ds_gen N. 8 – 2009 – Contributi

 

Capograssi, Kelsen e il nichilismo giuridico. Aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica

 

Giovanni Bianco

Università di Sassari

 

Sommario: 1. Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” del Capograssi. – 2. La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come esperienza”. – 3. Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico”(ontologico).

 

 

1. – Le “Impressioni su Kelsen tradotto” come critica all’astratto formalismo giuridico kelseniano e alla teoria del diritto come “forza e forma”. La “pars destruens” del Capograssi

 

Giuseppe Capograssi scrisse le “Impressioni su Kelsen tradotto” nel 1952[1], poco dopo la traduzione della “Teoria generale del diritto e dello Stato” di Hans Kelsen, a cura di Sergio Cotta e di Giuseppino Treves, edita nel 1952 dalle Edizioni di Comunità[2].

Si tratta di un saggio denso, in cui la prosa capograssiana e la sua “cifra stilistica” è, per dirla con Pietro Piovani, «mossa, libera, sinuosa, andante»[3] come sempre, ma particolarmente severa, austera, critica, propositiva, concettualizzante, come dappresso noteremo, sia nella “pars destruens” che nella “pars costruens” dello scritto.

La “pars destruens” è chiara e persuasiva. La dottrina kelseniana dello Stato e del diritto si pone fuori i reali problemi della scienza giuridica: «ed una prima immediata impressione ha il lettore, e deve subito dirla, una impressione singolare di riposo. Sarebbe così bello se uno potesse accettare questo pensiero! Come si capisce il successo che ebbe quando nacque, in un’epoca e in un mondo, che ci è ormai così lontano e che era così facile ad accogliere ogni genere di illusioni! Qui non ci sono più problemi. Come per un’operazione di magia i problemi sono spariti. Non ci sono più disordini, incertezze, incoerenze, nel pensiero e nella realtà: ogni cosa è sistemata ordinata disegnata in una specie di piano regolatore, che smista e distribuisce tutto in compartimenti separati. Se uno potesse accettare! Con tanto più impegno di attenzione il lettore è indotto a leggere»[4].

Il diritto come concepito e teorizzato dal Kelsen è una scienza esangue. Lo notava pure Antonio Pigliaru, in “Persona umana ed ordinamento giuridico”, del 1953, richiamando proprio in nota il pensiero capograssiano testè citato[5].

E’ un diritto scisso dall’essere e dalla storia, fondato su un’astratta idea di “Sollen”, di “dover essere”, contrapposta al “Sein”, all’“essere”, entro una rigida separazione, che Kelsen svolge nell’opera surriferita[6], ma anche in altri scritti, tra “scienze dello Spirito” e “scienze della Natura”.

Si tratta di un’idea di scienza giuridica totalmente formalistica, fondata sulla “norma giuridica”, monade, essenza, fondamento del sistema kelseniano[7].

Il diritto per Kelsen è «un ordinamento coercitivo»[8] basato sulla “validità”, cioè la “forza vincolante”, e sull’ “efficacia”, cioè l’effettiva applicazione delle norme giuridiche[9].

L’ordinamento giuridico, in questa concezione, è un sistema di «norme generali ed individuali», connesse fra loro in base «al principio che il diritto regola la propria creazione»[10].

Lo Stato, il “potere” dello Stato, i “tre poteri” dello Stato, gli “elementi” dello Stato, sono soltanto “stadi diversi” “nella creazione” dell’ordinamento giuridico[11].

Così come, in questa intelaiatura teoretica, per Kelsen quelle che per lui sono le due fondamentali forme di governo, “democrazia ed autocrazia”, «sono modi diversi di creare l’ordinamento giuridico»[12].

Lo Stato, entro una simile ed asfittica concezione, è un ordinamento giuridico espressione di norme giuridiche valide ed efficaci, collocate in un «sistema giuridico gerarchico», in cui ogni norma trae il fondamento della sua validità dalla norma gerarchicamente superiore e la stessa Costituzione è ridotta a «norma sulla normazione»[13], sulle procedure di formazione della legge.

Capograssi nota opportunamente che lo Stato kelseniano è, altresì, «un ordinamento relativamente accentrato», a differenza dell’ordinamento internazionale «più decentrato»[14].

Un ordinamento che produce diritto e da cui deriva quella che Kelsen chiama «giurisprudenza normativa»[15], che coincide con un «sistema di norme valide», che è l’unico sistema che deve riguardare l’indagine del giurista.

Capograssi osserva, inoltre, che in Kelsen «il diritto in senso sociologico», che descrive «l’effettivo comportamento umano che rappresenta il fenomeno del diritto» e cerca «di predire l’attività degli organi creatori del diritto e specialmente quella dei Tribunali» e lo «Stato in senso sociologico»[16], riguardano la sfera dell’ “efficacia del diritto”, delle norme, e sono condizionati dal “diritto normativo”, così come quest’ultimo concerne la sfera della “validità delle norme” e condiziona la scienza sociologica del diritto.

Ma “scienza delle norme” e “scienza dei fatti” sono scisse, ciascuna vive di vita propria, sono parallele e non interferenti, sempre rigorosamente distinte ed eterogenee.

Capograssi scrive con pungente ironia che «in questi due mondi così puri l’uno e l’altro, lo scienziato si muove con la libera facilità con cui l’uccello vola nell’aria»[17].

Di conseguenza, la “giurisprudenza normativa” non si interseca mai con la “giurisprudenza sociologica”, il diritto come “tecnica della sanzione” ed “ordinamento coercitivo” può “rivestire qualsiasi contenuto”, in una concezione del “dover essere giuridico” assolutamente formalista, che, scrive Capograssi, «non ha nemmeno per così dire il contenuto di sé stessa come dover essere, perché questo dover essere non ha nulla del dovere»[18].

E afferma altresì l’insigne autore, citando il Bobbio e comparando la teoria generale del Kelsen a quella del Carnelutti, che se la teoria generale è “teoria generale del diritto positivo”, sicuramente quella del Carnelutti, a differenza di quella del Kelsen, è relativa «alla vita stessa della realtà giuridica», perché muove dalla nozione di diritto «come composizione di conflitti di interesse»[19].

La teoria generale del Kelsen è astratta e resta sulla «superficie della norma e della vita», perché il sistema gerarchico di «norme valide» trae il suo fondamento da «una norma non da un fatto»[20], da una «norma fondamentale», una “Grundnorm”, «presupposta ed ipotetica», ricavata con procedimento interpretativo dall’operatore del diritto. Quest’ultima pone «una data autorità», «non si fonda su nessuna norma»[21], «è valida» «in virtù del suo contenuto» e non «perché è stata creata in un certo modo», «al pari di una norma di diritto naturale, a prescindere dalla sua validità puramente ipotetica», ed il suo contenuto è «il fatto storico particolare qualificato dalla norma fondamentale come il primo fatto produttivo del diritto»[22].

La norma fondamentale cioè «significa in un certo senso, la trasformazione del potere in diritto».

Capograssi scrive con acutezza che «la perfetta separazione della forma dal contenuto, la perfetta indifferenza della forma da qualsiasi contenuto, che è la base di tutto questo sistema, non vale per la norma fondamentale, che da validità a tutte le norme, che si caratterizzano proprio perché il contenuto è per esse indifferente…perché è proprio il contenuto a dare qui validità alla norma fondamentale»[23].

L’«identificazione perfetta» tra diritto e Stato, inoltre, fondata sulla “Grundnorm” e “l’esteriorità” del diritto, osserva il Nostro, deriva da una concezione del diritto «come forza», come «diritto naturale della forza»[24]. E’sistema di «norme sanzionatorie» che, formalmente, sono «un aliquid di stabile di fronte al perpetuo oscillare della forza»[25], ma la cui validità è “emanazione” di una “norma fondamentale”, la quale trae il proprio contenuto dall’ «evento di forza che si è assicurato il potere vale a dire il diritto di riempire le forme vuote delle norme».[26]

Questo è il «residuo giusnaturalistico kelseniano»: il «diritto naturale della forza» che fonda il diritto positivo statale. La prosa capograssiana sul punto è vibrante, incisiva: «qui il diritto è forza organizzata, cioè forza e forma; la forza sostiene e riempie la forma, la forma riveste la forza»[27].

La “pars destruens” del saggio in esame giunge al suo acme con una metafora corrosiva: «la rappresentazione del diritto che è in questo libro…richiama la visione di quegli spettri di città e paesi, che i bombardamenti avevano demolito in modo che erano rimasti in piedi muri e travi: non c’era più nulla tranne quel tragico scheletro di case nude e vuote, terribili sotto la luna», «ma che si sarebbe detto di uno di noi che avesse preso quei “cadavera urbium” per città viventi, per le case dove gli uomini vivono? Ci sarebbe stato errore pari a questo? E così accade per il diritto, come è esposto in questo libro»[28].

Il diritto è, in definitiva, confuso dal Kelsen per «eventi di forza», «dispositivi di sanzioni», «sistemi coercitivi».

 

 

2. – La “pars costruens” capograssiana ed il richiamo al pensiero del Vico ed alla concezione del “diritto come esperienza”

 

La “pars costruens” dello scritto oggetto delle presenti considerazioni richiama, con riferimenti sintetici ma convincenti, il pensiero del Vico, sempre presente nella riflessione del Capograssi, la storia e lo storicismo, la nozione di esperienza.

Capograssi indica come prioritaria la necessità «di non mutilare l’oggetto della scienza del diritto, cioè l’esperienza», «riducendola tutta al cosiddetto valore o alla cosiddetta forma o alla cosiddetta forza», alla «nuda forza» e alla «vuota forma»[29]; la «necessità di vedere l’oggetto, cioè l’esperienza, nella sua integralità vivente, nella sua natura, cioè vichianamente nel modo di nascere perenne e quotidiano del diritto come vita e come esperienza, e quindi con tutto quello per cui nasce, per cui si afferma, per cui si concreta in forme concrete nella realtà»[30].

Al riguardo si accennano idee di grande importanza che hanno più ampi sviluppi nell’opera principale del Nostro, “Il problema della scienza del diritto”: la possibilità della conoscenza della realtà e del diritto si compie «nella comune coscienza umana di colui che osserva e conosce e di colui che opera nella realtà che è osservata e conosciuta. In quanto chi osserva partecipa della stessa vita, degli stessi principi, delle stesse esigenze di chi opera, è il segreto per cui chi osserva riesce a rendersi conto di quello che fa colui che opera»[31].

Ne “Il problema della scienza del diritto” si legge, infatti, ad esempio, che «con tutto il suo lavoro l’intelletto riflesso che si pone come scienza viene faticosamente e lentamente , perché fa il suo cammino momento per momento e tappa per tappa, scoprendo quella che è l’idea viva del diritto, la viene scoprendo traverso tutte le forme concrete e particolari dell’esperienza che essa forma»[32].

E «l’idea viva del diritto» si forma come «parte essenziale dell’esperienza», «momento e parte della vita stessa dell’esperienza» che «conosce sé stessa nella sua effettiva e determinata puntualità e riesce a conservare la realtà di sé stessa nelle sue molteplici e puntuali determinazioni»[33].

Capograssi, inoltre, soffermandosi ulteriormente sull’opera del Kelsen richiama anche «la grande verità vichiana che il mondo storico lo conosciamo perché lo facciamo…»[34]; richiama il monito, proprio del Vico, di non «mettersi fuori dall’umanità…»[35]. E rileva che «se uno si mette al mondo supponendolo già compiuto…e quindi estraneo all’osservatore, necessariamente l’integralità dell’esperienza gli sfugge»[36].

In tal modo l’insigne autore coglie, dunque, il punto di maggiore fragilità dell’impianto teorico del Kelsen, cioè la netta, irriducibile, incolmabile separazione tra la “norma giuridica” e la “coscienza dell’individuo”, tra l’ “oggetto” ed il “soggetto”, tra la «norma estrinseca al soggetto e il soggetto estrinseco alla norma»[37].

La “pars costruens” capograssiana ruota, quindi, intorno al concetto di «unità in perenne movimento che è tutta la natura dell’oggetto» del diritto[38], «l’esperienza nella sua vivente umana unità» che è “falsata” (perché l’ “oggetto” è falsato) dai presupposti e dai postulati della teoria generale del diritto e dello Stato di Hans Kelsen[39].

E l’illustre autore, perciò, individua la «positività del diritto» come «coerenza intrinseca al processo di vita», «coerenza interna e vitale», e non «coerenza formale e artificiale», delle «determinazioni della vita giuridica», che «vivono nel concreto»[40], ricordando un’opera in tal senso significativa, gli “Orientamenti sui principi generali del diritto” del civilista Antonio Cicu.

 

 

3. – Sull’attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi e su alcuni aspetti significativi dell’attuale crisi della scienza giuridica alla luce di recenti saggi monografici sull’argomento. Per una critica del “nichilismo giuridico” (ontologico)

 

Perché è attuale la critica capograssiana al formalismo giuridico kelseniano?

Perché nell’ “ambiguità del diritto contemporaneo”, per riprendere il titolo di un notissimo saggio del grande pensatore abruzzese, del 1953 [41], si parla di frequente di “crisi”, con ciò indicando, per riprendere il linguaggio dello stesso Capograssi, «una situazione che non vorremmo», «un elemento di disapprovazione» ed «un elemento di speranza», il richiamo di una «situazione passata» o «pensata», «che crediamo migliore, vale a dire che preferiremmo»[42].

Ora, tra gli autori che hanno approfondito gli aspetti dell’attuale crisi della scienza giuridica sono di notevole importanza, a parere dello scrivente, tre saggi monografici, il “Diritto senza società” di Pietro Barcellona[43], il “Nichilismo giuridico” (e la più recente opera dello stesso autore, “Il salvagente della forma”) di Natalino Irti[44] ed “Il diritto e il suo limite” di Stefano Rodotà[45].

Ritengo che la sfida più radicale ed invasiva[46], tra le teorie sviluppate in questi saggi, sia quella del “nichilismo giuridico” ( più precisamente del “nichilismo giuridico ontologico”, riprendendo la ricostruzione di una recente monografia di Mario Barcellona, “Critica del nichilismo giuridico”[47], che lo distingue dal “nichilismo giuridico cognitivo” nordamericano) e quest’idea è affermata dall’angolo visuale di chi cerca, come lo stesso Rodotà si propone con lucidità[48], risposte alternative al nichilismo.

Il nichilismo, senza voler entrare nel merito di tutti i suoi significati[49], secondo il filosofo Emanale Severino ed il giurista Natalino Irti, significa, in un senso specifico al diritto ed alla tecnica economica, «ricavare le cose dal niente» e «riportarle al niente»[50]. Franco Volpi scrive che esso è «la situazione di disorientamento che subentra una volta che sono venuti meno i riferimenti tradizionali, cioè gli ideali e i valori che rappresentavano la risposta al “perché”e che come tali illuminavano l’agire dell’uomo»[51]; Friedrich Nietzsche ne parlava come «il più inquietante tra tutti gli ospiti»[52].

Sul punto penso al “Dialogo su diritto e tecnica”, scritto in più atti dai due stessi importanti autori surrichiamati, Irti e Severino, in cui l’Irti afferma che «l’unica superstite razionalità riguarda il funzionamento delle procedure generatrici di norme», «la validità non discende più da un contenuto, che sorregga e giustifichi la norma, ma dall’osservanza delle procedure proprie di ciascun ordinamento»[53] ed il Severino ritiene che «la tecnica è destinata a diventare principio ordinatore di ogni materia, la volontà che regola ogni altra volontà»[54], «la “capacità” della tecnica è la potenza effettiva (“potenza attiva” nel linguaggio aristotelico) di realizzare indefinitamente scopi e di soddisfare indefinitamente bisogni»[55].

L’idea di sistema giuridico unitario e di diritto statale «portatore di valori», in un simile orizzonte, è ormai destinato al declino irreversibile, sul viale tramonto.

Il diritto della globalizzazione, e questo è il “topos” di crisi più acuta, porta alle estreme conseguenze quella scissione tra “liberalismo” e “liberismo” che Benedetto Croce già tracciava negli anni trenta[56].

Lo stesso Irti scrive che «la tecno-economia non conosce differenze soggettive ma soltanto variazioni di quantità»[57].

Il “diritto globale”, come nota un altro grande giurista, Francesco Galgano, fondato sul principio di effettività e non su quello di legalità, è pienamente funzionale all’ “idea di produzione” che viene dall’economia e, come scrive l’Irti, «caratterizza l’economia globale»[58], i cui spazi sono fluidi e sottratti al controllo giuridico e politico degli Stati nazionali sovrani.

E’ in crisi, come opportunamente pone in risalto lo stesso insigne autore ne “Le categorie giuridiche della globalizzazione”, il «dove del diritto», il «dove applicativo», il «dove esecutivo» delle norme, «l’intrinseca ed originaria spazialità del diritto», l’idea di “confine” consustanziale allo Stato nazionale moderno che si afferma con il capitalismo mercantile[59].

Non solo: i ritmi produttivistici della tecnica e della sua volontà di potenza, posti in evidenza e criticati, pur se ritenuti ineluttabili da Emanuele Severino[60], secondo lo stesso Irti «producono un vorticoso succedersi di norme giuridiche…» che «attesta la “nientità” del diritto, i canali delle procedure- questi che potremmo chiamare nomo-dotti, poiché conducono le volontà dalla proposizione alla posizione di norme - sono pronti a ricevere qualsiasi contenuto.Ogni ipotesi può scorrere in essi: la disponibilità ad accogliere qualsiasi contenuto è indifferenza verso tutti i contenuti…»[61].

Per cui, l’attuale crisi del diritto, «nella postmodernità giuridica», è «l’indifferenza contenutistica” che “sospinge verso il culto della forma” e costituisce perciò realizzazione ed inveramento dello “Stufenbau” kelseniano, “capace di tradurre in norma qualsiasi contenuto” (“la Grundnorm di Kelsen – che Severino definirebbe “logos ipotetico”- spiega la validità di qualsiasi ordinamento»[62], è il trionfo del vuoto formalismo giuspositivista che «si svela nelle procedure produttive di norme», nella razionalità tecnica e nell’«autosufficienza della volontà normativa».

Al riguardo si deve porre l’accento su un altro notevole autore, di diversa formazione culturale, il filosofo marxista Galvano Della Volpe, che in un saggio dal titolo emblematico, “Antikelsen”, contenuto nel suo volume “Critica dell’ideologia contemporanea”[63], individuava i limiti propri della dottrina del diritto e dello Stato del Maestro di Praga, del Kelsen, proprio riferendosi ad una concezione meramente formale, raffinata e colta espressione di un’idea borghese del diritto, della democrazia e dell’eguaglianza. Ma sono altrettanto importanti le profonde ed intelligenti critiche di Nicola Abbagnano, che ha giustamente parlato del formalismo giuridico nei termini di una dottrina adattabile a qualsiasi regime politico e quindi sprovvista di sostanza, di contenuti[64].

Per tornare all’analisi di alcuni rilevanti aspetti dell’attuale crisi della scienza del diritto, “nichilismo e formalismo” sono i due aspetti pregnanti di un diritto “tecnico”, “autoreferenziale”[65], “senza società”, come scrive Pietro Barcellona[66] realizzazione anche, secondo quest’ultimo autore, delle distorsioni della teoria sistemica di Luhmann[67].

Rodotà nella sua opera summenzionata scrive che «il diritto deve misurarsi con una tecnica di cui è stata da tempo esaltata l’irresistibile potenza, la continua produzione di fini, alla quale sarebbe ormai divenuto impossibile opporsi. Così la tecnica annichilirebbe il diritto, condannato ormai ad una umile funzione servente. Ma questa è una profezia destinata a realizzarsi solo se la politica diviene progressivamente prigioniera di una logica che la induce a delegare alla tecnologia una serie crescente di problemi…e se il diritto, seguendola in questa deriva, accettasse un’espulsione da sé di valori e scopi, determinado quella che Michel Villey ha chiamato una “mutilazione del diritto per ablazione della sua causa finale”»[68].

Per cui viene da chiedersi, in termini comunque molto problematici, se è possibile individuare una via d’uscita al declino dei sistemi giuridici e della certezza del diritto, alla “crisi di razionalità”, per riprendere Habermas, delle società capitalistiche postmoderne, all’oscuramento dei contenuti essenziali degli ordinamenti giuridici democratici, tra cui rientrano, anzitutto, i diritti fondamentali (lo stesso Rodotà ritiene altresì che «la ricostruzione di un fine del diritto intorno ai diritti fondamentali si presenta così come una guida quotidiana, come un test permanente al quale sottoporre anzitutto le scelte giuridicamente rilevanti. E’un impegnativo programma, che mette alla prova politica e diritto. La politica, considerata non più nell’area dell’onnipotenza, ma del rispetto. Il diritto, non più vuoto di fini, ma strettamente vincolato a un sistema di valori, dunque in grado di offrire una guida pur per le scelte tecnologiche»)[69].

Insomma: qual è oggi lo scopo del diritto?[70] Ed in che senso l’antikelsenismo vichiano e personalista di Capograssi[71] è attuale e può costituire, “storicizzato” ed adeguato al “presente storico”, una chiave di lettura delle asimmetrie e degli scompensi dei sistemi giuridici vigenti e degli attuali “usi sociali del diritto”?[72]

La critica capograssiana al formalismo costituisce un richiamo al presente. Essa rappresenta una delle più significative alternative teoriche agli esiti del nichilismo formalista; essa, per riprendere le parole del Maestro che ricordiamo, è «sforzo per costruire la storia», per «realizzare la vita nei suoi termini di attualità», e quindi il diritto «nella profonda vita delle sue determinazioni positive»[73]; anche perché il diritto, come scriveva un altro importante giurista, Salvatore Satta, è «dover essere dell’essere» e non «dover essere» contrapposto all’«essere»[74], “Sollen” staccato dal “Sein”.

Capograssi ne “L’ambiguità del diritto”[75] propone delle conclusioni dense di speranza, affermando che «quest’epoca…pur muovendosi in un macrocosmo di dimensioni così gigantesche…non fa che mettere al centro di questo mondo e delle sue creazioni niente altro che l’uomo». Ed esse possono essere un’alternativa alla “nientità” del diritto globale contemporaneo ed al liberismo tecnicistico, produttivistico e massificante; al trionfo dell’ «Apparato tecnocratico», di cui parla Severino ne “La filosofia futura”[76], che quasi lascia presagire la «fine della storia» e del «divenire storico» come «farsi dell’esperienza umana» e, per riprendere Jhering, della “lotta per il diritto”[77].

 

 



 

[1] Il presente testo riprende, nelle linee essenziali, la relazione presentata al Convegno di studi internazionale sull’ “Attualità del pensiero di Giuseppe Capograssi”, tenutosi a Sassari tra il 16 ed il 18 novembre 2006, i cui atti sono in corso di pubblicazione con la casa editrice “Il Mulino”.

V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, in “Rivista trimestrale di diritto pubblico”,1952/4, 767-810, ora in Id., Opere, Milano, 1959, V, 313-356.

 

[2] V. H.Kelsen, General theory of law and State (1945), Teoria generale del diritto e dello Stato, tr. it., a cura di S. Cotta e G. Treves, Milano, 1952.

 

[3] V. P. Piovani, Introduzione a G.Capograssi, Il problema della scienza del diritto, Milano, 1962, VIII.

 

[4] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 314. Per una differente concezione del diritto critica verso il formalismo gradualista di Hans Kelsen v. G.Winkler, Teoria del diritto e dottrina della conoscenza.Per una critica della dottrina pura del diritto (1990), tr. it. di A. Carrino, Napoli, 1994, 249 (ove è scritto che «la dottrina pura e generale di Kelsen è stata…, sin dall’inizio, nelle sue premesse epistemologiche e gnoseologiche, priva di fondamenta solide…»); 189 (pagina in cui si afferma che «la dottrina pura del diritto di Kelsen si impiglia inevitabilmente in molteplici dilemmi. Un aspetto di questi dilemmi risiede nel tipo di determinazione dell’oggetto, un altro nella concezione della scienza. Un altro ancora nella ipostatizzazione di un orientamento metodologico che deifica il concetto teoretico del diritto, lo interpreta nel senso della logica formale, lo deforma e lo priva al tempo stesso del suo oggetto empirico»).

 

[5] V. A. Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, Milano, 1953, 98. Su quest’opera v. G. Bianco, Prefazione ad Antonio Pigliaru, Persona umana ed ordinamento giuridico, in “Diritto @ storia”, n. 5, 2006 = http://www.dirittoestoria.it/5/Contributi/Bianco-Pigliaru-persona-umana-ordinamento-giuridico.htm  ed in A. Pigliaru, op.ult.cit., Nuoro, 2008.

 

[6] V. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Milano, 1984, 35, 121,399.

 

[7] v. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 30 ss., 111 ss., 125ss.

 

[8] v. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 18 ss.

 

[9] v. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 29 ss., 123.

 

[10] v. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 111ss. e G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 316-317.

 

[11] v. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 274 ss.

 

[12] v. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 288 ss.

 

[13] v.H.Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op.cit., 126 ss. Peraltro Kelsen sull’argomento introduce una sua distinzione tra “Costituzione formale” e “Costituzione materiale” specificando che «presupposta la norma fondamentale, la costituzione rappresenta il più alto grado del diritto statale. La costituzione è qui intesa non già in senso formale, bensì in senso materiale. La costituzione in senso formale è un dato documento solenne, un insieme di norme giuridiche che possono venir modificate soltanto se si osservano speciali prescrizioni, la cui funzione è di rendere più difficile la modificazione di tali norme. La costituzione in senso materiale consiste in quelle norme che regolano la creazione delle norme giuridiche generali, ed in particolare la creazione delle leggi formali». Questa distinzione è, ovviamente, eterogenea rispetto al dualismo “Costituzione formale-Costituzione materiale” proposta dai “realisti”, in particolare da Costantino Mortati, Carl Schmitt, Giuseppe Guarino, peraltro con connotazioni peculiari in ciascuno degli autori richiamati. V. in argomento G. Bianco, Quel che resta della Costituzione materiale (tra congetture e confutazioni), in “La Costituzione materiale. Percorsi culturali e attualità di un’idea”, a cura di A. Catelani e S. Labriola, Milano, 2001, 487-502.

 

[14] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 315.

 

[15] V. H. Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, op. cit., 165 ss.

 

[16] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 318.

 

[17] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 319.

 

[18] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 320.

 

[19] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 327, nt. 1.

 

[20] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322.

 

[21] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 322.

 

[22] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328.

 

[23] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 328-329.

 

[24] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 331.

 

[25] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332.

 

[26] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 332.

 

[27] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 333. Ed il nostro aggiunge nella stessa pagina, con il consueto tono intelligente ed appassionato, che «concepito il diritto come forza e come forma, è evidente che l’ordinamento giuridico ha una doppia faccia, la forza, cioè l’efficacia, la forma, cioè la validità. La seconda dipende dalla prima ed è condizionata dalla prima; la prima finchè dura si esprime nella seconda; la validità è l’espressione formale dell’efficacia, e l’efficacia è la realtà sostanziale della validità. Per questo i due diritti in senso normativo e in senso sociologico si rispecchiano e vanno di conserva: sono due facce dello stesso fatto»(p. 333).

Dappresso è scritto che «la forza è il principio del diritto; gli interessi, le passioni, le ideologie sono il contenuto; e la forma è la norma come puro dispositivo della sanzione, e l’ordinamento che è il sistema delle norme valide fondato sull’evento di forza che costituisce il contenuto della norma fondamentale. Si può dire, può non chiamare nuda, perché non ha in sé nulla di razionale: forza nuda dall’esterno, poiché s’impone per qualsiasi via e vince se è legittimata, forza nuda dall’interno di sé stessa, perché non è altro che il (preteso) fondo irrazionale e cieco dell’azione umana. Rare volte la concezione del diritto come nuda forza è stata espressa e svolta con più riuscita e più completa coerenza sia in sé sia nel suo naturale esplicarsi e compiersi nelle forme vuote delle norme. Abbiamo qui nella forma più razionale e perfetta il diritto naturale della forza e la sua dogmatica»(p. 335).

 

[28] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 347.

 

[29] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353 e 351.

 

[30] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353.

 

[31] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 353.

 

[32] v. G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto (1937), Milano, 1962 (con introduzione di Pietro Piovani), 181.

 

[33] v. G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 181.

 

[34] v. G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto, op.cit., 353.

 

[35] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354.

 

[36] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354.

 

[37] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 354.

 

[38] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355.

 

[39] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op.cit., 355.

 

[40] V. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356. Molto intense e particolarmente significative sono le vivaci conclusioni del saggio in considerazione: «Quello che è essenziale è questo riportare a questa unità vivente, a questa coerenza intrinseca al processo di vita, proprio le profonde esigenze e funzioni per cui il diritto costituisce un interesse formativo della vita; quel cogliere dall’interno e come componente il diritto tutta la sostanza etica del fenomeno giuridico. Qui il giurista è non il tecnico che fa uno sforza di costruzione puramente formale, per raggiungere una coerenza puramente formale, ma l’uomo, proprio l’uomo nell’alto senso della parola, che cerca di cogliere il diritto nella profonda vita delle sue determinazioni positive e nelle profonde e immutabili connessioni, con i principi e le esigenze costitutive della vita e della coscienza. Qui il giurista è proprio il collaboratore della vita, il collaboratore indispensabile del segreto processo traverso il quale la vita concreta si trasforma in esperienza giuridica, e l’umanità del mondo della storia viene perpetuamente difesa contro la barbarie sempre presente e sempre immanente della forza. E se non è questo, che cosa è il giurista? Che cosa ci sta a fare nella vita? Perché vive?»

 

[41] v. G. Capograssi, L’ambiguità del diritto contemporaneo, in AA.VV., La crisi del diritto, Padova, 1953, 13-47, ora in Id., Opere, V, op. cit., 385 ss.

 

[42] v. G. Capograssi, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op.ult.cit., 387.

 

[43] v. P. Barcellona, Diritto senza società, Bari, 2003.

 

[44] v. N. Irti, Nichilismo giuridico, Bari, 2004; Id., Il salvagente della forma, Bari, 2007.

 

[45] v. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Milano, 2006.

 

[46] Sia consentito di rinviare a G. Bianco, Nichilismo giuridico, in Digesto IV, disc.priv., sez.civ., III vol. di agg., Torino, 2007, 790 ss.

 

[47] v. M. Barcellona, Critica del nichilismo giuridico, Torino, 2006, 181 ss. e 287 ss.

 

[48] v. S. Rodotà, La vita e le regole, op.ult.cit., 9 ss. Si legge, in particolare, tra i molti spunti presenti nel saggio monografico, che «sullo sfondo scorgiamo la fine di un’epoca nella quale esistevano valori generalmente condivisi, mentre oggi viviamo in un tempo caratterizzato da un politeismo dei valori e da controversie intorno al modo di dare riconoscimento al pluralismo…Si scorge una frontiera mobile, addirittura sfuggente, tra diritto e non diritto…»(p. 16); «il percorso tra diritto e non diritto porta al disvelamento progressivo dell’inadeguatezza della dimensione giuridica tradizionalmente conosciuta rispetto alla vita quotidiana…nello stesso ordine giuridico possono annidarsi i fattori che si oppongono al dispiegarsi della personalità, alla pienezza della vita» (p. 23); «non siamo più di fronte all’astrazione, ma alla cancellazione del soggetto»(p. 25).

 

[49] v.in modo particolare sul punto M. Heidegger, Il nichilismo europeo, tr. it., a cura di F. Volpi, Milano, 2003, 108; F. Nietzsche, La volontà di potenza, frammenti postumi ordinati da P. Gast e E. Forster-Nietzsche, nuova ed. italiana a cura di M. Ferraris e P. Kobau, Milano, 2005, 7, 8, 17.

 

[50] v. N. Irti, Atto primo, in N. Irti-E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, Bari, 2001, 8 ss.; Id., Nichilismo e metodo giuridico, in “Nichilismo giuridico”, op. cit., 7.

 

[51] v. F. Volpi, Il nichilismo, Bari, 1996, 4.

 

[52] v. F. Nietzsche, La volontà di potenza, op. cit., 7.

 

[53] v. N. Irti, Atto primo, in N. Irti-E. Severino, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 8.

 

[54] v. E. Severino, Atto primo, in op. ult. cit., 27.

 

[55] v. E. Severino, Atto primo, in op. ult. cit., 28-29.

 

[56] Su cui v. B. Croce, Liberismo e liberalismo, in “Elementi di politica”(1925), Bari, 1974, 69 ss. v. al riguardo N. Irti, Il diritto e gli scopi, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, op. cit., 115 ss. Sull’argomento v. pure le riflessioni contenute in B. Leoni, Conversazione su Einaudi e Croce, in Id., Il pensiero politico moderno e contemporaneo, a cura di A. Masala e con introduzionedi L.M. Bassani, Macerata, 2008, 337-374.

 

[57] v. N. Irti, La rivolta delle differenze, in “Esercizi di lettura sul nichilismo giuridico”, in Nichilismo giuridico, op. cit., 144.

 

[58] v. N. Irti, Nichilismo e formalismo nella modernità giuridica, in Nichilismo giuridico, op.ult.cit., 25. Sul pensiero del Galgano v. Id., Lex mercatoria, Bologna, 2001, 234 ss.

 

[59] v. N. Irti, Le categorie giuridiche della globalizzazione, in Norme e luoghi. Problemi di geodiritto, Bari, 2006 (2a ed.), 143 ss., 144.

 

[60] v. tra i molti scritti dell’illustre filosofo Id., La filosofia futura, Milano, 2006, p.150sgg.; Id., Destino della necessità, Milano, 1980, p.41sgg.; Id., Essenza del nichilismo, Brescia, 1972, p.227sgg.

 

[61] v. N. Irti, Atto secondo, in E. Severino-N. Irti, Dialogo su diritto e tecnica, op. cit., 45-46.

 

[62] v. N. Irti, Atto primo, in op.ult.cit., 8.

 

[63] v. G. Della Volpe, Antikelsen, in Id., Critica dell’ideologia contemporanea, Roma, 1967, 91-100.

 

[64] v. N. Abbagnano, Stato, in Id., Dizionario di filosofia, Torino, 1983 (2a ed.), 835.

 

[65] v. P. Barcellona, Diritto senza società, op. cit., 87 ss. e 151 ss.

 

[66] v. P. Barcellona, Diritto senza società, op. ult. cit., 9 ss., 11, in cui si legge che l’epoca della globalizzazione «appare essenzialmente come definitivo tramonto della società come istituzione (come tecnica organizzativa), attraverso la quale si realizza la mediazione tra l’istanza di libertà e l’ordine prodotto dall’autogoverno della società, e come fine della storia intesa come metamorfosi dell’orizzonte di senso entro il quale si sviluppa la dialettica sociale…I concetti di Stato nazionale, che aveva rappresentato la forma dell’organizzazione sociale, e di sovranità, che aveva individuato nella democrazia, come governo di popolo, la base di ogni ordinamento, sono inutilizzabili per descrivere e comprendere le forme della globalizzazione».

 

[67] v. P. Barcellona, op. ult. cit., 151 ss., ove si afferma che nella teoria surrichiamata «il sistema può fare a meno delle intenzioni e dei progetti, della volontà e della coscienza e, in definitiva, degli uomini in carne ed ossa. Perché il suo destino si compie nella perfetta circolarità della riproduzione auto-referenziale e auto-riflessiva dei suoi “dispositivi” e della sua logica. Luhmann ha scoperto il segreto del moto perpetuo e per questo la sua teoria è ormai il nucleo vero di tutte le rappresentazioni della modernità…»(p. 152). v. al riguardo N. Luhmann, La differenziazione del diritto (1981), tr. it., Bologna, 1990, 61 ss.

 

[68] v. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 35-36.

 

[69] v. S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op. cit., 37.

 

[70] Su cui v. in generale le classiche pagine di Rudolf von Jhering, Lo scopo del diritto, tr. it., con introduzione di M.G. Losano, Torino, 1972, 6, in cui è scritto che «lo scopo è il creatore di tutto il diritto; non esiste alcuna norma giuridica che non debba la sua origine ad uno scopo; cioè ad un motivo pratico». Sul tema è stato opportunamente notato che «là dove si parla di scopo…si allude a processi intenzionali, consapevoli, voluti» (R. Racinaro, Presentazione di “La lotta per il diritto” di R.von Jhering, tr. it., Milano, 1989, XX).

 

[71] Sull’attualità del pensiero del Capograssi v. anche il paragrafo quarto di G. Bianco, Nichilismo giuridico, op. cit., 790 ss.

 

[72] Al riguardo v. la ricostruzione contenuta in S. Rodotà, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, op.cit., 9 ss.

 

[73] v. G. Capograssi, Impressioni su Kelsen tradotto, op. cit., 356.

 

[74] Sul tema v. S. Satta, Norma, diritto, giurisdizione, in “Studi in memoria di Carlo Esposito”, III, Padova, 1973, 1623 ss., 1629; Id., Il giurista Capograssi, in “Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo”, Milano, 1963, IV, 589 e ora in Id., Soliloqui e colloqui d’un giurista, Padova, 1968, 433 ss. Sull’argomento sia consentito rinviare, per una più articolata ed ampia trattazione, a G. Bianco, Crisi dello Stato e del diritto in Salvatore Satta, in “Clio”, n.4/2003, 703 ss., 709 e 711.

 

[75] v. G. Capograssi, L’ambiguità del diritto contemporaneo, op. cit., 415.

 

[76] v. E. Severino, La filosofia futura, op.cit., 150 ss., 155-156 (pagine nelle quali si afferma che «la volontà che nell’Apparato si vuole sempre più potente e decide in questa direzione, in ogni momento del suo sviluppo decide innanzitutto di eseguire quell’insieme determinato di azioni che in quel momento aumentano determinatamente la sua potenza. In quantoè questa decisione, la volontà è quindi certa dell’accadimento di tali azioni e pertanto è certa di esistere nel futuro in cui tali azioni sono compiute. Ma la volontà che si vuole sempre più potente non è solo questa certezza di esistere in quel momento del futuro in cui la sua potenza riceve un incremento determinato: è anche la certezza che in ogni momento futuro essa sarà il tentativo di aumentare la propria potenza e cioè di trasformare ogni stato dell’essere. E’ certa del proprio tentativo. Decide che, in ogni momento del futuro in cui essa si troverà esistente, tenterà di aumentare la propria potenza», pur non essendo «certa che il divenire sia eterno» perché «la volontà che si vuole sempre più potente riconosce la possibilità del proprio annientamento»).

 

[77] V. R. von Jhering, La lotta per il diritto, op. cit., 71 sgg. Sostiene l’Insigne giurista che “il diritto ci presenta, pertanto, nel suo movimento storico, il quadro del tentare, del combattere, del lottare, in breve dello sforzo faticoso…il diritto come concetto rivolto a uno scopo, posto nel mezzo dell’ingranaggio caotico di scopi, aspirazioni, interessi umani, è costretto incessantemente a tastare, saggiare per trovare la via giusta, e, quando l’ha trovata, ad atterrare ancora innanzi tutto l’opposizione, che gliela preclude” (pp. 91-92).