M. Detienne-J.P. Vernant), tr. it. di C. Casagrande-G. Sissa, Torino 1982, 11 ss.

 

[15] Sulla astensione dall’alimentazione carnea si veda nt. 17. Cfr. G. Santese, “Introduzione”, in Plutarco, Il cibarsi di carne (a cura di L. Inglese-G. Santese), Napoli 1999, 62 ss.

 

[16] Cfr. M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 27 ss.

 

[17] Giamblico, Vita di Pitagora, 24,107-108: 107 Ora, queste prescrizioni concernenti l’alimentazione erano comuni a tutti; in particolare, poi, a coloro che fra i filosofi erano più inclini alla speculazione e che in questa si erano spinti più avanti vietava in modo assoluto i cibi superflui e ingiustificati: raccomandava di non cibarsi mai delle carni di un essere vivente, di non bere assolutamente vino, di non sacrificare agli dei animali, di non fare loro in alcun modo del male, rispettando con la massima attenzione le norme della giustizia anche nei loro confronti. 108 Quanto a lui, visse proprio in questo modo, evitando di cibarsi degli animali e venerando gli altari sui quali non si facevano sacrifici cruenti, adoperandosi affinché anche gli altri non sopprimessero gli esseri viventi di natura simile alla nostra e d’altra parte ammansendo e ammaestrando le bestie selvatiche con le parole e gli atti, lungi dal maltrattarle infliggendo loro dei castighi. Nell’ambito poi dei politici, prescriveva ai “legislatori” di astenersi dalla carne degli animali. Dal momento che era loro intenzione praticare la perfetta giustizia, era ben necessario che non recassero oltraggio agli esseri viventi con noi imparentati. Perché come avrebbero potuto persuadere gli altri a essere giusti, quando proprio loro erano preda dello spirito di prevaricazione? Un vincolo di parentela unisce gli esseri viventi e gli animali, per il fatto di avere in comune con noi la vita e di essere costituiti dei medesimi elementi, inoltre per la mescolanza da questi risultante, sono congiunti a noi da un legame di fratellanza. Traduzione di M. Giangiulio, in Pitagora. Le opere e le testimonianze, II, Milano 2000, 397 ss. Cfr. G. Camassa, “Frammenti del bestiario pitagorico nella riflessione di Porfirio”, in Aa.Vv., Filosofi e animali nel mondo antico (a cura di S. Castignone-G. Lanata), Pisa 1994, 89 ss.

 

[18] Aristotele, De part. an., 4,10,686a26-30; 4,10,687a5-22. Sulla prospettiva antropocentrica si vedano: M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 127 ss.; P. Fedeli, La natura violata. Ecologia e mondo romano, Palermo 1990, 107 ss.; O. Longo, “La mano e il cervello. Da Anassagora a Leroi-Gourhan”, in Ethos e cultura. Studi in onore di Ezio Riondato, II, Padova 1991, 957 ss. (=Id., L’universo dei greci. Attualità e distanze, Venezia 2000, 112 ss.); G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico”, in Aa.Vv., Filosofi e animali nel mondo antico cit., 17 ss.; M. Vegetti, “Figure dell’animale in Aristotele”, ibidem, 125 ss.; S. Rocca, Uomini e animali in Cicerone, Genova 1998, 45 ss.; L. Repici, Uomini capovolti. Le piante nel pensiero dei Greci, Roma-Bari 2000, 13 ss.; O. Longo, Scienza mito natura. La nascita della biologia in Grecia, Milano 2006, 85 ss.

 

[19] Aristotele, Hist. Anim., 8,1,588a16 ss.; Pol., 1253a9-18.

 

[20] Aristotele, Hist. Anim., 1,1,488a1 ss.

 

[21] Aristotele, Eth. Nic., 8,11,1161b1-3: Non v’è amicizia né legame di giustizia verso le cose prive di anima. E neppure vi sono verso un cavallo o un bue, né verso uno schiavo in quanto schiavo: non vi è, infatti, nulla in comune. La traduzione è di M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 31.

 

[22] Esiodo, Op., 276-279; e anche: 203-211.

 

[23] Platone, Prot., 322 B-C; Gorg., 483 C-D.

 

[24] Epicuro, Rat. Sent., XXXII (Diogene Laerzio, X,150); Porfirio, De abst., 1,7-12 (24 Krohn = 34 Longo Auricchio).

 

[25] Cicerone, fin., 3,20,67 (=SVF III,371); Diogene Laerzio, VII,129 (=SVF III,367); Plutarco, De soll an., 963F-964A (=SVF III, 373). Cfr. G. Santese, “Introduzione” cit., 33 ss.; F. Maspero, “Introduzione”, in Claudio Eliano, La natura degli animali (a cura di F. Maspero), I, 2a ed., Milano 2002, 8 ss.

 

[26] Empedocle, 31 B 135 DK (Aristotele, Rhet., A 13,1373b6); Cicerone, rep., 3,11,19; Plutarco, De esu carn., 997 E; De soll. an., 964,7.

 

[27] Porfirio, De abst., 4,22 (Senocrate, fr. 252 I.P. = 98 Heinze); Fr. Gr. Hist. 328 F 96 (=fr. 84 Wehrli); Plutarco, De esu carn., 996 B (=Senocrate, fr. 53 I.P. = 99 Heinze).

 

[28] Sul concetto di o„ke…wsij in Teofrasto si vedano: G. Santese, “Introduzione” cit., 75 ss.; L. Repici, “Aristotele, Teofrasto e il problema di una giustizia verso le piante” in Aa.Vv., Il dibattito etico e politico in Grecia tra il V e il IV secolo (a cura di M. Migliori), Napoli 2000, 554 ss.; G. Ditadi, “Premessa e Introduzione”, in Teofrasto, Della Pietà (a cura di G. Ditadi), Este 2005, 133 ss.

 

[29] De soll. an., 959F; 964F; De esu carn., 993A; Quaest. conv., VIII,8,729E.

 

[30] Cicerone, nat. deor., 2,154.

 

[31] Cicerone, fin., 3,20,67 (=SVF III,371).

 

[32] Cicerone, fin., 3,19,63.

 

[33] Cicerone, nat. deor., 2,158-159.

 

[34] Cicerone, rep., 3,11,19: esse enim hoc boni viri et iusti, tribuere id cuique quod sit quoque dignum. ecquid ergo primum mutis tribuemus beluis? non enim mediocres viri sed maxumi et docti, Pythagoras et Empedocles, unam omnium animantium condicionem iuris esse denuntiant, clamantque inexpiabilis poenas impendere iis a quibus violatum sit animal. scelus est igitur nocere bestiae, quod scelus qui velit […].

 

[35] Sono molti, come è noto, i passi in cui Cicerone si occupa, anche solo incidentalmente, della nozione di ius naturale. Ad es. inv., 2,53,161; leg., 1,18-19; nat. deor., 2,78; nat. deor., 2,154; sul piano specifico della ammissibilità di rapporti giuridici tra uomini e animali non umani si tengano presenti anche: fin., 3,20,67; nat. deor., 2,156-157. Sul tema si vedano: M. Voigt, Das ius naturale aequum et bonum und ius gentium der Römer, Leipzig 1856-1875 (rist., Aalen 1966); E. Costa, Cicerone giureconsulto, Bologna 1927 (rist. an., Roma 1964), I, 18 ss. e nt. 4.

 

[36] Cicerone, off., 1,17,54: Nam cum sit hoc natura commune animantium, ut habeant libidinem procreandi, prima societas in ipso coniugio est, proxima in liberis, deinde una domus, communia omnia; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae. Sulla nozione di societas in Cicerone, si veda G. Turelli, “Societas quam ingeneravit natura. Brevi considerazioni sul concetto di societas in Cicerone”, in Aa.Vv., Testi e problemi del giusnaturalismo romano (a cura di D. Mantovani-A. Schiavone), Pavia 2007, 163 ss.

 

[37] Cfr. S. Tafaro, “Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche”, in Aa.Vv., Rodzina I Społeczeństwo Wczoraj i dziś (red. F. Lempa-S. Tafaro), Białystok 2006, 23 ss., il quale si sofferma sul valore naturale della famiglia.

 

[38] Seneca, clem., 1,18,2: Servis ad statuam licet confugere! Cum in servum omnia liceant, est aliquid, quod in hominem licere commune ius animantium vetet. Cfr. A. Mantello, Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 33, 1991, 401; G. Giliberti, Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione cinico-stoica cit., 87 ss.

 

[39] Cfr. V. Goldschmidt, La doctrine d’Epicure et le droit, Paris 1977, 51 ss.

 

[40] Lucrezio, 5,866, da cui è tratta la traduzione di G. Lanata, “Antropocentrismo e cosmocentrismo nel pensiero antico” cit., 35.

 

[41] Virgilio, georg., 3,295-310; 3,394-408. Sul tema degli animali in Virgilio si veda S. Rocca, “Animali”, in Enc. Virgiliana, I, Roma 1984, 173 ss., con indicazione di ulteriore letteratura.

 

[42] Cfr. in tal senso S. Rocca, “Animali” cit., 173 ss., la quale osserva che il termine cura costituisce nel pensiero virgiliano una «parola guida»: si veda Virgilio, georg., 1,3; 3,124; 3,138; 3,157; 3,305; 3,319; 3,404.

 

[43] Virgilio, georg., 3,178; 3,232; 4,55-56.

 

[44] Per una analisi di questi aspetti connessi agli allevamenti di animali si veda per tutti G. Polara, Le venationes”. Fenomeno economico e costruzione giuridica, Milano 1983, 59 ss.

 

[45] Per i riferimenti alla bibliografia, vastissima, sul ius naturale, si rinvia a: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, 284 ss.; B. Biondi, Il Diritto romano cristiano, II. La giustizia-Le persone, Milano 1952, 4 ss.; A. Burdese, “Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica”, in Rivista italiana per le scienze giuridiche, 90, 1954, 407 ss.; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, Milano 1962; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1992, 323 ss.; M. Kaser, Ius gentium, Köln-Weimar-Wien 1993, 54 ss.; 98 ss.; M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia”, Torino 2000, 16 ss.; W. Waldstein, Saggi sul diritto non scritto (a cura di U. Vincenti), tr. it. di I. Fargnoli, Padova 2002, 207 ss.; Aa.Vv., Testi e problemi del giusnaturalismo romano cit., passim.

 

[46] Si veda P.P. Onida, “Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica”, in Aa.Vv., Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino Imperatore tra Oriente e Occidente (a cura di F. Sini-P.P. Onida), Torino 2003, 73 ss.

 

[47] D. 1,1,1,3 (Ulp. 1 inst.): Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est. Hinc descendit maris atque feminae coniunctio, quam nos matrimonium appellamus, hinc liberorum procreatio, hinc educatio: videmus etenim cetera quoque animalia, feras etiam istius iuris peritia censeri. Per alcuni precedenti della nozione ulpianea si vedano: G. Castelli, “Intorno a una fonte greca del fr. 1 del § 3 D. 1,1”, in Studi in onore di S. Perozzi, Palermo 1925, 53 ss. (=Id., Scritti giuridici [a cura di E. Albertario], Milano 1923, 199 ss.); A. Mantello, “Il sogno, la parola, il diritto. Appunti sulle concezioni giuridiche di Paolo” cit., 401 ss.

 

[48] Cfr. per tutti M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia” cit., 13 ss.

 

[49] Si deve soprattutto evitare di considerare assurda la tesi di un diritto comune a uomini e ad altri animali sulla base del fatto che Ulpiano sembra, in D. 9,1,1,3 (Ulp. 18 ad ed.), negare il possesso della razionalità agli animali non umani. Cfr. C. Longo, “Note critiche a proposito della tricotomia ius naturale, gentium, civile”, in Rendiconti del Reale Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 40 (1907), 633. Un riconoscimento del valore della enunciazione ulpianea si trova in F.C. von Savigny, Sistema del diritto romano attuale, tr. it. di V. Scialoja, I, Appendice I, Torino 1886, 409 ss.; C. Arnò, “Jus naturale”, in Atti e memorie della Reale Accademia delle Scienze di Modena, serie IV, I, 1926, 117 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano cit., 346; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, Torino 2001, 202; M.P. Baccari, Concetti ulpianei per il “diritto di famiglia” cit., 16 ss.; P. Catalano, “Diritto, soggetti, oggetti: un contributo alla pulizia concettuale sulla base di D. 1,1,12” cit., 116; P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., pp. 127 ss.; S. Tafaro, “Famiglia e matrimonio: le radici romanistiche” cit., 23 ss.; V. Marotta, “Iustitia, vera philosophia e natura. Una nota sulle Institutiones di Ulpiano”, in Aa.Vv., Testi e problemi del giusnaturalismo romano cit., 597 ss.

 

[50] Sulla nozione di sistema si veda: P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano cit., 37 nt. 75; Id., Diritto e persone cit., 96.

 

[51] D. 1,1,1,4 (Ulp. 1 inst.): Ius gentium est, quo gentes humanae utuntur. quod a naturali recedere facile intellegere licet, quia illud omnibus animalibus, hoc solis hominibus inter se commune sit.

 

[52] Sul concetto di pax deorum, si veda da ultimo, F. Sini, Diritto e pax deorum in Roma antica”, in Diritto @ Storia. Rivista internazionale di Scienze Giuridiche e Tradizione Romana, 5 (novembre 2006) consultabile sul sito: http://www.dirittoestoria.it/5/Memorie/Sini-Diritto-pax-deorum.htm .

 

[53] Sulla centralità del sacrificio a Roma si veda per tutti G. Dumézil, La religione romana arcaica, tr. it. di F. Jesi, Milano 1977, 476 ss. Per una analisi giuridica del sacrificio è ora fondamentale F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica cit., 177 ss.

 

[54] Porfirio, ad Aneb., 29; Giamblico, De myst. 3,13. Cfr. L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano, 4a ed., Napoli 1989, 54 ss.; Id., “Mondo tardoantico e formazione del ‘Diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9,16,1-2”, in Aa.Vv., Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, 178 ss.; L. Desanti, Sileat omnibus perpetuo divinandi curiositas. Indovini e sanzioni nel diritto romano, Milano 1990, 195 ss. nt. 52.

 

[55] CTh. 9,16,1 (cfr. C. 9,18,3); CTh. 9,16,2; CTh. 16,10,1, su cui P.P. Onida, “Il divieto dei sacrifici di animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica” cit., 104 ss.

 

[56] Inst. 1,1,2 pr. Si veda, a proposito della linea di continuità fra Virgilio, Marciano e Giustiniano, sia pure sul piano specifico delle res communes omnium, P. Catalano, “Giustiniano”, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, 762.

 

[57] Cicerone, inv., 1,32; rep., 3,19; nat. deor., 3,32; Seneca, epist., 58,9; Quintiliano, inst., 5,10,61; Varrone, ling., 9,113. Si vedano: A. Walde-J.B. Hoffmann, Lateinisches etymologisches wörterbuch, Heidelberg 1965, sv. animal, 49; A. Ernout-A. Meillet, v. Anima, in Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots, Paris 1985, 34.

 

[58] Cicerone, leg., 1,22; Seneca, epist., 41,8; Agostino, civ., 16,8.

 

[59] Lucrezio, 4,986; Cicerone, fin., 5,55; Sallustio, Catil., 1,1.

 

[60] Seneca, epist., 85,41; Columella, 9,1,1; Celso, med., 2,18.

 

[61] Ovidio, met., 15,120; Livio, 5,47,3; Celso, med., 2,18.

 

[62] Cicerone, nat. deor., 2,122; Seneca, epist., 85,8.

 

[63] Seneca, dial., 3,3,6; 4,8,3; 4,26,4; epist., 74,16,26; Columella, 9,9,1; Quintiliano, inst., 1,2,20; 5,11,34; Tacito, hist., 4,17.

 

[64] È il caso, ad esempio, di D. 50,16,124 (Proc. 2 epist.), ove il termine animal è impiegato per riconoscere indistintamente a tutti gli esseri animati la capacità di essere agente e paziente assieme. Si veda da ultimo A. Mantello, “Della disgiunzione nel pensiero di Proculo”, in Iuris vincula. Studi in onore di Mario Talamanca cit., 175 ss.

 

[65] Sull’instrumentum fundi si veda M.A. Ligios, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’instrumentum fundi tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C., Napoli 1996.

 

[66] D. 33,7,12,2 (Ulp. 20 ad Sab.): Alfenus autem, si quosdam ex hominibus aliis legaverit, ceteros, qui in fundo fuerunt, non contineri instrumento ait, quia nihil animalis instrumenti esse opinabatur: quod non est verum: constat enim eos, qui agri gratia ibi sunt, instrumento contineri.

 

[67] Si vedano: L. De Sarlo, Alfeno Varo e i suoi Digesta, Milano 1940, 47, il quale riconduce semplicemente il parere di Alfeno alla «repugnanza» da lui avvertita […] ad attribuire ad un essere animato funzione strumentale rispetto ad una cosa inanimata»; M.A. Ligios, Interpretazione giuridica e realtà economica dell’instrumentum fundi tra il I sec. a.C. e il III sec. d.C. cit., 38, che cita Aristotele, Pol., 1,8,1256b,15-20; H.J. Roth, Alfeni Digesta. Eine spatrepublikanische Juristenschrift, Berlin 1999, 34 ss.

 

[68] Gai. 1,48; 1.51; 2,13. Sulla condizione del servo, sotto il profilo della sua classificazione, si vedano per tutti: F. Goria, “Schiavi, sistematica delle persone e condizioni economico-sociali nel Principato” cit., 363 ss.; R. Quadrato, “La persona in Gaio. Il problema dello schiavo”, in Iura, 37, 1986, 1 ss.; Id., “‘Hominis appellatio’ e gerarchia dei sessi D. 50,16,152 (Gai. 10 ad l. Iul. et Pap.)”, in Bullettino dell’Istituto di Diritto Romano, 94-95, 1991-1992, 332 ss.

 

[69] D. 6,1,1,1 (Ulp. 16 ad ed.): Quae specialis in rem actio locum habet in omnibus rebus mobilibus, tam animalibus quam his quae anima carent, et in his quae solo continentur.

 

[70] D. 50,16,93 (Cels. 19 dig.): ‘Moventium’, item ‘mobilium’ appellatione idem significamus: si tamen apparet defunctum animalia dumtaxat, quia se ipsa moverent, moventia vocasse. Quod verum est.

 

[71] Cfr. B. Biondi, Successione testamentaria. Donazioni, Milano 1943, 335 ss.

 

[72] In altri casi l’accostamento fra il genus animale e quello più ampio delle res viene ottenuto attraverso il richiamo alla circolazione dei beni giuridici come in D. 26,7,56 (Scaev. 4 dig.).

 

[73] Sulla azione redibitoria, in tema di vendite di animali, si vedano: G. Impallomeni, Leditto degli edili curuli, Padova 1955, 76 ss.; L. Manna, Actio redhibitoria e responsabilità per i vizi della cosa nell’editto de mancipiis vendundis, Milano 1994, 39 ss.; L. Garofalo, Studi sull’azione redibitoria, Padova 2000, 5 ss.; N. Donadio, La tutela del compratore tra actiones aediliciae e actio empti, Milano 2004, 37 ss., 79 ss.

 

[74] D. 21,1,48,6 (Pomp. 23 ad Sab.): Non solum de mancipiis, sed de omni animali hae actiones competunt, ita ut etiam, si usum fructum in homine emerim, competere debeant.

 

[75] Sulla contiguità fra servo e animale non umano nella filosofia greca si vedano: P.A. Milani, La schiavitù nel pensiero politico. Dai Greci al basso Medio Evo, Milano 1972, 203 ss.; M. Vegetti, Il coltello e lo stilo cit., 123 ss.

 

[76] Gai. 2,14a-16.

 

[77] Sulla lex Aquilia, fra la letteratura più recente, si vedano: F.M. De Robertis, Damnum iniuria datum. Trattazione sulla responsabilità extra-contrattuale nel diritto romano con particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, Bari 2000, 15 ss.; M. Miglietta, Servus dolo occisus”. Contributo allo studio del concorso tra actio legis Aquiliae e iudicium ex lege Cornelia de sicariis, Torino 2001; M.F. Cursi, Iniuria cum damno. Antigiuridicità e colpevolezza nella storia del danno aquiliano, Milano 2002; F.M. De Robertis, Damnum iniuria datum. La responsabilità extra-contrattuale nel diritto romano; con particolare riguardo alla lex Aquilia de damno, II, Bari 2002; A. Corbino, Il danno qualificato e la lex Aquilia. Corso di diritto romano, Padova 2005.

 

[78] D. 9,2,2,2 (Gai. 7 ad ed. provinc.).

 

[79] Gai. 2,32: Sed cum ususfructus et hominum et ceterorum animalium constitui possit, intellegere debemus horum usumfructum etiam in provinciis per in iure cessionem constitui posse.

 

[80] Si vedano anche D. 35,2,30 pr. (Maec. 8 fideic.); D. 6,1,15,3 (Ulp. 16 ad ed.).

 

[81] Cfr. A. Walde-J.B. Hoffmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch cit., sv. bestia, 102; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine. Histoire des mots cit., sv. bestia, 69, che rileva le seguenti variazioni morfologiche: v. irl. piast, béist, britt. bwyst; trascrizione greca Bhst…aj; fr. biche; M.G. Bruno, Il lessico agricolo latino, 2a ed., Amsterdam 1969, 104.

 

[82] Cfr. Isidoro, Orig., 12,2,2; Isidoro, Diff., 1,248; Virgilio grammatico, epit., 14 p. 85,18 (Huemer); Agostino, gen. ad litt. imperf., 15,53; Agostino, gen ad litt., 3,11,16.

 

[83] D. 3,1,1,6 (Ulp. 6 ad ed.): [] Bestias autem accipere debemus ex feritate magis, quam ex animalis genere: nam quid si leo sit, sed mansuetus, vel alia dentata mansueta?

[84] Si osservi che da un lato, la feritas non viene necessariamente meno in un animale per il semplice fatto che esso viva in uno stato di cattività. Dall’altro non è sufficiente tenere conto delle sole caratteristiche di specie, poiché, ad esempio, con l’addomesticamento una fiera astrattamente dotata della feritas è divenuta invece mansueta. Si veda M. Talamanca, “Lo schema ‘genus-species’ nelle sistematiche dei giuristi romani”, Aa.Vv., in Colloquio italo-francese. La filosofia greca e il diritto romano. Roma 14-17 aprile 1973, II, Roma 1977, 270 nt. 734, il quale ritiene di potere ricondurre questa ipotesi al caso in cui genus è impiegato «per indicare un insieme, una classe che si situa all’interno di una categoria più ampia […]». L’espressione genus animalis in D. 3,1,1,6 andrebbe quindi intesa come un richiamo alla divisione negli e‡dh animali.

 

[85] D. 9,2,2,2 (Gai. 7 ad ed. provinc.): Ut igitur apparet, servis nostris exaequat quadrupedes, quae pecudum numero sunt et gregatim habentur, veluti oves caprae boves equi muli asini. Sed an sues pecudum appellatione continentur, quaeritur: et recte Labeoni placet contineri. Sed canis inter pecudes non est. Longe magis bestiae in eo numero non sunt, veluti ursi leones pantherae. Elefanti autem et cameli quasi mixti sunt (nam et iumentorum operam praestant et natura eorum fera est) et ideo primo capite contineri eas oportet.

 

[86] Se infatti nessun problema classificatorio si pone per animali quali oves, caprae, boves, equi, muli e asini, i problemi sorgono per i sues ed anche per i cani, sebbene Gaio non mostri alcun tentennamento nel richiamare la tesi di Labeone per i maiali o nell’affermare egli stesso che canis inter pecudes non est. Si veda J. Modrezejewski, “Ulpien et la nature des animaux”, in Aa.Vv., Colloquio italo-francese. La filosofia greca e il diritto romano. Roma 14-17 aprile 1973, I , Roma 1977, 186.

 

[87] Sempre in questa prospettiva si può fare riferimento a: Gai. 2,16: At ferae bestiae nec mancipi sunt, velut ursi leones, item ea animalia quae fere bestiarum numero sunt, velut elephanti et cameli, et ideo ad rem non pertinet, quod haec animalia etiam collo dorsove domari solent: nam ne nomen quidem eorum animalium illo tempore fuit, quo constituebatur quasdam res mancipi esse, quasdam nec mancipi. L’espressione animalia quae fere bestiarum numero sunt consente a Gaio di esprimere lo statuto sostanzialmente ambiguo degli animali esotici, i quali, anche se domati collo dorsove, mantengono un’affinità con le ferae bestiae. Per l’analisi della dottrina sugli animalia quae collo dorsove domantur si rinvia agli studi fondamentali di G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur”, in Iura, 18, 1967, 45 ss. (=Id., Silloge. Scritti 1956-1996, I, Catania 1998, 205 ss.); Id., “Il testo di Gai. 2.15 e la sua integrazione”, in Labeo, 14, 1968, 167 ss. (=Id., Silloge. Scritti 1956-1996 cit., 293 ss.). Si veda inoltre, con esame della letteratura, P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., 285 ss.

 

[88] In Ulp. 19,1 si impiega l’espressione quadrupedes quae dorso collove domantur; in Papiniano (Vat. Fr. 259) è invece utilizzata la variante pecora quae collo vel dorso domarentur.

 

[89] Come è noto Gai 2,14a indica fra le res mancipi quelli che erano i beni strumentali più importanti di una economia agro-pastorale: gli immobili (aedes e fundi) in suolo italico, i servi, gli animalia quae collo dorsove domantur, e le servitù rustiche.

 

[90] Gai. 2,15.

 

[91] Il riferimento è agli studi fondamentali sugli animalia quae collo dorsove domantur di G. Nicosia, “Animalia quae collo dorsove domantur” cit., 45 ss. (=Id., Silloge. Scritti 1956-1996 cit., 205 ss.); Id., “Il testo di Gai. 2.15 e la sua integrazione” cit., 167 ss. (=Id., Silloge. Scritti 1956-1996 cit., 293 ss.).

 

[92] Per l’analisi della letteratura si rinvia a P.P. Onida, Studi sulla condizione degli animali non umani nel sistema giuridico romano cit., 285 ss.

 

[93] La qualificazione delle res mancipi come res pretiosiores si trova in Gai. 1,192.

 

[94] Cfr. P. Bonfante, “Res mancipi e res nec mancipi”, Roma 1888-89 (=Id., “Forme primitive ed evoluzione della proprietà romana. [‘Res mancipi’ e ‘res nec mancipi’]”, in Id., Scritti giuridici varii, II. Proprietà e servitù, Torino 1926, 116 ss., da cui si cita); Id., Corso di diritto romano, II, La proprietà, parte I (rist. corretta a cura di G. Bonfante-G. Crifò), Milano 1966, 204; 216.

 

[95] Catone, agr., 70-73; 83; 131-132; Varrone, rust., 2,1,21-23; Columella, 6,4.

 

[96] Le fonti sono Catone, agr., 138; Columella, 2,21; Dionigi d’Alicarnasso, 1,33.

 

[97] Varrone, rust., 2,5,4; Columella, 4 praef. 7.

 

[98] Il temperamento propter nimiam feritatem, in Gai. 2,15, alla regola generale propugnata o almeno recepita dai Proculeiani, attraverso cui si classificava fra le res pretiosiores anche esemplari non effettivamente domati, quando essi avessero raggiunto l’eta in cui lo sarebbero dovuto essere, a causa anche del tenore assoluto dell’esordio della esposizione gaiana, sembra essere intervenuto in una epoca successiva a quella arcaica. D’altra parte l’espressione animalia quae collo dorsove domantur pare indicare non la mera possibilità che l’animale fosse sottoposto all’addestramento ma la sua concreta capacità di aiutare l’uomo nel lavoro.

 

[99] Cfr. in tal senso F. Gallo, Studi sulla distinzione fra res mancipi e res nec mancipi cit., 58.

 

[100] Ad esempio, permettendo una vendita cumulativa della mandria, attraverso la mancipatio simbolica di un unico capo per tutti gli altri, nell’ottica di un accostamento al grex e, quindi, ad un organismo unitario, di cui un solo esemplare poteva rappresentare il tutto. Tale ipotesi può trovare un sostegno testuale in Gai. 4,17, in cui si descrive la possibilità, in tema di legis actio sacramenti, di effettuare la rivendica, portando in iure eventualmente un unico capo o addirittura un ciuffo di lana. Oppure ancora, come si è anche sostenuto sulla base di alcuni passi di Varrone (rust., 2,6; 6,3; 7,6; 8,3) che sembrerebbero attestare la possibilità di alienare cavalli, asini e muli mediante semplice traditio, consentendo nella prassi dei mercati che il reale espletamento della mancipatio fosse sostituito dalla traditio, in modo che l’acquirente sarebbe poi stato tutelato mediante actio Publiciana ed exceptio rei venditae ac traditae. Cfr. A. Guarino, “Collo dorsove domantur”, in Labeo, 14, 1968, 227 ss. (=Id., Pagine di diritto romano, VI, Napoli 1995, 529 ss.). In tale ottica deve essere valutato il problema della esclusione degli elefanti e cammelli dal novero delle res mancipi. La spiegazione in Gai., 2,15, secondo cui, quando la classificazione ebbe origine, non si aveva la benché minima conoscenza degli animali esotici, non coglie tutta la realtà in quanto fa perno sulla tassatività del catalogo delle res mancipi. Le ragioni della mancata estensione della classificazione a nuovi beni sono invece da attribuire in larga parte alla decadenza delle res mancipi.

 

[101] Si vedano, ad esempio, con rinvii alla dottrina meno recente: C.M. Mazzoni, “I diritti degli animali: gli animali sono cose o soggetti del diritto”, in Aa.Vv., Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente (a cura di A. Mannucci-M. Tallacchini), Milano 2001, 111 ss.; F. Marinelli, “L’animale d’affezione”, in Aa.Vv., Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi danni (a cura di P. Cendon), III, Padova 2005, 1991 ss.

 

[102] Si veda, per esempio, G. Bolla-P. Piazza, “Animali”, in Noviss. Dig. it., I, Torino 1957, 627 ss.

 

[103] Si veda supra Parte I, Premesse metodologiche, ntt. 11 e 12.

 

[104] Cfr. G. Bolla, “Animali”, in Nuovo Dig. it., I, Torino 1937, 627 ss.

 

[105] Cfr. V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti cit., 73 ss.

 

[106] A proposito del rapporto tra proprietà e relazioni affettive con riferimento agli animali non umani si vedano però: S. Castignone, “Il ‘diritto all’affetto’”, in Aa.Vv., Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente cit., 121 ss.; P. Zatti, “La compagnia dell’animale”, in Aa.Vv., Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi danni cit., 2024 ss.

 

[107] Si veda Aa.Vv., Il meritevole di tutela (a cura di L. Lombardi Vallauri), Milano 1990.

 

[108] Sull’art. 727 c.p., per un quadro di insieme, si vedano: D. Pástina, “Animali”, in Enc. dir., II, Milano 1958, 433 ss.; A. Cosseddu, “Maltrattamento di animali”, in Dig. disc. pen., 4ª ed., VII, Torino 1993, 3 ss.; Ead., “Maltrattamento di animali”, in Dig. disc. pen., 4ª ed., Aggiornamento, Torino 2000, 441 ss.; A. Galione-S. Maccioni, “L’abbandono ed il maltrattamento degli animali”, in Aa.Vv., Il diritto delle relazioni affettive. Nuove responsabilità e nuovi danni cit., 2029 ss.

 

[109] Per la tutela, però, degli animali selvatici si veda A. Venchiaruti, “Animali selvatici”, in Dig. disc. priv., Sez. civ., I, Torino 1987, 329 ss.

 

[110] Le disposizioni del Codice Zanardelli e del Codice Rocco riprendevano a loro volta norme del Codice del Granducato di Toscana del 1856 e del Codice Sardo del 1859, che erano volte però a sanzionare il comportamento di chi incrudeliva nei confronti dei soli animali domestici.

 

[111] Cfr. E. Balocchi, “Animali (protezione degli)”, in Enc. giur. Treccani, II, Roma 1988, 2 ss.

 

[112] La visione dell’animale come cosa, nel diritto penale, deve essere integrata con la lettura dell’art. 638 c.p., in cui è sanzionata la uccisione o il danneggiamento di animale altrui. Si tratta di una disposizione collocata nell’ambito dei delitti contro il patrimonio.

 

[113] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, parte speciale, I, Milano 2002, 588.

 

[114] F. Coppi, “Maltrattamento e malgoverno degli animali”, in Enc. dir., XXV, Milano 1975, 266 ss.

 

[115] Cfr. A. Cosseddu, “Maltrattamento di animali” cit., 3 ss.

 

[116] Si veda la sentenza a firma di M. Santoloci, Pretura Amelia, 7 gennaio 1987, pubblicata in Riv. pen., febbraio 1988, in cui si legge che «la norma deve intendersi anche come diretta a tutelare gli animali da forme di maltrattamento ed uccisioni gratuite in quanto esseri viventi capaci di reagire agli stimoli del dolore», su cui M. Santoloci, “L’art. 727 del codice penale nell’attuale posizionamento giuridico e sociale”, in Aa.Vv., Per un codice degli animali. Commenti sulla normativa vigente cit., 52 ss.

 

[117] Cito da M. Santoloci, “L’art. 727 del codice penale nell’attuale posizionamento giuridico e sociale” cit., 53.

 

[118] Cfr., per questi rilievi, V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti cit., 111 ss.

 

[119] Art. 2 commi 2 e 3.

 

[120] Art. 2 comma 6. Per un quadro generale dei problemi etici e giuridici legati alla eutanasia degli animali non umani, si veda Aa.Vv., L’uccisione degli animali. Eutanasia. Strumenti per l’analisi morale (a cura di P. Sartori-L. Canavacci), Torino 2001.

 

[121] All’interno del titolo IX-bis nel libro II.

 

[122] Sul punto si veda F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 181 ss.

 

[123] Si consideri in questo senso anche la Legge n. 413 del 1993, che prevede la «obiezione di coscienza alla sperimentazione animale».

 

[124] Per una rassegna della disciplina di tali eventi si veda F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 231 ss.

 

[125] Cfr. V. Pocar, Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti cit., 84 ss.

 

[126] Sulla macellazione degli animali, da ultimo, si veda Aa.Vv., La macellazione. L’uccisione degli animali a scopo alimentare (a cura di G. Giovagnoli), Torino 2003.

 

[127] Così E. Balocchi, “Animali (protezione degli)” cit., 2.

 

[128] F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 262 ss.

 

[129] F. Rescigno, I diritti degli animali. Da res a soggetti cit., 277.