N. 8 – 2009 – Tradizione-Romana

 

Pietro Cerami

Università di Palermo

 

Radici romane dei «principios básicos»

del «código modelo» di procedura penale

per l’America latina*

 

 

Sommario: 1. Premessa – 2. Ruolo e valore dei «principios básicos». – 3. Le radici romane dei «principios básicos». – 4. Il principio «nulla poena sine praevio iudicio». – 5. Il diritto ad un «equo processo»: il principio della parità d’armi (aequa condicio) ed il principio della terzialità e dell’imparzialità del giudice. – 6. Segue: il principio della presunzione d’innocenza. – 7. Segue: il principio dell’inviolabilità della difesa. – 8. Riflessioni conclusive.

 

 

1. – Premessa

 

Nel suo intervento di apertura del Congresso internazionale su «Un “Codice Tipo” di procedura penale per l’America latina», svoltosi a Roma l’11 sett. 1991, Giovanni Conso definì il Código Tipo o Modelo, varato nel maggio del 1988, come «una operazione di civiltà socio-politica più ancora che di civiltà giuridica»[1], sottolineandone, al tempo stesso, la sua specifica natura di «Codice di princìpi»[2]. Natura, questa, che non risulta affatto scalfita neppure nei casi in cui il Código Modelo formula soluzioni dettagliate, dal momento che quest’ultime risultano puntualmente integrate da alternative, che hanno l’evidente scopo di consentire ampie possibilità di scelta[3].

Sotto questo profilo, bisogna convenire che l’intero “Código” può essere effettivamente qualificato come un «Codice di princìpi», anche se occorre riconoscere, al tempo stesso, che un ruolo ed un valore particolare rivestono, nel contesto generale del “Código”, i sette articoli del primo Titolo, che enunciano, in piena sintonia con la stessa rubrica del titolo “Principios básicos”, i princìpi generali del processo penale[4].

 

 

2. – Ruolo e valore dei «principios básicos»

 

Ciò posto, s’impone ora, in via preliminare, una breve riflessione sul ruolo ed il valore che i princìpi generali, contenuti nel Titolo I «Principios básicos», assumono nell’ordito generale del Código Modelo.

I ‘principios básicos’, nella misura in cui enunciano princìpi generali in tema di garanzie processuali dell’imputato, svolgono un ruolo non dissimile da quello di analoghi enunciati contenuti in Carte costituzionali ed in Convenzioni internazionali[5], e, segnatamente, negli articoli 6 e 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottata a Roma il 4 novembre 1950 ed integrata da successivi Protocolli, e soprattutto – con specifico riguardo alla giurisdizione penale – dagli articoli 2,3 e 4 del Procollo 7, firmato a Strasburgo il 22.11.1984.

Parlo di ruolo non dissimile, ma non certo identico, in considerazione del fatto che il Código Modelo non ha – come è stato, a ragione, osservato[6] - «alcuno strumento a protezione, ma un solo modo per imporsi : la bontà, il fascino delle sue soluzioni».

In forza, appunto, della bontà e del fascino delle soluzioni del “Código Modelo”, i principios básicos si risolvono e si concretano in autentiche linee-guida di politica processual-penalistica per i Paesi dell’America Latina. Una eloquente conferma, in tal senso, ci è offerta dal recente Nuovo Codice di procedura penale del Cile.

Ma se i principios básicos del Código Modelo si risolvono, sotto il profilo del ruolo, in una “summa sovrannazionale” di linee-guida per i legislatori dell’America Latina, il loro intrinseco valore si concreta, a ben riflettere, in una vera e propria summa  di direttive ermeneutiche[7] in vista di una oculata gestione interna dei diversi sistemi codicistici, che possa essere duttilmente finalizzata all’unificazione del diritto.

 

 

3. – Le radici romane dei «principios básicos»

 

Ho già premesso (supra, § II) che i primi sette articoli del Código Modelo enunciano princìpi generali in tema di garanzia dell’imputato.

Specificamente, l’art. 1, la cui rubrica suona «judicio previo», enuncia due princìpi fra loro complementari: il diritto al processo ed il diritto ad un equo processo.

Il primo, comunemente espresso con il brocardo ‘nulla poena sine praevio iudicio’, implica l’idea della pura e semplice ritualità legale del procedimento: «Nadie podrá  ser condenado, penado o sometido a una metida de seguridad y corrección, sino después de una sentencia firme, obtenida por un procedimiento regular».

Si tratta di un principio che affonda le radici – come avrò modo di precisare (infra, § IV) – nell’art. 39 della Magna Charta e, soprattutto, nell’istituto romano della provocatio ad populum.

Il secondo principio postula che il procedimento risponda a taluni essenziali requisiti predisposti a tutela dell’imputato: «llevado a cabo conforme a las disposiciones de este Código, con observancia estricta de las grarantías previstas para las personas, y de las facultates y los derechos del imputado».

Si tratta, in particolare, di garanzie che affondano le radici – come vedremo (infra, § V) – nell’esperienza processuale dell’antica Roma e, segnatamente, nel sistema processuale delle quaestiones perpetuae e nella correlata elaborazione tecnica della retorica giudiziaria: pubblicità dell’intero procedimento; assoluta ed effettiva parità d’armi fra accusatore ed accusato (aequa condicio); inutilizzabilità di prove precostituite o di iudicia iam facta; terzietà ed imparzialità del giudice; presunzione d’innocenza dell’imputato.

Gli articoli 2 e 3, contrassegnati rispettivamente dalle rubriche «juez imparcial» e «tratamiento del imputado como inocente», esplicitano due requisiti fondamentali dell’equo processo, già insiti nella seconda parte del primo comma dell’art. 1, nel punto in cui si prescrive – come ho gia precisato - che il procedimento sia conforme a las disposiciones previstas de esto Código.

Alla presunzione d’innocenza – o, meglio, in base al più  pregnante linguaggio del Código[8], al tratamiento del imputado como inocente, sino alla sentenza definitiva – si collega il canone ermeneutico (art. 7 : interpretación de la ley) dell’interpretazione restrittiva delle norme limitative della libertà personale: «Sin perjuicio  de lo previsto en el art. 3, será interpretada restrictivamente toda disposición que limite el ejercicio de un poder conferido a quienes intervienen en el procedimiento».

Costituiscono, in fine, corollari del diritto ad un equo processo gli enunciati dell’art. 4 (unica persecución), secodo cui «nadie debe ser perseguido penalmente más de una vez por el mismo hecho»; dell’art 5 (defensa), secondo cui «es inviolable la defensa en el procedimiento» e dell’art. 6 (calidad de imputado), secondo cui «las facultades que las leyes fundamentales del Estado y este Código otorgan al imputado puede hacerlas valer la persona a quien se le stribuye partecipación en un hecho punible, desde el primier acto del precedimiento dirigido en su contra hasta su finalización».

 

 

4. – Il principio «nulla poena sine praevio iudicio»

 

Il brocardo «nulla poena sine praevio iudicio», al pari della locuzione inglese «due process of Law», nella misura in cui sottende l’idea della pura e semplice ritualità legale[9], si limita a proclamare il diritto di ogni persona a non subire una condanna “senza processo”, a prescindere dal “tipo” di procedimento giurisdizionale in concreto adottato.

L’origine di tale principio viene comunemente additata nell’art. 39 della Magna Charta inglese, che sancisce che «nessun uomo libero arrestato o imprigionato, multato o danneggiato in alcun modo, e non si  metta la mano su lui, se non in virtù di un giudizio legale dei suoi pari, conformemente alla legge de Paese».

La connessione storica fra il principio in questione e l’art. 39 della Magna Charta è certamente fuori discussione. E’ da precisare, però, che il nostro principio affonda le sue più remote radici storiche nell’istituto romano della provocatio ad populum, configurata dai giuspubblicisti dell’antica Roma come il principale praesidium libertatis[10], in forza del quale, in seguito all’abolizione del Regnum, il cittadino poteva opporsi ai più gravi provvedimenti coercitivi del magistrato (fustigazione e connessa pena capitale; multe superiori a certi limiti) con la rituale richiesta di un regolare processo dinanzi all’assemblea popolare.

Nella sua peculiare natura di praesidium libertatis la provocatio, lungi dal costituire un mezzo di impugnazione di una decisione magistratuale (per totale assenza di un procedimento giurisdizionale e di una correlata e conseguente sentenza), si risolveva in un atto di opposizione all’esercizio arbitrario del potere  coercitivo del magistrato, il cui effetto era dato dal passaggio dalla fase dell’esercizio del potere di polizia alla fase dell’accertamento giurisdizionale.

 

 

5. – Ruolo e valore dei «principios básicos» Il diritto ad un equo processo: il principio della parità d’armi (aequa condicio) ed il principio della terzietà e dell’imparzialità del giudice

 

Dal diritto al processo, sotteso alla regola ‘nulla poena sine praevio iudicio’, occorre distinguere – come ho già anticipato (supra, § III) – il diritto ad un processo equo, intendendo per processo “equo” – o “giusto”, in base ad una diffusa, ma infelice formulazione; ovvero, con terminologia inglese, “fair trial[11] – un processo contraddistinto da un insieme di requisiti e garanzie di contesto: contraddittorio e parità d’armi fra le parti processuali;  terzietà ed imparzialità del giudice (giudice giusto); pubblicità dell’intero procedimento; inutilizzabilità di prove e giudizi precostituiti (iudicia iam facta); presunzione d’innocenza dell’accusato sino a quando la sua colpevolezza non sia stata legalmente accertata.

Si tratta di requisiti e garanzie connesse, in linea di massima, al rito accusatorio, al quale è improntato lo stesso Código Modelo.

Dico “in linea di massima”, perché occorre evitare il pericolo di assolutizzare ed enfatizzare la contrapposizione fra “rito accusatorio” e “rito inquisitorio”.

La complessa e variegata esperienza storica registra infatti, da un lato, garanzie sorte nel contesto di processi di tipo inquisitorio (infra, § VIII) e documenta, dall’altro, l’astrattismo del cosiddetto “purismo accusatorio”[12].

Ma c’è di più: la prima consapevole formulazione ed elaborazione dei princìpi dell’equo processo è stata effettuata nell’antica Roma ad opera della retorica giudiziaria, proprio al fine di distinguere, nell’ambito del sistema accusatorio delle quaestiones perpetuae (giurie popolari presiedute da un quaesitor praetor o iudex quaestionis di rango edilizio  -, in veste di semplice moderatore delle parti), due fondamentali articolazioni schematiche: iudicia aequa (processi equi) e iudicia iniqua (processi non equi).

E’, in proposito, da precisare che il sistema eminentemente accusatorio delle quaestiones perpetuae – affermatosi fra il II ed il I secolo a. C. – era contraddistinto da due essenziali princìpi organizzativi:

a)   l’attribuzione della funzione giudicante ad un collegio di giurati scelti dalle parti (accusatore ed accusato) sulla base di un precostituito elenco ufficiale (album iudicum);

b)   il conferimento del potere di promuovere e sostenere l’accusa ad un qualsiasi privato cittadino, in rappresentanza della collettività (quivis de populo), nel ruolo specifico di parte  processuale (accusator rei publicae causa).

Orbene, riflettendo sulla prassi processuale delle quaestiones perpetuae, la retorica giudiziaria osservò che la pura e semplice terzietà (intesa come mera alterità fisica) del collegio giudicante, la pubblicità degli atti, la presenza di un quivis de populo in veste di accusatore rei publicae causa non erano da soli sufficienti a garantire il necessario equilibrio degli opposti interessi  delle parti processuali (accusato ed accusatore).

Da qui la puntuale elaborazione di una rigorosa ‘definitio aequorum iudiciorum[13], intendendo ed assumendo il termine ‘definitio’ nel significato tecnico-retorico di determinazione e distinzione di categorie nel contesto di uno stesso fenomeno giuridico-retorico; nel nostro caso, nell’ambito della variegata tipologia dei processi penali: iudicia aequa e iudicia iniqua.

In questa prospettiva rilevano – oltre alla pubblicità dell’intero procedimento, al contraddittorio ed alla terzietà dell’organo giudicante, essenziali requisiti-presupposti del rito accusatorio – i seguenti ulteriori princìpi, espressamente individuati dalla retorica giudiziaria romana ed oggi  oggetto  di approfondita analisi da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo[14]: rimozione di prove e giudizi precostituiti; aequa condicio delle parti; imparzialità del giudice; presunzione d’innocenza dell’accusato.

Una prima ed irrinunciabile regola di un equo processo presuppone ed esige – come ebbe modo di precisare nel 66 a. C. Cicerone nell’orazione in difesa di Cluenzio Abito – che siano scrupolosamente rimossi, non soltanto sospetti, vociferazioni e condizionamenti dell’opinione pubblica[15], ma anche prove e giudizi precostituiti (iudicia iam facta)[16],idonei a compromettere la necessaria equidistanza ed indipendenza di giudizio della giuria popolare.

Una seconda regola, strettamente connessa alla prima, postula – oltre alla terzietà, intesa come alterità fisica fra giudice e parti – l’equidistanza e la imparzialità del collegio giudicante.

Il giudice, in quanto organo super partes, deve essere non soltanto separato in modo netto dalle parti, ma deve anche essere equidistante dalle stesse, sì da poter decidere in modo imparziale (da giudice non sospetto), sulla base delle sole prove legittimamente fornite dalle parti.

In particolare, per Cicerone non sarebbe ravvisabile una effettiva equidistanza dell’organo giudicante nel caso in cui fosse attribuito  all’accusatore un ruolo preminente e determinante nella costituzione del collegio giudicante[17].

E’ da precisare, in proposito, che se l’equidistanza attiene ai profili ordinamentali della vicenda giudiziaria, l’imparzialià investe anche – e soprattutto – il profilo psicologico-ideologico dell’organo giudicante, nel senso che l’imparzialità dipende non soltanto dall’impiego di congrui criteri organizzativi, ma anche dall’effettiva capacità di colui che è chiamato a giudicare di essere autenticamente super partes: capace di rimuovere, in conformità ad essenziali ed irrinunciabili canoni etico-deontologici, pregiudizi, passioni, ostilità. Per Cicerone può essere qualificato giudice autenticamente imparziale soltanto colui che sia capace di condannare anche chi non odia e di assolvere anche chi odia[18].

Una terza e non meno correlata regola presuppone ed esige l’aequa condicio – o parità d’armi, ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo[19] - fra le parti processuali.

Specificamente, l’aequa condicio comporta:

a)   che le parti (accusatore ed accusato) abbiano la stessa facoltà di provare ed argomentare;

b)   che le parti abbiano altresì il medesimo status processuale.

Infatti, nel caso in cui l’accusatore possa disporre – assieme ai diritti dell’accusa (ius accusationis) – anche del potere inerente alla titolarità di una carica magistratuale (vis potestatis)[20], l’aequa condicio fra le parti sarebbe del tutto travolta, con il conseguente ed irreparabile slittamento del procedimento verso il versante dell’iniquum iudicium.

 

 

6. – Segue: il principio della presunzione d’innocenza.

 

Fra i princìpi cardini dell’aequum iudicium la retorica giudiziaria romana – e, segnatamente, Cicerone – annovera anche la presunzione d’innocenza dell’accusato-imputato.

Secondo Cicerone la presunzione d’innocenza implica e comporta:

a)   che l’accusa non possa essere configurata, in sé e per sé, come una precondizione della condanna. Si fisserebbe, infatti, un iniquo principio nel caso in cui si ritenesse che l’asserzione dell’accusatore  possa valere come pregiudizio nei confronti dell’accusato[21];

b)   che incombe sull’accusatore l’onere di provare la colpevolezza dell’accusato.

Conseguentemente, qualora si ponesse a carico dell’accusato – o, meglio, del suo difensore – l’onere di provare l’innocenza, si andrebbe incontro ad una plateale inversione dell’onere della prova.

Nei processi e nelle istruttorie criminali si deve, infatti, accertare – secondo Cicerone – non già se l’accusato dimostri la sua innocenza, bensì se è fondata l’accusa[22].

Da qui l’assurdità logico-processuale di ritenere colpevole l’accusato a prescindere da oggettive e concordanti prove e da scrupolosi riscontri, sulla base di pure e semplici accuse o, al più, di incoerenti e strumentali testimonianze[23].

 

 

7. – Segue: il principio dell’inviolabilità della difesa

 

Ho già anticipato (supra, § III) che il Código Modelo annovera fra i corollari del diritto ad un equo processo il principio della inviolabilità della difesa in ogni fase del procedimento.

Le radici romane di questo principio sono marcate ed inequivocabili.

L’accusato-imputato poteva difendersi o personalmente (causam dicere[24]) – ed era la norma – ovvero per mezzo di un patrocinatore (causam agere[25]). Con riferimento a questa seconda ipotesi  occorre precisare che era regola fondamentale del foro romano che nessuno, ancorchè d’infima condizione, fosse privato del diritto alla difesa tecnica[26].

L’incidenza e la valenza di questa regola era, anzi, tale da non escludere, in via di principio, la designazione, in determinati casi, di un difensore di ufficio: patronus causae publice constituere (Cic., pro Murena 2.4).

Speculare al “diritto di difesa”, riconosciuto all’imputato, era il “dovere di difesa” gravante sul patrocinatore. Per quest’ultimo il dovere di difesa non veniva meno neppure in caso di flagranza[27] o di situazioni giudiziare pittosto compromesse. Al patrocinatore incombeva pur sempre l’obligo di adoperare tutti i possibili ‘remedia ac perfugia causarum’ (rimedi e sotterfugi delle cause)[28], in mancanza dei quali sarebbe stato sostanzialmente eluso il ius patrocinii.

Ma c’è di più: il dovere di difesa, che rappresenta il più tipico e  qualificante praeceptum della deontologia forense, non veniva mai meno – secondo Cicerone – neppure nei confronti dei propri nemici[29] e degli avversari dei propri amici[30].

In ogni caso, presupposto e requisito fondamentale del diritto di difesa è la piena libertà di prova. Una eventuale limitazione del diritto di prova si tradurrebbe, infatti, fatalmente in una limitazione del diritto di difesa. Risultato, questo, che non può, in particolare, non realizzarsi nel caso in cui l’interrogatorio dell’accusato venga utilizzato come un vero e proprio mezzo di prova. Il che era tutt’altro che infrequente nella prassi romana delle quaestiones extraordinariae[31] ed è, peraltro, ravvisabile proprio nella fattispecie dell’ampliación de l’accusación, contemplata nell’art. 309 del Código Modelo[32].

 

 

8. – Riflessioni conclusive

 

Il discorso fin qui svolto credo confermi, in modo evidente, i limiti del “purismo accusatorio”. Ma mi sembra opportuno sottolineare, altresì – come ho già anticipato (supra, § V) -, che la complessa e variegata esperienza storica registra forme e princìpi di garanzia che sono stati enucleati e formalizzati, per la prima volta, nel contesto di processi di tipo fondamentalmente inquisitorio.

Significativa ed emblematica mi sembra, in tal senso, la prassi delle cognitiones imperiali, affermatasi a Roma nei primi due secoli del principato.

   Sotto la guida dei grandi giuristi del 1° e del 2° secolo d. C. la cancelleria imperiale elaborò infatti, per mezzo di rescritti, una serie di cospicue misure di garanzia, che hanno assunto valenza paradigmatica nello sviluppo storico del processo penale:

a)   divieto di condannare sulla base di semplici sospetti, in considerazione del fatto che è preferibile che rimanga impunito l’illecito penale di un colpevole, piuttosto che venga condannato un innocente[33];

b)   divieto di domande capziose o suggestive nel corso dell’interrogatorio[34]: divieto espressamente formulato nell’art. 46 del Código Modelo[35]:

c)    divieto di condannare sulla base della sola confessione dell’imputato, che non risulti adeguatamente supportata da ulteriori e concordanti prove[36];

d)   commisurazione dell’efficacia probatoria delle testimonianze alla personalità ed alla condotta morale dei singoli testimoni[37].

Tutto ciò prova ampiamente che in materia di equo processo assume particolare e decisivo rilievo non tanto .- o non solo – la specifica tipologia del “rito” (accusatorio o inquisitorio), quanto piuttosto un complesso di requisiti e di garanzie finalizzati, nel loro insieme, a rendere credibile e concreto tanto il ruolo super partes del giudice, quanto l’aequa condicio (o parità d’armi, nel linguaggio della Corte di Strasburgo) fra le parti del rapporto processuale, sotto il duplice profilo del rispettivo status processuale e delle corrispettive strategie probatorie.

 

 



 

* Testo della relazione tenuta il 29 aprile 2008 presso L’Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Palermo.

 

[1] G. Conso, Intervento di apertura, in Un “Codice Tipo” di procedura penale per l’America Latina, a cura di M. Massa - S. Schipani. Univ. di Roma “Tor Vergata”. Centro interdisciplinare di Studi latinoamercani, Padova, 1994, 3.

 

[2] G. Conso, Intervento, cit., 5.

 

[3] V., in tal senso, G. Conso, Intervento, cit.,6.

 

[4] Depongono in tal senso soprattutto gli artt. 230-231. Sul punto G. Conso, Intervento, cit., 6. Sui Codici Modelli, intesi ed assunti come «formulazione articolata dei princìpi generali del diritto», v. S. Schipani, in Un “Codice Tipo” di procedura penale, cit., 13 ss., con lett. (note 4 – 8).

 

[5] V. praecipue artt. 9-11 della Dichiarazione universale dei diritti umani, adottata dall’O.N.U. il 10 dicembre 1948.

 

[6] G. Conso, Intervento, cit. , 3.

 

[7] V., in tal senso, P. Corso, Atti e funzioni dei soggetti processuali nel «Código procesal penal», in Un “codice Tipo”, cit., 43, con esplicito richiamo al contenuto della  Relazione al “Codice Tipo” di procedura penale per l’America Latina, Roma, 1990, 11-36.

 

[8] I concreti riflessi della diversa terminologia del Código sono colti e sottolineati da P. Corso, Atti e funzioni, cit., 44 s.

 

[9] Sul punto rinvio a quanto ho precisato in «Aequum iudicium» e «giusto processo». Prospettive romane e moderne, in P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici dell’esperienza giuridica europea. Dall’esperienza romana all’esperienza moderna, Torino 2003, 4 ss., con lett. (note 2 e 4).

 

[10] Livio, Ab urbe condita (dalla fondazione della città) 3.55.4. Cfr. pure Liv. 3.45.8, dove la provocatio e l’intercessio tribunizia vengono qualificate ‘duas arces libertatis tuendae’ (due baluardi per la difesa della libertà).

 

[11] V., in proposito, P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici, cit., 4 ss.

 

[12] In tal senso F. Cordero, Procedura penale, terza ed., Milano 1995, 363 ss.

 

[13] Vedi, in proposito, Cicerone, pro Cluentio (in difesa di Cluenzio)  2.5.

 

[14] Sulla elaborazione dei princìpi dell’equo processo da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) v. per tutti AA.VV., Procedure penali d’Europa (Belgio-Francia-Germania-Inghilterra-Italia), Sintesi e analisi comparatistiche, coordinate sotto la direzione di M. Delmas-Marty, ediz. italiana a cura di M. Chiavario, Padova 1998, 475 ss.

 

[15] Cic., pro Cluent. 1.1-2; 2-6. Sul punto P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici, cit., 6 ss.

 

[16] Cicerone afferma, infatti, che qualora i giudici operassero sulla base di prove e giudizi precostituiti perderebbero non solo l’autorità, ma anche il nome di giudici (pro Cluent. 2,6).

 

[17] Cic., pro Plancio 15.36; 16.38-40.

 

[18] Cic., pro Cluent. 58.159. Sul punto rinvio a quanto ho avuto modo di precisare in  I canoni della deontologia forense e giudiziaria. Le radici storiche, in P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici, cit., 309 s.

 

[19] Cfr. AA.VV., Procedure penali d’Europa, cit., 475 s. e nt. 16.

 

[20] Cic., pro Cluent. 39.94. In proposito Cicerone sottolinea che i giudici della quaestio  de peculatu del 66 a. C. considerarono inammissibile l’accusa presentata da un tribuno  della plebe, perché ritennero che, con la  presenza di un tribuno in veste di accusatore, il dibattito non si sarebbbe svolto in condizioni di parità. Sul punto P. Cerami, G. Di Chiara, M.  Miceli, Profili processualistici, cit., 8 ss. Per questo motivo nel modello organizzativo dei iudicia populi (processi comiziali) non è ravvisabile un’effettiva aequa condicio fra le parti, dal momento che il magistrato-accusatore poteva avvalersi della vis potestatis nell’esplicazione del suo ius accusationis.

 

[21] Cic., pro Murena 28,60: «iniquam legem, iudices, et miseram condicionem instituet periculis hominum, si existimabit iudicium accusatoris in reum pro aliquo praeiudicio valere oportere» (si fisserà un iniquo principio, o giudici, ed una condizione umana assai penosa, se si riterrà che l’affermazione dell’accusatore debba valere come pregiudizio nei confronti dell’accusato), Cfr. pure Cic., pro Fonteio 10.21.

 

[22] Cic., pro Sulla 13.39: «Sed ego in iudiciis et in quaestionibus non hoc quaerendum arbitror, num purgetur aliquis, sed num arguatur » (Io ritengo che nei processi e nelle istruttorie criminali si debba accertare non già se l’imputato dimostri la sua innocenza, bensì se risulta provata l’accusa). Cfr. pure Cic., pro Cluent. 1,3.

 

[23] Cic., pro Fonteio 10.21: «Etenim si, quia Galli dicunt, idcirco M. Fonteius nocens existimandus est, quid mihi opus est sapiente iudice, quid aequo quaesitore, quid oratore non stulto? Dicunt enim Galli; negare non possumus.Hic si ingeniosi et periti et aequi iudicis has partis esse existimatis ut, quoniam quidem testes dicunt, sine ulla dubitatione credendum sit, Salus ipsa virorum fortium innocentiam tueri non potest. » (Se M. Fonteio va considerato colpevole perché lo dicono i Galli, a che mi serve un giudice saggio, un’indagine imparziale, un abile avvocato? Infatti lo dicono i Galli, non lo possiamo negare. Dunque se ritenete che il compito  di un giudice d’ingegno, esperto ed imparziale, sia quello  di credere senza  esitazione ad un fatto perché lo affermano i testimoni, neanche la dea Salute in persona potrebbe proteggere l’innocenza di tanti gentiluomini).

 

[24] Livio,  ab u. c.35.50.8; 42.22.7; 42.41.1; Cic., Brutus 33.127.

 

[25] Cic., De oratore 2.24.99; in Verrem (contro Verre) I.13.40; I.12.34; pro Sulla 3.40; Div. in Caecilium 11.35.

 

[26] Cic., pro Murena 4.10: «nemini umquam infimo maiores nostri patronum deesse voluerunt» (i nostri antenati vollero che nessuno, sia pure d’infima condizione, rimanesse privo di patrocinatore). Sul punto P. Cerami, G. Di Chiara, M. Miceli, Profili processualistici, cit., 302 ss.

 

[27] Cic., pro Cluent. 17.50: «crimen tam ac tantum manifestum».

 

[28] Cic., pro Cluent. 19.51: «sic pugnavi, sic omni ratione contendi, sic ad omnia confugi, quantum adsequi potui, remedia ac perfugia causarum ut hoc quod timide dicam consecutus sim, ne quis illi causae patronum defuisse arbitraretur» (tanto combattei, tanto contesi con ogni argomento, tanto feci ricorso per quel che sapevo a tutti i rimedi e sotterfugi delle cause, da ottenere – lo dico sommessamente – che nessuno potesse mai pensare che in quel processo fosse venuto meno il patrocinio).

 

[29] Non a caso Cicerone difese due suoi personali nemici: Aulo Gabino – che era stato accusato di corruzione e dal quale era stato espulso, nel 57 a. C., da Roma – e Publio Vatinio in due processi. In proposito Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili 4.2.4; Quintil., Istituzione oratoria 11.1.73.

 

[30] Ne è prova l’assunzione della difesa di Lucio Murena (accusato di broglio elettorale) contro Servio Sulpicio Rufo, grande giurista ed intimo amico dell’Arpinate: Cic., pro Murena 3.6.

 

[31] Erano tribunali straordinari contraddistinti dall’attribuzione all’organo magistratuale, incaricato di quaerere (investigare) in ordine ad inquietanti episodi di criminalità organizzata o di abusi magistratuali particolarmente gravi, del compito di ‘cognoscere’ (investigare e promuovere il giudizio) e di ‘stature ac iudicare’ (accertare la responsabilità ed emettere la sentenza).

 

[32] Sul punto F. Raffaele Dinacci, L’ampliamento dell’accusa in dibattimento: spunti interpretativi, in AA VV., Un “Codice Tipo” di procedura penale, 242 ss.

 

[33] Il principio si trova sancito in un rescritto di Traiano, espressamente citato da Ulpiano: «Sed nec de suspicionibus debere aliquem damnari divus Traianus rescripsit: satius enim esse impunitum relinqui facinus nocentis quam innocentem damnari» (D.48.19.5 pr.: Ulp. 7 de off. procos.).

 

[34] Anche questo secondo principio è sancito in un rescritto di Traiano, citato da Ulpiano (D.48.18.1.21: 8 de off. procons.).

 

[35] In proposito P. Corso, in Un “Codice Tipo” di procedura penale, cit., 55, con significativi raffronti con il Codice italiano del 1988.

 

([36] Il principio è stato enunciato in un rescritto dei divi Fratres, citato da Ulpiano (D.48.18.1.27: 8 de off. procons.).

 

[37] Il principio ricorre in un rescritto di Adriano, menzionato da Calistrato (D.22.5.3.2-4: 4 de cognitionibus).