ds_gen N. 8 – 2009 – Memorie//XXIX-Roma-Terza-Roma

 

Enrico Montanari

Università di Roma “La Sapienza”

 

ASPETTI RELIGIOSI DELL’IMPERIUM IN ETÀ REPUBBLICANA

 

 

 

Le connessioni della religio con l’imperium in età repubblicana sono state oggetto di un ampio dibattito, fin dal XIX secolo. Centrale, in proposito, è stata la questione se il pontifex maximus disponesse o meno dell’imperium magistratuale. Come è noto, questa possibilità venne inizialmente negata dal Bouché-Leclercq[1] e, pochi anni dopo, sostenuta invece dal Mommsen[2].

In termini così schematici, il problema sembra configurare una radicale contrapposizione. In realtà, sia Bouché-Leclercq sia Mommsen sfumarono le loro interpretazioni: il primo, pur negando l’imperium al pontifex maximus, ammetteva la assimilazione di questo sacerdote a un magistrato; il secondo, pur riconoscendoglielo, ne motivava il possesso col fatto che si trattasse di una “analoge Gewalt” rispetto all’imperium. Le articolazioni dei giudizi erano giustificate da, e insieme giustificavano, l’idea che sussistesse comunque una demarcazione fra poteri sacerdotali e magistratuali pur nella gestione effettiva, non di rado congiunta, delle cariche[3]. Di qui, da parte di Mommsen, la postulazione di una “Grenzlinie”, di una linea di confine fra sacerdozi e magistrature, che pure ammetteva, nel caso del pontifex maximus, una sorta di “eccezione” (sia quanto all’imperium, sia quanto all’auspicium magistratuale).

Di recente, in uno studio ampio e rigoroso su Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, Franco Vallocchia ha riconsiderato per intero la questione dei poteri del pontifex maximus. Dalla sua analisi risulta come la dottrina posteriore a Bouché-Leclercq e a Mommsen si sia ripartita fra le due rispettive posizioni, con prevalente orientamento a negare al pontifex maximus la detenzione dell’imperium[4]. Restava tuttavia altrettanto prevalente una tendenza ad ammettere che il pontifex maximus esercitasse un potere in qualche modo “avvicinabile” a quello dei magistrati cum imperio: il che ha portato sovente gli studiosi a formulare teorie ingegnose e quanto arbitrarie riguardo alle prerogative del pontifex maximus in tema di imperium: dall’“analoge Gewalt” di cui si è detto, all’imperium mandatum secondo de Francisci, e financo ad un “geistliche Imperium”, secondo Brecht[5].

Questa impasse “intuizionistica” è stata evitata, sul piano metodologico, dagli studi promossi da Pierangelo Catalano, che hanno spostato l’attenzione dall’intensità e somiglianza dei poteri sacerdotali al loro diverso fondamento rispetto a quelli magistratuali: gli uni, quelli sacerdotali, derivando sostanzialmente dalla volontà divina espressa mediante l’inauguratio[6]; gli altri, quelli magistratuali, derivando invece dalla volontà del populus accompagnata dall’approvazione divina espressa attraverso la lex curiata auspiciorum causa, per quanto attiene all’esercizio dell’imperium[7]. Su questa linea metodologica si muove anche Vallocchia, il quale sostiene che l’elezione comiziale del pontifex maximus da parte delle 17 tribù costituenti una minor pars populi non muta sostanzialmente il fondamento del potere del pontifex maximus - che non si converte alla “sovranità popolare” e resta affidato all’inauguratio e alla cooptatio tra i pontefici -, ma piuttosto corregge alcune distorsioni connesse al carattere originariamente “chiuso” dell’assetto pontificale[8].

Premessa quest’impostazione, che ci sembra condivisibile, si può considerare la base documentaria su cui Mommsen aveva fondato l’attribuzione dell’imperium al pontifex maximus, ossia il passo di Livio (37.51.1-4) in cui si parla dell’ingens certamen fra il pontifex maximus P. Licinus Crassus Dives e Q. Fabius Pictor, flamen Quirinalis. Cercheremo di considerare il passo non solo sotto l’aspetto del “caso” giuridico-religioso ma anche contestualizzandolo nel suo ambito storico-culturale. Siamo nel 189 a.C.: Q. Fabius Pictor, nominato flamen Quirinalis l’anno precedente, viene eletto praetor e sceglie la provincia Sardinia. Ma Licinius gliela vieta “per motivi di culto” (ad sacra) connessi col suo ufficio sacerdotale. Fabius reagisce e vi sono “inibizioni di imperia da una parte e dall’altra” (imperia inhibita ultra citroque), con reciproche imposizioni di multe e di garanzie, appello ai tribuni e, infine, provocatio ad populum. Il passo liviano suggerisce un contenzioso complesso, nel quale si scontrano i rispettivi imperia. Sull’accezione del termine, come si è detto, si è discusso a lungo. In ogni caso, anche a noi non sembra plausibile che l’uso occasionale del termine imperium indichi la detenzione di questo specifico potere in senso tecnico da parte del pontifex maximus[9]. Piuttosto, il termine sembra designare - come nota lo stesso Livio - un dictum coercitivo nei confronti di un sacerdote giuridicamente subordinato, com’era il flamen Quirinalis, i cui effetti potevano condizionare le scelte del soggetto colpito, in quanto praetor. Livio osserva che alfine “prevalse l’obbligo religioso” (religio ad postremum vicit), con Fabius peraltro assolto dalla multa comminatagli dal pontefice massimo; e col senato che temperò il suo risentimento - Fabius voleva rinunciare alla magistratura - assegnandogli la carica di praetor peregrinus, che gli consentiva di restare a Roma e di non compromettere l’esercizio dei suoi doveri sacerdotali.

Consideriamo brevemente un profilo dei personaggi implicati nella vicenda. P. Licinius Crassus Dives appartiene a una gens plebea che aveva dato il suo nome alle leggi Liciniae-Sextiae (367 a.C.), che avevano sancito la parificazione degli ordines a livello di consolato e di sacerdozio sacris faciundis. A un secolo e mezzo di distanza la gens Licinia, nelle sue molteplici diramazioni familiari, rappresentava una delle più autorevoli stirpi della nobilitas patrizio-plebea. Inoltre Licinius era stato nominato pontifex maximus nel 212 a.C., in un momento estremamente difficile per Roma, anche sotto l’aspetto religioso. Ancora sotto l’effetto della disfatta di Canne, e sotto la minaccia di Annibale, la Città era caduta preda di sacrificuli ac vates che, come nota Livio (25.1.8), avevano carpito le mentes dei cittadini, provocando un dilagare di riti superstiziosi. Livio aggiunge (25.5.2-4) che il giovane Licinius non aveva fino a quel tempo rivestito alcuna carica curule (cosa assai rara in un personaggio eletto pontifex maximus) e che in quell’ingens certamen era prevalso su altri due concorrenti ben più accreditati (Q. Fulvius Flaccus e T. Manlius Torquatus, già famosi per due consolati e per la censura). Cosa avrebbe determinato la sua elezione (giacché quello di Licinius costituisce il primo caso certo di elezione comiziale - sia pure dalla minor pars populi - di un pontifex maximus?[10] In altro passo (30.1.5), Livio lo definisce iuris pontificii peritissimus: all’assunzione della carica, era pontefice da almeno sei anni. Può dunque ritenersi che la scelta privilegiasse un candidato in grado di dedicarsi con speciale cura al suo ufficio sacerdotale, data l’esperienza acquisita come pontifex, l’alto lignaggio e la grave emergenza anche religiosa. La lunga durata nella carica di pontifex maximus (ventinove anni: Licinius morì nel 183 a.C.), oltre alle benemerenze acquisite nel tempo come censore e console, fanno di lui un personaggio eminente della sua epoca; la sua laudatio, riassunta da Livio (30.1 ss.), lo conferma.

Certo, Licinius fu uomo del suo tempo anche quanto alle passioni politiche. Q. Fabius Pictor, il suo antagonista nella vicenda del 189, era quasi certamente figlio del primo annalista letterario di Roma[11], a sua volta senatore e portavoce del Cunctator[12]. E’ opinione concorde degli studiosi[13] che le “Parteien” di appartenenza dei due personaggi si contrapponessero in senato. Licinius era orientato verso il partito “scipionico”, che annoverava anche Aemilii[14], Acilii Glabriones, Minucii, Laelii, Pomponii. Il partito antiscipionico registrava i Fabii (il Cunctator anzitutto), i Valerii, i Manlii, i Sempronii, i Fulvii, oltre all’apporto decisivo di Catone Censore[15]. Proprio nel 189 a.C. sarebbe stata condotta dal partito antiscipionico un’azione vincente in sede di attribuzione delle cariche, con i consoli e almeno tre su sei pretori riconducibili all’area fabio-catoniana: fra questi, Q. Fabius Pictor[16]. Tuttavia, se questo può giustificare l’asprezza del confronto fra Licinius e Fabius, non ne spiega le motivazioni profonde. Certamente Licinio era credibile quando emanava il suo divieto, dal momento che nel 205, eletto console assieme a Scipione (il futuro Africano), aveva desistito dalla competizione per l’assegnazione della Sicilia quia sacrorum cura pontificem maximum in Italia retinebat (Liv. 28.38.12; cfr. 28.44.11): ossia per lo stesso motivo per cui, nel 189, si oppone al sacerdote di Quirinus che ambisce a ottenere la Sardegna come praetor.

Va anche osservato che il comportamento di Licinius non è isolato. Livio stesso, quando riferisce il contrasto con Fabius, richiama un precedente conservato dalla tradizione (patrum memoria) e riferito a L. Caecilius Metellus, che era stato pontefice massimo dal 243 al 221 a.C. Nel 242 egli aveva proibito al console A. Postumius Albinus di partire assieme al collega C. Lutatius Catulus per assumere il comando della flotta in Sicilia, dal momento che Postumius rivestiva anche la carica di flamen Martialis[17]. Sono significative le parole con cui Valerio Massimo spiega il contrasto: “Non sembrava che Postumius potesse affidarsi al certame di Marte con sicurezza, se fossero state da lui trascurate le cerimonie sacre in onore di Marte” (1.1.2: quod tuto se Postumius Martio certamini commissurus non videbatur caerimoniis Martis desertis). In altri termini, l’omissione dei riti affidati a Postumius in quanto flamen Martialis e riguardanti il dio della “funzione guerriera”[18], avrebbe potuto provocare l’ira del dio e revocare la sua protezione in caso di guerra combattuta da Postumius in quanto console (e, per conseguenza, danneggiare l’esito della guerra in generale). Per questa ragione religioni summum imperium cessit (Val. Max., ibid.); e, secondo quanto asserito da Tacito per un caso analogo (Ann. 3.71.2-3), il prevalere della religio avrebbe avuto effetto direttamente per decretum del pontefice massimo, senza far ricorso all’arbitrato del populus[19]. Postumius subì una grave limitazione del suo prestigio politico, dal momento che fu il solo Lutatius Catulus a comandare la flotta che sconfisse i Cartaginesi presso le isole Egadi e a riportare il trionfo. Allo stesso titolo, nel 189 a.C., Fabius Pictor perse l’opportunità di esercitare l’imperium militiae, giacché religio ad postremum vicit (Liv. 37.51.4).

La tradizione registra un secondo episodio, nel quale fu coinvolto L. Caecilius Metellus, che può avere attinenza con l’argomento qui considerato. L’anno successivo al contrasto con Postumius, egli sarebbe stato protagonista di un gesto eroico. Nel 241 a.C. un incendio si sviluppò all’interno del tempio di Vesta: il pontefice massimo si gettò fra le fiamme e riuscì a salvare il Palladium riportando però, a causa del fuoco, la perdita della vista[20]. Questa, la vulgata dell’episodio, che presenta delle varianti[21] e la cui attendibilità storica è tutt’altro che certa (già in antico si disputava circa la possibilità che un pontifex maximus continuasse a esercitare le sue funzioni nonostante la cecità; è perfino discutibile che nel 241 il Palladium fosse già realmente conservato nel tempio di Vesta)[22]. Resta il fatto che la costruzione dell’episodio è di per sé significativa: sia perché rappresenta un caso di affabulazione (riattualizzazione storica di un mito gentilizio delle origini)[23] in un’epoca già incline alla razionalizzazione delle res gestae[24]; sia perché questa affabulazione coinvolge un pontefice massimo, ossia il maggior responsabile, ai suoi tempi, dell’elaborazione “cronachistica” della Città; sia perché illustra, con colori drammatici, la funzione di controllo sulla tutela e la garanzia delle istituzioni della res publica. Il Palladium infatti era una statua di Athena-Minerva (probabilmente lignea) “che poteva chiudere gli occhi e agitare la lancia, e della quale, proprio per il suo valore magico, molte città antiche pretendevano di possedere l’unico originale autentico”[25].

Per queste caratteristiche, Roma privilegiava la versione “troiana” riguardante il Palladium (il cui originale sarebbe stato portato a Roma dallo stesso Enea) e considerava la statua come il più importante pignus imperii, proprio per questo conservato, insieme con altri pignora (scettro di Priamo, velo di Iliona) nel penus interior dell’aedes di Vesta[26]. Salvare il Palladium dalle fiamme significava conservare a Roma le garanzie dell’esercizio dell’imperium, qui inteso soprattutto come estensione territoriale, anche se limitata, per l’epoca, all’Italia[27]. Il fatto che, secondo una versione, Metello avrebbe perso la vista non per il fuoco ma per aver violato la proibizione di vedere il Palladium (vista consentita alla sola virgo Vestalis maxima) non attenua, anzi accresce, il valore del gesto: l’atto di hybris venendo compiuto dal pontefice massimo pro rei publicae salute e potendosi perciò considerare meno grave della responsabilità di perdere il pignus nostrae salutis atque imperii[28].

La severità e lo scrupolo mostrati da Cecilio Metello e da Licinio Crasso in questi come in altri episodi che contrassegnarono il loro lungo pontificato massimo[29], non sono occasionali e si ricollegano ad una caratteristica comune, che ci aiuta a comprendere le motivazioni profonde della loro azione: assieme a Tiberius Coruncanius (pontifex maximus dal 254 al 243 a.C.), essi sono i primi pontefici massimi plebei, eletti a poca distanza dal plebiscito Ogulnio (300 a.C.) che sancì l’accesso della plebe al pontificato e all’augurato. Il già gravoso impegno di un pontificato massimo comportava per loro un ulteriore gravame: dimostrare che con l’ammissione dei plebei alla più alta responsabilità sacerdotale, non si introduceva una nova religio. E’ probabile che quanto rileva Tacito (Ann. 3.58.2), circa la facoltà dei pontefici di sostituire il flamen Dialis nelle sue incombenze rituali per malattia o per (diversa) funzione pubblica (valitudine aut munere publico) costituisse prassi risalente alla repubblica[30], a maggior ragione applicabile anche ai flamini di Marte e di Quirino. Ciò, tra l’altro, spiegherebbe il silentium delle fonti riguardo a sanzioni comminate a flamines maiores nelle stesse condizioni da parte di pontefici massimi patrizi[31]. Nell’Adelstaat, a parte la “solidarietà di ceto”, non sussisteva rischio di compromissione dell’assetto religioso-istituzionale, che invece poteva presentarsi dopo la parificazione degli ordines. Inoltre, al tempo di Cecilio Metello, ed ancor più di Licinio Crasso, si manifestano il metus hostilis e la luxuria peregrina legati alle guerre contro Cartagine ed ai bottini di guerra. Di qui la particolare severità nel richiamo al rispetto dei ruoli religiosi, che coinvolgeva anche i sacerdozi rimasti accessibili ai soli patrizi (quali, ad es., i tre flamines maiores)[32]. In definitiva, i rigidi comportamenti di questi pontefici massimi plebei non sembrano dettati tanto (o soltanto) da inimicizie politiche, quanto soprattutto da un’esigenza di legittimazione in vista della preservazione della pax deorum. Si noterà in proposito, che gli interventi di Cecilio Metello e di Licinio Crasso sono sempre preventivi, mirano cioè a evitare che si creino condizioni atte a provocare l’ira degli dei[33]: ciò, anche se la res publica disponeva dell’importante collegio sacerdotale dei viri sacris faciundis, preposto a indicare, a posteriori, le riparazioni rituali conseguenti al disfavore divino. Si tratta, senza dubbio, del più restrittivo ricorso alla potestas di cui disponesse il pontifex maximus: ma va anche considerato che in tutte le circostanze in cui si crea, in questo periodo, un conflitto fra autorità del pontifex maximus e imperium, il senato o il popolo danno sempre ragione alla religio. Anche se, dunque, il pontefice massimo non disponeva dell’imperium in senso tecnico, disponeva tuttavia di una peculiare potestas[34], grazie alla quale poteva di fatto limitare o impedire l’imperium militiae e, comunque, garantirne religiosamente l’esercizio attraverso la preservazione dei pignora imperii. Inoltre, come si è visto nel caso del rifiuto di Licinio Crasso di competere per l’assegnazione della Sicilia in quanto console, il pontefice massimo, in assenza di un’autorità religiosa a lui superiore (sempre restando nell’ambito umano), poteva auto-imporsi una restrizione - di ordine religioso - di un suo diritto di esercitare, in quanto magistrato, l’imperium militiae. Senza dubbio, col tempo, si verifica un addolcimento delle norme riguardanti il flaminato maggiore[35]. Col venir meno delle condizioni di emergenza che lo avevano determinato, si attenuò il rigorismo mostrato dai pontefici massimi plebei durante le guerre puniche. Una prova di ciò può ricavarsi dal diverso comportamento adottato da P. Licinius Crassus Dives Mucianus, pontifex maximus plebeo dal 132 al 130 a.C. Nel 130 egli proibì al console eletto, L. Valerius Flaccus, di competere per l’assegnazione dell’Asia per combattere la guerra contro Aristonico: Valerius infatti era anche flamen Martialis. Anche in questa occasione, il iudicium populi si pronunciò a favore del pontifex maximus. Senonché stavolta Licinius Mucianus agiva nel suo proprio interesse. Essendo stato eletto console per quell’anno assieme a Valerius Flaccus, egli ottenne l’assegnazione della provincia Asia grazie all’esclusione del concorrente determinata da una sua iniziativa. In questo modo, di fatto, egli subordinava la potestas pontificale all’imperium consolare dal momento che, per esercitare il comando militare, trascurò l’obbligo religioso di non allontanarsi dall’Italia. La perioca di Livio che riferisce l’episodio (Liv. Per. 59), sottolinea la novità del gesto (quod numquam antea factum erat) ed aggiunge che, quasi per conseguenza fatale della sua empietà, Licinius Muciianus extra Italiam proiectus proelio victus et occisus est. In questo caso, la gerarchia dei valori risulta capovolta. Al di sopra della pietas erga deos si pone l’amicitia politica. Licinius Mucianus apparteneva infatti al partito graccano e contrastava Valerius Flaccus, legato invece al gruppo di Scipione Emiliano[36]. Il prestigio della religio veniva piegato ad interessi personali: e mentre, pochi anni dopo, si diede il caso di un proconsole il cui imperium venne abrogatum per viltà[37], nessun provvedimento venne preso per l’empietà del pontifex maximus. Ma, almeno nel caso di Licinius dove non giunsero gli uomini provvide il destino a punire una grave trasgressione dei doveri sacerdotali.

 

 



 

[1] A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l’ancienne Rome, Paris 1871, 307 ss.

 

[2] Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, Leipzig 1874-75, II/1, rist. Graz 1969, 18 ss., 28.

 

[3] F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, Torino 2008, 68 ss.

 

[4] F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 71.

 

[5] F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 69-70.

 

[6] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, 236.

 

[7] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, cit., 476, 242 e 424 n.25.

 

[8] F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 212 ss.

 

[9] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, cit., 363 n.29.

 

[10] F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 113 n.10.

 

[11] MÜnzer, s.v. Fabius, in RE, n.127, coll. 1841-1842.

 

[12] F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., Trieste 1962, 358.

 

[13] H.H. Scullard, Roman Politics 220-150 B.C., Oxford 1951, 136; F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit., 410; J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes plébéiens, in Latomus, 27, 1968, 786-801, 799; G. Zecchini, Gn. Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, in CISA, 8, Milano 1982, 162.

 

[14] Ma su ciò v. F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit., 375 ss.

 

[15] F. Cassola, I gruppi politici romani nel III secolo a.C., cit., 405 ss.; G. Zecchini, Gn. Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, cit., 160 ss.

 

[16] G. Zecchini, Gn. Manlio Vulsone e l’inizio della corruzione a Roma, cit., 161.

 

[17] Liv. Per. 19; Val. Max. 1.1.2; Tac. Ann. 3.58.2; 71.5.

 

[18] Cfr. G. DumÉzil, La religion romaine archaïque, Paris 1974 (II ed.), 215 ss.

 

[19] Sui decreta pontificum, v. S. Randazzo, “Collegium pontificum decrevit”. Note in margine a CIL X 8259, in Labeo, 50, 2004, 134 ss.

 

[20] Cic. Pro Scaur. 48; Iuv. 3.139; Schol. in Iuv. ad loc., 39 Wessner; Ampel. 20.11; Liv. Per. 19.

 

[21] Su ciò A. Brelich, Il mito nella storia di Cecilio Metello, in SMSR, 15, 1939, 31 ss.

 

[22] M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, in CISA, 8, Milano 1982, 74 ss.; E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990, 73 ss.

 

[23] A. Brelich, Il mito nella storia di Cecilio Metello, cit.; G. DumÉzil, La religion romaine archaïque, cit., 331-332.

 

[24] E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, cit., 56; E. Montanari, Falsi e veri miti (antichi e moderni) su Roma, in SMSR, 61, 1995, 441 ss.; E. Montanari, Categorie e forme nella storia delle religioni, Milano 2001, 109 e n.26

 

[25] Serv. ad Aen. 2.166 ss.; cfr. M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, cit., 65.

 

[26] Fest. 152 L.

 

[27] M. Sordi, Lavinio, Roma e il Palladio, cit., 76; secondo l’a., Roma avrebbe definitivamente acquisito il Palladium in un’epoca compresa tra il 205 e il 150 a.C.; ma il W. Vollgraf, Le Palladium de Rome, in BAB, 1938, 34 ss., l’anticipava agl’inizi del III secolo a.C.

 

[28] Cic. Pro Scaur. 48. Cfr. Serv. ad Aen. 2.166.18: illic imperiun fore, ubi et Palladium.

 

[29] Su ciò J. Bleicken, Kollisionen zwischen Sacrum und Publicum, in Hermes, 85, l957, 451 ss.; J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes plébéiens, cit., 788 ss.

 

[30] Prassi, tra l’altro, applicata durante la lunga sospensione del flaminato diale, conseguente alla morte di L. Cornelius Merula (87 a.C.); cfr. Tac. Ann. 3.58.2.

 

[31] J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes plébéiens, cit., 791 e 797.

 

[32] La “severità” dei pontefici massimi plebei si associa ad un superamento dell’anteriore tendenza a considerare il ius civile - e correlativamente il ius sacrum - come repositum in penetralibus pontificum (Liv. 9.46.5). Il III secolo a.C. registra vari esempi di adeguamento della prassi pontificale alle esigenze dello “Stato patrizio-plebeo” (ad es. i responsa giurisprudenziali espressi in pubblico da Ti. Coruncanius; l’elezione - sia pure a numero limitato di tribus - del pontifex maximus; la risoluzione delle controversie ad opera del populus, etc.); tendenze nelle quali la indubbia potestas del pontifex maximus, pur non derivando dal popolo, si orienta “verso il popolo” (F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 84 ss.).

 

[33] Casi in J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes plébéiens, cit., 798 ss.

 

[34] F. Vallocchia, Collegi sacerdotali ed assemblee popolari nella repubblica romana, cit., 84 ss. Opportunamente l’a. osserva (87 n.85) come le fonti attestino al pontefice massimo “lo iussus, che è, sicuramente esplicazione di potestas”. Cfr. S. Randazzo, “Collegium pontificum decrevit”. Note in margine a CIL X 8259, cit., 139 e n.15, secondo il quale il pontefice massimo avrebbe esercitato “un’autorità, che, in materie specifiche, appariva superiore a quella dello stesso magistrato cum imperio” e, in certa misura, “trasversale” rispetto al “quadro politico-istituzionale arcaico”.

 

[35] J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes plébéiens, cit.,795 e 799 n.5.

 

[36] J.-C. Richard, Sur quelques grande pontifes plébéiens, cit., 800.

 

[37] Q. Servilius Caepio, proconsole in Gallia, nel 105 a.C. si rifiutò di cooperare col console Cn. Mallius Maximus, e ciò contribuì a provocare una disastrosa sconfitta contro i Cimbri e i Teutoni. Sull’abrogatio imperii (Liv. Per. 67; Ascon. 78 c), v. M. Sordi, La sacrosanctitas tribunizia e la sovranità popolare in un discorso di Tiberio Gracco, in CISA, 7, Milano 1981, 129.