ds_gen N. 8 – 2009 – D & Innovazione

 

Sul principio di eguaglianza. Un approccio storico

 

Luisa Bussi

Università di Sassari

 

 

Sommario: 1. Introduzione. – 2. – L’eguaglianza davanti al giudice. – 3. L’iconografia. – 4. L’eguaglianza di fronte alla legge: a) l’evo antico. – 5. L’eguaglianza di fronte alla legge: b) Il pensiero cristiano. – 6. L’eguaglianza di fronte alla legge: c) nella città medievale. – 7. L’eguaglianza di fronte alla legge: d) L’età moderna e contemporanea. – 8. Conclusioni.

 

 

1. – Introduzione

 

Il principio d’eguaglianza è in Italia sancito dall’articolo 3 della costituzione repubblicana, che figura tra i principi fondamentali e recita:

 

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

 

Nella relazione al progetto, il presidente della Commissione, Ruini usa termini trionfalistici: « Il principio della eguaglianza di fronte alla legge, conquista delle antiche Carte costituzionali, è riaffermato con più concreta espressione, dopo le recenti violazioni per motivi politici o razziali; e trova oggi nuovo e più ampio sviluppo con l'eguaglianza piena, anche nel campo politico, dei cittadini indipendentemente dal loro sesso». Più pacatamente e prudentemente Fanfani, uno dei firmatari della formula approvata, disse in Assemblea (A. C., pag. 2425): «Noi partiamo dalla constatazione della realtà, perché mentre prima, con la rivoluzione dell'89, è stata affermata l'eguaglianza giuridica dei cittadini membri di uno stesso Stato, lo studio della vita sociale in quest'ultimo secolo ci dimostra che questa semplice dichiarazione non è stata sufficiente a realizzare tale eguaglianza ».

C’è, infatti, una profonda differenza qualitativa fra il primo e il secondo comma. Il primo comma parla di eguaglianza di fronte alla legge, cioè di eguaglianza formale. Anche lo Statuto Albertino, conosceva una norma similare, l’art. 24, che suonava:

 

«Tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado sono eguali dinanzi alla legge. Tutti godono egualmente i diritti civili e politici e sono ammessibili alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi».

 

E’ facile vedere come manchi, in entrambe le formulazioni, l’aspetto precettivo, che ha fatto del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione italiana del 1948 la leva che, nella lentezza del legislatore, è stata usata ripetutamente dalla Corte costituzionale per «rimuovere gli ostacoli», secondo la prescrizione della Costituente[1].

Consacrati nel primo comma i principi della pari dignità sociale e della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, nel secondo comma la Costituente ha voluto impegnare il legislatore futuro, e prima ancora se stessa, a fare il possibile per l'attuazione concreta di quei principi, cioè per realizzare l’eguaglianza in senso sostanziale. La formula sottintende infatti l'esistenza, in atto o anche eventuale, di ostacoli i quali si frappongano al raggiungimento della pari dignità sociale e della eguaglianza di fronte alla legge. Ed in effetti, le sentenze della Corte Costituzionale che, direttamente o indirettamente hanno affrontato il problema delle violazioni dell’art. 3, e di conseguenza hanno portato ad una modifica della normativa vigente, sono le più numerose in assoluto. Basti pensare a quelle tese a rimuovere le disuguaglianze di trattamento derivanti dal sesso come, solo per fare qualche esempio, la sentenza n. 56 del 1958 che ha ammesso anche le donne a far parte delle corti d'assise, la sentenza n. 64 del 1961, tendente a escludere che si potesse considerare reato solo l’adulterio della donna, e la sentenza n. 201 del 1972, in tema di eguaglianza di fronte alla reversibiltà della pensione.

Va peraltro notato che la formulazione della norma – tanto nell’attuale Costituzione quanto nello Statuto – si riferisce soltanto ai cittadini dello Stato. Più ampio è il dettato della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU nella sessione generale di Parigi del 10 dicembre 1948, che all’art. 1 proclama:

 

«Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».

 

Sembrerebbe, dunque, da questi cenni, che il principio di uguaglianza sia una conquista relativamente recente delle società più progredite, ed in effetti si ammette generalmente che, come principio politico nella storia delle costituzioni europee esso abbia avuto applicazione da duecento anni a questa parte, e cioè dalla Rivoluzione Francese in poi. Ma fino a che punto un tale modo di pensare è corretto? Quello dell’ eguaglianza è realmente un principio che ispira le nostre istituzioni, ovvero è un puro enunciato, uno schermo dietro il quale si cela una prassi tutt’affatto diversa?

A volerla definire, ci si accorge che l’uguaglianza ha tanti aspetti, tante diverse modulazioni quante sono le sue ipotizzabili negazioni. Un articolo apparso tempo fa sul Financial Times denunciava l’eccessivo divario fra gli stipendi dei manager  di più alto livello e le retribuzioni degli altri dipendenti. Su questa mostruosità – come veniva definito un fenomeno peraltro diffuso - l’articolo sosteneva aver puntato il dito sia il presidente tedesco Köhler,  sia il primo ministro del Lussemburgo Jean Claude Junker, sia il presidente francese Sarkozy. Dunque un primo aspetto del principio di uguaglianza si riferisce all’aspettativa di vedere pesata sulla stessa bilancia la retribuzione per il lavoro svolto. Aspettativa evidentemente tanto diffusa quanto diffusamente disattesa. Dunque, il concetto di eguaglianza sembra avere un contenuto economico, in un rapporto divenuto familiare e quasi assorbente nelle dottrine economiche e sociali del ‘900.

Tuttavia nell’accezione in cui generalmente si intende, il concetto in esame ha certamente una valenza più ampia. Secondo la Gianformaggio[2] esso rimanderebbe a: 1) generalità delle regole; 2) unicità del soggetto giuridico; 3) eguaglianza di fronte alla legge; 4) divieto di discriminazioni; 5) eguaglianza nei diritti fondamentali; 6) pari opportunità di perseguire i progetti di vita e di partecipare all’organizzazione della società.

Ciascuno di tali aspetti potrebbe poi essere considerato come formale rispetto a quelli che lo seguono, e sostanziale rispetto a quelli che lo precedono.

Il vincitore di un concorso fotografico bandito dall’UE su questo tema, Robert Matwiejczyk, ha proposto un’immagine fortemente espressiva: sulla tastiera di un pianoforte, la destra del pianista è bianca, la sinistra è nera, in una diversità che si compone in eguaglianza attraverso la collaborazione armonica a suonare la stessa melodia.

Ma vi sono altre raffigurazioni che come echi di mondi lontani ci rinviano all’eguaglianza. Mi limiterò qui a due, che paiono particolarmente significative.

La prima è la raffigurazione di due coniugi, come se ne vedono tante, nel museo egizio di Torino o più ancora in quello del Cairo. Sia l’uomo sia la donna sono seduti nella stessa posizione, compagni e eguali, i loro occhi impastati dello stesso interrogativo fissano la stessa lontananza in attesa della stessa sorte.

La seconda è costituita da quello che è forse il più bel sarcofago etrusco. Proviene da Vulci ed è stato scolpito per i Tetnies, il cui gentilizio ricorre nelle iscrizioni; ora è conservato a Boston, al Museum of Fine Art. Qui la coppia è legata da un abbraccio che stringe l’uomo e la donna dello stesso amore, destinato a perdurare anche nel regno dei morti.

Come il binomio nero - bianco, anche quello uomo - donna rinvia a una eguaglianza reclamata e negata, che preme ancora per il suo riconoscimento nella coscienza individuale e sociale: solo con la legge 9 febbraio 1963, n. 66 (dunque quattordici anni dopo la promulgazione della Costituzione), le donne furono ammesse in Italia a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Ma è di oggi ancora la discussione sulle molte chiusure che nei fatti incontra la donna che voglia avventurarsi nelle professioni un tempo solo maschili.

Solo nel 1964 il Civil Rights Act pone fine alla discriminazione razziale negli Stati Uniti[3]; ma bisogna aspettare il 1985 perchè in Sudafrica vengano legalizzati i matrimoni misti fra bianchi e neri, e il 1991 perché siano abrogate le leggi fondamentali su cui si reggeva il sistema dell’apartheid. Dunque se, sul terreno dell’uguaglianza, in quanto diritto fondamentale delle moderne costituzioni e dichiarazioni dei diritti umani, si confrontano i costituzionalisti, gli internazionalisti  e i teorici dello Stato, il divario, fra la norma enunciata e la sua effettiva applicazione, fa dubitare che si possa parlare dell’eguaglianza in termini di progresso. Di certo, l’annientamento dell’uomo a opera delle tecniche e delle macchine è piuttosto tipico dell’età contemporanea, e il razzismo sperimentato nel terribile secolo XX non trova l’eguale in analoghe manifestazioni dell’evo antico.

Argomenta brillantemente questo dubbio Michel Villey, per il quale la stessa «necessità»  di una formulazione dei diritti dell’uomo – e l’uguaglianza è fra di essi, evidentemente – si spiega come antidoto, peraltro inefficace,  al positivismo giuridico[4].  Villey affronta il problema con l’aiuto della storia, indagata però con occhi che si sforzano di non essere condizionati dall’eredità del pensiero illuminista e delle filosofie di Hegel, Marx o Compte[5], e si sofferma anzitutto a discutere il significato della parola diritto. Se oggi, in un mondo concepito – sotto l’influenza delle filosofie individualiste del XVII e XVIII secolo – come composto di individui,  il diritto è anzitutto l’insieme delle «leggi» dello Stato, che si impongono all’osservanza di quegli individui,  non era questo il modo in cui esso era concepito nell’evo antico e medio, che – sostiene Villey – lo intendeva piuttosto come il rispetto di una giusta proporzione nella divisione dei beni e nei processi dei cittadini[6], ove era «giusta» un’attività al servizio dell’ordine[7].

Le posizioni «spregiudicate» di Villey stimolano una riflessione più approfondita. In effetti, se il diritto di eguaglianza sembra porsi solo oggi, nei confronti del legislatore, come pretesa che tutti gli uomini vengano considerati nelle leggi come aventi la stessa dignità, cioè come  pretesa che la legge realizzi una uguaglianza sostanziale, in realtà come problema conoscitivo e filosofico esso conta più di duemila anni di vita, e ancor più antica è l’esigenza che il giudice offra alle parti in causa un processo giusto, cioè non viziato dalla propensione per l’una o l’altra di esse.

 

 

2. – L’eguaglianza davanti al giudice

 

Nell’Etica aristotelica to dikaion significa al tempo stesso «il giusto» e «il diritto». Il giudice dovrebbe non tenere conto, nel suo calcolo, delle differenze fra le persone: ma Aristotele non suggerisce un rapporto di eguaglianza semplice, bensì indica come ideale il giusto mezzo. Per vero, quando nell'antichità si parla del giudice ingiusto, si intende che egli ha trasgredito il principio di uguaglianza, perché ha negato giustizia al povero ed al debole, ovvero perchè è stato indotto dalla corruzione ad una sentenza anziché ad un’altra. Ciò veniva considerato un delitto così grave da meritare la pena più severa.

Erodoto, per esempio, racconta (5,21) del giudice Sisamne, uno dei giudici reali, il quale avrebbe emesso per denaro una sentenza ingiusta. Cambise lo fece scorticare e ordinò che la sua pelle, tagliata a strisce, fosse distesa sullo scranno dal quale aveva amministrato giustizia. Dopodiché nominò giudice il figlio di Sisamne Otane, con l'invito a ricordarsi ove sedeva per assolvere il suo ufficio. Il racconto, come è noto, ha costituito di frequente oggetto di raffigurazioni artistiche nel Rinascimento[8].

In tempi a noi più vicini, nella famosa vicenda del mugnaio Christian Arnold, il re fece arrestare e portare al Kalendshof di Berlino i tre Consiglieri del Kammergericht prussiano, e i quattro del Küstiner Regierung nonchè il Justiziar del tribunale signorile colpevoli, secondo lui, di avere favorito il nobile a sfavore del mugnaio. Quindi, benché essi si fossero limitati ad applicare lo stretto diritto, con un Machtspruch  liberò due consiglieri, ma condannò gli altri a un anno di fortezza, e al pagamento dei danni a favore del mugnaio[9].

Nell'Editto di Teodorico, i primi quattro articoli sono diretti contro il giudice ingiusto: servendosi delle sentenze di Paolo qui si prescrive: «priore loco statuimus ut, si judex acceperit pecuniam, quatinus adversum caput innocens contra leges et juris publici cauta iudicet, capite puniatur»[10]. Noi – dichiara il re – applichiamo la giustizia allo stesso modo, sia per i ricchi sia per i poveri... noi desideriamo che gli uffici facciano onore alla giustizia e intendiamo evitare che le indagini giudiziarie siano poco oculate o condizionate da delatori o anonimi accusatori[11]. Anche la Lex Salica si volge contro il giudice il quale, per paura o interesse personale, si permette di non giudicare o di non eseguire la sentenza a favore del debole contro l’ avversario potente. Una pena  di tre solidi  doveva colpire  i rachinburgi in mallo sedentes dum causam inter duos discutiunt et legem dicere noluerint. Secondo la stessa legge, il giudice è considerato responsabile se non procede a sequestro, pregiudicando così la parte vincitrice: de vita culpabilis esse debet aut quantum valet se redimat[12].

Che queste fossero eventualità frequenti, ce lo fanno capire indirettamente gli Annali dell’abazia di Lorsch. Da essi sappiamo che nell’ 802 l'Imperatore Carlo si trattenne in tranquillità e pace ad Aquisgrana con i suoi Franchi senza attacchi nemici. Si ricordò allora della sua compassione per la povera gente (recordantis misericordiae suae de pauperibus)  del suo Impero e si ricordò pure che essi non riuscivano ad ottenere il riconoscimento del loro diritto in piena misura. Egli volle mandare taluni dei suoi vassalli per ristabilire il diritto, e scelse da tutto il suo Impero arcivescovi e abati unitamente a duchi e a conti: questi, che presumibilmente non avevano bisogno di ricevere regali nei dibattimenti riguardanti gli innocenti egli mandò in tutto l'Impero per rendere giustizia alle chiese, alle vedove, agli orfani, ai miseri (pauperibus) ed a tutto il popolo[13].

L’esigenza di una applicazione  uniforme del diritto è sempre stata insomma un precetto del tutto ovvio. E questo è vero anche quando il diritto non è cristallizzato in norme formulate con precisione, ma piuttosto vive nella coscienza del popolo – e del giudice che lo deve applicare – sotto forma di diritto consuetudinario o giurisprudenziale. Se il pericolo di una applicazione difforme della legge può essere in tal caso particolarmente incombente, tanto più forte appare il desiderio di una giustizia senza disuguaglianze, e benchè il medioevo non inclini alla formulazione astratta del principio, era chiaro che il povero ed il ricco – pauper ac dives – dovessero essere equiparati. e trattati dal giudice alla stessa maniera, pur nel rispetto dei diritti di ciascuno.

L’uguaglianza di fronte alla legge era compromessa, nel Medioevo, non solo se il giudice non teneva conto delle ragioni della parte più debole, ma anche se differiva la causa a favore del ricco e del potente. La Chiesa, anzi, raccomandava al giudice di trattare con preferenza le personae miserabiles: vedove, orfani,minorenni, e mendicanti[14]. Esisteva anche, giuridicamente protetta, una pretesa dei litiganti all'ordine di trattazione delle cause. Nessuna parte poteva, contro la sua volontà, vedere posticipata la discussione della sua lite. Lo fanno comprendere molto chiaramente alcune sentenze del XV secolo dello Oberhof di Ingelheim, il cui studio e pubblicazione, verso la metà dell’altro secolo, dobbiamo ad Adalbert Erler[15]. Un obbligo che sorprende soprattutto in un tempo e in un ordinamento giuridico che riteniamo rozzi e arretrati rispetto ai nostri, in cui siamo invece praticamente indifesi contro le lungaggini della giustizia, ed una azione di rivalsa contro il giudice temporeggiatore, come la cronaca purtroppo ci insegna, è impensabile.

 

 

3. – L’iconografia

 

prot_544.jpg (47749 byte)L’ uguaglianza di fronte allo scranno del giudice ha una grande importanza nelle opere d’arte dal Medioevo fino a tutto il 1700. Generalmente, è la spada che rappresenta l’autorità nel giudicare e il potere di fare rispettare le sentenze.  Assieme ad essa, compaiono spesso la bilancia (che rappresenta l’Equità e la Ponderazione), il triangolo (l’Equità), il libro (la Sapienza), il bambino (la Giustizia che non si deve temere) e, per l’Occidente cristiano, la mano e l’occhio (la Giustizia divina).

Così rappresenta la Giustizia Raffaello, nella Stanza della Segnatura in Vaticano. Così nel dipinto del Perugino «Allegoria della Giustizia e della Prudenza», la Giustizia come virtù cristiana (nel particolare a destra di chi guarda) è raffigurata da una donna che ha in mano una bilancia e una spada tagliente.

Forse il simbolo più fine, che si è mantenuto sino ai nostri giorni è la benda che la giustizia porta davanti agli occhi. La giustizia non guarda al povero ed al ricco, al potente ed al misero, perchè essa giudica senza riguardo alla persona. A questo concetto si ricollegano numerosi quadri appesi nei municipi tedeschi ed olandesi per rendere più sensibile la coscienza dei giudici ed esortarli ad una amministrazione imparziale della giustizia[16]. La donna bendata come simbolo di imparzialità, dall’ Europa si è diffusa poi nel Nord America.

Tuttavia le immagini più significative che ci ha lasciato il Medio Evo sono quelle che collegano la giustizia terrena a quella divina. Così in una miniatura che illumina il famoso principio della divisione dei poteri («Humanum genus duobus regitur... », duplice è il governo del genere umano) la lettera H mostra il papa con il libro e l’imperatore con la spada posti uno sopra l'altro con il chiaro rinvio al concetto della potestà terrena che deve ispirarsi all’autorità spirituale.

La sostanza della giustizia era infatti l’aequitas, cui si doveva ispirare sia il principe, sia il giudice[17]. Una miniatura che illumina l’incipit del «Decretum Gratiani», serve a illustrare l’idea che il diritto umano (raffigurato dalla spada), sia della Chiesa sia dello Stato, trae origine da quello naturale proveniente direttamente da Dio (qui tramite gli angeli).

Lo stesso concetto viene illustrato da una miniatura inserita in un manoscritto del XIV secolo raffigurante l'autorità civile e l’autorità ecclesiastica. Sopra di esse c’è Cristo, suprema autorità, da cui origina il loro potere, e che assegna al re la spada («gladius temporalis») e al papa il libro («gladius spiritualis»). Infatti, come S. Paolo esprime nella maniera più chiara: «...la parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v'è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto»[18].

Se si osserva ora  come diversamente essa viene raffigurata nell’età  moderna e contemporanea, salta agli occhi la mutata sensibilità al concetto di giustizia che percorre il tempo moderno e contemporaneo.

L’opera che meglio rispecchia il modo in cui il rapporto fra l’individuo e lo Stato viene pensato e costruito nell’età moderna è certamente il Leviatano di Thomas Hobbes. Orbene, il frontespizio della prima edizione dell’opera, pubblicata nel 1651, reca una stampa i cui contenuti simbolici sono estremamente significativi. Qui un paesaggio di colline su cui è adagiata una città cinta da mura, è dominato dalla figura di un gigante, il Leviatano. Guardandolo con attenzione si nota che il suo corpo è in realtà formato da una miriade di omuncoli, ma unica è la testa cui tutti soggiacciono : essa cinge una corona regale e supera anche le nubi senza nulla che la sovrasti.  Se infatti la mano sinistra del Leviatano impugna la spada, simbolo del potere temporale, la destra stringe il pastorale, simbolo del potere religioso, con il quale infatti ora lo Stato si appresta a fare i conti .

Ma se la raffigurazione del Leviatano è inquietante, ancor di più lo è quella davvero visionaria di Klimt. Nel 1894 Gustav Klimt ottenne l'incarico di realizzare alcuni grandi pannelli decorativi per l'Aula Magna dell'Università di Vienna. L'incarico venne portato avanti con Franz Matsch. I due artisti lavorarono però indipendentemente l'uno dall'altro, suddividendosi i pannelli da dipingere. A Klimt spettò il compito di rappresentare la filosofia, la medicina e la giurisprudenza. Al centro di quest’ultima  raffigurazione, oggi perduta[19], sul fondale nero, spiccava la figura di un uomo, nudo, curvo sulla sua solitudine, avvolto dai tentacoli di una piovra. Intorno a lui, pensose, ma sostanzialmente indifferenti, così a lui come alle forze oscure di cui erano apparentemente prigioniere, si stagliavano le raffigurazioni della Verità della Giustizia e della Legge. Invece dei consueti simboli, la rappresentazione usava dunque un linguaggio nuovo, che però era  tutt’altro che rassicurante. Il tutto, pur impreziosito dall'uso dell'oro, invece della fiducia nella giustizia e nella legge, trasmetteva un senso di profonda incertezza e inquietudine, comunicando piuttosto l'impotenza di fronte ad un destino incomprensibile. In questo senso Klimt prelude a Kafka e agli eventi che spezzeranno l’Europa nel Novecento.

 

 

4. – L’eguaglianza di fronte alla legge: a) l’evo antico

 

Ma l’uguaglianza è anche pretesa nei confronti del legislatore, che nelle sue norme egli tratti tutti senza discriminazioni, garantendo a ciascuno una uguaglianza sostanziale; anzi, come si è ricordato, che egli rimuova «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Questa pretesa nei confronti del diritto ha evidentemente senso solo a condizione che si ammetta che gli uomini siano eguali anche per ciò che riguarda la loro natura. Condizione fondamentale, questa, perché è sulla sua negazione che sempre si è rinnovata l’idea che esistessero particolari famiglie, ceti, popoli eletti: le storture, le vere e proprie aberrazioni di cui è stata capace l’età contemporanea, come e più ancora di quelle antica e media, si sono basate sul presupposto della ineguaglianza  sostanziale della natura umana.

Da questo punto di vista, si sarebbe portati a pensare ad un reale progresso vuoi degli atteggiamenti mentali, vuoi delle soluzioni legislative.

Pensiamo ad Aristotele: la sua dottrina morale riposava sulla naturale disuguaglianza degli uomini: egli insegnava che esiste una naturale vocazione dell'un uomo a dominare e dell’altro a servire: vi sarebbe una distinzione «naturale» fra gli esseri umani, capace di predisporre alcuni al comando, altri alla schiavitù. Per Aristotele, questi uomini, naturalmente destinati a servire a causa della incapacità a possedere la ragione[20], e che egli identificava con i Barbari, stanno a quelli destinati al comando come «...la parte e il tutto, come il corpo e l'anima, hanno gli stessi interessi, e lo schiavo è una parte del padrone, è come se fosse una parte del suo corpo viva ma separata; perciò esiste un interesse, un'amicizia reciproca fra schiavo e padrone, nel caso in cui siano tali per natura; quando invece tali rapporti siano determinati non in questo modo, ma solo in forza della legge e della violenza è tutto il contrario»[21]. Dunque, un tale ordine di cose esisterebbe persino nell'interesse dei primi, poichè altrimenti, per cecità politica o per indisciplina, essi si rovinerebbero. Naturalmente, la netta separazione tra Greci e Barbari, tra liberi e schiavi era, in quel mondo, fondamentale e l’ abolizione della schiavitù avrebbe significato il dissolvimento dell'ordinamento sociale greco. Ciononpertanto, per Aristotele, lo schiavo non manca di essere una persona umana, un essere razionale. Villey vede qui non la negazione ma l’affermazione, in una antropologia universalista, di una natura umana comune: per l’appunto il grande principio sul quale si abbatterà la critica nominalista da cui prenderà il via il pensiero moderno[22].

Numerose, in ogni caso, sono nell’evo antico anche le opinioni contrarie a quella di Aristotele. Il principio di uguaglianza trova riconoscimento in Platone e nei sofisti; secondo Antifone, non sarebbe da filosofo distinguere tra padroni e servi, tra liberi e schiavi, tra greci e barbari, perché per natura siamo tutti uguali[23].

Nella πολις ateniese del resto, sia pure solo fra i cittadini optimo jure, veniva realizzata  una forma di uguaglianza destinata a fornire il modello ideale della democrazia. E’ qui che viene formulato il concetto di isonomia, (o meglio isopoliteia[24]) che significa uguaglianza di fronte alla legge. Si può dire che la isonomia sia il concetto centrale della democrazia ateniese. In stretto rapporto con tale concetto stanno poi altre espressioni, che ruotano intorno ad esso :isotimia, cioé uguaglianza nel diritto, nella aspirazione ad occupare dignità od uffici nello Stato; isocrazia, cioè diritto di tutti i cittadini ad avere uguale influenza; isegoria, cioè pari diritto di potere parlare liberamente[25].

Alla isonomia ed alla isocrazia si trova accenno nel discorso di Pericle per gli Ateniesi caduti, là dove si loda la costituzione di Atene: «Lo stato nostro è popolare, perché non ha per fine l’utile di pochi, ma quello di tutti. In esso non vi è cittadino che all’altro non si pareggi: ma chi giunge alla magistrature vi giunge per la vera e sola eccellenza della mano e del senno; perché la povertà non si frappone fra gli onori e l’uomo, e non impedisce ad alcuno di giovare alla Patria»[26]

Il problema della eguaglianza degli uomini si affaccia insomma già in età classica, e ne sono dibattuti i pro e i contro in molti scrittori del mondo greco. Una idea costante dello stoicismo è l’essenza divina dell’uomo, il quale sarebbe composto di una particella del λόγος. L’uomo, dunque, assomiglia a Dio: «Est igitur homini cum Deo similitudo» afferma Cicerone[27], che segue le dottrine degli stoici. Ancor più chiaramente, nel De officiis (cioè dei doveri, bellissimo scritto, indirizzato al figlio Marco che ben potrebbe intitolarsi: «Vita, istruzioni per l’uso»), Cicerone afferma che vi è un consorzio di tutto il genere umano, i cui vincoli sono la ragione e la parola. In questa società di uomini si conserva la comunanza di tutte le cose che la natura produsse per uso comune dell’umanità. Se quelle prese in considerazione dal diritto civile vanno possedute com’è stabilito dalle leggi, per le altre bisogna comportarsi come fra amici: non negare l’acqua corrente, lasciar accendere il fuoco dal nostro fuoco, dare il giusto consiglio al dubbioso che lo domandi[28]. Poiché l'uomo è per sua natura uno zoon politikòn, un essere sociale, vi è una societas hominum; questa, però, può essere tale solo a patto che consista di eguali, vale a dire di liberi, di fratelli. Essa di conseguenza non è pensabile senza aequalitas[29].L‘instaurazione e la conservazione della aequalitas  è pertanto necessaria ed è una esigenza di giustizia, per essere esatti della giustizia distributiva. Così, secondo Cicerone, nella società umana, giustizia ed eguaglianza sono collegate fra loro. Non sorprende che fra tutti gli scrittori dell’età classica Cicerone sia quello che più di altri ha goduto di una continua e incontrastata fortuna nell’età di mezzo. Il pensiero cristiano non aveva difficoltà a riconoscervisi.

Anche in Seneca, peraltro, troviamo accenti simili riguardo alla uguaglianza: nel De beneficiis  Seneca[30] afferma che lo schiavo ha la stessa natura del padrone e può egualmente possedere la virtus. Solo la sorte fa diventare schiavi, e la schiavitù è odiosa a tutti gli uomini.

Dunque vi è un’uguaglianza di jus naturale cui si contrappone la disuguaglianza giuridica derivante dallo jus gentium, nel quale si radica l’istituto della schiavitù[31], in un equilibrio che probabilmente non si può oggi valutare appieno se non si tiene conto dello stretto rapporto sussistente, nel diritto romano, fra jus e religio[32]. Una tale eguaglianza dovrebbe comunque contraddistinguere tutti gli uomini liberi. Questa aspirazione porta Tacito a lamentare che col Principato tra le virtù antiche perdute vi sarebbe anche questa: mutate le condizioni della città, non rimaneva più alcunché dell’antico, incorrotto costume, scomparsa l’eguaglianza, tutti attendevano gli ordini del principe[33].

 

 

5. – L’eguaglianza di fronte alla legge: b) Il pensiero cristiano

 

Il più grande incentivo verso l’uguaglianza materiale è venuto dal Cristianesimo, nonostante esso sia stato talvolta incompreso dagli stessi Cristiani, ed ogni riforma della Chiesa si presenti come un ritorno alla purezza delle origini, come l’esigenza di liberare il messaggio cristiano dalle deviazioni sopravvenute.

Il Cristianesimo si radica nel substrato dell’Antico Testamento; e qui l’uomo è creato a immagine di Dio[34]: donde la fratellanza degli uomini in Dio, la sacralità della vita umana e il dovere di essere responsabili dei propri simili[35]. Anche nell’antico Israele troviamo pertanto precetti contro l’ineguaglianza. Il Signore dice a Mosè: «Se tu comprerai un servo ebreo, ti servirà per sei anni, ma al settimo anno se ne andrà libero senza pagare nulla»[36] «Voi dovete consacrare il cinquantesimo anno e proclamare la libertà per tutti coloro che abitano nel Paese. Questo anno deve valere per voi come giubileo. In questo anno dovete riportare ognuno nel suo possesso e ognuno nella sua stirpe»[37]. Peraltro, anche l’antico Giudaismo conobbe un gran numero di discriminazioni. Poiché si riteneva che la fortuna terrena fosse il riflesso del favore concesso da Dio a chi ne rispettava i comandamenti, erano al di fuori della comunità gli ammalati, particolarmente i lebbrosi, in un certo grado anche gli esattori delle imposte, i Samaritani.

Non che il problema del dolore innocente fosse estraneo all’Antico Testamento. Nel libro di Giobbe risuona il grido di tutti gli uomini la cui sorte infelice non può essere letta come la retribuzione della loro colpa. Tuttavia, dopo la prova, la vita di Giobbe si risolve in trionfo su questa terra, e in generale il concetto stesso di popolo eletto vuole indicare l’esemplarità della storia di Israele che vince quando obbedisce a Dio ed è sconfitto quando si allontana da Lui.

E’ Gesù che capovolge il senso della storia. La salvezza cristiana parte dal paradosso della Croce. Beati non sono i fortunati, ma gli affamati, gli assetati, coloro che nel proprio spirito hanno abbracciato la povertà. Cristo rivolge il Suo amore ai disgraziati, ai derelitti, agli emarginati. Gesù non solo li ha amati:  ha anche  dato a noi un esempio di come dobbiamo amarci l’un l’altro (Giovanni, 13,15): «In verità, in verità vi dico: un servo non è più del suo padrone, né un inviato è da più di chi lo ha mandato». Ma se ciò accenna evidentemente alla parità di trattamento che i Cristiani si devono assicurare l’un l’altro nella società, dall’altro non fonda una pretesa di eguaglianza dei meno favoriti nei confronti di questa. Cristo non fa differenza fra il povero e il ricco. Benchè avverta che è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel regno dei cieli. Egli offre la salvezza egualmente all’uno e all’altro, restando nella libera scelta di ciascuno accettarla o no. La libertà diventa quindi l’altra faccia dell’uguaglianza. In via di principio (un principio non sempre rispettato) si tratta di una forma di libertà sconosciuta al mondo antico, per il quale l’empietà equivale a ribellione allo Stato, cui il cittadino deve fedeltà assoluta[38].

La dottrina di Gesù non è insomma una dottrina tesa a perseguire una rivoluzione politica (Cristo non imbraccia il fucile della teologia della liberazione); ma non è neanche una dottrina indifferente riguardo alla società. Piuttosto è da dire che, secondo la concezione cristiana  - per cui tutti gli uomini sono eguali di fronte a Dio («Non c’è dunque più né giudeo, né greco, né schiavo, né libero, né uomo né donna, perché tutti siete un sol uomo in Cristo Gesù»[39]), e perciò tutti a cagione dei loro peccati abbisognano della redenzione, mentre d’altra parte tutti possono parteciparne[40] - sorge l’idea di una eguaglianza di nuovo genere. Essa trova la sua più alta espressione in S. Pietro : «Ora io riconosco che Dio non ha preferito un popolo piuttosto che un altro, ma che per Lui tutti in ogni popolo sono benvenuti, quelli che lo temono e praticano giustizia»[41]. In senso etico e religioso, il Cristianesimo si interessa soprattutto al bene dell'anima immortale individuale. Le anime sono state sempre ritenute libere ed eguali: questo atteggiamento contraddistingue tutto il pensiero cristiano rispetto a quello dell'antichità classica antecedente al periodo ellenistico. L'assorbimento spirituale dell'individuo nell'unità sociale, che appariva naturale a un Platone o a un Aristotele[42], è inconcepibile per un cristiano, nonostante tutte le concezioni mistiche della Chiesa come corpo spirituale[43].

Come questa idea di eguaglianza nel suo svolgimento trovi il giusto mezzo fra indifferenza per la struttura della società e rivoluzione politica, ci viene mostrato ripetutamente sia nella prima lettera di S. Pietro, sia in diverse lettere di S. Paolo, fra cui un vero gioiello del Nuovo Testamento, su cui si è appuntata di frequente l’attenzione degli storici del diritto (per restare in Italia, da Melchiorre Roberti a Piero Bellini)[44], cioè la lettera di S. Paolo a Filemone. A Filemone, un Cristiano amico di S. Paolo, è fuggito il suo giovane schiavo Onesimo, il quale cerca rifugio presso Paolo. Questi rimanda al padrone lo schiavo, che nel frattempo ha battezzato, e nello stesso tempo gli fa consegnare la lettera che ci è pervenuta:

 

«… ti prego dunque per il mio figlio, che ho generato in catene, Onesimo, quello che un giorno ti fu inutile, ma ora è utile a te e a me. Te lo ho rimandato lui, il mio cuore.

Avrei voluto trattenerlo presso di me perché mi servisse in vece tua nelle catene che porto per il vangelo. Ma non ho voluto far nulla senza il tuo parere, perché il bene che farai non sapesse di costrizione, ma fosse spontaneo. Forse per questo è stato da te separato per un momento perché tu lo riavessi per sempre; non più però come schiavo, ma molto più che schiavo, ma come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore»[45].

 

L’Apostolo quindi non pretende, ma raccomanda la liberazione dello schiavo. Ognuno deve essere soggetto all’autorità, si dice nella lettera ai Romani[46], poichè non c’è autorità che non venga da Dio.

Questo diventa più tardi il punto di vista del Medioevo cristiano, che si ritrova in Beaumanoir e in Marcolfo[47].

La servitù, come istituzione, viene accettata in S. Pietro, in S. Paolo e nella Patristica successiva. S. Ambrogio insegna che essa nulla toglie davanti a Dio, come lo stato di libertà nulla aggiunge (nec servitus derogat, nec libertas adiuvat). Se Seneca aveva insegnato che la schiavitù dipendeva dall’essersi perduta l’epoca d’oro, i Padri della Chiesa si avviano per una via parallela: Dio ha creato l’uomo libero e, se Adamo non avesse peccato, la schiavitù non sarebbe sorta. Di fronte al peccato originale essa può essere considerata tanto un castigo quanto, come penitenza, un mezzo di salvazione.

Gli uomini si riconoscono eguali perché hanno un padre comune in Dio e una madre comune nella Chiesa. Così avvertivano, nel IX secolo Giona d’Orleans, Rabano Mauro, Burcardo di Worms. La vera eguaglianza era quella, ed essa rendeva ogni altro rapporto secondario. Servire, ammoniva Raterio[48], non ha importanza: più si serve in umiltà, più nobiltà si acquista. Attributo della somma autorità della Cristianità è di essere servus servorum Dei. Inoltre, la separazione fra istanze religiose e istanze civili che, come si è detto, è propria e tipica del messaggio cristiano[49], rende l’uomo responsabile di una scelta, ove esse siano in contrasto; ma scegliere può solo chi è libero, e la libertà si accompagna all’eguaglianza.

E’ dunque nell’Europa cristiana che si fa strada l’esigenza di un diverso rapporto fra giustizia ed eguaglianza. Nel Sachsenspiegel, Eike von Repgow[50] le lega chiaramente insieme[51]: «Dio ha formato a Sua immagine l’uomo e lo ha redento col Suo martirio, tanto questo quanto quello. A lui il povero è parente come il ricco». Il risultato cui perviene Eike è che la mancanza di libertà riposa sulla violenza, benché venga fatta passare come fondata sul diritto.

Certo il Medioevo è un tempo di disuguaglianze profonde, di società  gerarchiche. Il mondo, tanto nell’al di là come su questa terra, viene concepito come un cosmo fatto a gradini. Nella «Teologia Mistica» di Dionigi Aeropagita (uno straordinario classico del Cristianesimo delle origini, fonte e riferimento di molti percorsi mistici successivi) il carattere gerarchico della creazione ha una struttura tripartita, che è immagine dell'armonia esistente entro la Trinità stessa e perciò sottintende la somiglianza esistente fra il Creatore e le sue creature[52]. Secondo il De coelesti hyerarchia, nel rapporto di omologia fra cielo e terra, si riproducono, negli ordinamenti della società umana, le gerarchie e le disparità che mantengono ordinata la società degli angeli[53]: così nei primi decenni del secolo XI, da Gerardo di Cambrai e Adalberone di Laon viene spiegato come, nella civitas terrena, si distinguano tre tipi di attività: orare, pugnare e  agricolari-laborare. A ciascuna di queste attività corrispondeva una condizione giuridica diversa. Il Clero era soggetto al diritto canonico e ad una giurisdizione esclusiva. Coloro i quali erano deputati a pugnare costituivano a loro volta un ceto privilegiato, nel senso che il diritto cui essi erano soggetti non era condiviso né dai contadini, né dai cittadini.

Tuttavia, questo quadro della disparità medievale è incompleto, non è quello odioso proposto a ridosso della Rivoluzione Francese dal Winspeare[54]. Dal Salisbury, che muore vescovo di Chartres nell’anno 1180, la res publica viene paragonata ad un alveare, cioè ad una organizzazione animale ove l'ordine è raggiunto grazie ad una netta separazione dei ruoli[55]; ma se il paragone ha echi classici, lo spirito nel quale il Salisbury lo propone è diverso: l'unione deve infatti venire raggiunta avendo di mira le esigenze dello spirito, che negli uomini non tiene conto della loro condizione. Dunque, per completare e comprendere davvero il quadro anzidetto, bisogna passare dal campo speculativo a quello della effettiva realtà della vita, e ricordare quanto il signore feudale avesse bisogno delle braccia dei contadini, il re dei suoi feudatari. Il principio gerarchico trovava infatti i suoi limiti nel diritto di resistenza, che secondo i suoi studiosi traeva le sue radici, da un lato, dall’obbligo cristiano di servire sì il signore terreno, ma solo sintantochè non inducesse in peccato; dall’altro dalla natura sinallagmatica del rapporto dominante-dominati[56].

A questo diritto di resistenza, che si contrappone al non-diritto dei più potenti, rinvia il Sachsenspiegel. Contro il proprio re o il proprio giudice, i quali abbiano commesso ingiustizia, è lecito resistere, eventualmente ricorrendo alla difesa armata, senza con ciò ledere il giuramento di fedeltà. Nella Bolla d’Oro di re Andrea II d’Ungheria (1222) l’art. 31 riconosce esplicitamente questo diritto qualora il re o i suoi successori violino le leggi del Regno, nella stessa Bolla d’Oro sancite[57].

 

 

6. – L’eguaglianza di fronte alla legge: c) nella città medievale

 

Di fronte all’ordinamento gerarchico che costituiva la struttura entro la quale si modulavano i rapporti intersoggettivi, così dei grandi vassalli nei confronti dell’Imperatore, come dei contadini nei confronti del loro signore feudale, stavano d’altra parte enclaves sociali organizzate secondo una concezione del tutto diversa, vale a dire secondo quell’ordinamento corporativo che fu così rigorosamente studiato da Otto von Gierke: e prima di tutto l’ordinamento municipale. Dopo che nell’alto Medioevo molte città hanno respinto la signoria dei feudatari, sorgono vere e proprie isole di ampia ed estesa eguaglianza. Il fenomeno si verifica anzitutto nell’Italia settentrionale, alimentato anche da movimenti religiosi – come ad esempio quelli dei Catari e dei Patari[58] – che si nutrivano di ideali sociali pauperistici e si dirigevano contro gli abusi del feudalesimo ecclesiastico. Se questi movimenti si attirarono l’accusa di eresia, così non fu per quello cui diede vita Francesco d’Assisi, cui si deve uno straordinario rinnovamento degli ideali egualitari del Cristianesimo[59]. Quasi nello stesso tempo altri movimenti diretti a conseguire l’autonomia cittadina, sorsero anche in Germania, nonché in altri paesi d’Europa. La città si costituisce come una associazione fatta di rapporti personali e basata fondamentalmente sulla libertà e l’eguaglianza di tutti[60]. Unendosi in un'associazione i cittadini si appropriano della sovranità all'interno di questa associazione ed escludono in tal modo principalmente le forme di servitù feudale: il cittadino è libero, il diritto di cittadinanza non ammette nessuna sudditanza, nessuna limitazione alla libertà da parte di un signore feudale. In Germania vale la frase: «l'aria della città rende liberi»[61]. La città non conosce l’ordine proposto dal Sachsenspiegel, sfuma qui la distinzione fra nobiltà, fideles e servi. Da questo punto di vista, la città pone le basi dell’individualismo moderno. E tuttavia le associazioni medievali non sono fatte – come le società moderne – di individui, bensì di corporazioni. Come nella antica polis, la città era costituita anzitutto dai signori fondiari. La differenza fondamentale con la polis era naturalmente data dall’assenza della schiavitù, ma alla signoria del capofamiglia erano soggetti tutti gli abitanti della casa[62]. Il principio di uguaglianza, così come quello della partecipazione democratica all'interno della città non era un principio valido in assoluto: i cittadini si dividono ancora, nel tardo Medioevo, in molte classi, e fondamentale è il contrasto fra patrizi e corporazioni. Tuttavia anche coloro i quali, pur risiedendo nella città, non ne sono cittadini, possono godere del diritto di protezione concessa dalla città, alla quale essi sono spesso legati tramite un giuramento che nei diritti e nei doveri è molto simile al giuramento dei cittadini.

E’ dunque dall’eguaglianza germogliata nelle istituzioni comunali che discende quella affermata nelle moderne costituzioni? Dilcher, attento studioso della storia comunale, ritiene che non sia così: l’ulteriore storia del principio di uguaglianza non si viene comunque evolvendo nella cornice della città medievale[63], bensì in quella degli Stati che i Principi vanno creando. Questo nuovo modello di signoria si collega ad una nuova specie di feudalesimo, che fa degli alti funzionari del principe una classe privilegiata con particolari onori riservati al loro ceto. A queste condizioni diseguali corrisponde un diritto diseguale, particolare di ciascuna città, ciascuna signoria, ciascuna corporazione. In questo accentuato particolarismo giuridico, solo il diritto comune rivendicava una utilitas generale. Non a caso, era un diritto che doveva il suo respiro a un ceto di studiosi formatisi nell’altro ambiente ove si coltivava una eguaglianza sostanziale, in contrasto con il carattere gerarchico e cetuale del tempo: l’Università[64].

Dunque, dopo essersi apparentemente affermato, il principio di uguaglianza si inabissa nuovamente e dovrà attendere a lungo prima di tornare ad affiorare ancora nella teoria e nella pratica.

Le scorrerie saracene avevano peraltro assuefatto gli Europei all’idea che si poteva essere catturati e ridotti in schiavitù, e ne erano derivati ordini religiosi e figure giuridiche che al verificarsi di tale evenienza cercavano di porre rimedio[65].

Quando, nel 1430 gli Spagnoli colonizzarono le Isole Canarie, asservirono a loro volta la popolazione locale, schiavizzandola. Il Papa Eugenio IV, venendo a conoscenza di quanto accadeva, emise una bolla papale di condanna, la «Sicut dudum», che però fu ignorata. La condanna della Chiesa Cattolica venne ripetuta anche in successive bolle papali. Va ricordata in particolare la «Sublimis Deus» di Paolo III del 2 giugno 1537, che riecheggia nelle argomentazioni di Las Casas a difesa dei nativi americani[66], contro le posizioni di Sepúlveda[67]. Il fatto però che Urbano VIII nel 1639 abbia dovuto riaffermare la precedente bolla di Paolo III, e la successiva «Immensa Pastorum principis» di Benedetto XIV, del 22 dicembre 1741, dimostrano che non si era affatto giunti a sradicare una prassi tanto contraria alla dignità umana, anche se si erano poste le primitive basi di quella che sarebbe diventata una lunga contestazione. Anzi, il forte impegno dei Gesuiti contro la schiavitù ne provocò, nel 1767, l'espulsione da tutto il Nuovo Mondo, anche per aver dato vita ad autonome comunità di nativi molto avanzate.

Per comprendere le cause di questa eclisse Villey porta la sua attenzione sulla filosofia, dalla quale «dipendono i principi delle cose e in particolare il loro linguaggio»[68], e in particolare sul Nominalismo. La filosofia di Guglielmo d’Ockham riduce infatti la realtà a sostanze individuali. Sono reali solo gli esseri singoli: i nomi comuni (l’animale, l’uomo) o relazionali (la paternità, la cittadinanza), cioè gli universali, non designano nulla di reale: sono solo strumenti utili per connotare, per economia di linguaggio, una pluralità di esseri individuali. Viene così negata la rerum natura: ma è proprio questa che serve di  fondamento al diritto, alla cui comprensione si può giungere per via della naturalis ratio. Con uno strumento apparentemente inoffensivo e lontano da questo ordine di problemi, il nominalismo infligge una ferita mortale allo strumentario intellettuale approntato dalla speculazione medievale. Non a caso, esso è stato paragonato ad un bambino il quale con una cerbottana rompa tutte le lampadine del paese. Le lampadine sono gli universali, e l'oscurità che ne deriva sta per la serie di innumerevoli oggetti ormai non più adunabili in categorie universali. Fra di essi sta anche il diritto: dal momento che non esiste più fuori dalla coscienza degli uomini, esso cessa di essere oggetto di conoscenza. Bisognerà, come suggerisce Hobbes, costruirlo artificialmente a partire dagli individui[69].

Nel travaglio politico e sociale che accompagna il declinare del Medioevo e la genesi dello Stato moderno, l’aspirazione verso uno Stato ideale, che non si vedeva preparato nella realtà, genera una letteratura che questo ideale ipotizzava, ed era un ideale di giustizia ed uguaglianza[70]. Tommaso Moro mette in bocca ad uno degli interlocutori della sua Utopia che l’umanità non potrà progredire e non sarà possibile giungere ad una equa e felice ripartizione dei beni se non sarà abolita del tutto la proprietà privata. Nella Città del Sole di Campanella vigono la comunione dei beni e la comunione delle donne. Ma a fronte delle enunciazioni degli utopisti, la realtà procede piuttosto verso una recrudescenza della schiavitù. La detenzione ed il commercio degli schiavi erano in Africa attività legali, e a partire dalla Costa degli schiavi, a Sud del Sahara, si sviluppava un intenso commercio che esportava manodopera schiavistica in diverse direzioni. La tratta degli schiavi era al tempo controllata da compagnie francesi, olandesi, tedesche ed inglesi. Fra tutte spiccava la English Royal African Company, che ne faceva una straordinaria fonte di lucro. Solo al declinare del Settecento, a partire da Massachussets, Connecticut, New York, Pennsylvania (1788), dalle colonie francesi[71], dalla Danimarca (1792) si cominciò  a proibire il traffico degli schiavi. In Inghilterra, lo Slavery Abolition Act, stabiliva, nel 1833, la fine dello schiavismo in tutto l’impero britannico. Negli Stati Uniti, l'abolizione formale fu sancita a livello federale dalla Costituzione nel 1865, dopo la guerra civile americana.

E tuttavia il fenomeno è tutt’altro che scomparso. Vi sono ancora oggi fenomeni di schiavitù, soprattutto nel subcontinente indiano e nelle zone confinanti. In questi paesi esiste ancora la possibilità di nascere schiavi in virtù dei debiti non estinti da parte dei genitori, e successivamente ereditati. Anche la Mauritania ha concluso il processo legislativo di abolizione solo nel 1980, senza che si siano mai spente le contestazioni e le critiche al governo. Ancora il 7 giugno 1912 Papa Pio X con l'enciclica «Lacrimabili Statu» stigmatizzò la politica di alcuni Stati dell’America Latina, sin troppo pigri nell’esercitare un effettivo controllo del fenomeno.

 

 

7. – L’eguaglianza di fronte alla legge: d) L’età moderna e contemporanea

 

Durante le trattative per porre termine alla guerra dei trent’anni, e con i Congressi di Münster e Osnabrück in Westfalia, la concezione politica di una società integrata e gerarchica mostra di essere giunta al termine: la comunità dei principi sovrani si scrolla di dosso i vincoli tradizionali, e con Grozio viene riordinato e riproposto un diritto teso a regolare i loro rapporti su un piano d’uguaglianza. Un diritto  manifestato nella prassi e giustificato dall’essere radicato nella natura umana: le esemplificazioni che Grozio fa della prassi dei rapporti internazionali, sono tratte quasi tutte dalla storia antica, piuttosto che da quella a lui vicina. Così, sulle basi preparate dalla scuola spagnola dei teologi – giuristi, insieme a Pierino Belli e Alberico Gentili, e poi Pufendorf e Wolff, prepara l’idea che tutti gli Stati siano eguali, benchè poi questa eguaglianza finisca con il riguardare solo gli Stati europei e non escluda il riconoscimento della maggior potenza dell’uno o dell’altro. L’Illuminismo – tanto quello francese, quanto quello tedesco - trasferirà questa idea dalla comunità dei principi a quella degli uomini tutti. 

Il Burlamachi[72] accoglie l'antico pensiero che gli uomini sono uguali secondo natura, e così Rousseau: non però il peccato originale ha fatto venire meno l'epoca d'oro, ma i difetti della moderna civiltà. Per via di ciò, il retour à la nature si trasforma in appello morale, perchè attraverso di esso si può ristabire il principio di eguaglianza. Verde ante literam, Rousseau avvertiva che non basta riconoscere la via del ritorno, ma è necessario agire perchè essa venga di nuovo percorsa: una adeguata educazione è quella che può indicare  ad una nuova gioventù il cammino verso il paradiso del futuro. Per questa via, la riflessione filosofica si converte in attività pratica, e il concetto di uguaglianza diviene patrimonio comune del pensiero politico e filosofico del diciottesimo secolo. Già Vico, parlando dei governi umani, avvertiva che essi «per la egualità di essa intelligente natura, la quale è la propria natura dell’uomo, tutti si eguagliano nelle leggi»[73]. Similmente Montesquieu indicava nelle leggi il fattore che poteva stabilire l’eguaglianza in termini concreti ed efficaci[74], consapevole che nella società non è possibile restare eguali[75].Voltaire osservava che gli uomini sono nati tutti allo stesso modo[76].

Nelle Lezioni che Carl Gottlieb Svarez tiene nel 1791 al suo discepolo reale, il futuro Federico Guglielmo III, troviamo le seguenti lapidarie espressioni, che possono già essere riguardate come un abozzo di principi costituzionali:

Naturale eguaglianza di tutti gli uomini;

a)          ognuno è autorizzato a procurarsi la propria felicità;

b)          ognuno è autorizzato a opporsi con la violenza a chi voglia impedirgli il raggiungimento di tale fine;

c)          ognuno è limitato nella sua libertà solo dalla legge di non danneggiare gli altri e di lasciare ad ognuno il suo.

d)          nessuno è autorizzato a costringere gli altri ad azioni che questi non considera utili o necessarie al raggiungimento della sua felicità[77].

Già prima dell'insurrezione americana, i giuspubblicisti tedeschi affermano la uguaglianza degli uomini e la irrenunciabilità della libertà. «Ya — scrive ad esempio von Justi — da uns endlich Gott alle mit gleicher Freyheit, Würden und Rechten in die Welt setzet; so mache ich aus dem allen den Schluss, dass es die Pflicht und Schuldigkeit einer jeden Regierung ist, die natürliche Freyheit ihrer Unterthanen so wenig einzuschränken, als es nur immer mit dem Endzwecke der Republiken bestehen kann, und dass das allemal die beste Regierung ist, die sich ohne Abbruch des Endzweckes der Republiken der natürlichen Freyheit am meisten nähert »[78].

Nelle costituzioni degli Stati nord-americani il principio di uguaglianza giunge a definitiva codificazione. Ciò accade al momento del distacco di quegli Stati dalla madre patria, anzitutto col Bill of Virginia del 1776 . Questo Bill, e la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti che presto gli tenne dietro, non racchiudevano alcuna massima che già non fosse di antica origine inglese o che non fosse stata da tempo praticata nelle colonie: come per esempio l’uguaglianza giuridica di tutti i ceti, ovvero l’abolizione dei particolari privilegi delle grandi famiglie.

Tuttavia il fondamento è nuovo, perchè esso vuol ricollegarsi non ad antiche leggi o consuetudini inglesi, ma ai principi filosofici  derivati dalle massime piu' generali di quel diritto naturale,che affermava di valere per tutta l’Umanità. Un diritto con un tale fondamento poteva avere la pretesa di ottenere riconoscimento ovunque, poteva ben essere rivelato da missionari della politica e divenire oggetto di esportazione. Lafayette è stato colui che, per l’appunto, ha riportato in Francia e trasmesso alla Rivoluzione l’idea che questi principi, vagheggiati dai filosofi, potevano essere concretamente tradotti in pratica.

L'idea di eguaglianza acquistava ora un’altra valenza, suonava come una fanfara di rivendicazione e di riscatto, in opposizione al sopruso. Per il Condorcet, dal diritto naturale non derivava solo l’eguaglianza dinanzi alla legge, ma un diritto che, di forza prorompente e di proiezione larghissima, implicava una rivendicazione di tutti gli altri diritti[79]. E similmente ragionavano altri protagonisti della rivoluzione come il Brissot, o il Mirabeau.

Casella di testo: II testi delle Dichiarazioni dei diritti tra il 1789 e il I795 riverberarono i diversi modi di intendere questa eguaglianza. Nella Dichiarazione del 1789, all'art. 6, era detto: «Tutti i cittadini, essendo eguali ai suoi occhi (della legge), sono egualmente ammissibili a tutte le dignità, posti e impieghi pubblici, secondo la loro capacità e senz'altra distinzione che quella della loro virtù o del loro ingegno»; nella Dichiarazione del 29 maggio 1793, premettendosi all'art. 1 che diritti dell'uomo sono l'eguaglianza, la libertà, la sicurezza, all'art. 2 si precisava: «L’eguaglianza consiste in ciò che ciascuno possa godere degli stessi diritti»; e nell'Atto costituzionale del 21 giugno successivo veniva altresì proclamato esser diritti naturali e imprescrittibili dell'uomo l'eguaglianza, la libertà, la sicurezza, la proprietà. Nella costituzione del 5 fruttidoro (22 agosto 1795), all'art. 3, veniva chiarito: «L'eguaglianza consiste in ciò, che la legge è eguale per tutti, sia che protegga sia che punisca. L'eguaglianza non ammette nessuna distinzione di nascita, nessuna eredità di potere». Per il Curcio si tratta di enunciazioni che si proiettano in avanti, anche rispetto alle costituzioni americane, ove il senso dell'eguaglianza traspariva bensì da tutto il contesto[80], ma senza esplicite indicazioni.  In un colpo solo cadono in Francia tutti i privilegi di classe; tutti i cittadini sono tenuti a pagare uguali imposte; ottengono uguale diritto di voto; uguale accesso ai pubblici uffici; devono soddisfare allo stesso modo il servizio militare. Le armi vittoriose di Napoleone affermano questo pensiero come in Francia così in Italia e in Germania e attraverso tutta Europa, con uno strumento straordinario: un nuovo codice nel quale viene sancita l’unicità del soggetto giuridico: l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge  sostituiva ora (in maniera più efficace, come si credeva) l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. La simbologia adottata nelle illustrazioni del tempo è tutta laica: il triangolo, con il quale spesso viene rappresentata l’eguaglianza, ha più rapporto con la simbologia massonica che con quella cristiana.

In Italia, regione che subì tutta, direttamente o indirettamente l’ influenza francese, il principio di uguaglianza venne accolto da tutte quelle costituzioni che si ispirarono al modello della vicina nazione. A Ferrara, un bando ferrarese del 16 fruttidoro dell’anno VI dichiarava che «i princìpi della repubblica francese respingono le distinzioni fra i cittadini»; altrettanto si legge nei proclami di Modena, dove si afferma di volere assicurare la stabile durata «del regno della uguaglianza,della libertà, della ragione»; e così pure a Bologna ed a Reggio.

Specialmente nel terzo Congresso cispadano di Modena (21 gennaio — marzo 1797) questo argomento sollevò interessanti discussioni: «I diritti dell'uomo che vive in società sono la libertà,la uguaglianza,la sicurezza ,la proprietà».

Dunque i principi accolti in Francia vengono ricopiati subito dai primi governi provvisori dell’Emilia e della Lombardia, e riaffermati nella dichiarazione premessa sia alla Costituzione della Repubblica cisalpina dell'anno V, sia a quella dell'anno VI, dove si legge che l’ uguaglianza non consiste solo nell'essere la legge uguale per tutti, ma altresì nel respingere «ogni distinzione di nascita, ogni potere ereditario». Proprio a questo scopo, per accorciare cioè le distanze tra le varie classi sociali, vennero istituiti i «pranzi patriottici», nei quali, fianco a fianco, dovevano sedere nobili e plebei[81]. Per il Filangieri questo concetto dell’eguaglianza conduceva ad auspicare anche «che tutte le nazioni si guardino come una società unica»[82].

Dopo la caduta di Napoleone, la vita del principio di uguaglianza si scontrò in un primo tempo con la Restaurazione, che credette di poter semplicemente cancellare la Rivoluzione e quanto essa aveva portato con sè. In un secondo tempo, proprio la sua progressiva affermazione mostrò i limiti di una eguaglianza formale[83]. La negazione dei diritti politici alle donne rappresenta, ad esempio, uno dei limiti di attuazione di una cultura dei diritti proclamata in via di principio[84]. L’altro è rappresentato, negli Stati Uniti, dalla negazione dei diritti della minoranza nera.

Un poco per volta, comunque, il principio di uguaglianza si venne riaffermando nelle nuove costituzioni che presero vita nella prima metà dell'altro secolo. In Germania ciò avvenne per la prima volta, e nella forma piu cospicua, in Baviera (1820) ove venne garantita «la uguaglianza delle leggi e di fronte alla legge». Con ciò, non solo si assicurava l' applicazione uniforme della legge in campo amministrativo e giudiziario, ma veniva altresi garantita la sostanziale uguaglianza nel contenuto delle leggi, concetto, questo, che corrisponde al più moderno pensiero legislativo.

Con Kant[85] la portata dell'eguaglianza civile era considerata insieme con la libertà e l'indipendenza – come uno dei principi a priori della ragione dello stato civile inteso come stato giuridico; essa consisteva nel diritto di pervenire ad ogni grado, ad ogni posizione sociale, e di essere giudicati alla stessa stregua dalla legge. Il Constant[86]— e prima di lui il Bentham – preferivano limitare il senso dell’uguaglianza alla sola libertà legale. Constant esortava a non pretendere troppo dall'eguaglianza, contentandosi di farla agire liberamente: «essa ... arricchisce il povero senza spogliare il ricco, non distrugge la sproporzione delle fortune con la violenza ma impedendo loro di perpetuarsi toglie a esse ciò che hanno di oligarchico e di pericoloso»[87]. Era la posizione liberale, alquanto staccata da quella democratica, più carica di aspettative.

In Prussia, ove in un primo tempo, dopo la morte del von Stein, ci si era avviati sul cammino della reazione, venne emanata nel 1850 una costituzione la quale garantiva la uguaglianza di tutti i Prussiani avanti alla legge. Di fatto il precetto avrebbe in origine voluto introdurre una uguaglianza giuridica sostanziale, ma l’ interpretazione costituzionale del tempo successivo abbassò la massima a semplice garanzia della uguaglianza giuridica formale,spogliandola del suo significato e della sua importanza.

Il Commentario – allora famoso – dello Anschütz alla costituzione prussiana[88] scrive: «Il principio costituisce una massima non già per colui che da la legge, ma per chi la amministra: uguaglianza di fronte alla legge è in realtà uguaglianza di fronte al giudice ed alla amministrazione. L'art.4, §1 proibisce al giudice, non al legislatore, di fare differenze».

Anche il Preussisches Verwaltungsgericht,  cioè il Supremo Tribunale Amministrativo della Prussia, accolse questa interpretazione.

In Italia, Il primo parlamento subalpino venne eletto ( 27 aprile 1848) da un corpo elettorale che rappresentava l’1,7 % degli abitanti. Secondo le disposizioni della legge elettorale politica del 17 dicembre 1860, le condizioni per l'elettorato politico erano: a) essere cittadino italiano o naturalizzato e godere dei diritti civili e politici; b) avere 25 anni compiuti di età; c) saper leggere e scrivere; d) pagare un censo annuo per imposte dirette di almeno 40 lire.

Potevano essere elettori, indipendentemente dal censo, coloro che possedevano titoli di capacità o esercitavano determinate professioni (membri di accademie, di ordini equestri, professori universitari, funzionari ecc.).

Fu solo con la legge del 15 agosto 1919 n. 1401 che l’elettorato si estese a tutti i cittadini che avessero raggiunto la maggiore età. Ma ancora una volta l’estensione riguardava solo i cittadini maschi, e fu solo  col decreto legislativo luogotenenziale del 1 febbraio 1945 che il diritto di voto veniva esteso alle donne maggiorenni[89].

Successivamente, il XX secolo ha portato al riconoscimento del principio della uguaglianza nel suo doppio significato, e alla pretesa che esso, lungi dal rimanere una semplice opinione filosofica, o una dichiarazione di intenti, divenisse ispirazione inderogabile del legislatore. Anzi, si è preteso che tale dottrina politica divenisse universale.

A metà del secolo XX, l’esperienza di due guerre disastrose, ma più ancora la scoperta della perversione cui il nutrirsi di idee basate sulla disuguaglianza può condurre la natura umana, ha portato  prima alla costituzione dell’Assemblea delle Nazioni Unite, poi alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, proclamata dall’Assemblea Generale dell’Organizzazione anzidetta, nella sessione generale di Parigi del 10-12-1948, e ritenuta il punto di incontro degli orientamenti degli Stati civili. In tale Dichiarazione si legge:

 

Articolo 1

Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.

Articolo 7

Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un'eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto ad un'eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Articolo 8

Ogni individuo ha diritto ad un'effettiva possibilità di ricorso a competenti tribunali nazionali contro atti che violino i diritti fondamentali a lui riconosciuti dalla costituzione o dalla legge.

 

La Dichiarazione proviene da Stati assai dissimili sul piano ideologico e politico, come gli Stati Uniti e l'URSS; Stati con sistemi economici e politici molto lontani, come i paesi occidentali da una parte e l'Etiopia, l'Arabia Saudita e l’Afghanistan dall'altra; Stati ispirati a visioni religiose differenti: cristiani (i paesi occidentali e quelli latino-americani), musulmani (come l'Arabia Saudita, l'Afghanistan, la Turchia, il Pakistan ecc.), induisti (come L'India) o di tradizione buddista (come la Cina). E’ importante che tali Stati abbiano potuto trovare un minimo comune denominatore, sia sul piano della concezione dei rapporti tra Stato e individuo, sia su quello dell'individuazione dei diritti umani fondamentali[90].

La Dichiarazione fu il frutto di discussioni e aspri dissensi fra quelli che Cassese individua come grosso modo quattro schieramenti.

Quello dei paesi occidentali (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, seguiti dagli altri Stati dell'Occidente politico) che prese la leadership sin dall'inizio; quello dell'America Latina che agì con notevole vigore, suggerendo soluzioni o propugnando formule che anche l'Occidente esitava ad accettare; quello compatto e intransigente dell’Europa socialista, l'unico schieramento capace di fronteggiare le tesi dell'Ovest; e quello dei paesi asiatici, che ebbero in generale scarso peso, tranne quelli musulmani, guidati dall'Arabia Saudita e dal Pakistan, che non si opposero alle proposte occidentali né condivisero le obiezioni socialiste, ma espressero sin da allora riserve dettate dalla tradizione culturale musulmana, in materia di religione e di vita familiare.

Le tesi degli occidentali proponevano di estendere a livello mondiale i solenni principi delle tre grandi democrazie in cui i diritti umani erano nati e fioriti: Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia. In sostanza, cioè, quei paesi proponevano di proclamare sul piano interstatuale le concezioni giusnaturalistiche che avevano costituito l’ispirazione dei loro grandi testi politici interni. Soltanto in un secondo tempo, di fronte all'ostilità dei paesi socialisti, e su forte impulso di quelli latino-americani (che ebbero per questo rispetto un ruolo importantissimo), essi ac­cettarono di inserire nella Dichiarazione Universale anche una serie di diritti economici e sociali.

I paesi socialisti partirono dal presupposto che comunque tutti i diritti in essa sanciti erano pienamente riconosciuti e praticati nei loro paesi. Dunque diedero una mano alla stesu­ra della Dichiarazione, formulando proposte ed emendamenti, che però in parte vennero respinti. Perciò alla fine, in occasione del voto sull'insieme della Dichiarazione si astennero come,per mo­tivi ben diversi, si astennero anche il Sudafrica e l'Arabia Saudita[91].

Più volte si è fatto appello alla Dichiarazione universale per denunciare e sottomettere a istanze internazionali politiche interne contrarie ai diritti in essa riconosciuti come irrinunciabili, come ad esempio la politica di segregazione razziale dell’Africa del Sud.

Grazie alle iniziative prese, per esempio nel quadro del Consiglio d’Europa per l’attuazione della Dichiarazione universale, è stato reso possibile all’individuo rivendicare questo principio presso la Corte Europea dei diritti dell’Uomo anche nell’inerzia o in contrasto col proprio Stato[92].

 

 

8. – Conclusioni

 

Come si vede, il principio di uguaglianza non sembra essersi evoluto secondo una linea di continuità organica. In particolare l’idea di un suo continuo progresso si scontra con un problema apparentemente irresolubile: come è stato possibile, nella civilissima Europa, accettare le leggi razziali, e pur dopo la tragedia cui esse avevano portato continuare a  fare due pesi e due misure[93]? Come è possibile che vi siano oggi, in taluni  paesi europei, persone cui di fatto non si applicano le leggi dello Stato? Non è un tornare, questo, a quel particolarismo giuridico che proprio l’art. 3 sembra voler negare?

Voegelin, nelle sue lezioni su Hitler tenute all’Università di Monaco, parlava di analfabetismo spirituale, di un disturbo nell’equilibrio dello spirito, favorito dalla fiducia ottocentesca nella scienza, che impedirebbe di riconoscere l’ignominia inducendo a chiamarla con altro nome. E per scienza Voegelin intendeva il Darwinismo sociale, cioè l’evoluzionismo applicato alle culture e alle società umane, un’applicazione ai fenomeni sociologici della politica liberale della competizione e della selezione del migliore attraverso la competizione. Se ci si lascia coinvolgere dal Darwinismo sociale – sostiene questo studioso - ci si ritrova immersi nella difficoltà della dialettica delle integrazioni storiche: la sopravvivenza del più adatto significa proprio la presa di posizione del più forte come prova dl suo essere migliore: la sopraffazione è autoreferenziale, chi vince non  solo è più forte, è anche nel giusto[94]. Ma – avverte Voegelin – nel momento stesso in cui per queste stesse ragioni il Marxismo critica il Liberalismo, ritenendolo lo stato normale del regno animale[95], nel momento stesso in cui indica nel socialismo il salto dell’Umanità dal regno della necessità a quello della libertà, esso mostra di credere in un uomo che si evolve nella sua essenza, che diviene. Come ebbe a notare Bloch, l’uomo è qui qualcosa di distante e utopicamente intuito, non di astoricamente fondamentale e sicuro.[96] Anche il Fascismo e il Nazionalsocialismo diventano religione politica fondata sul culto sacralizzante della Patria, il cui principale fine storico è la creazione dell’ «uomo nuovo»[97]. Dunque è l’identità della natura umana che viene negata, nell’un caso e nell’altro.

De Felice che, come è noto, prima di divenire lo storico del Fascismo per eccellenza dedicò le sue ricerche al Giacobinismo, ha visto nella religiosità rivoluzionaria apocalittica il tratto caratteristico della ideologia rivoluzionaria giacobina, che sarebbe alla radice di una tale negazione[98]. Anche secondo Camus, il pensiero rivoluzionario non avrebbe sostituito l’ateismo alla vecchia religione, bensì ne avrebbe generato una nuova che nelle intenzioni doveva abbattere i vecchi altari e i vecchi patiboli per erigerne di nuovi[99].  Soprattutto nel «L’uomo in rivolta», Camus indaga le radici metafisiche della rivolta dell’uomo contro la propria condizione umana, quindi anzitutto contro Dio che permette il dolore, le menomazioni, la morte; in secondo luogo contro un ordine sociale e politico che non è capace di realizzare la giustizia. Qui egli colloca le radici della rivolta storica.

L’esecuzione di Luigi XVI il 21 gennaio 1793 – come quella dei Romanov il 17 luglio 1918 – simboleggia a suo modo di vedere la sconsacrazione della storia e la disincarnazione di Dio, attuate nella consapevolezza del significato simbolico di quanto si compiva. Pretendendo di costruire la storia sopra un principio di purezza assoluta, la Rivoluzione apre i tempi moderni e insieme l’era della morale formale. Ma quando è formale, la morale può essere mostruosa.

I giacobini hanno soppresso  ciò che sino a quel momento sosteneva i princìpi, in nome dei quali essi si rivoltavano: ai comandamenti divini hanno sostituito la legge, che ritenevano dovesse essere riconosciuta da tutti in quanto espressione della volontà generale. Però la legge umana può regnare sintanto che è legge della ragione universale, e il XIX secolo è il secolo del principio di nazionalità. Ovunque, la sovranità delle nazioni sostituisce di fatto e di diritto il re sovrano il quale era il tramite fra l’ordinamento dello Stato e il sistema di norme che si ritenevano ad esso sovraordinate. Così i giuristi borghesi del Settecento hanno preparato i due terribili nichilismi contemporanei: quello dell’individuo e quello dello Stato.

Dice Camus: se la legge si evolve fino a confondersi con il legislatore e con un nuovo beneplacito, allora non c’è più potere legittimo. Se i grandi princìpi non hanno fondamento, se la legge non esprime null’altro che una disposizione provvisoria, essa non è fatta ormai se non per essere imposta. Sade o la dittatura, terrorismo individuale o terrorismo di Stato, ambedue sono giustificati dalla stessa assenza di giustificazione[100]. L’azione non è più che un calcolo in funzione dei risultati, non dei princìpi. Risale a quel tempo l’idea che l’uomo non abbia una natura umana data una volta per tutte, che non sia una persona compiuta, ma un’avventura della quale l’uomo stesso può farsi creatore. Ma se ciò che conta  è il progresso, e l’uomo o il popolo «rimasti indietro» possono essere considerati dei relitti biologici che la natura – e perché non noi stessi – eliminerà, si aprono gli scenari che il Novecento ha ben posto sotto i nostri occhi, ma di cui  forse non abbiamo ancora  ben compreso la lezione. Che consiste nel fatto che non il fine giustifica i mezzi, ma i mezzi giustificano il fine: non è vero che qualunque sacrificio umano è giustificato dalla nobiltà del fine, bensì la nobiltà del fine è giustificata dai mezzi necessari per conseguirlo, e questi mezzi non possono, non devono mai richiedere la negazione della dignità umana.

Scansione0002Non voglio richiamarmi qui alle molte volte in cui questo Papa è tornato a ribadire questi concetti, Chiuderò piuttosto con le parole di Kant: nel regno dei fini, egli dice, tutto ha un prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito con qualcosa d'altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità. Ciò che permette che qualche. cosa sia un fine a sé stesso (Zweck an sich selbst) non ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore intrinseco, e cioè una dignità. Nella Metafisica dei costumi (1797) il filosofo ribadisce il concetto con queste parole:

«L'uomo, considerato nel sistema della natura (homo phaenomenon, cioè elemento del mondo sensibile, animale razionale), è un essere di importanza mediocre ed ha un valore modesto (pretium vulgare) che condivide con tutti gli altri animali che produce la terra. Ma, considerato come persona, e cioè come soggetto di una ragione moralmente pratica, l'uomo è al di sopra di qualunque prezzo. Perché da questo punto di vista, (come homo noumenon, membro del mondo intelligibile), egli non può essere considerato come un mezzo per i fini altrui, o anche per i propri fini, ma come un fine in se stesso, e cioè egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto) mediante cui costringe tutte le altre creature ragionevoli al rispetto della sua persona e può misurarsi con ciascuna di esse e considerarsi eguale ad esse»[101].

 

 

 



 

[1] V. FALZONE, F. PALERMO, F. COSENTINO, La costituzione della repubblica italiana illustrata con i lavori preparatori, Roma  1954, 28 e ss. Sull’art. 3 comma 2 come « supernorma»  volta alla prefigurazione di una società nuova e diversa vedi  C. LAVAGNA,  Costituzione e socialismo, Bologna 1977,  55 e ss; più restrittivo C. ESPOSITO,  Eguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione,  in La Costituzione italiana. Saggi, Padova 1954, 37, 66

 

[2] L. GIANFORMAGGIO, Eguaglianza formale ed eguaglianza sostanziale: il grande equivoco, in Foro italiano, 1996, I, 1961 e ss.

 

[3] M. FLORES, Storia dei diritti umani, Bologna 2008, 240 ss.

 

[4] M. VILLEY, Il diritto e i diritti dell’uomo, Siena 2009, 20 ss.

 

[5] Non sembra peraltro azzardata l’ipotesi di Villey che fa discendere il declino degli studi storici nelle facoltà di Giurisprudenza dal trionfo, di cui spesso non si sarebbe nemmeno consapevoli, dell’idea che le dottrine dell’Antichità o del Medio Evo sarebbero oggi superate e non potrebbero più dare risposta ai problemi del nostro tempo. M. VILLEY, op. cit., 31.

 

[6] M. VILLEY, op. cit.,  50

 

[7] M. VILLEY, op. cit.  56,

 

[8] Un quadro con lo stesso soggetto fu fatto appendere nel 1643 dal Grande Elettore nella sala del più alto tribunale territoriale prussiano, il Kammergericht di Berlino,  ad ammonimento dei suoi giudici. I quali si sentirono offesi nel loro onore e pregarono di togliere il quadro; questo, però, sino alla fine del XVII secolo, e cioè per oltre 100 anni, rimase appeso nella sala delle udienze E. Döhring, Geschichte der deutschen Rechtspflege, 1953,  113.

 

[9] E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Milano 2002,  329.

 

[10]Vedi  Edictum Theoderici regi,  ed. Baviera, in FIRA, II, 1964 .

 

[11] CASSIODORI , Variarum libri XII, ed Fridh, I, in CC.  S.L. 96,  Turnholti 1973: «...quorum est proprium inter pares ac dispares aequabilem iustitiam custodire…ut unusquisque sua jura serventur, et sub diversitate judicum una justitia complectatur universi». Su ciò B. SAITTA,  La civilitas di Teodorico. Rigore amministrativo «tolleranza» religiosa de recupero dell’antico nell’Italia  ostrogota, Roma 1994,  16 e ss.; cfr. G. ASTUTI, Note sull’origine e attribuzione dell’«Edictum Theoderici regis», in Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, Napoli 1984,  41 e ss

 

[12] Pactum legis salicae, ed. K.A. Eckhardt, in M.G.H., LL.NN.GG., IV, I, Hannover, MCMLXII, 50, 4.

 

[13] M.G.H. SS. Annales Laureshamenses, sub anno 802, cap. I, 36-41.

 

[14] A. ERLER, Armenrecht, in  Handwörterbuch zur Deutschen Rechtsgeschichte, 1, 228.

 

[15] A. ERLER, Die ältere Urteile des Ingelheimer Oberhofes, I-IV, 1952-1963.

 

[16] K. FRÖLICH, Mitelalterliche Bauwerke des Rechtsdenkmäler, 1939, 35.

 

[17] G. CASSANDRO,  Lezioni di diritto comune, Napoli 1971.

 

[18] Ebrei, 4, 12. Concetti simili in ISAIA, 49,2.

 

[19] Il pannello, il terzo della serie, fu consegnato nel 1903. Ma, assieme agli altri due, venne rimosso dalla sua sede e depositato, nonostante le proteste dell’autore. presso la Österreichische Galerie. I pannelli andarono distrutti nel 1945 a causa dell'incendio appiccato dalle SS nel corso della loro ritirata.

 

[20] Politica, I, 2, 13.

 

[21] Politica, I, 2, 20-21.

 

[22] VILLEY, op. cit.,  103.

 

[23] M. NILL, Morality and self-interest in Protagoras, Antiphon, and Democritus, Leiden 1985; Die Fragmente der Vorsokratiker, ed. H. Diel, 1956, 8a ed., II, Antiphon, 352.

 

[24] Donde isopolites era il cittadino di condizione democratica.

 

[25] C. CURCIO, Eguaglianza, in Enciclopedia del diritto, XIV, 1965.

 

[26] Tucidide, Delle guerre del Peloponneso, II, 35-37.

 

[27] CICERONE, De legibus, I, 8.

 

[28] CICERONE, Ibidem, I, XVI.

 

[29] CICERONE, De officiis, II, 8

 

[30] SENECA, De beneficiis, III, 19-28.

 

[31] D. I, 1, 4; I, 12, 32.

 

[32] F. SINI, Sua cuique civitati religio, Torino 2001, 54.

 

[33] TACITO, Annali, I, 4, 1: Igitur verso civitatis statu nihil usquam prisci et integri moris: omnes exuta aequalitate iussa principis aspectare.

 

[34] GENESI, 1, 27: «E Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»

 

[35] Non a caso è proprio l’arrogante risposta di Caino (Sono io responsabile di mio fratello?) a diventare uno dei motti più diffusi e famosi una volta ribaltata nel suo valore affermativo. FLORES, op. cit., 15.

 

[36] Esodo, 21, 1.

 

[37] Levitico, 25, 8.

 

[38] E.BUSSI, Evoluzione, cit.,130.

 

[39] Galati, 3, 28

 

[40] J. RATZINGER, Il Dio vicino, Milano 2008, 31.

 

[41] Atti, 10, 34-35.

 

[42] Su ciò E. BUSSI, Evoluzione, cit., 117.

 

[43] T. PARSONS, La struttura dell’azione sociale, Bologna 1962, 77. Nello stesso senso E. BUSSI, Evoluzione, cit., 130.

 

[44] M. ROBERTI, La lettera di S. Paolo a Filemone e la condizione dello schiavo fuggitivo, Milano 1939.

 

[45] Filemone, 10-16.

 

[46] Romani, 13,1 ; ma vedi anche, I Corinzi, 7, 20-21 ; Efesini, 6,5 ; Colossesi, 3,22, 4, 1 ; I Timoteo 5,8.

 

[47] BEAUMANOIR, Coutumes de Beauvaisis, Paris 1899-1900, XXX, § 833,  431.

 

[48] «Sive servus, sive liber omnes in Christo unus sumus, ut sub uno Domino aequalem servitutis militiam bajulamus, quia non est personarum apud Deum acceptio», Raterio, Praeloquorum libri, I, 10 (vedilo in www.Documentacatholicaomnia.eu ).

 

[49] Il principio, che parte dal precetto evangelico «Date a Cesare quell che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Luca, 20,21), viene espresso nella maniera più chiara in un passo contenuto nella lettera inviata – forse nel 494 - da papa Gelasio I all’imperatore d’Oriente, e poi recepito dal Decretum grazianeo (c.10, D.XCVI): «Duo sunt quippe quibus principaliter mundus hic regitur: auctoritas sacrata pontificum et regalis potestas. In quibus tanto gravius est pondus sacerdotum, quanto etiam pro ipsis regibus Domino in divino sunt reddituri examine rationem Nosti itaque ex illorum te pendere judicio, nos illos ad tuam velle redigi voluntatem. Quanto potius sedis illius Romanae praesuli consensus est adhibendus, ... quem Christi vox praetulit universis, quem ecclesia veneranda confessa semper est et habet devota primatum», vedi P. JAFFE', Regesta, vol. I, 85, n.632; MIGNE, P.L., LIX, coll.41-47.

 

[50] G. KISCH, Sachsenspiegel and Bible, Notre Dame, Indiana, 1941.

 

[51] Sachsenspiegel, III, 42. Vedilo ora nella bella edizione digitale a cura di D. Munzel-Everling.

 

[52] Vedi De coelesti Hierarchia, XIII, III, in MIGNE, P.G., III, col.304, (303), A,B.

 

[53] M-D. CHENU, La theologie au douzième siècle, Paris, 1976, 3a, 129 ss., trad. it. La teologia nel Medio Evo. La teologia nel sec. XII, Milano, 1972, 143. Y. CONGAR, Les Laics et l'ecclesiologie des ordines, in Etudes d'ecclesiologie medievale, London, 1983, 94 e ss. L' a. nota come questa tripartizione abbia una lunga tradizione indoeuropea. G. DUBY,  Lo specchio del feudalesimo. Sacerdoti guerrieri e lavoratori (tr. it.), Roma - Bari, 1984, 18 e ss.

 

[54] D. WINSPEARE, Storia degli abusi feudali, Napoli 1883. Giurista e filosofo campano, il Winspeare fu nominato da Gioacchino Murat nel 1808 procuratore generale della Commissione feudale.

 

[55] JOHANNES SARESBERIENSIS, Polycraticus, cit., VI, XXI-XXII, in Migne, P.L., CXCIX, 619-620.

 

[56] G.CASSANDRO, voce Resistenza, in in Novissimo Digesto Italiano, vol. XV  161 e ss.

 

[57] L. BUSSI, Fra unione personale e stato sovranazionale. Contributo alla storia della formazione dell’Impero d’Austria, Milano 2003.

 

[58] Il movimento della Pataria nacque nell’XI secolo dalla reazione del clero di base e dei ceti più umili contro la simonia e la ricchezza delle alte cariche ecclesiastiche. Il termine pataria deriva dalla parola dialettale milanese patee, stracci, usata per definire, in maniera spregiativa, il basso stato sociale dei suoi adepti.. Di probabili origini manichee e bogomile, le dottrine cataresi – che si diffusero in una vasta area dell'occidente cristiano, che comprendeva la Linguadoca fino alle sue propaggini pirenaiche, estendendosi anche in Lombardia e Piemonte - rifiutavano la dottrina giudaicocristiana secondo cui il mondo sarebbe opera divina; e spiegavano la presenza del male attribuendola alla materia, distinguendo tra Dio e materia come entità eterne e separate. Vedi M. BARBER , I Catari.  Il dualismo eretico in Linguadoca nell'età medievale. Origini, dottrina, Genova 2008.

 

[59] La letteratura su S. Francesco d’Assisi è molto vasta. Vedi per tutti Il francescanesimo dalle origini alla metà del secolo 16, esplorazioni e questioni aperte : atti del Convegno della Fondazione Michele Pellegrino, Università di Torino, 11 novembre 2004  (a cura di F. Bolgiani, G. Merlo), Bologna 2005.

 

[60] G. DILCHER, Formazione dello Stato e comune cittadino nel Sacro Romano Impero, in Diritto @ Storia, 2004.

 

[61] H. Planitz, Die deutsche Stadt im Mittelalter, Graz / Köln 1954 (ristampa Wiesbaden 1996), 254 ss. ed ulteriori rinvii.

 

[62] G. DILCHER, Die Rechtsgeschichte der Stadt, in K. Bader – G. Dilcher, Deutsche Rechtsgeschichte. Land und Stadt – Bürger und Bauer in alten Europa, Berlin-Heidelberg-New York 2002, 483.

 

[63] G. Dilcher, Zum Bürgerbegriff im späteren Míttelalter. Versuch einer Typologie am Beispiel von Frankfurt am Main, in: id., Bürgerrecht und Stadtverfassung im europäischen Mittelalter, Köln/Weimar Wien 1996 (il saggio apparve per la prima volta nel 1980), 115 ss.

 

[64] W. Rüegg, Themes, in A history of the University in Europe, (a cura di H. De Ridder-Symoens), Cambridge 1992, 30.

 

[65] In tema vedi A. ERLER, Der Loskauf Gefangener. Ein Rechtsproblem seit drei Jahrtausenden, Berlin 1978,  55 ss. I saqaliba, gli schiavi bianchi, erano una merce particolarmente ricercata, che poteva essere proficuamente scambiata con quelle provenienti dall’Oriente, e la cui cattura e commercio  costituivano pertanto una fiorente attività. Vedi F. CARDINI, Europa e Islam. Storia di un malinteso, Bari 2008, 40-41.

 

[66] Su Las Casas vedi per tutti L. HANKE, Las teorias politicas de Bartolomé de Las Casas, Buenos Aires 1935; nonché, dello stesso a., Bartolomé de Las Casas: Historia, Gainesville, 1952; K. PENNINGTON, Bartolomé de Las Casas and the Tradition of Medieval Law,  in Popes, Canonists, and Texts 1150 - 1550 (Collected Studies Series) 412.

 

[67] Vedi I. BIROCCHI, Juan Ginés de Sepúlveda internazionalista moderno ? Una discussione sulle origini della scienza moderna del diritto internazionale, in A Ennio Cortese, Roma 2001, I, 81 ss.

 

[68] VILLEY, op. cit., 142.

 

[69] VILLEY, op. cit., 144.

 

[70] E. BUSSI, Evoluzione, 55 e ss.

 

[71] Va ricordata in particolare la rivolta di Saint- Domingue del 22 agosto 1791: due anni dopo, Léger –Félicité Sonthonax, inviato come commissario nell’isola,proclama di sua iniziativa la fine dello schiavismo nell’isola. Vedi M. FLORES, op. cit.,  93.

 

[72] BURLAMACHI, Principes de droit politique, tr. it., Venezia 1780, 6.

 

[73] VICO, La scienza nuova, IV, 4, Bari 1916 (a cura di Nicolini), III, 793.

 

[74] MONTESQUIEU, L’esprit des lois, tr. it., I, Milano 1819, 108-115.

 

[75] Ibidem, 240-241.

 

[76] VOLTAIRE, Pensée sur l’administration publique, in Œuvres, XXIX, Paris 1785, 25

 

[77] E. BUSSI, Stato e amministrazione nel pensiero di Carl Gottlieb Svarez precettore di Federico Guglielmo III di Prussia (Archivio della Fondazione italiana per la Storia amministrativa), Milano, 1966.

 

[78] J. H. G. von JusTI, Die Natur und das Wesen der Staaten (Berlin-Stettin-Leipzig 1760), 30.

 

[79] CONDORCET, Idées sur le dispotisme, 1784, in  Oeuvres, IX., Paris, 1804, 66.

 

[80] CURCIO, voce Egualianza (dottrine generali), in Enciclopedia del diritto, XIV (1965), 510 ss.  

 

[81] Cfr. M. ROBERTI, Milano capitale napoleonica. La formazione di uno Stato moderno, 1796-1814, Milano 1946, I, 326 ss.

 

[82] FILANGIERI, La scienza della legislazione, Livorno 1827, II, 48.

 

[83] Possono essere riguardate in questa ottica le considerazioni critiche di  R. JHERING,  Der Kampf um's Recht, 1872; ID., Zweck im Recht, 1877-1884; in tr. it. (la traduzione è di G. Lavaggi, l'introduzione di F. Vassalli) Serio e faceto nella giurisprudenza, Firenze, 1954.

 

[84] Le donne dovettero lottare duramente per superare tali limiti, particolarmente accentuati in una società industriale che aveva spostato in luoghi ad esse inaccessibili la produzione dei beni materiali e culturali, e la stessa organizzazione della società. La stessa rivendicazione dei loro diritti – come ad esempio la Declaration  of Sentiments (la cui occasione, non a caso, è il congresso mondiale contro la schiavitù che si tiene a Londra nel 1840) – è ritenuta scandalosa. In tema vedi Il sentimento delle libertà: la dichiarazione di Seneca Falls e il dibattito sui diritti delle donne negli Stati Uniti di metà Ottocento (a cura di R. Baritono),  Torino 2001, 7-8.  Vedi pure M.T. GUERRA MEDICI, La cittadinanza difficile: introduzione allo studio della condizione giuridica della donna in Italia, Camerino 2000.  

 

[85] KANT, Scritti politici,  (a cura di Bobbio, Firpo e Mathieu) Torino 1950, 255.

 

[86] CONSTANT, Principes de politique, in  Cours de politique constitutionelle, Paris 1861, cap. I.

 

[87] CONSTANT, Mélanges de litèrature et de politique, Paris, 1829.

 

[88] G. ANSCHÜTZ, Preussische Verfassungsurkunde, I, 1912,  109; cfr. E.R. HUBER, Deutsche Verfassungsgeschichte seit 1789, III,  102.

 

[89] G. SCHEPIS, Elezioni (storia),in  Enciclopedia del diritto,  XIV (1965),  668.

 

[90] Charles Malik, l’intellettuale libanese che contribuì in larga misura alla stesura della dichiarazione dirà: «Migliaia di menti e di mani hanno contribuito alla sua formazione». Vedi The Challenge of Human Rights: Charles Malik and the Universal Declaration, (a cura di H.C.Malik), Oxford 2000, 117.

 

[91] A. CASSESE, I diritti umani oggi, Bari 2007,  32 ss.

 

[92] SPERDUTI, voce Diritti umani, in Enciclopedia del diritto, XII, (1964) 819.

 

[93] Così, in Italia, l’opinione pubblica si indigna per il destino dei Palestinesi, ma non per quello dei Giuliani. Eppure Istria e Dalmazia erano da secoli italiane, anzi veneziane, e i confini del Medio Oriente, sono stati disegnati a tavolino, nel grande corpo dell’Impero ottomano; ci si infiamma per il diritto delle donne ad abortire, ma non per quello delle bambine a non subire mutilazioni sessuali.

 

[94] E. VOEGELIN, Hitler e i Tedeschi, (trad. it. M.E. Craveri), Milano 2005, 122

 

[95] F. ENGELS, Dialektik der Natür, cit. Da H. FLEISHER, Marxismo e storia,  1970,  237.

 

[96] E. BLOCH, Natürrecht und menschliche Würde, Frankfurt 1961, 237.

 

[97] E. GENTILE, Dizionario di politica, vol. IV, Roma, 1940, 116-117.

 

[98] R. DE FELICE, L’evangelismo giacobino e l’abate Claudio della Valle, in Italia giacobina, Napoli 1965, 172.

 

[99] CAMUS, L’uomo in rivolta, (trad. it. L. Magrini) Milano 1957, 133.

 

[100] CAMUS, op. cit., 147

 

[101] Citato da A. CASSESE, op. cit., 54.