ds_gen N. 8 – 2009 – Tradizione-Romana

 

laura d'amatiLaura D’Amati

Università di Foggia

 

Considerazioni in tema di actio utilis rescissa

capitis deminutione

 

 

Sommario: 1. Osservazioni preliminari. – 2. La finzione descritta in Gai 4. 38. – 3. La classificazione di Gai 4. 38. – 4. L’esposizione parallela di Gai 3.84. – 5. La mancata defensio del debitore inadempiente. – 6. Actiones ficticiae e actiones utiles. – 7. Rescissione della capitis deminutio e in integrum restitutio. – 8. Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.1: il testo edittale. – 9. L’affermazione di permanenza della naturalis obligatio in Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.2. – 10. L’antitesi tra i creditori anteriori e quelli successivi alla capitis deminutio. – 11. L’esclusione della menzione diretta della naturalis obligatio in Gai. 4 ad ed. prov. D. 4.5.8.

 

 

1. – Osservazioni preliminari

 

L’argomento dell’actio utilis rescissa capitis deminutione non è nuovo agli studiosi della materia, visto l’ampio spazio ad esso dedicato nelle trattazioni relative alla capitis deminutio[1], alle obbligazioni naturali[2], alla capacità patrimoniale del filius familias[3], alle azioni fittizie[4] e, più in generale, alle finzioni giuridiche[5]. I testi – per la verità non particolarmente numerosi – che trattano di tale rimedio processuale sono stati sottoposti, nell’ambito di ricerche circoscritte, a severe indagini e verifiche. Tuttavia, forse proprio la stessa settorialità e specificità dei lavori ha indotto gli interpreti a proporre risultati senz’altro da accogliere[6], ma che lasciano ancora in piedi – ad una visione complessiva dell’argomento – qualche interrogativo irrisolto, stimolando l’interesse al compimento di una nuova indagine apposita.

In particolare, il sospetto nasce dalla circostanza che la concessione ai creditori di tale azione da parte del pretore nei confronti del soggetto che subisce la capitis deminutio dopo aver posto in essere un’obbligazione nascente da contratto viene, sia pur indirettamente, collegata alla sopravvivenza dell’obbligazione da questi assunta prima di tale evento, l’obbligazione c.d. originaria, come obligatio naturalis. Ma questo assunto, peraltro oggi ormai largamente maggioritario in dottrina, non sempre è stato adeguatamente supportato da elementi pregnanti e soddisfacenti, anche e soprattutto in considerazione del fatto che nel caso di specie vi è, a conti fatti, una coercibilità del vincolo, ma esclusivamente in via indiretta, sul piano del diritto onorario, grazie alla concessione da parte del pretore dell’actio ficticia, e per questa ragione mi sembra opportuno riproporre l’intera tematica ad un nuovo vaglio critico.

 

 

2. – La finzione descritta in Gai 4. 38

 

La ricerca non può che prendere le mosse da un inquadramento di base dell’argomento, così come ce lo fornisce Gaio nel paragrafo 4.38 delle sue Institutiones, a conclusione di un’analitica e dettagliata trattazione sulle fictiones all’interno del processo formulare (4.34-38)[7], che il giurista afferma essere di un altro genere, da un punto di vista qualitativo (habemus adhuc alterius generis fictiones)[8], rispetto a quelle trattate nei paragrafi precedenti (4.31a-33)[9], tradizionalmente denominate in dottrina come fictae legis actiones[10]: in particolare, la finzione dell’esperimento della legis actio per pignoris capionem a favore del publicanus[11] e la negazione dell’esistenza di una finzione per l’esperimento della legis actio per condictionem[12], per le quali – sole – abbiamo notizie certe, vista la grossa lacuna del paragrafo 31 [13]:

Leggiamo, dunque, il testo:

 

Praeterea aliquando fingimus adversarium nostrum capite deminutum non esse. Nam si ex contractu nobis obligatus obligatave sit et capite deminutus deminutave fuerit, velut mulier per coemptionem, masculus per adrogationem, desinit iure civili debere nobis, nec directo[14] intendi potest sibi dare eum eamve oportere; sed ne in potestate eius sit ius nostrum corrumpere, introducta est contra eum eamve actio utilis rescissa capitis deminutione, id est in qua fingitur capite deminutus deminutave non esse.

 

La fictio contenuta nel passo è quella di considerare come non avvenuta la capitis deminutio dell’avversario qualora l’evento si sia verificato dopo che la persona si sia obbligata con un terzo attraverso un contratto[15]: ed al riguardo vengono elencate le ipotesi specifiche della donna conventa in manum tramite coemptio e del paterfamilias che si sia dato in adrogatio[16]. L’esigenza di concedere detta azione nasce dalla circostanza che in entrambi i casi i soggetti cessano iure civili di debere nei confronti del creditore che, in considerazione di ciò, non può più affermare directo l’esistenza a suo favore di un dare oportere[17]. Ma poiché non è possibile che il debitore (o la debitrice) possano, con un proprio atto di volontà, pregiudicare irrimediabilmente le pretese dei creditori, per questa ragione è stato consentito loro di poterlo (o di poterla) ugualmente convenire in giudizio attraverso un’actio utilis rescissa capitis deminutione, cioè un’azione nella quale – è proprio Gaio che viene a ripeterlo ancora una volta – si finge che il debitore non sia stato capite deminutus.

Diversi sono gli elementi che emergono dal passo, ed è opportuno procedere con ordine.

In primo luogo non vi sono dubbi sulla circostanza che la capitis deminutio alla quale si fa riferimento sia quella minima[18], vale a dire quella che, come afferma lo stesso giurista in modo assai generico in Inst. 1.162[19], avviene cum et civitas et libertas retinentur, sed status hominis commutatur[20], dove i casi ivi espressamente riportati[21] sono quelli di coloro i quali vengono adottati, che fanno una coemptio, della costituzione in mancipio, e degli emancipati[22]; tenendo comunque ben presente per questi ultimi che ciascuna mancipatio spezzava i vincoli agnatizi con la famiglia di origine[23]. Ed al riguardo può anche essere utile rilevare che, pur facendo il giurista antonino espressamente riferimento all’adoptio, l’espressione non può che essere comprensiva dei due casi dell’adrogatio e dell’adoptio in senso stretto[24], risultando così in perfetta sintonia con l’affermazione più generale contenuta in Gai 1.98 [25]; ed inoltre si deve aggiungere che senz’altro capitis deminutio vi era[26], oltre che nel caso della conventio in manum attuata tramite coemptio della donna, pure nel caso in cui questa veniva attuata attraverso l’usus (ormai all’età di Gaio un mero ricordo storico[27]) o la confarreatio (peraltro una cerimonia diventata rarissima, che sopravviveva a stento, e praticata soltanto per certi casi di matrimonio, quando era necessario raggiungere attraverso di essa degli scopi specifici[28]); in qualunque modo, infatti, la donna ricadeva sotto la manus, comunque si spezzavano i legami agnatizi con la sua famiglia di origine.

Dunque, la capitis deminutio minima comporta un mutamento nella situazione familiare[29]; anche se, al contrario, com’è noto, non ogni mutamento della condizione familiare implica una capitis deminutio minima[30]. In effetti, perché questa si verifichi, è necessario che la permutatio status[31] ad essa collegata coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi preesistenti[32], con la conseguente perdita di tutti quei diritti che alla stessa si ricollegano[33]. Ma ciò che caratterizza questa capitis deminutio rispetto alla maxima e alla media è che, a differenza di quelle che incidono negativamente sulla libertà e sulla cittadinanza, nella capitis deminutio minima non sempre l’estinzione dei vincoli agnatizi comporta effetti svantaggiosi per chi la subisce. In alcuni casi gli effetti non comportano conseguenze di particolare rilevanza, anzi sono del tutto indifferenti. Si pensi all’adoptio in senso stretto o alla conventio in manum della donna alieni iuris, dove i soggetti interessati mantengono la stessa condizione preesistente di persone alieni iuris: solo, passano da una familia ad un’altra. In altri casi, come quelli dell’emancipatio o della diffarreatio, dove il capite deminutus, da alieni iuris che era, diventa sui iuris, gli effetti sono addirittura vantaggiosi per chi vi incorre. Sono solo tre, invece, i casi in cui si possono verificare – almeno in linea teorica – effetti svantaggiosi per il capite deminutus, pur diversificati tra loro: vale a dire quelli dell’adrogatio, della conventio in manum di una donna sui iuris, e della costituzione in mancipium[34].

 

 

3. – La classificazione di Gai 4. 38

 

Acquisiti tali elementi, si può concentrare l’attenzione su Gai 4.38. In esso vi è un esplicito riferimento al verificarsi dell’estinzione delle obbligazioni nascenti da contratto per due soli casi di capitis deminutio minima, vale a dire quello della donna che compie la conventio in manum tramite coemptio e quello del paterfamilias che si dà in adrogatio: ed in relazione al primo caso menzionato è del tutto evidente come, pur in mancanza di una precisa specificazione da parte del giurista, il riferimento non possa che essere alla donna sui iuris[35].

A fronte di tale elencazione si pone però un problema interpretativo. È necessario comprendere se la classificazione gaiana sia meramente esemplificativa, senza escludere la possibilità di altri casi di estinzione dei rapporti obbligatori per capitis deminutio minima oltre quelli ivi espressamente richiamati, oppure abbia carattere esaustivo. A favore della prima ipotesi potrebbe deporre la presenza, per introdurre i due casi della donna conventa in manum e dell’adrogatus, dell’avverbio velut, spesso utilizzato dal giurista nel suo manuale come introduttivo di esempi[36]. Ma, a ben guardare, come ha di recente osservato la Longo[37], seppure il più normale impiego del vocabolo sia in funzione esemplificativa[38], nel caso di specie il velut sembra assumere una funzione diversa, non potendo non essere messo in relazione all’aliquando, che è l’avverbio con il quale prende l’avvio il discorso gaiano: e così il giurista, dopo aver premesso che all’actio utilis rescissa capitis deminutione si ricorre in certi casi, attraverso il successivo velut (da intendersi questa volta nel suo significato di “ovverossia”) indicherebbe più specificamente quali siano questi casi. D’altro canto, un simile impiego lessicale non costituisce nelle Istituzioni un caso isolato, ma è riscontrabile anche in diversi altri luoghi[39], talora in relazione, oltre che all’aliquando, anche all’interdum (nel suo significato di “talvolta”)[40].

Ma vi è di più. Quelli riportati da Gaio sono gli unici casi di capitis deminutio minima nei quali il civis passa volontariamente da una condizione di sui iuris ad una condizione di alieni iuris[41]: e dunque gli unici casi nei quali, qualora il soggetto abbia assunto in precedenza, avendone la piena capacità, un’obbligazione attraverso un contratto, non può più risponderne perché la capitis deminutio nella quale è incorso ha modificato in peius la sua condizione giuridica, andando ad incidere profondamente su di essa, e togliendogli ogni autonomia patrimoniale; e né di questa obbligazione possono risponderne il pater o il titolare della manus, in quanto entrambi gli aventi potestà non possono farsi carico di un’obbligazione assunta dal sottoposto in un momento anteriore rispetto a quello in cui si è costituito il rapporto potestativo, essendo del tutto estranei al rapporto obbligatorio stesso. L’obbligazione, pertanto, si estingue, ed i creditori sono impossibilitati ad esercitare l’azione diretta che nasce dal negozio sia nei confronti del capite deminutus sia nei confronti del suo avente potestà.

È allora di tutta evidenza come la concessione ai creditori – altrimenti inevitabilmente pregiudicati da un atto volontario del debitore di sottoposizione all’altrui potestas successivo alla stipulazione del contratto – dell’actio utilis rescissa capitis deminutione consenta al pretore, come sempre spinto da ragioni equitative, di superare le preclusioni insite nel rigido ius civile, eludendo così il «principio di irresponsabilità del debitore»[42]; e questo grazie all’uso della fictio, collocata nell’intentio della formula[43], con la quale si considera che il debitore o la debitrice capite deminutus deminutave non esse[44], vale a dire grazie alla supposizione che la capitis deminutio non sia mai avvenuta[45], e dunque che non si sia mai verificato alcun mutamento del loro status[46].

Detta finzione, chiaramente negativa a differenza di quelle che il giurista antonino aveva elencato in precedenza nella sua trattazione[47], come tutte le altre finzioni, «non vuol cambiare la realtà dei fatti, né occultarla»[48], e si limita ad operare in campo processuale (è inequivoco l’uso, in apertura del passo, del termine adversarius), con esclusivo riguardo alla legittimazione passiva del convenuto[49], favorendo – di conseguenza – attraverso questo rimedio non il soggetto privo della ‘condizione’ attribuitagli[50], ma piuttosto i creditori che hanno interesse ad ottenere un’azione nei suoi confronti[51]. Soprattutto, si deve considerare che attraverso di essa non vengono in discussione né l’adrogatio né la coemptio, che rimangono sempre valide ed efficaci, ma solo – e limitatamente al piano del diritto pretorio – la conseguenza di quegli atti, vale a dire l’avvenuta capitis deminutio, che viene considerata come del tutto irrilevante. Anzi, per meglio dire, una tale irrilevanza viene circoscritta alla sola estinzione per diritto civile dell’obbligazione validamente assunta dall’arrogato o dalla donna prima dell’adrogatio o della coemptio, per l’esclusiva salvaguardia e tutela dei diritti dei creditori[52].

Ora, tutta questa impostazione potrebbe apparire difficile da conciliare con il riconoscimento al filius familias da parte della giurisprudenza – così ammesso dalla dottrina maggioritaria – della capacità di obbligarsi pro se già alla fine dell’età repubblicana[53] o al massimo al I sec. del principato[54]. Ed in effetti tale è apparsa in particolare da ultima alla Longo la quale, nel suo apprezzabile tentativo di spostare tale riconoscimento al diritto giustinianeo, ha obiettato che se il filius familias fosse stato già in età classica capace di assumere obbligazioni pro se non si sarebbe potuta spiegare l’estinzione iure civili dei debiti dell’adrogatus – ormai anche lui potestati subiectus – e soprattutto l’impossibilità di convenirlo in giudizio per le obbligazioni assunte quando era sui iuris[55]. Non mi sembra però di poter condividere fino in fondo le perplessità della studiosa siciliana. È infatti opportuno considerare che l’estinzione del debito contrattuale è un effetto esclusivo della capitis deminutio nella quale è incorso il debitore[56]: pertanto, anche ammessa e riconosciuta detta capacità, l’intervento del pretore – che in ragione dell’aequitas rende ai creditori l’azione quasi id factum non sit – trova la sua ragione di principio in quella estinzione, del tutto inevitabile. D’altro canto, si deve pure aggiungere che nell’editto in discorso l’adrogatus si trova sullo stesso piano logico della donna sui iuris conventa in manu, la cui incapacità ad obbligarsi per contratto non è mai stata messa in discussione da alcuno: il che fornisce un ulteriore elemento per svincolare del tutto l’avvenuta estinzione del debito contrattuale dalla capacità o meno di assumere obbligazioni pro se da parte del capite deminutus.

 

 

4. – L’esposizione parallela di Gai 3.84

 

Per essere meglio compreso, il passo in esame deve essere letto insieme ad un altro passo dello stesso manuale gaiano, il 3.84. Qui, sia pur in una diversa prospettiva, si trova un’esposizione parallela dell’argomento affrontato in 4.38:

 

Ex diverso quod is debuit, qui se in adoptionem dedit quaeve in manum convenit, non transit ad coemptionatorem aut ad patrem adoptivum, nisi si hereditarium aes alienum fuerit. Tunc enim quia ipse pater adoptivus aut coemptionator heres fit, directo tenetur iure; is vero, qui se adoptandum dedit quaeve in manum convenit, desinit esse heres. De eo vero quod proprio nomine eae personae debuerint, licet neque pater adoptivus teneatur neque coemptionator, et ne ipse quidem, qui se in adoptionem dedit quaeve in manum convenit, maneat obligatus obligatave, quia scilicet per capitis deminutionem liberetur, tamen in eum eamve utilis actio datur rescissa capitis deminutione; et si adversus hanc actionem non defendantur[57], quae bona eorum futura fuissent, si se alieno iuri non subiecissent, universa vendere creditoribus praetor permittit.

 

I due passi si integrano fra loro. L’argomento trattato dal giurista in questa sede è quello, già avviato nel paragrafo 3.82[58], delle successioni universali dette inter vivos, così come riconosciute dall’interpretatio prudentium[59], che dipendono non già dalla morte, ma dalla capitis deminutio della persona sui iuris cui si va a succedere, e che costituiscono la «conseguenza logica e necessaria dell’ordinamento giuridico-patrimoniale romano intorno alla famiglia»[60]. In un contesto siffatto, Gaio affronta il problema dell’uomo che si dà in adozione – e qui è chiaro il riferimento non all’adoptio in senso stretto ma all’adrogatio[61] – e della donna sui iuris che fa la coemptio, precisando che i debiti contratti in precedenza da detti soggetti non si trasferiscono in capo al coemptionator o al pater adoptivus[62], a meno che non si tratti di debiti risultanti da un’eredità che è stata già deferita all’adottato o alla donna (hereditarium aes alienum[63]), perché in questo caso lo stesso pater adoptivus o il coemptionator diventano eredi e subentrano nella delazione[64], e quindi sono tenuti in maniera diretta[65]. D’altro canto, aggiunge il giurista, sia chi si è dato in adozione sia la donna conventa in manum cessano di essere eredi[66]. Ne deriva che, al di là del caso dei debiti riconducibili all’eredità deferita nel suo complesso, per gli altri debiti contratti da tali soggetti a proprio nome (quod proprio nomine eae personae debuerint) non possono essere tenuti né il pater adoptivus né il coemptionator; e neppure chi si è dato in adozione[67] o la donna conventa in manum rimangono obbligati in quanto – ovviamente – sono stati liberati a causa dell’intervenuta capitis deminutio[68], anche se comunque viene concessa ai creditori nei loro confronti un’actio utilis rescissa capitis deminutione. E se i sottoposti non vengono difesi in quest’azione, il pretore consente che vengano venduti in blocco quei beni che sarebbero stati loro, se non si fossero assoggettati al potere altrui.

Pertanto, dei debiti ereditari rispondono direttamente il padre adottivo o il coemptionator[69], in quanto si trasmette loro il titolo di heres, che qualifica e ne legittima l’assunzione, mentre i debiti propri dell’adrogatus o della donna sui iuris che in manum convenit si estinguono. Sebbene però i debiti contratti in precedenza dal capite deminutus fossero ormai estinti, non potendo questi rimanere obbligato a seguito dell’intervenuta capitis deminutio, che ha su di lui un effetto liberatorio, i creditori potevano trovare ugualmente una tutela ai propri interessi, anche se diversa da quella della quale avrebbero potuto godere se non fosse intervenuta la capitis deminutio.

Il rapporto negoziale, infatti, pur non trovando più idonea e opportuna tutela sul fronte dell’azione diretta, trovava comunque un’adeguata tutela in quella apprestata dal pretore in via utile, attraverso la statuizione dell’irrilevanza sul piano del ius honorarium del fatto estintivo sopravvenuto. Di modo che risulta innegabile l’esistenza di meccanismi processuali che rendono coercibile, sia pure sotto un piano e un profilo differente da quello del ius civile, l’adempimento di un dovere che non può trovare più il suo fondamento in un oportere. E, d’altro canto, mi sembra che anche qui in fondo la logica del discorso gaiano sia tutta tesa al versante della tutela processuale del rapporto.

Una conferma si può trovare pure nell’interesse da parte del giurista alla fase successiva a quella dell’accertamento dei diritti, vale a dire quella dell’autorizzazione alla vendita in blocco dei beni passati al titolare della potestas in caso di mancata defensio dei convenuti nell’actio utilis intentata contro l’adrogatus o la donna conventa in manum[70], così che i creditori potessero conseguire il soddisfacimento dei propri crediti in conformità della sentenza emanata[71].

Ciò posto, un problema si impone all’attenzione. Il debitore, pur essendo legittimato passivamente all’azione intentatagli dai creditori grazie alla fictio che considerava come non avvenuta la capitis deminutio nella quale era incorso, e quindi per questo in grado di comparire autonomamente in quel determinato giudizio, in realtà, se si prescinde dalla finzione, che opera limitatamente a questo fine, si trova nella condizione giuridica di alieno iuri subiectus; e quindi, in quanto tale, è giuridicamente privo di un proprio autonomo patrimonio con il quale poter rispondere nei confronti dei creditori in caso di esecuzione coatta a seguito di condemnatio; e, ad ogni buon conto, viene coperto dallo “scudo” della patria potestas o della manus maritalis.

L’assenza di un autonomo patrimonio, dunque, potrebbe rischiare di rendere irrealizzabile per i creditori la fase della missio in possessionem e della conseguente bonorum venditio[72], a meno che questi non volessero attendere l’eventuale uscita dalla potestas per il figlio o dalla manus per la donna, essendo tale momento l’unico nel quale si può agire contro di loro in via esecutiva[73]. Ecco perché il pretore non si può limitare a concedere a tutela e nell’interesse dei creditori l’actio utilis rescissa capitis deminutione, ma deve anche necessariamente e più concretamente consentire, ancora manente potestate, l’esecuzione su quel patrimonio che il soggetto divenuto alieni iuris aveva prima della capitis deminutio[74], e che – ovviamente – sarebbe rimasto a lui se avesse conservato la preesistente qualifica di sui iuris, in modo che con quel patrimonio, e solo nei limiti di quello, il pater fosse tenuto a rispondere dei debiti della persona che era venuta ad assoggettarsi volontariamente alla sua potestas[75]. In altre parole, deve fornire ai creditori contro il debitore, sia pur attraverso strade e percorsi diversi, lo stesso strumento che questi avrebbero avuto qualora non fosse intervenuta la capitis deminutio[76].

Ne deriva che la vendita in blocco deve essere intesa con riferimento ai soli beni che sarebbero spettati al capite deminutus. Difatti, dopo la rescissione della capitis deminutio, che costituisce il presupposto per poter consentire una separatio bonorum rispetto al patrimonio del titolare della potestas, sia la proscriptio sia la venditio si compiono sotto il nome dello stesso soggetto nei cui confronti era stata intentata l’azione, vale a dire sotto il nome del capite deminutus stesso. Anche se, è bene precisare, dal tenore del passo mi sembra non potersi dubitare che, comunque, da quel complesso di beni che sarebbe appartenuto al figlio se non vi fosse stata la permutatio status si dovesse escludere – nel caso in cui vi fossero, oltre ai debiti personali, anche dei debiti ereditari – la stessa massa ereditaria, ormai acquisita per successione all’adrogator, nei confronti del quale i creditori avevano l’azione diretta[77], senza, di contro, poter partecipare al concorso intentato a seguito della vittoria nell’actio utilis rescissa capitis deminutione.    

Da un lato, dunque, una separatio bonorum nei confronti dei creditori dell’adrogator, dall’altro nei confronti dei creditori ereditari dell’adrogatus; e, tutto ciò detratto, la sopravvivenza di un patrimonio costituito a garanzia dei creditori, sul quale gli stessi potevano soddisfare in maniera efficace le proprie pretese pregresse, nonostante il fatto che i beni fossero ormai passati, per successio, al titolare della potestas[78].

 

 

5. – La mancata defensio del debitore inadempiente

 

A conferma di quanto osservato si può richiamare un altro passo delle Istituzioni di Gaio, 4.80:

 

Haec ita de his personis, quae in potestate ‹sunt›, sive ex contractu sive ex maleficio earum ___________. quod vero ad eas personas quae in manu mancipiove sunt ‹___›, ita ius dicitur, ut cum ex contractu earum agatur, nisi ab eo cuius iuri subiectae sint in solidum defendantur, bona quae earum futura forent, si eius iuri subiectae non essent, veneant. sed cum rescissa capitis deminutione cum iis imperio continenti iudicio agitur,___________.…[79].

 

Il brano, estremamente lacunoso, e comunque di per sé non particolarmente chiaro, conclude l’esposizione gaiana sulle conseguenze patrimoniali in caso di sottoposizione alla potestas da parte dei figli e degli schiavi. In particolare, in esso si fa riferimento alle persone che si trovano in manu o in mancipio, e si afferma che quando si vuole agire in base a quanto da loro contrattato, nel caso in cui queste non vengano difese in solidum dalle persone al cui potere sono assoggettate, devono essere venduti i beni che sarebbero stati loro in futuro, se non fossero state sottoposte a quel potere. Il discorso poi continua con un riferimento alla rescissione della capitis deminutio, racchiuso nell’ablativo assoluto rescissa capitis deminutione, il cui riferimento è più delicato e difficile da comprendere a causa dello stato in cui ci è pervenuto il manoscritto veronese, del quale nella pagina 219, dopo veneant, sono leggibili solo pochissime parole.

Nel complesso, le interpretazioni del testo proposte dalla dottrina non sono state univoche. In particolare il Solazzi ha rilevato come, in mancanza di una precisa specificazione temporale, non vi siano nel passo elementi per comprendere con sicura certezza a quali contratti il giurista faccia riferimento nel suo discorso, se a quelli conclusi posteriormente alla capitis deminutio o a quelli conclusi anteriormente[80]. Il dubbio, però, potrebbe apparire inconsistente. A rigor di logica, infatti, non appare verosimile, seguendo in questo l’autorevole riflessione del Lenel[81], che si possa ipotizzare una rescissione della capitis deminutio per crediti sorti posteriormente all’evento modificativo dello status. Sulla base di questa premessa, pertanto, il discorso svolto da Gaio in 4.80, tutto incentrato sulle persone che sono in manu o in mancipio, ben potrebbe integrarsi con quello avviato in modo più analitico nei paragrafi 3.84 e 4.83 dello stesso manuale, andandolo a completare[82]. Nel paragrafo in esame, infatti, viene richiamata l’attenzione sulla disciplina inerente i debiti contratti dalla uxor in manu (in un momento anteriore alla modifica del suo status), e la stessa disciplina viene estesa, ai soli fini delle modalità della missio in possessionem, anche al caso delle personae in mancipio[83].

Ora, anche in questo passo – tutto impostato, a differenza dei precedenti, sulla fase esecutiva del procedimento – il presupposto è la rescissione della capitis deminutio: e, in caso di mancata defensio del debitore inadempiente da parte dell’avente potestà su di lui, il pretore consente ai creditori di vendere tutto il patrimonio che sarebbe stato dei convenuti se non si fossero assoggettati al potere altrui; così concedendo loro, come si è già detto in precedenza, lo stesso strumento processuale che avrebbero avuto se il debitore non avesse subito la permutatio status. È però il caso di fare al riguardo una piccola precisazione. La fictio che qui si descrive nel dettaglio non è una vera e propria fictio formulare o, per meglio dire, una fictio in senso tecnico: più semplicemente il pretore, nell’individuare i beni oggetto della venditio, finge una situazione irreale, che è quella dell’avvenuta della separazione tra i due patrimoni, in modo da poter consentire al bonorum emptor la successione in una sola parte del patrimonio dell’avente potestà, identificabile in quello che sarebbe stato dei convenuti se non fossero stati sottoposti all’altrui potere.

C’è infine un elemento sul quale occorre soffermarsi, sia pur brevemente. Mentre nel paragrafo 3.84 si afferma che la venditio ha luogo si…non defendantur[84], in 4.80 al presupposto della mancata difesa da parte degli aventi potestà (unici e soli arbitri, iure civili, della situazione patrimoniale dei sottoposti) viene aggiunto anche un ‘in solidum’. Ora, contro tale specificazione ha preso posizioni il Solazzi, sostenendo che la sua presenza all’interno del testo rappresenterebbe una nota «superflua ed ingenua» in quanto, non essendo quella ivi descritta un’azione adiettizia, e «rivolgendosi direttamente contro il capite deminutus, abbraccia il solidum, onde è inutile scrivere che la difesa ha da essere in solidum»[85].

Non mi sembra di poter condividere fino in fondo le obiezioni dell’illustre studioso. Nonostante sia evidente che l’in solidum defendere possa far riferimento solo al pagamento o alla garanzia dell’intero ammontare del debito, e che questa somma avrebbe costituito comunque necessariamente l’oggetto dell’esecuzione[86], anche a prescindere dall’ulteriore precisazione fatta in questa sede dal giurista – non potendosi nel caso di specie configurare una realizzazione del credito finalizzata ad una sola porzione del debito – un simile chiarimento non appare incompatibile con un contesto quale è quello di un manuale istituzionale.

Naturalmente, è assai probabile, come afferma l’Albanese, che con tale meccanismo si sia voluto evitare che il titolare della potestas su chi è divenuto alieni iuris, astenendosi dall’intervenire, possa consentire l’esecuzione personale sul sottoposto per un negozio concluso quando non esisteva ancora quella condizione[87].

 

 

6. – Actiones ficticiae e actiones utiles

 

Ma torniamo al discorso dal quale abbiamo preso le mosse, richiamandolo sinteticamente nelle sue linee essenziali. Nei paragrafi 4.38, 3.84 e 4.80 del suo manuale istituzionale Gaio descrive la fictio che suppone come non avvenuta la capitis deminutio del debitore passato volontariamente dalla condizione personale di sui iuris a quella di alieni iuris, in modo da consentire ai creditori, i cui diritti erano sati resi vani dalla permutatio status, di poterlo ugualmente convenire in giudizio attraverso un’actio utilis rescissa capitis deminutione, nonostante l’attuale inesistenza in capo al sottoposto di un vincolo obbligatorio che possa tradursi in un oportere processuale.

Dunque, la fictio inserita come clausola all’interno della formula è l’elemento che consente di ricondurre le azioni che la contengono[88] – individuandole e caratterizzandole – alla più generale categoria delle actiones ficticiae, frutto di un sapiente lavoro della giurisdizione pretoria che, operando con il sostegno della giurisprudenza, tenta di superare il dualismo normativo tra ius civile e ius honorarium[89]: da un lato, mitigando i rigori del ius civile, dall’altro, “imitando” situazioni tutelate civilisticamente, sussumendo quelle che non vi erano ricomprese sul piano del diritto onorario[90]. Ed il dato reale viene disatteso in ragione dell’aequitas: ma questa è una giustificazione troppo nota per insistervi ulteriormente[91].

Occorre allora soffermarsi, sia pur in maniera sintetica, atteso l’ampio spazio dedicato all’argomento dalla più recente letteratura, su tali actiones, o per meglio dire – come più frequentemente meglio denominate nella letteratura moderna, pur senza adeguato supporto testuale – sulle formulae ficticiae[92], la cui peculiarità è data proprio dal tipo di struttura, che ne costituisce la loro stessa caratterializzazione.

Sotto un profilo strettamente grammaticale, la fictio contenuta nella formula viene espressa nell’intentio mediante la protasi di un periodo ipotetico di terzo grado, e cioè dell’irrealtà, che contiene un verbo al congiuntivo imperfetto o piuccheperfetto[93], a cui è correlata un’apodosi dello stesso tipo[94], così da poter autorizzare il giudice[95] a comportarsi nella sua decisione o come se un determinato fatto o una determinata circostanza non accaduti nella realtà fenomenologica si fossero verificati, o come se un determinato fatto o una determinata circostanza realmente accaduti in quella stessa realtà non si fossero mai verificati, oppure a fingere direttamente esistente un effetto o una qualificazione giuridica che consenta di tutelare una fattispecie civilistica[96].

Le finzioni, dunque, possono essere di due tipi: l’uno, nel quale la finzione ha ad oggetto un fatto giuridico (il che può, ovviamente, coinvolgere pure problemi di qualificazione giuridica); l’altro, che finge direttamente l’esistenza di un effetto o di una qualificazione giuridica[97]. Un esempio del primo tipo di fictio può essere il possesso prolungato per il tempo necessario all’usucapione (descritto in Gai 4.36: si anno possidet); del secondo tipo la qualifica di erede (in Gai 4.34-35: si heres esset), o la qualifica di cittadino romano (in Gai 4.37: si civis esset) od anche la non subita capitis deminutio (in Gai 4.38: si capite deminutus deminutave non esset)[98]. Non si può, dunque, in considerazione di ciò, concordare con il Bianchi quando afferma che la fictio può cadere sempre e solo su degli elementi fattuali («o che come tali sono percepiti»), che tra l’altro, a suo parere, tra i diversi elementi, sono «gli unici suscettibili di essere retrodatati»[99]. A parte le riserve di fondo sull’impostazione dello studioso[100], anche su quest’ultima considerazione mi sembra di poter esprimere qualche perplessità. A stretto rigore, anzi, appare più difficile configurare la retrodatazione di un evento fattuale che di una qualificazione giuridica. Mentre il primo è legato alla realtà fenomenologica, la cui deformazione temporale implica un vero e proprio processo di alterazione del dato reale, la seconda, in quanto risultato di una creazione logica, può essere indipendente da ogni circostanza temporale.

Sul versante della struttura della formula, le actiones ficticiae, ispirate al ius civile, dovevano essere necessariamente adattamenti di formulae in ius conceptae[101], non potendosi ravvisare il funzionamento della fictio per le formulae in factum conceptae[102], e soprattutto adeguate motivazioni che potessero spingere il pretore a creare finzioni in factum[103]: né, d’altro canto, sono riscontrabili nelle fonti testimonianze che consentano di spingersi verso ipotesi differenti[104].

Alle actiones ficticiae si affiancano quelle con trasposizione di soggetti[105] e le actiones con formulae in factum. E tutte e tre le azioni si possono collocare all’interno della più generale categoria delle actiones honorariae, delle quali rappresentano i tre modelli fondamentali[106], in contrapposizione a quella delle actiones iuris civilis.

Ciò detto, v’è da osservare che Gaio in 4.38, a conclusione della sua trattazione sulle fictiones qualifica, senza possibilità di equivoci, l’actio rescissa capitis deminutione come un’actio, oltre che ficticia, al tempo stesso anche utilis: ed una tale qualifica è attestata pure in 3.84.

Ma la portata delle actiones utiles è, rispetto a quella delle actiones ficticiae, molto più complessa da inquadrare, così da risultare molto discussa e discutibile[107]. Il Volterra ha collocato dette azioni, insieme a quelle ficticiae e a quelle in factum, tra le formulae iuris honorarii[108]: ma, come osserva il Talamanca, non sembra che una tale categoria possa riferirsi ad una precisa caratteristica nella costruzione formulare delle azioni onorarie[109]. Esse, secondo una convinzione ormai abbastanza radicata in dottrina[110], sono utiles in quanto adattate alla tutela di un caso diverso da quello originariamente previsto attraverso l’estensione analogica in via pretoria del campo di applicazione di un’azione già nota al diritto esistente[111], trovando questa la sua origine in una lex, in una disposizione edittale o in un’altra fonte del diritto. E, in quanto derivanti dall’adattamento di un’azione – seguendone anche, nei limiti del possibile, il regime – normalmente sono decretali: ciò non esclude, però, la configurabilità di actiones utiles edittali, nel caso in cui le stesse azioni avessero, nel corso del tempo, fornito buona prova nella prassi giudiziaria.

Ovviamente, dette azioni sono in netta antitesi alle actiones directae[112], vale a dire quelle nate per tutelare specificamente un determinato rapporto giuridico, e che costituiscono (o, per meglio dire, possono costituire) il modello da allargare per le azioni utili[113]; contrapposizione che però è stata oggetto di qualche perplessità tra gli studiosi[114], soprattutto in considerazione del fatto che, per altro verso, l’actio directa viene talvolta opposta in contesti differenti in modo significativo ad altri tipi di azioni, come la noxalis, la contraria o quella ad exhibendum, mentre l’actio utilis viene opposta all’actio vulgaris od anche a quella inanis[115].

Il Sotty ha tentato di superare l’impiego del sintagma actio utilis nel senso appena espresso di estensione di un’azione, al di là del suo campo di applicazione, fissato dal diritto civile o dal diritto pretorio, in qualunque modo questa estensione avvenga, considerando invece una tale azione come la sola che consentirebbe di rendere efficiente, utilis in questo senso, la relativa condanna, a differenza di quelle date inutilmente, che non giungono, di fatto, alla condanna[116]. Detta ipotesi, indubbiamente suggestiva, appare però scarsamente convincente, trovando troppo tenui riscontri testuali: ragion per cui è preferibile continuare a seguire l’opinione tradizionalmente accolta.

Fatte queste premesse, è necessario chiarire quale sia, più in generale, il rapporto esistente tra l’actio ficticia e l’actio utilis: in primo luogo, pur potendosi convenire sulla circostanza che le actiones ficticiae costituiscano, numericamente, la maggior parte delle actiones utiles[117], non si può affermare, contrariamente a quanto sostenuto dal Valiño[118], influenzato nella sua opinione da un pensiero del D’Ors[119], che tra actiones ficticiae ed actiones utiles vi sia una totale coincidenza di concetti e di termini, a tal punto da poter essere utilizzati sinonimicamente[120].

Se difatti si tiene per fermo che le actiones ficticiae siano adattamenti di formulae in ius conceptae[121], accogliendo una tale prospettiva unificante, risulterebbe impossibile ricondurre la qualificazione utilis alle actiones con formulae in factum conceptae. Invece, com’è agevolmente dimostrabile, la qualifica utilis era data in taluni casi, oltre che alle actiones ficticiae, anche ad altre categorie di azioni, quali quelle con formula in factum concepta, o quelle con trasposizione di soggetti o altrimenti adattate[122]. Questo elemento, di per sé stesso fondato su una arbitraria delimitazione del campo di applicazione delle actiones utiles, è sufficiente ad escludere che una tale qualifica – o quella analoga di actio ad exemplum o data ad exemplum[123] – possa essere perfettamente coincidente con la categoria delle formulae ficticiae, essendo la stessa qualifica actio utilis certamente più ampia e articolata[124]. Dunque, non tutte le actiones utiles sono anche ficticiae, essendo le ficticiae solo una specie di quelle utiles.

Ciò chiarito, bisogna ora fare il ragionamento opposto, e tentare di comprendere se tutte le actiones ficticiae siano al tempo stesso anche utiles. E qui sorgono le maggiori difficoltà.

Qualche dubbio ingenera al proposito la trattazione gaiana, dalla quale non si può trarre alcun indizio incontrovertibile. Difatti, non vi sono elementi per affermare con sicura certezza se nella prospettiva del giurista antonino l’aggettivazione utilis riguardi la sola fictio descritta per ultima in 4.38 od anche tutte quelle considerate nei paragrafi immediatamente precedenti. A favore della prima ipotesi si poneva il Sotty[125], la cui opinione è rimasta però quasi del tutto isolata[126], ritenendo che la qualifica utilis, la cui menzione esplicita si trova solo con riferimento al caso del debito contratto dal capite deminutus in un momento antecedente alla sua permutatio status, non potesse che riferirsi al caso ivi descritto, con la necessaria e logica conseguenza che tutte le altre formulae ficticiae descritte in 4.32-37 non fossero al tempo stesso anche utiles.

Diversamente, il Falcone ha sostenuto in modo convincente che, essendo il blocco espositivo gaiano fortemente compatto, pur trovandosi la qualifica utilis solo alla fine dell’elencazione, una tale qualifica non dovesse ritenersi applicabile solo a quel caso in cui è espressamente menzionata, vale a dire quello descritto nel paragrafo 4.38, ma anche a tutte le altre formule in precedenza richiamate, compresa quella con trasposizione di soggetti in favore del bonorum emptor trattata nel paragrafo 35 [127]. Infatti, ad una ulteriore riflessione, da un punto di vista terminologico si deve osservare che c’è una perfetta simmetria e compattezza espositiva tra il fingitur capite deminutus deminutave non esse del paragrafo 4.38 ed il fingitur rem usucepisse del paragrafo 36, così come con il civitas Romana peregrino fingitur del paragrafo 37 [128], che porta a non distaccare l’ipotesi trattata nel paragrafo 38 da quelle trattate nei paragrafi precedenti, che sono senza dubbio actiones ficticiae.

Seguendo un diverso percorso argomentativo, la Furia era giunta a conclusioni non dissimili, sostenendo in primo luogo che per il diritto romano classico non si poteva accogliere il significato di ‘utilmente data’ attribuita dal Sotty all’actio utilis, e precisando al contempo che se alcune formulae ficticiae non erano al tempo stesso denominate utiles è solo perché ognuna di queste aveva di per sé un proprio nome specifico[129]; d’altro canto, se si considera pure che l’actio Publiciana – che tra l’altro è proprio l’azione che il Sotty richiama specificatamente a sostegno della sua ipotesi – viene definita da Paolo in 1 ad ed. praet. D. 44.7.35 come un’azione data ad exemplum vindicationis (qualifica che, come si è detto, è analoga a quella di utilis), per indicarne il suo specifico meccanismo, sembrerebbe potersi confermare che la circostanza della sua non menzione da parte dell’autore delle Institutiones non sia probante per escludere aprioristicamente una tale qualifica anche per le altre actiones in precedenza descritte.

Per altro verso, pochi anni fa il Mercogliano ha assunto posizioni particolarmente estreme[130]. Traendo spunto proprio dal richiamato paragrafo 4.38, lo studioso napoletano ha invece congetturato che la fictiosi capite deminutus deminutave non esset’ ivi descritta, essendo un’actio utilis, nonostante il dato testuale, che la qualifica al tempo stesso ficticia e utilis, non sembra invece poter configurare un’azione fittizia, così affermando, più in generale, la diversità e l’autonomia delle actiones ficticiae rispetto alle actiones utiles: nella sua particolare prospettiva, dunque, le actiones ficticiae non potrebbero essere al contempo anche utiles. L’argomento addotto non mi appare però decisivo, non ravvisandosi ostacoli logici per ritenere che un’actio utilis possa essere al tempo stesso fittizia: a tal proposito, quindi, ritengo possa ritenersi ancora soddisfacente il punto di vista tradizionale, che non ne esclude una possibile coincidenza. Se si considera, infatti, che l’aggettivazione utilis non sta ad indicare, a differenza di quella ficticia, una particolare costruzione formulare, ma è piuttosto un termine generico che indica un insieme di mezzi processuali che ricomprende al suo interno diverse tipologie[131], tra le quali, appunto, le actiones ficticiae, ogni dubbio sembra fugarsi.

In conclusione, considerata nel suo complesso, la trattazione gaiana sulle fictiones appare, in linea con quanto sostenuto dal Falcone, un blocco unitario, così escludendosi di poter dedurre da questa una contrapposizione tra l’actio rescissa capitis deminutione, che è anche utilis, e le altre actiones ficticiae ivi menzionate, che invece non lo sarebbero. D’altro canto, riesce difficile pensare che Gaio, in una sede qual è quella di un manuale istituzionale, anziché evidenziare a chiare lettere la diversità strutturale tra l’ultima azione menzionata e le precedenti, l’abbia fatta passare quasi sotto silenzio, limitandosi ad una fugace qualificazione di una sola di esse.

 

 

7. – Rescissione della capitis deminutio e in integrum restitutio

 

C’è ancora un ultimo aspetto del dettato gaiano che bisogna trattare, ed è l’utilizzo in 4.38 e in 4.80 del termine rescissa per considerare irrilevante per diritto pretorio la capitis deminutio subita dal debitore[132]. Il Betti ha attribuito ad esso un valore tecnico, identificando tra le formulae utiles quelle che, caratterizzate da una fictio, possono definirsi «rescissoriae in largo senso»[133]: vale a dire quelle nelle quali in forza della rescissione pretoria i contendenti convengono di doversi prescindere dal fatto o dallo stato di fatto dichiarato irrilevante, considerandolo ancora in vita. Si verificherebbe in tal modo, secondo l’illustre studioso, un fenomeno di reviviscenza del rapporto dal punto di vista del diritto pretorio, che sussume nella propria sfera quella determinata fattispecie, concedendo, su domanda del privato, un’azione pretoria corrispondente.

Similmente, seppur sotto un piano e un profilo diverso, anche Paolo in 41 ad ed. D. 37.1.6.1 utilizza lo stesso termine, occupandosi nel caso di specie della rescissione della stessa capitis deminutio, ma questa volta in relazione alla concessione della bonorum possessio secundum tabulas (unde liberi) al figlio emancipato[134]:

 

Bonorum possessionis beneficium multiplex est: nam quaedam bonorum possessiones competunt contra voluntatem, quaedam secundum voluntatem defunctorum, nec non ab intestato habentibus ius legitimum vel non habentibus propter capitis deminutionem. quamvis enim iure civili deficiant liberi, qui propter capitis deminutionem desierunt sui heredes esse, propter aequitatem tamen rescindit eorum capitis deminutionem praetor. legum quoque tuendarum causa dat bonorum possessionem.

 

La parte del testo che qui interessa è solo quella nella quale si afferma che il pretore, come sempre mosso dall’aequitas, in considerazione dell’eccessivo rigore della legge delle XII tavole in materia di successione intestata[135], rescinde la capitis deminutio minima conseguente all’emancipatio, in modo da poter considerare i liberi, che non sono non più – ovviamente – sui heredes, ancora nella potestà immediata dell’ereditando al momento della sua morte, e dunque in una posizione analoga a quella dei sui. Non mi sembra, però, di poter concordare con il Robbe quando afferma che nel caso di specie la finzione è duplice[136]. Verosimilmente, invece, fingendosi come non avvenuta la capitis deminutio[137], la considerazione che i liberi (ormai divenuti sui iuris[138]) fossero ancora in potestà del de cuius al momento della sua morte era solo una necessaria e logica conseguenza di questa finzione.

Grazie a questa fictio (la c.d. fictio suitatis[139]), dunque, si attribuiva al figlio, o eventualmente a chi succedeva in locum di lui, la successione ereditaria intestata: ed è da rilevare come, nel caso preso in considerazione da Paolo, a differenza di quello del quale ci stiamo occupando, la rescissione operi a vantaggio esclusivo del soggetto che subisce la capitis deminutio.

Tornando al caso del quale si sta trattando, è evidente il ruolo decisivo giocato dalla rescissione della capitis deminutio: ed in ragione di ciò è opportuno comprendere il meccanismo in base al quale questa veniva concretamente attuata.

In dottrina è stato sostenuto che la sua operatività fosse collegata al meccanismo dell’in integrum restitutio. Senonché, è stato altresì osservato che in D. 4.5.2.1, dove la disposizione edittale viene riportata testualmente da Ulpiano – un testo del quale è opportuno occuparsi in un momento successivo[140] – non vi è alcuna menzione diretta o indiretta di un simile meccanismo. Non mi sembra però che detta mancanza possa spingere a revocare in dubbio la genuinità sostanziale del passo, come ha sostenuto invece il Carrelli[141], avvalendosi anche dell’autorevole opinione critica del Lenel[142], anche in considerazione del fatto che nessun accenno alla restitutio vi è pure nel manuale gaiano, che si limita a parlare al riguardo di estinzione iure civili dei debiti del capite deminutus e di actiones utiles[143]. Piuttosto che leggere nel passo ulpianeo poco persuasivi tentativi di interpolazione, o ipotizzare nel manuale gaiano scritti o, quanto meno, sottintesi concetti o parole di cui non v’è traccia alcuna, appare preferibile mantenere fermo il dettato testuale delle diverse testimonianze, scevro così com’è da ogni collegamento diretto tra la rescissione della capitis deminutio e l’in integrum restitutio[144]. Detta prospettiva consente un esame meno condizionato da conclusioni alle quali dover necessariamente giungere.

Ai fini del discorso da articolare, è sufficiente ricordare che l’in integrum restitutio è un provvedimento del pretore – a cui Paolo attribuisce un fondamento magis imperii quam iurisdictionis[145] – il quale concede a richiesta dell’interessato l’azione come se un determinato fatto giuridico che avrebbe avuto come effetto l’estinzione di un diritto soggettivo non fosse mai avvenuto, ripristinando integralmente la situazione giuridica soggettiva compromessa da quel fatto. La maggior parte delle restitutiones sono previste in un apposito capo dell’editto[146], nello specifico il decimo – del quale, peraltro, non si conosce la sua antichità – e tra di esse si può riscontrare una struttura comune sotto diversi profili.

Più in generale, per quanto riguarda il versante delle modalità attraverso le quali si attuava l’in integrum restitutio c’è un dibattito ancora aperto tra gli studiosi. I problemi sono, infatti, diversi. Il primo riguarda la necessarietà o meno della causae cognitio in tutti i casi di applicazione dell’istituto[147]. Secondo una parte della dottrina, peraltro abbastanza risalente, ma che ha trovato consenso assai ampio, l’in integrum restitutio era quasi sempre pronunziata causa cognita, salvo alcune eccezioni, tra le quali, appunto, proprio la capitis deminutio[148], in cui il rimedio sarebbe stato concesso direttamente, in maniera completamente anomala rispetto alla struttura normale dell’istituto[149]. In senso contrario si è mosso il Carrelli[150], il quale ha invece affermato che la causae cognitio costituiva un presupposto essenziale per ogni caso di applicazione della restitutio in integrum: e la sua ipotesi è stata sostanzialmente ripresa, con nuovi spunti critici, dal Cervenca[151], che ha ritenuto un ostacolo insormontabile alla possibilità di qualsivoglia deroga al meccanismo ordinario soprattutto il dettato del notissimo frammento di Modestino, tratto dall’ottavo dei dodici libri pandectarum, e riportato in D. 4.1.3[152], della cui sostanziale genuinità – almeno nella sua prima parte – non sembra potersi dubitare[153], dove, con un’affermazione di apparente portata generale, la causae cognitio viene ritenuta un passaggio essenziale per tutte le restitutiones[154]: questa, infatti, continua il testo, sarà diretta ad accertare la “iustitia[155] delle singole “causae” di restitutio, ed anche la veridicità o meno delle dichiarazioni rese dal richiedente. Occorre però al riguardo considerare la circostanza che un richiamo esplicito ad essa lo si rinviene non in tutte, ma solo in alcune clausole edittali in tema di in integrum restitutio.

Altro, e forse ancor più arduo problema, sul quale la dottrina è ancora divisa, è quello di comprendere il funzionamento della procedura di in integrum restitutio, vale a dire individuare la sua forma e le sue caratteristiche: non è infatti agevole ricostruire con sicura certezza se questa fosse stata sempre suddivisa in due fasi ben distinte, la prima delle quali, svolgentesi esclusivamente davanti al praetor, e diretta ad accertare la fondatezza della ragione per cui era stata chiesta, si andava a concludere con un decretum (restitutionis) pretorio, emesso causa cognita, da cui sarebbe dipesa la rescissione dell’atto o del negozio impugnato[156], e la seconda, subordinata alla prima, attuabile nell’ipotesi di inosservanza del decretum, consistente in un vero e proprio iudicium, chiamato iudicium rescissorium, attraverso il quale far valere – in via ordinaria – le conseguenze pratiche della rescissione[157], oppure se, come appare più probabile, il praetor concedesse direttamente all’interessato l’actio rescissoria, senza un apposito decretum, che avrebbe invece emesso solo in alcuni casi, soprattutto in materia amministrativa o penale[158]. Difatti, come è stato osservato dai sostenitori di quest’ultima ipotesi, in primo luogo sono ben pochi i testi che attestano in maniera esplicita l’esistenza di tale decretum[159]: e, d’altro canto, non si può aderire all’osservazione contraria che la sua menzione potrebbe essere stata soppressa nella maggior parte dei casi dai compilatori giustinianei[160], in quanto certamente gli stessi, più che sopprimerla, meglio l’avrebbero sostituita con il termine sententia[161]. Peraltro, un esame approfondito di quei pochi testi in cui l’in integrum restitutio viene concessa a mezzo decretum porta a considerare che la parte più cospicua non riguarda il caso in cui alla concessione stessa doveva seguire l’instaurazione dell’actio rescissoria. Inoltre, si deve pure aggiungere che non ci è pervenuto alcun testo contenente una frase del tipo “postulare decretum in integrum restitutionis”: circostanza assai anomala a voler ammettere che la postulatio dell’interessato fosse diretta ad ottenere un decretum. Al contrario, sono ben più numerosi i testi nei quali l’in integrum restitutio appare accordata direttamente, senza decreto, per mezzo della sola actio rescissoria[162].

Ora, in un contesto siffatto – caratterizzato da ricostruzioni tutt’altro che omogenee – sul piano teorico si deve convenire sulla circostanza che le notizie intorno alla rescissione sul piano del diritto pretorio della capitis deminutio e al suo diretto collegamento con l’in integrum restitutio sono assai limitate.

Ne fa menzione, infatti, solo un passo attribuibile a Paolo, collocato in D. 4.1.2, che i compilatori hanno utilizzato, posizionandolo in immediata successione ad un passo di Ulpiano tratto dall’undicesimo libro del commentario ad edictum, per concluderlo, in modo da completare l’elencazione delle cause più antiche di in integrum restitutio ivi menzionate. I due passi sono concatenati, e vanno letti in stretto collegamento tra loro:

 

Ulp. 11 ad ed. D. 4.1.1: Utilitas huius tituli non eget commendatione, ipse enim se ostendit. nam sub hoc titulo plurifariam praetor hominibus vel lapsis vel circumscriptis subvenit, sive metu sive calliditate sive aetate sive absentia inciderunt in captionem

 

Paul. 1 sent. D. 4.1.2: sive per status mutationem aut iustum errorem.

 

Nel passo di Ulpiano vengono enumerate, quali cause che danno luogo ad in integrum restitutio, l’età, il metus, il dolus, l’absentia. La capitis deminutio, invece, viene riportata nel frammento successivo, insieme al giusto errore, che peraltro non è contemplato da nessuna clausola edittale[163].

Se da una lato la provenienza del passo dalle Sententiae[164] potrebbe far sorgere qualche dubbio sull’affidabilità per il diritto classico della testimonianza contenuta nel Digesto[165], dall’altro vi è invece un forte indizio a favore della connessione dell’azione rescissoria con la restitutio in integrum: difatti, nella ricostruzione dell’editto pretorio proposta dal Lenel l’edictum de capite (de)minutis si doveva trovare proprio sotto il titolo de in integrum restitutionibus; e certamente sotto questo stesso titolo è stato commentato da Paolo e da Ulpiano, insieme alle altre cause di in integrum restitutio. Il che non può non avere una sua rilevanza ai fini di una corretta valutazione del prospettato collegamento.

Sotto diverso profilo, si deve comunque considerare che, ammettendo nel caso di specie il verificarsi della rescissione attraverso il meccanismo della restitutio in integrum, in essa si vanno a riscontrare delle profonde anomalie rispetto alla struttura normale delle altre azioni rescissorie conseguenti alla stessa restitutio. In primo luogo, come si è già detto, nelle esigue testimonianze che ci sono pervenute manca del tutto ogni riferimento all’esistenza di una causae cognitio preliminare alla concessione della formula. Inoltre, come attesta Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.5, si tratta di un iudicium perpetuum e trasmissibile agli eredi, essendo esperibile sia dagli eredi del creditore che avverso gli eredi del debitore:

 

Hoc iudicium perpetuum est et in heredes et heredibus datur[166].

 

Al contrario, i iudicia rescissoria derivanti da restitutio devono essere invocati, a pena di decadenza, entro un anno da quando vi è la possibilità di richiederli. Sono espliciti in tal senso Paul. 1 ad ed. praet. D. 44.7.35 pr.:

 

In honorariis actionibus sic esse definiendum Cassius ait, ut quae rei persecutionem habeant, hae etiam post annum darentur, ceterae intra annum. honorariae autem, quae post annum non dantur, nec in heredem dandae sunt, ut tamen lucrum ei extorqueatur, sicut fit in actione doli mali et interdicto unde vi et similibus.

 

e, pur se riferibile espressamente alla c.d. restitutio in integrum ob fraudem, esperibile dal curator bonorum o dagli stessi creditori frodati nei confronti del terzo che avesse consapevolmente acquistato in frode ai creditori del proprio dante causa, Ulp. 66 ad ed. D. 42.8.1 pr.:

 

Ait praetor: “…intra annum, quo experiundi potestas fuerit [actionem dabo] <in integrum restituam>[167].

 

Non mi sembra però che in un siffatto quadro generale queste singole anomalie possano aprioristicamente impedire di considerare quella prevista dall’edictum de capite (de)minutis solo come un’ipotesi di restitutio in integrum: semmai, appare più verosimile considerarla come un’ipotesi a sé stante[168]. D’altro canto, è ragionevole pensare con il Lauria che «in integrum restituere indica soltanto il fine a cui il rimedio è rivolto», e che «quindi, l’i.i.r. non ha forme proprie», esplicandosi anche (o “nascondendosi” anche) in taluni casi, mediante la concessione di actiones ficticiae, in altri di eccezioni[169]. Ed in effetti uno di questi casi ben potrebbe essere l’actio utilis rescissa capitis deminutione.

 

 

8. – Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.1: il testo edittale

 

Come si è già accennato in precedenza, un punto di riferimento importante – del quale non ci siamo fino ad ora ancora occupati – è la nota testimonianza ulpianea che riporta la disposizione edittale relativa all’actio utilis rescissa capitis deminutione:

 

Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.1: Ait praetor: ‘Qui quaeve, posteaquam quid cum his actum contractumve sit, capite deminuti deminutae esse dicentur, in eos easve perinde, quasi id factum non sit, iudicium dabo’.

 

Il contenuto del testo non è differente da quello dei passi gaiani sull’argomento, in quanto non sembra potersi dubitare che l’espressione perinde quasi id factum non sit  ivi riportata faccia riferimento alla finzione della non avvenuta capitis deminutio minima del debitore (o della debitrice) sotto il profilo del diritto onorario, in modo da consentire al pretore di rendere ai creditori l’azione contro questi soggetti per vedere soddisfatto il loro credito.

In primo luogo, da un punto di vista formale, è opportuno considerare che se da un lato tutte le diverse ipotesi di capitis deminutio minima vengono ricondotte in una sintetica formula d’insieme (qui quaeve…capite deminuti deminutae…), senza alcuna specificazione di quelle effettivamente rientranti nell’ambito della previsione edittale, dall’altro vi è un analitico e dettagliato riferimento sia ai capite deminuti che alle capite deminutae[170]: ed esso appare certamente ridondante in quanto, come si legge in Ulp. 1 ad ed. D. 50.16.1, l’espressione ‘si quis’ ricomprende al suo interno sia l’uomo che la donna:

 

Verbum hoc ‘si quis’ tam masculos quam feminas complectitur.

 

Probabilmente allora una tale formulazione dell’editto non è casuale, ma serve a richiamare l’attenzione sia sul caso di capitis deminutio minima più specifico dell’uomo, vale a dire l’adrogatio, sia su quello più specifico della donna, vale a dire la coemptio, verificandosi i quali i creditori rischiano di vedere le loro pretese irrimediabilmente compromesse dal comportamento del debitore. Ed al riguardo può giovare il confronto con il dettato di Gai 3.84, dove vengono distinte e specificate dettagliatamente – com’è più consono ad una sede quale è quella di un manuale istituzionale – precedute ogni volta dal qui o dal quaeve, le ipotesi particolari alle quali l’editto in discorso potrebbe alludere[171], nonché con il dettato di Gai 4.38[172]. Tali passi, infatti, assai verosimilmente ricalcano lo stesso schema espositivo dell’editto pretorio e ne confermano le ipotesi ivi previste.

Nessuna notizia fornisce invece D. 4.5.2.1 in ordine alla datazione dell’azione in discorso: motivo per il quale la sua ricostruzione può essere tentata solo in via indiretta. A tal fine, pertanto, appare fondamentale cercare di stabilire il rapporto tra l’actio utilis rescissa capitis deminutione e gli altri rimedi processuali attraverso i quali il pretore interviene a favore dei creditori di un soggetto passato dalla condizione di sui iuris a quella di alieni iuris.

L’attenzione si deve allora concentrare su di un passo di Ulpiano, tratto dal dodicesimo libro ad edictum, in D. 15.1.42:

 

In adrogatorem de peculio actionem dandam quidam recte putant, quamvis Sabinus et Cassius ex ante gesto de peculio actionem non esse dandam existimant.

 

Il giurista discute dell’ambito di applicabilità dell’actio de peculio. Secondo l’opinione dei quidam (assai verosimilmente i Proculiani), alla quale egli stesso aderisce apertamente, e che sembra essere quella poi effettivamente prevalsa, essa può essere concessa contro l’adrogator anche per i debiti contratti ex ante gesto (anteriori, cioè, all’adrogatio, quando non esisteva ancora un peculio); invece secondo Sabino e Cassio, vissuti quasi due secoli prima di Ulpiano, e quindi certamente più legati ad uno schema tipico della stessa azione, una tale possibilità è esclusa. Diversi sono i dati che emergono dal passo.

In relazione alle motivazioni che spingono Sabino e Cassio a rifiutare l’ampliamento dell’actio de peculio, esse – in mancanza di qualsivoglia esplicita precisazione – non possono che andarsi a ricercare nei presupposti necessari alla sua concessione[173]: vale a dire l’esistenza effettiva di un peculium, il compimento da parte del servo o del filius, al quale è stato assegnato il peculium stesso, di un atto negoziale causa peculiari, o rem peculiari agendo, nonché l’esercizio della potestà da parte del pater o del dominus al momento della conclusione del negozio[174]. Ora, mentre per la mancanza del primo di questi requisiti si può facilmente ovviare, considerando il patrimonio dell’adrogatus (o eventualmente quello della donna conventa in manum) passato all’avente potestà come un peculium[175] – in quanto, in fondo, il problema è solo temporale, legato alla sua utilizzabilità per l’ex ante gesto – appare un po’ più difficile (sebbene non impossibile) conciliare con la disciplina dell’actio de peculio i restanti due, essendo il debito sorto in un momento in cui mancava la potestas dell’arrogatore su questi soggetti. D’altro canto, come si è già detto, in linea generale non possono andare a gravare sul nuovo dominus obbligazioni contratte dal suo sottoposto in un momento precedente a quello dell’acquisto della potestas e sotto un diverso titolare.

Evidentemente però, malgrado le prospettate difficoltà ed incertezze, nella prassi è prevalsa l’opinione dei quidam, i quali ammettevano che il creditore potesse – sulla base del presupposto dell’effettiva esistenza di un patrimonio da considerarsi come peculium – esperire, in modo alternativo e cumulativo, con l’actio utilis rescissa capitis deminutione anche l’actio de peculio: probabilmente trovando una giustificazione nel più generale principio dell’arricchimento[176], che in un certo qual modo consentiva di sopperire alla mancanza delle caratteristiche intrinseche di quell’actio. Preme al riguardo sottolineare la circostanza che, pur avendo il filiusfamilias contratto l’obbligazione in una condizione diversa da quella attuale, comunque la persona che si è obbligata rimane la stessa, nonostante la permutatio status che ha subito successivamente alla sua assunzione; inoltre, si deve altresì considerare che il peculio tiene sempre le veci del patrimonio del sottoposto[177], così da poter essere utilizzato per soddisfare i suoi debiti, in qualunque tempo contratti[178].

Ora, acclarato che il fine comune ad entrambe le azioni è quello di tutelare il creditore di un soggetto passato dalla condizione di sui iuris a quella di alieni iuris, è palese la diversità strutturale delle due azioni. La prima, infatti, è concessa al creditore direttamente contro il proprio debitore divenuto alieni iuris, ottenendone la condanna come se fosse ancora un soggetto sui iuris, in modo da lasciare integra la struttura originaria dell’obbligazione assunta, senza coinvolgere nel rapporto processuale il titolare del potere, del tutto estraneo al rapporto obbligatorio. La seconda – certamente meno pratica ed agevole della prima – è data invece al creditore contro il paterfamilias del debitore ridotto ad alieni iuris, in considerazione di un patrimonio esistente presso di lui quale peculio, come una massa autonoma e distinta[179], così coinvolgendolo in prima persona con riferimento alla sua responsabilità ex causa peculiari.

Sotto diverso profilo, la circostanza che nel passo si discuta dell’allargamento della portata di un’actio oltre il caso per cui era sorta, dimostra che essa era già utilizzata nel suo schema-tipo in un periodo di poco anteriore ai tempi di Sabino e Cassio, come nuova azione introdotta per sanzionare la responsabilità del pater o del dominus.

A questo punto, si è giunti all’argomento che interessa maggiormente ai fini dell’indagine proposta, vale a dire l’ipotesi sulla datazione dell’actio utilis rescissa capitis deminutione, condotta attraverso il rapporto cronologico tra le due azioni alle quali si è fatto riferimento. Ed al riguardo diverse sono state le proposte degli studiosi.

Il Dessertaux[180] ha accennato, sia pur di sfuggita, ad un’anteriorità dell’actio utilis rescissa capitis deminutione rispetto all’actio de peculio: la prima, infatti, sarebbe sorta quando nessun tipo di tutela era ancora apprestato al creditore del capite deminutus. Successivamente, in maniera maggiormente articolata, è giunta alle stesse conclusioni la Furia[181].

Il Di Lella invece – in un discorso teso a dimostrare la non anteriorità delle formulae ficticiae rispetto alla prima età classica, sulla base del presupposto che l’editto de capite minutis trovasse riscontro nella capacità del filius familias di contrarre obbligazioni proprio nomine e di essere convenuto in giudizio, stando al dettato di Gai. 3 ad ed. prov. D. 44.7.39 [182], ex omnibus causis, allo stesso modo del pater familias[183] – ha concluso nel senso dell’anteriorità dell’actio de peculio rispetto all’actio ficticia, collocando quest’ultima molto più in avanti nel tempo, in un periodo successivo alla riforma giudiziaria di Augusto[184]. Ma questa ipotesi non può essere condivisa. Appare infatti assai difficile ipotizzare che fino all’epoca del contrasto giurisprudenziale di cui è menzione in D. 15.1.42, risalente alla metà del I secolo d.C., non fosse stato apprestato alcun tipo di tutela in favore di detto creditore. D’altro canto, come ha osservato correttamente la Longo, è più plausibile ipotizzare che i giuristi, dopo la concessione pretoria dell’actio utilis rescissa capitis deminutione, avessero voluto rendere più completa la tutela del creditore, consentendogli attraverso l’esperimento dell’actio de peculio uno strumento più idoneo qualora il patrimonio dell’adrogatus non fosse stato sufficiente a coprire i debiti: ed è dunque abbastanza convincente la conclusione della studiosa siciliana, secondo la quale il primo rimedio poteva essere già stato previsto dall’editto al momento dell’introduzione del secondo[185]. Si deve pure aggiungere che la clausola edittale poteva seguire – come spesso accadeva – una consolidata prassi decretale: il che sposterebbe ancora più indietro nel tempo la sua effettiva originaria utilizzazione.

In seguito, anche il Bianchi si è pronunziato a favore dell’introduzione della clausola edittale sul finire dell’età repubblicana, sia «pur con una tolleranza all’incirca di una cinquantina di anni», affermando altresì la più recente creazione di tale fictio rispetto alle altre menzionate da Gaio nel suo manuale: ipotesi che potrebbe trovare conferma nella collocazione del rimedio all’ultimo posto nell’articolata esposizione in materia del giurista antonino[186].

In definitiva, delle prospettate congetture, appare più verosimile quella dell’anteriorità dell’actio ficticia rispetto a quella de peculio. Peraltro, merita anche rimarcare il riferimento, nel testo edittale riportato testualmente in D. 4.5.2.1 (ait praetor), all’espressione actum contractumve, che richiama alla mente la dissertazione su atto e contratto che si rinviene nel noto passo di Ulpiano tratto dall’undicesimo libro ad edictum e conservato in D. 50.16.19, nel quale il giurista severiano riferisce il pensiero di Labeone sul significato di alcune categorie impiegate per designare l’attività negoziale[187]. Sicché non è affatto escluso che Labeone distinguendo, all’interno degli accordi che il sistema riconosce come idonei a produrre effetti obbligatori, la categoria dell’atto, che raccoglie quegli accordi, quali ad esempio la stipulatio ed il mutuo, che riescono a produrre effetti solo in quanto accompagnati dalla consegna della res, dalla pronuncia dei verba o dall’uso delle litterae, da quella del contratto, che invece raccoglie in sé gli accordi che producono i soliti effetti solo perché impongono alle parti lo scambio di due prestazioni[188], nel formulare la definizione dell’atto e quella del contratto avesse avuto davanti a sé, se non proprio l’editto de capite minutis, quanto meno le sue disposizioni più importanti; di conseguenza, se la prospettiva fosse corretta, tali disposizioni potrebbero datare tra la fine della Repubblica e l’inizio dell’Impero, pur convenendosi sulla circostanza che esse debbano essere comunque successive alla morte di Cicerone, che non le menziona affatto nelle sue opere[189]. D’altro canto, una simile ipotesi potrebbe trovare conforto, da un lato, nell’obiettiva considerazione che le parole actum e contractum compaiono solo in questo editto, e dall’altro nella circostanza che lo stesso Lenel appare dubbioso nel ricondurre la definizione labeoniana alla clausola edittale ‘quod metus causa gestum erit[190].

Né a diverse soluzioni può spingere il raffronto con l’ulteriore azione concessa dal pretore al creditore nel caso in cui il debitore, dopo aver contrattato, abbia subito invece una capitis deminutio maxima o media. Di tale azione ci informa Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2 pr.:

 

Pertinet hoc edictum ad eas capitis deminutiones, quae salva civitate contingunt. ceterum sive amissione civitatis sive libertatis amissione contingat capitis deminutio, cessabit edictum neque possunt hi penitus conveniri: dabitur plane actio in eos, ad quos bona pervenerunt eorum.

 

In questi altri casi di capitis deminutio il creditore, per tutelare il proprio diritto, venuta meno la tutela prevista dall’editto (cessabit edictum), ha invece a sua disposizione uno specifico rimedio, che è un’actio adversus eos ad quos bona pervenerunt, esperibile direttamente contro coloro che hanno acquistato i beni dal debitore, senza dover ricorrere ad alcuna finzione[191]. È di tutta evidenza la diversità sia sul piano strutturale che su quello effettuale di tale azione rispetto a quella ficticia. L’actio utilis rescissa capitis deminutione è infatti concessa contro lo stesso debitore, mentre l’altra contro il soggetto che ne ha acquistato i beni.

Il Lenel ha motivato una tale diversità in considerazione del fatto che detta azione è prevista solo nell’editto del pretore urbano, che è colui il quale ius dicit inter cives, e dunque l’unica ipotesi di capitis deminutio che vi poteva rientrare era quella che aveva luogo salva civitate[192]: ma già l’Eisele aveva osservato come tale editto avesse in altre occasioni toccato anche ipotesi in cui si verificava la perdita della cittadinanza e della libertà[193]. Dunque, resta da chiedersi come mai il praetor urbanus non avesse ritenuto di estendere nel proprio editto la stessa costruzione della fictio anche ai casi di capitis deminutio maxima o media, posto che si tratta, già ad una prima approssimazione, di tre situazioni che trovano un comune denominatore nella cessazione iure civili di un oportere. Si è allora addotta la circostanza, su cui v’è dottrina consolidata[194], dell’anteriorità della capitis deminutio minima rispetto alle altre due, e di una iniziale unitarietà della nozione – a prescindere poi dalla distinzione in modi, a seconda delle cause – rispetto alla successiva triplice costruzione giustinianea[195]: così che il pretore, avendo davanti a sé solo casi di capitis deminutio minima, si sarebbe preoccupato di tutelare nel suo editto esclusivamente i due casi del debitore che si sia dato in adrogatio o della debitrice conventa in manum, concedendo al creditore ingiustamente penalizzato dal peggioramento della condizione personale del debitore un’azione non particolarmente ardita[196]. In ragione di ciò, pertanto, avrebbe creato un sistema che mantiene vitale l’obbligazione primitiva, lasciando fermo attraverso una finzione il debitore originario, senza coinvolgere nel rapporto processuale[197] un terzo soggetto, estraneo al rapporto obbligatorio, quale può essere l’arrogante o il coemptionator. Più in avanti nel tempo, invece, aggiungendosi a quella iniziale altre e più complesse ipotesi di capitis deminutio (e soprattutto formalizzandosi dette ipotesi), di importanza e graduazione diversa tra loro, lo stesso pretore – attenendosi come sempre ad un più generale principio di equità, secondo il quale chi subentra nell’attivo di un soggetto non può non sopportarne anche il passivo – si sarebbe spinto oltre, coinvolgendo direttamente nel rapporto processuale il titolare del potere sul soggetto divenuto alieni iuris malgrado questi, non avendo contratto egli stesso l’obbligazione, fosse un soggetto del tutto estraneo al rapporto obbligatorio.

Non è chi non veda la vicinanza di questa azione, come tutte quelle concesse adversus eos ad quos bona pervenerunt, con l’actio de peculio, avendo sia quest’ultima che le altre come legittimato passivo un soggetto estraneo al rapporto obbligatorio, che è sempre colui il quale ha acquistato i beni del debitore. Inoltre, tutte queste azioni sono ispirate da un medesimo principio comune, quello dell’arricchimento, di più recente creazione rispetto agli altri principi ispiratori dei rimedi pretori. Il che potrebbe costituire un ulteriore indizio a favore dell’introduzione successiva di queste stesse azioni – in tempi e momenti non necessariamente coincidenti tra loro – rispetto all’actio utilis rescissa capitis deminutione[198].

Mettendo a questo punto da parte l’actio ad eos quos bona pervenerunt, esperibile per fattispecie diverse da quella in esame, resta ancora da considerare un ultimo aspetto. L’actio utilis rescissa capitis deminutione, pur essendo anteriore rispetto all’actio de peculio, rimane ancora in piedi e vitale, quanto meno all’epoca del Principato, e ad essa si continua ad affiancare[199]. Si lascia così al creditore la scelta di poter utilizzare, a seconda della consistenza del patrimonio sul quale potersi rivalere, un’azione fittizia nei confronti del debitore originario, che rimane sempre quella principale, oppure un’azione diretta nei confronti di chi aveva acquistato la potestas sul debitore[200]. Ed al riguardo, mi sembra che non si ponga qui un problema di concorso tra le due azioni se non elettivo, nel senso che, scelta l’una, non si può esperire l’altra[201]: è indubbio, nel caso di specie, il verificarsi della consumazione processuale, in considerazione del fatto che entrambe le azioni, pur nella loro differente struttura, tendono a risarcire lo stesso danno, che trova la sua origine nel contratto posto in essere tra le parti prima della capitis deminutio del debitore. In questo caso, infatti, a prescindere dalla diversità formale e strutturale delle due azioni, a conti fatti, quella che il creditore fa valere nei confronti del debitore è sempre l’azione contrattuale, che di quelle stesse azioni costituisce la base in senso sostanziale.

 

 

9. – L’affermazione di permanenza della naturalis obligatio in Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.2

 

Della nota testimonianza ulpianea che riporta la disposizione edittale relativa all’actio utilis rescissa capitis deminutione merita particolare attenzione il paragrafo 2:

 

Ulp. 12 ad ed. D. 4.5.2.2: Hi qui capite minuuntur ex his causis, quae capitis deminutionem praecesserunt, manent obligati naturaliter: ceterum si postea[202], imputare quis sibi debebit, cur contraxerit, quantum ad verba hius edicti pertinet. sed interdum, si contrahatur cum his post capitis deminutionem, danda est actio. et quidem si adrogatus sit, nullus labor: nam perinde obligabitur ut filius familias.

 

Soffermiamoci per ora sulla prima parte del passo, la cui lettura non lascia spazio a dubbi di sorta: in essa, in maniera assai concisa, e con una formulazione tale da apparire quasi una regola generale[203], il giurista severiano afferma la permanenza della naturalis obligatio a seguito della capitis deminutio per quelle cause che la precedono. Ma la genuinità delle parole manent obligati naturaliter è stata revocata in dubbio dalla dottrina maggioritaria[204], la quale si è interrogata sul senso di un’affermazione di permanenza della obligatio naturalis, che a prima vista sembrerebbe lasciare ipotizzare una situazione di continuità, senza modificazione alcuna nella sua sostanza, rispetto alla situazione precedente a quella della capitis deminutio del debitore.

Non ritengo, però, che una simile impostazione possa essere appieno condivisa. Certo, è fuori di ogni dubbio – da un lato – che prima della capitis deminutio sia l’adrogatus sia la donna conventa in manum, in quanto personae sui iuris, si obbligassero iure civili, e – dall’altro – che la capitis deminutio comportasse la perdita della preesistente condizione civilistica di sui iuris, con ogni relativa conseguenza sul piano familiare e patrimoniale: presupposto sul quale si muove tutta l’impostazione gaiana dell’argomento. In Gai 3.84 si ritrova lo stesso verbo manere, ma preceduto dal ne, che sembrerebbe porre il discorso su di un piano diametralmente opposto a quello di D. 4.5.2.2[205]: il giurista antonino nega infatti che colui il quale si è dato in adozione e la donna conventa in manum rimangano obbligati, in quanto la capitis deminutio nella quale sono incorsi li ha liberati[206]. In altre parole, egli afferma che la permutatio status ha reso non coercibile attraverso un meccanismo processuale diretto l’adempimento di un dovere, così negando ogni tipo di continuità tra i due momenti e le due situazioni. D’altro canto, fa da pendant a questa affermazione quella contenuta nello stesso manuale in 4.38 dove, a seguito della cessazione iure civili dell’obbligazione, viene stigmatizzata la cessazione del dare oportere[207], e dunque della cogenza dell’adempimento inerente al rapporto obbligatorio.

Un tentativo per superare l’empasse nel quale si rischierebbe di ricadere è stato compiuto, già agli inizi del secolo scorso, dal Gradenwitz[208], il quale ha proposto la sostituzione del richiamo alla naturalis obligatio del capite deminutus con la menzione dell’efficacia iure praetorio dell’obbligo[209]. Il giurista classico, dunque, avrebbe scritto, al posto di manent obligati naturaliter, qualcosa come iure honorario debent, o iure honorario manent debitores. Va da sé che, accogliendo detta sostituzione, il concetto di naturalis obligatio andrebbe ad identificare un obbligo non più valido per il ius civile, ma pienamente efficace per il ius praetorium: di modo che la sopravvivenza dell’obbligo sarebbe effetto dell’azione accordata dal pretore. In altri termini, l’ipotesi tende a sottolineare l’esistenza di un dovere ancora coercibile attraverso un rimedio processuale, sia pure indiretto. D’altro canto, sul piano teorico, è necessario pure tenere in giusta considerazione il fatto che la qualifica di obligatio naturalis per un obbligo pretorio sarebbe insostenibile per un giurista classico, e che al tempo stesso sarebbe invece perfettamente consona alla mentalità dei Bizantini[210]. V’è da dire che la proposta dello studioso tedesco ha influenzato largamente la dottrina successiva trovando, nel corso del tempo, vasti consensi[211].

Ma a questo punto, per una migliore comprensione del contenuto del passo in esame, prima di esaminarlo integralmente, è opportuno richiamare l’attenzione su Scaev. 1 resp. D. 46.1.60, largamente utilizzato dai sostenitori della prospettata ipotesi, che lo hanno considerato come una falsariga sulla quale si potrebbe essere mosso Ulpiano:

 

Ubicumque reus ita liberatur a creditore, ut natura debitum maneat, teneri fideiussorem respondit…

 

Si tratta di un testo che, in considerazione della materia trattata da Scevola nel primo libro dei responsa, potrebbe assai verosimilmente riferirsi nell’originale palingenetico, insieme a D. 44.7.30[212], alla capitis deminutio minima[213]: motivo per il quale ha suscitato un certo interesse tra gli studiosi ai fini della ricostruzione della problematica in discorso. D’altro canto, è stato anche affermato da autorevole dottrina che esso potrebbe ben rappresentare uno sviluppo del pensiero giulianeo in tema di naturalis obligatio facente capo a persone alieni iuris[214].

Il dato che emerge dal passo, di non facile interpretazione, soprattutto nella sua seconda parte[215], è la permanenza di una valida fideiussio a seguito della liberazione del debitore, rimanendo a suo carico un natura debitum[216]. Peraltro, è appena il caso di osservare che lo stesso regime è attestato in numerosi testi riferibili alla capitis deminutio maxima o media del debitore principale, ove non vi è questione dell’eventuale persistenza di un debito naturale dell’obbligato stesso[217].

Da un punto di vista formale, è da rilevare come non sia a posto l’ubicumque: dinfatti, il vocabolo sembra piuttosto il frutto di una generalizzazione compilatoria in sostituzione di una soluzione concreta prospettata per la singola fattispecie che il giureconsulto aveva preso in considerazione. Ed in dottrina è stata considerata congettura convincente pure quella della sostituzione della menzione dell’obligatio naturalis rispetto all’efficacia iure praetorio dell’obbligo stesso[218]. Ma tutto ciò appare poco soddisfacente.

Ci si deve allora porre su di un piano diverso. Pur senza in questa sede voler e poter prendere posizioni più generali sulla complessa tematica della obligatio naturalis, sulla quale ha lungamente indugiato la dottrina romanistica, anche e soprattutto in considerazione delle «antinomie apparentemente inestricabili» presentate dai testi della compilazione giustinianea in materia[219], che per la loro «frammentaria disparità», se non proprio contradditorietà, escludono ormai del tutto la possibilità di ricondurla ad una nozione unitaria ed organica, da un punto di vista concettuale non vi sono motivi sostanziali di dubbio per escludere che Ulpiano potesse riconoscere come obligatio naturalis, in contrapposto a civilis[220], quella che residua, in modo affievolito, dopo la capitis deminutio del debitore[221].

Si potrebbe, allora, provare ad interpretare il manent che si legge nel testo di Ulpiano nel senso di riconoscere la sopravvivenza dell’obbligazione primitiva dopo la permutatio status, ma sotto una forma diversa, estranea al ius civile, essendo venuto meno a seguito dell’estinzione l’elemento civile dell’obbligazione, vale a dire l’azione che ne deriva[222]. L’obbligazione che residua, in questo caso, viene detta dai giuristi classici, sulla scia di Giavoleno, al quale si deve la sua prima elaborazione concettuale[223], naturale per due motivazioni, una di carattere negativo e l’altra di carattere positivo. La prima, che trova il suo presupposto nell’assenza di coercibilità del vincolo, mancando lo strumento per far valere giudizialmente in via diretta l’aspettativa del creditore, e la seconda nella presenza di elementi materiali, o di fatto, «che fonderebbero l’esistenza di una obbligazione avente piena efficacia se non vi fosse di ostacolo uno specifico principio di diritto»[224]: ostacolo che qui, è evidente, è individuabile nella capitis deminutio minima, che comporta l’incapacità giuridica di uno dei soggetti del rapporto obbligatorio, in considerazione del suo passaggio da persona sui iuris a alieno iuri subiecta.

Si deve pure aggiungere che una tale accezione di obligatio naturalis con riferimento a casi di obbligazioni al loro sorgere pienamente coercibili, rimaste successivamente comunque “vive e vitali”, anche se prive di coercibilità a seguito dell’operare di cause civili di estinzione, non la si ritrova nel solo caso della capitis deminutio minima[225]. Essa è attestata, sparsa qua e là in singoli testi del Digesto, risalenti in maniera diretta o indiretta sino a Giuliano[226], di provenienza tra l’altro non sempre sicura, anche in altri casi – per la verità tra loro assai disparati – quali quelli relativi ad obblighi perduranti dopo la consunzione processuale, in particolare a seguito della litis contestatio[227] e della sentenza di assoluzione ingiusta[228], oppure quello della confusio tra soggetto attivo e passivo del rapporto obbligatorio[229], o ancora quelli di obbligazioni valide per ius civile, ma paralizzabili iure praetorio da exceptio[230], quali l’obbligo ex mutuo del filius familias[231] e l’obbligo invalido in base all’editto quod quisque suis in alterum statuerit, in relazione agli atti illegali dei magistrati che avevano il compito di ius dicere[232].

In definitiva, la naturalis obligatio che residua in modo affievolito dall’obligatio civilis dopo la capitis deminutio del debitore è configurabile come un’obbligazione che – richiamando al proposito la nota distinzione tra Schuld e Haftung formulata in tempi ormai molto lontani dalla dottrina pandettistica – ha ancora in sé il momento essenziale della Schuld, attinente alla struttura intrinseca della obbligazione primitiva; tuttavia ad essa, essendo venuta meno per motivazioni di vario genere la possibilità di realizzare la coazione diretta dell’adempimento attraverso un meccanismo processuale di accertamento e di condanna, e dunque di realizzare l’aspettativa del creditore, non è più correlata l’Haftung.

Così congetturata, l’obligatio naturalis, mantenendo fermo il debito primario – inteso come debito pagabile ma non esigibile[233] – non solo non è in contrasto con la concessione al creditore dell’actio ficticia, ma ne può addirittura diventare un ottimo supporto concettuale.

 

 

10. – L’antitesi tra i creditori anteriori e quelli successivi alla capitis deminutio

 

Per una migliore comprensione della parte iniziale del testo in esame – un testo, è bene precisarlo, particolarmente tormentato – è opportuno esaminarlo integralmente. All’affermazione della permanenza dell’obligatio naturalis per quelle cause anteriori alla permutatio status, segue una contrapposizione con le cause ad essa successive[234]: in tal caso, chi avrà concluso un contratto con un capite deminutus dovrà imputare a sé stesso di averlo fatto, non potendosi avvalere del disposto dell’editto. Ma talvolta, si aggiunge, occorre concedere l’azione; nessuna difficoltà, continua ancora il testo, se taluno sia stato arrogato, poiché da questo momento si obbligherà come un figlio in potestà.

Il primo punto da affrontare è l’antitesi iniziale. Ad una prima lettura, la differenza tra coloro i quali hanno stipulato un contratto prima o dopo la capitis deminutio sembra ravvisarsi in una migliore protezione dei primi, che soli possono godere del beneficio della restitutio in integrum e del logico completamento della missio in bona. La posizione di questi, dunque, sembrerebbe privilegiata rispetto a quella dei creditori successivi, svantaggiati nella possibilità di vedere realizzato il loro credito: ed il privilegio, secondo quanto è stato sostenuto in dottrina, risulterebbe espresso da Ulpiano in termini di obligatio naturalis[235].

Occorre invece procedere ad una lettura più attenta. Ed a tal proposito, preliminarmente, è necessario definire l’ambito esatto del discorso del giurista severiano. A parere del Cornioley i creditori successivi ai quali si fa riferimento nel testo sono quelli che hanno stipulato nell’ignoranza del cambiamento di status del debitore, credendo per errore che egli godesse della piena capacità della quale godeva prima della capitis deminutio[236]: ma non mi sembra che il testo autorizzi una simile lettura. In mancanza di qualsivoglia specificazione appare, infatti, più verosimile ipotizzare che detti creditori fossero consapevoli del cambiamento di status del debitore. Fermo restando, però, che la situazione di svantaggio per costoro sarebbe, in definitiva, esclusivamente in termini di non potersi avvalere del beneficio previsto dall’editto, così come invece concesso ai creditori anteriori. Ed una conferma di ciò si può rinvenire nell’espressione quantum ad verba huius edicti pertinet, che va a restringere il campo dell’affermazione all’ambito di applicabilità dell’editto, senza voler rappresentare una generale situazione di svantaggio per tali creditori.

D’altro canto, si deve considerare che i potestate subiecti – in considerazione del loro status patrimoniale, che esclude l’esistenza di un autonomo patrimonio su cui i creditori si possano rivalere – non erano tenuti a rispondere direttamente per gli atti di natura obbligatoria compiuti con un estraneo: ma, sul presupposto dell’esistenza di un peculio, di questi ne rispondevano, grazie alla previsione delle azioni pretorie adiettizie, ed in particolare quella de peculio, gli aventi potestà su di loro al momento della conclusione del negozio. Inoltre, la giurisprudenza classica, documentata a partire da Giavoleno, si era comunque adoperata per il progressivo riconoscimento di un vincolo da parte dei sottoposti – considerando che alla base del rapporto obbligatorio vi fosse anziché un vinculum iuris un vinculum di diverso tipo, quale appunto, quel vinculum aequitatis[237], di natura etico-morale[238], che ad esso si può andare a giustapporre, situato sul piano dell’honestum e governato dai valori dell’aequum e della fides – qualificato, seppur impropriamente, “per abusionem[239], come debere[240], «fondato sulla pura e semplice realtà delle cose»[241], ed espresso in termini di naturalis obligatio. Così, queste fattispecie obbligatorie, nelle quali una delle parti si trovava ad essere un potestati subiectus, riuscivano comunque ad avere una loro rilevanza giuridica autonoma[242].

Proseguendo nella lettura del testo, dopo l’antitesi tra la posizione dei creditori anteriori e di quelli successivi alla capitis deminutio si afferma che talvolta a questi ultimi si può concedere l’azione: e il caso riportato nello specifico è quello dell’arrogato, che a partire dal momento della permutatio status si obbliga come un figlio in potestà. Ma l’affermazione nel suo complesso non è in particolare sintonia con la predente, se non proprio in contraddizione con essa. Ciò non giustifica una sua aprioristica totale eliminazione, come insiticia[243]. Al contempo, però, non si può negare che essa sia il risultato di un’opera di confusione e di accorciamento da parte, con ogni probabilità, dei compilatori giustinianei sull’originale ulpianeo, che lo rendono, allo stato, di assai difficile utilizzazione[244]. Ed in ragione di ciò occorre tentare di delimitare i confini dell’intervento.

In questa prospettiva, il Savigny ha provato a ricondurre l’ipotesi alla quale il giurista avrebbe fatto originariamente riferimento, poi soppressa dai compilatori, a quella del contratto concluso da colui il quale era stato filius familias durante la mancipii causa[245]: in tal caso, dove l’altro contraente avrebbe normalmente dovuto ricondurre al proprio comportamento il danno subito, potendosi informare dell’attuale situazione giuridica del debitore, avrebbe potuto invece ottenere la restituzione – una restitutio ob iustum errorem[246] – qualora l’ignoranza fosse stata a lui non imputabile. Una simile interpretazione, accolta peraltro in epoca abbastanza risalente da diversi studiosi[247], troverebbe conforto nel generico riferimento che si rinviene nel testo alla capitis deminutio, differente da quello ben circostanziato della previsione edittale, circoscritta ai soli due casi dell’adrogatio e della conventio in manum. Si deve, tuttavia, considerare che l’editto di cui è menzione restituisce al creditore un’azione che già aveva in precedenza: al contrario, ammettendo detta ipotesi, il pretore verrebbe a concedergli un’azione mai avuta in precedenza, in quanto è fuori di ogni dubbio l’incapacità dell’emancipato ad obbligarsi ex contractu. E, comunque, appare difficilmente configurabile la previsione esplicita del caso – veramente assai particolare – di un creditore che avesse stipulato un contratto in una situazione talmente transitoria e di breve durata quale è quella del filius familias in mancipio in attesa di arrivare all’emancipatio[248]. Il che fa sorgere qualche perplessità sulla sua attendibilità, mancando, tra l’altro, nel testo ogni supporto testuale in tal senso.

D’altro canto, il punto cruciale del passo ulpianeo non è, a mio parere, questo tratto, potendosi in un certo qual modo considerare, nei casi espressamente previsti dall’editto, l’ipotesi della concessione sporadica – così come evidenziato dall’interdum – al creditore di detta azione, anche successivamente al verificarsi della capitis deminutio del debitore.

La parte del testo che suscita maggiori perplessità e dubbi è infatti la sua parte finale. L’adrogatus risulterebbe, allo stesso modo del filius familias, capace di obbligarsi per i debiti assunti post adrogationem, mentre resterebbe ferma la sua mancanza di responsabilità per quelli ante adrogationem, quando ancora, peraltro, non era sottoposto alla potestà dell’adrogator.

Si potrebbe allora congetturare che i compilatori giustinianei, avendo trovato nella parte iniziale del testo un riferimento all’adrogatus[249], anche – non è da escludersi – insieme a quello della donna conventa in manum, espresso nei termini della sussistenza a loro carico di una obligatio naturalis, nonostante l’estinzione dell’obligatio civilis a seguito della capitis deminutio, lo abbiano poi riportato anche nella sua parte finale, senza preoccuparsi di raccordarlo alle argomentazioni immediatamente precedenti, così rendendolo, in definitiva, del tutto indecifrabile rispetto al contesto generale[250].

 

 

11. – L’esclusione della menzione diretta della naturalis obligatio in Gai. 4 ad ed. prov. D. 4.5.8

 

Resta da menzionare un’ultima testimonianza, spesso utilizzata dalla dottrina, nonostante i suoi termini incerti, a favore della configurabilità dell’obbligazione del capite deminutus come obligatio naturalis, in connessione con la problematica delle conseguenze della capitis deminutio. Si tratta di Gai 4 ad ed. prov. D. 4.5.8:

 

Eas obligationes, quae naturalem praestationem habere intelleguntur, palam est capitis deminutione non perire, quia civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest. Itaque de dote actio, quia in bonum et aequum concepta est, nihilo minus durat etiam post capitis deminutionem.

 

Nel passo, oggetto di aspre e severe critiche da parte di illustri studiosi[251], si afferma che quelle obbligazioni che si ritengono avere una prestazione naturale non si estinguono a seguito della capitis deminutio, perché la civilis ratio non può intaccare i diritti fondati sulla natura[252]. In tale prospettiva, l’actio de dote, poiché è stata concepita in bonum et aequum, rimane inalterata anche a seguito dell’avvenuta capitis deminutio.

Preliminarmente, è appena il caso di rilevare come il principio civilis ratio naturalia iura corrumpere non potest ivi affermato sia sostanzialmente coincidente, anche se leggermente abbreviato nella terminologia[253], con il ‘topos’ che si rinviene in Gai 158 [254], poi riproposto anche in Inst. Iust. 1.15.3 [255], a proposito della giustificazione della persistenza della cognatio (naturalis) nonostante l’avvenuta capitis deminutio[256]. Il che potrebbe fornire qualche rassicurazione sulla mano che ha forgiato la struttura essenziale del passo, nonostante i forti sospetti di alterazione che gravano su di esso.

Ciò posto, è opportuno tentare di comprenderne la sua struttura essenziale. In primo luogo, non è chiaro se il riferimento che si rinviene nel passo sia alla capitis deminutio del debitore o a quella del creditore, né vi sono elementi esterni per poterlo desumere in altra maniera[257]. Potrebbe, invece, essere assai verosimile il riferimento alla sola capitis deminutio minima, attesa nel contesto giustinianeo la trattazione esplicita del brevissimo paragrafo seguente[258], strettamente allacciato al precedente, relativa alla capitis deminutio minima della donna creditrice[259].

Dunque, vi è un obbligo per il marito di restituire la dote e tale obbligo è inestinguibile per capitis deminutio minima[260]. Prospettiva, questa, che consentirebbe di ipotizzare l’esistenza di obblighi riconosciuti dal ius naturale[261], pienamente efficaci in quanto forniti di azione: uno dei quali sarebbe, appunto, quello di restituire la dote[262].

Ma quello che maggiormente qui interessa, e che ridimensiona fortemente ai nostri fini il valore del passo gaiano, è che in esso non vi è la menzione diretta della persistenza di un’obligatio naturalis, bensì di una praestatio naturalis[263], vale a dire del suo oggetto[264]. Ciò posto, nel caso di specie la qualifica di naturalis emerge in modo differente da come emerge in D. 4.5.2.2[265], e per questo il piano logico delle due testimonianze è differente. Ma soprattutto, come osserva il Talamanca[266], il principio affermato in D. 4.5.8 non si può estendere – in materia di obbligazioni – al di là dell’actio rei uxoriae, che è l’esempio ivi immediatamente appresso riportato (ovviamente sostituito dai giustinianei, da un punto di vista esclusivamente formale, con l’actio de dote), in quanto actio in bonum et aequum concepta[267], e che durat post capitis deminutionem[268]: il che esime da ogni indebito tentativo di generalizzazione della stessa.

Orbene, in quest’ottica, nel caso di specie si può escludere con un buon margine di verosimiglianza ogni menzione diretta da parte di Gaio – che pure si riconnette in altre occasioni per questa tematica all’ordine di idee giulianeo[269] – alla naturalis obligatio, ed il riconoscimento, almeno in questi termini, della persistenza e soprattutto della coercibilità del vincolo obbligatorio, invece sicuramente attestata per il caso del debito contratto dal capite deminutus in un momento antecedente alla sua permutatio status.

 

 



 

[1] Al riguardo, a prescindere dalle trattazioni generali che più hanno segnato la tematica della capitis deminutio, quale schema concettuale di probabile elaborazione giurisprudenziale, hanno affrontato in particolare l’argomento in discorso F. Dessertaux, Études sur la formation historique de la capitis deminutio I, Dijon 1909, II, Paris 1919 e 1926, III, Paris 1928, al quale si rinvia per un’ampia e dettagliata bibliografia precedente; U. Coli, Capitis deminutio, Firenze 1922, ora in Scritti di diritto romano I, Milano 1973, 153 ss.; R. Ambrosino, Il simbolismo della capitis deminutio, in SDHI 6, 1940, 39 ss.; C. Gioffredi, Caput, in SDHI 11, 1945, 301 ss.; M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio, in Iura 1952, 48 ss.; M. Bretone, s.v. Capitis deminutio, in NNDI 2, 1958, 917 ss.; R. Panero Gutiérrez, Observationes sobre el sentido originario de la capitis deminutio, Barcelona 1976; Id., Capitis deminutio y capite deminutus, in Estudios R. Yanes 2, Burgos 2000, 175 ss.; B. Albanese, Capitis deminutio, in Studi in onore di A. Arena, I, Padova 1981, 33 ss., in una sostanziale riproposizione del suo pensiero espresso in precedenza in Le persone nel diritto privato romano, Palermo 1979, 311 ss.

 

[2] La categoria dell’obligatio naturalis ha dato luogo ad una bibliografia sterminata. Accenno qui, senza alcuna pretesa di completezza, solo ai più importanti contributi che possono risultare utili ai fini dell’indagine proposta: H. Siber, Naturalis obligatio, in Gedenkschrift Mitteis, Leipzig 1926, 1 ss.; S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, Roma 1928, rist. anast. Roma 2002, II, 45 s.; J. Vážný, Naturalis obligatio, in Studi Bonfante IV, Milano 1930, 131 ss.; C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937; E. Albertario, Corso di diritto romano. Le obbligazioni. Parte generale, III, Milano 1938, 41 ss. (riprodotto, senza alterazioni sostanziali, nella riedizione del 1947); V. De Villa, Studi sull’obligatio naturalis, in Studi Sassaresi 17, 1939-40, 30 ss.; E. Nardi, In tema di confini dell’obbligazione naturale, in Studi Parmensi 5, 1955, 1 ss. (= Studi De Francisci 4, Napoli 1956, 574 ss.); A. Burdese, La nozione classica di naturalis obligatio, Torino 1955; Id., Dubbi in tema di naturalis obligatio, in Studi Scherillo 2, Milano 1972, 485 ss.; Id., La naturalis obligatio nella più recente dottrina, in Studi Parmensi 32, Parma 1983, 45, ora in Miscellanea romanistica, Madrid 1994, 195 ss.; F. Senn, Les obligations naturelles. La leçon de la Rome antique, in RH 36, 1958, 151 ss.; G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis, Milano 1962; Id., Lenti progressi in tema di obligatio naturalis, in Labeo 12, 1966, 375 ss.; P. Cornioley, Naturalis obligatio. Essai sur l’origine et l’evolution de la notion en droit romain, thèse Genève 1964; L. Labruna, Naturalis obligatio (rec. a Longo, op. cit.), in Labeo 10, 1964; Id. (rec. a Cornioley, op. cit.,) in Iura 16, 1965, 413 ss.; G. Broggini, rec. a Longo e a Cornioley, in SDHI 31, 1965, 362 ss. ora, col titolo Obligatio naturalis, in Coniectanea. Studi di diritto romano, Milano 1966, 510 ss.; G. Scherillo, Le obbligazioni naturali, in AG 175, fasc. 1-2, 1968, 3 ss.; M. Kaser, Das römische Privatrecht, I, Das altrömische, das vorklassische und klassische Recht, 2a ed., München 1971, 480 ss.; P. Didier, Les obligations naturelles chez les derniers Sabiniens, in RIDA 19, 1972, 245 ss.; A. Mantello, Beneficium servile - debitum naturale, Sen de ben. 3.18.1 ss. - D. 35.1.40.3 (Iav. 2 ex post. Lab.), Milano 1979; M. Talamanca, s.v. Obbligazioni (storia) a) dir. rom., in ED. 29, Milano 1979, 59 ss. Cfr. pure, più recenti, P.L. Landolt, Naturalis obligatio and bare social duty, Köln-Weimar-Wien 2000; H. Honsell, Naturalis obligatio, in Iuris vincula. Scritti in onore M. Talamanca IV, Napoli 2001, 367 ss., e S. Longo, Naturalis obligatio, in Handwörterbuch der antiken Sklaverei, Stuttgart 2008, 1 ss.

 

[3] Particolarmente rilevanti sono i lavori in materia di S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio I, Actio de peculio contro venditore e compratore, in BIDR 17, 1905, 208 ss., ora in Scritti di diritto romano I, Napoli 1955, 178 ss.; E. Valiño, La capacidad de las personas in potestate en derecho romano, in Revista del derecho notarial 57-58, 1967, 99 ss.; I. Buti, Studi sulla capacità patrimoniale dei servi, Napoli 1976; F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum, Napoli 1992, e soprattutto di S. Longo, Filiusfamilias se obligat? Il problema della capacità patrimoniale dei filiifamilias, Milano 2003.

 

[4] Mi riferisco in particolare, oltre alle trattazioni dedicate all’interno degli studi sul processo formulare, all’ancora fondamentale contributo di S. Riccobono, Formulae ficticiae a Normal Means of Creating New Law, in TR 9, 1929, 3 ss. (cfr. anche Id., Corso di diritto romano II, Formazione e sviluppo del diritto romano dalle XII tavole a Giustiniano, Milano 1933-34, 211 ss.); e ai più recenti contributi di L. Di Lella, Formulae ficticiae. Contributo allo studio della riforma giudiziaria di Augusto, Napoli 1984; R. Sotty, Les actiones qualifiées d’utiles en droit classique, in Labeo 25, 1979, 139 ss. (del quale non ho potuto consultare la dissertazione Recherches sur les utiles actions. La notion d’action utile en droit romain classique, Clermond-Ferrand 1977), e F. Mercogliano, Actiones ficticiae. Tipologie e datazione, Napoli 2001.

 

[5] Per la letteratura, anche su questo argomento molto ampia al proposito, mi limito a rinviare, oltre all’approfondita analisi di G. Demelius, Die Rechtsfiktion in ihrer geschichtlichen und dogmatischen Bedeutung. Eine juristische Untersuchung, Weimar 1858, rist. Frankfurt am Main 1968, che per primo ha individuato la genesi della fictio nell’ambito del diritto sacro, alle più recenti monografie di E. Bianchi, Fictio iuris. Ricerche sulla finzione in diritto romano dal periodo arcaico all’epoca augustea, Padova 1997; F. Todescan, Diritto e realtà. Storia e teoria della fictio iuris, Padova 1979; W. Iser, The Fictive and the Imaginary, London 1993, e E. Dieni, Finzioni canoniche. Dinamiche del “come se” tra diritto sacro e diritto profano, Milano 2004. Cfr. anche K. Hackl, Sulla finzione nel diritto privato, in Studi Biscardi I, Milano 1982, 245 ss.; T. Giaro, Die Fiktion des eigentilichen Eigentümers, in Au-delà des frontières. Mélanges W. Wolodiewicz 1, Warsawa 2000, 277 ss.; M. Bretone, Finzioni e formule nel diritto romano, in Materiali per una storia della cultura giuridica, 31.2, 2001, 295 ss. e, tra le raccolte di studi, Le finzioni del diritto, a cura di F.B. D’Usseaux, Annali Genova, Milano 2002, ove si può anche rinvenire una interessante raccolta dei testi in materia.

 

[6] Questa settorialità ha caratterizzato anche, in fondo, i più specifici contributi di C. Furia, Gai 3.84; 4.38 e la collocazione originaria dell’editto de capite minutis, in SDHI 53, 1987, 110 ss., e di A. D’Ors, Sobre el edicto de capite minutis (EP§ 41), in Estudios en homenaje al professor Francisco Hernandez-Tejero, Madrid 1992 (pubbl. 1994), 127 ss.

 

[7] Delle finzioni proprie del processo formulare, su cui si può rinvenire una complessiva analisi in M. García Garrido, Sobre los verdaderos limites de la ficcion en derecho romano, in AHDE 27-28, 1957-58, 305 ss., e Id., De nuevo sobre las supuestas ficciones jurisprudenciales, in Iuris vincula cit., IV, 55, il quale ne evidenzia l’ampia portata, Gaio descrive per prima (in 4.34), senza alcuna pretesa esaustiva – così come sembrerebbe indicare il veluti ad apertura della trattazione, spesso utilizzato all’interno del manuale in funzione esemplificativa – e senza alcuna generale preliminare introduzione dell’argomento, quella con cui si consente al bonorum possessor di agire ficto se erede per far valere pretese sia in rem che in personam, e di essere convenuto in giudizio; a questa segue nel paragrafo successivo quella concessa al bonorum emptor che, come il bonorum possessor (similiter, ingiustamente ritenuto un glossema da G. Beseler, Textkritische Studien, in ZSS 53, 1933, 47), è carente di legittimazione sia attiva che passiva, denominata actio Serviana, attraverso la quale il bonorum emptor viene considerato (ovviamente sotto il profilo processuale) come erede del debitore defunto. Quest’ultima è da utilizzarsi in alternativa all’azione con trasposizione di soggetti, probabilmente più risalente, chiamata invece Rutiliana, dovuta al pretore Publio Rutilio, che in un certo qual modo, pur avendo una finalità sostanzialmente analoga alla Serviana, costituisce un mutamento di prospettiva in un contesto dedicato alle fictiones. Nel paragrafo 4.36 segue la trattazione dell’actio Publiciana – la cui finzione in essa contenuta è certamente la più nota tra le finzioni pretorie – concessa, come variante della rei vindicatio, a tutela di chi avesse ricevuto in base ad una iusta causa una res mancipi attraverso una semplice traditio e ne avesse perso il possesso prima di averla usucapita, dove con l’espressione fingitur rem usucapisse si vuole fare riferimento alla finzione che l’attore abbia usucapito quella determinata res “si anno possidet” (è appena il caso di sottolineare che in relazione a questa affermazione C.A. Cannata, Profilo istituzionale del processo romano, II, Il processo formulare, Torino 1982, 2.86 nt. 6, considera che Gaio abbia commesso un grave errore nel fingere l’usucapione: ma v. contra M. Talamanca, Il riordinamento augusteo del processo privato, in Gli ordinamenti giudiziari di Roma imperiale. Princeps e procedure dalle leggi giulie ad Adriano, Atti Copanello 5-8 giugno 1996, a cura di F. Milazzo, Napoli 1999, 111 nt. 193, il quale invece afferma che dell’errore non è data alcuna prova). Negli ultimi due paragrafi, infine, Gaio passa a trattare «questioni, che con terminologia moderna, definiremmo di stato» (così E. Bianchi, Fictio iuris cit., 304): vale a dire la finzione di attribuzione della cittadinanza romana per lo straniero (la c.d. fictio civitatis descritta in 4.37), che gli conferisce legittimazione processuale sia attiva che passiva nei casi di controversia con un cittadino romano, permettendogli così l’esercizio di un’azione penale, o consentendo l’esperibilità delle diverse azioni nei suoi confronti, come nel caso dell’actio furti (nec manifesti). Il discorso si conclude in 4.38 con la trattazione relativa alla rescissione della capitis deminutio del debitore, che qui si vuole affrontare nello specifico. Ora, in una visione complessiva dell’esposizione gaiana sull’argomento, appare opportuno richiamare il giudizio di G. Falcone, Appunti sul IV commentario delle Istituzioni di Gaio, Torino 2003, 111 s., il quale, non mancando preliminarmente di osservare come l’illustrazione di tali fictiones, e dunque di versioni elaborate di formule (tra cui anche quelle con trasposizione di soggetti), preceda le nozioni-base su ogni singolo segmento della formula, esposte e spiegate successivamente nei paragrafi a partire dal 39 (109 ss.) – ma, d’altro canto, il quarto commentario di Gaio è certamente rispetto agli altri il meno ordinato nel metodo di esposizione – considera l’ordine interno all’elencazione dei paragrafi dal 34 al 38 ben calibrato dal giurista nell’ottica di una contrapposizione tra leges e creazioni edittali.

 

[8] Sull’impiego da parte di Gaio del termine genus in relazione a classificazioni non rigorose v. in particolare M. Talamanca, Lo schema genus-species nelle sistematiche dei giuristi romani, in Colloquio italo-francese “La filosofia greca e il diritto romano”, 2, Roma 1977, 267 nt. 734.

 

[9] C. Gioffredi, Aspetti della sistematica gaiana, in Nuovi studi di diritto greco e romano, Roma 1980, 259, richiama l’attenzione sulla circostanza che il discorso gaiano sulle actiones ficticiae sia, in fin dei conti, un «argomento importante anche dal punto di vista del diritto materiale, perché consente di valutare l’ampiezza dell’apporto dato dal diritto pretorio al ius civile».

 

[10] Dette fictae legis actiones, in fondo, costituiscono una sorta di passaggio dal processo per legis actiones a quello formulare, e vengono definite nel paragrafo 10 dello stesso libro come quelle quae ad legis actionem exprimuntur: ma i termini precisi della distinzione rispetto a quelle che sua vi ac potestate constant sono abbastanza oscuri e discussi, a causa della lacuna del manoscritto veronese, che costituisce l’unica fonte sulla quale poter fare affidamento, mancando peraltro nelle Istituzioni imperiali, attraverso le quali si potrebbe tentare un’integrazione del passo, ogni riferimento a detta forma di processo. In relazione alle stesse, le cause per cui si sono venute a creare le formulae ficticiae in esse – non sempre – contenute sono state minuziosamente esaminate di recente da M. Talamanca, Il riordinamento augusteo cit., 103 ss. Cfr. pure, con riferimento al problema specifico della distinzione tra le finzioni operata da Gaio, A. Biscardi, Une categorie d’actions negligée par les romanistes: les actions formulaires quae ad legis actiones exprimuntur, in TR 21, 1953, 310 ss.; A. Magdelain, Gaius IV 10 et 33: naissance de la procedure formulaire, in TR 59, 1991, 239 ss. (= Naissance de la procedure formulaire, in De la Royauté et du Droit de Romulus à Sabinus, Roma 1995, 156 ss.); E. Bianchi, Le actions, quae ad legis actiones exprimuntur in Gaio. Una nuova ipotesi sulla “catégorie d’actions negligée par les romanistes”, in Collana della Rivista di diritto romano, Atti del convegno di studio Pontignano (Siena, 2001), in <http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano/allegati/attipontignanobianchipdf>. Per un quadro complessivo del “Gedankengang” di Gai 4.30-33 si veda C.A. Cannata, Introduzione ad una rilettura di Gai 4.30-33, in Sodalitas. Studi A. Guarino 4, Napoli 1984, 1869 ss.

 

[11] La fictio pignoris capionis è trattata da Gaio nel paragrafo 4.32. Su di essa v. in particolare le trattazioni specifiche di G. Pugliese, Gai 4.32 e la pignoris capio, in Mélanges P. Meylan, Lausanne 1963, 279 ss., ora in Scritti giuridici scelti, I, Napoli 1985, 319 ss., Id., Qualche nuova osservazione sulla pignoris capio dei pubblicani e Gai 4. 32, in Collatio iuris romani, in Études H. Ankum, Amsterdam, 1995, 58 ss., ora in Scritti giuridici (1985-1995), Napoli 2007, 885 ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Lex portus Asiae. Un nuovo documento sull’appalto delle imposte, in I rapporti contrattuali con la pubblica amministrazione nell’esperienza storico-giuridica, Torino 17-19 ottobre 1994, Napoli 1997, 113 ss.; L. Maganzani, I poteri di autotutela dei publicani nel monumentum Ephesenum (lex portus Asiae), in MEP 3, 2000, 129 ss., Ead., La pignoris capio dei publicani dopo il declino delle legis actiones, in Cunabula iuris. Studi G. Broggini, Milano 2002, 181 ss., e Pubblicani e debitori d’imposta. Ricerche sul titolo edittale de publicanis, Torino 2002, tutti con ampia e dettagliata bibliografia precedente.

 

[12] La constatazione è nel paragrafo 4.33 delle Istituzioni. Qui, come osserva M. Talamanca, Il riordinamento augusteo cit., 138, l’inesistenza della fictio condictionis non è collegata all’abolizione di un determinato modus agendi, ma trova invece il suo fondamento nel fatto che l’actio certae creditae pecuniae e la condictio certae rei formulari non avevano bisogno di una fictio di tal genere. E, d’altro canto, è bene sottolineare che la fictio pignoris capionis di Gai 4.32, che poi è l’unica di cui abbiamo il tenore letterale, è concepita in praeteritum: …ut quanta pecunia olim, si pignus captum esset, id pignus is a quo captum erat luere deberet, tantam pecuniam condemnetur.

 

[13] Si è tentato di vedere in questa lacuna una trattazione relativa all’impiego della legis actio per pignoris capionem in materia di damnum infectum: fra i più recenti cfr. B. Albanese, Gai 4.31 e il lege agere damni infecti, in AUPA 31, 1969, 5 ss., ora in Scritti giuridici I, Palermo 1991, 649 ss.; G. Falcone, Sulle tracce del lege agere damni infecti, in AUPA 43, 1995, 521 ss.; dai quali ha poi preso le mosse G. Gulina, Lege agere damni infecti e pignoris capio. Esegesi e logica di Gai., 4.31, in Riv. Dir. Rom. 6, 2006, ‹http://www.ledonline.it/rivistadirittoromano>. Ma v. contra le osservazioni di M. Talamanca, Il riordinamento augusteo cit., 115 s.

 

[14] Non mi sembra di poter seguire la proposta che risulta dall’editio minor di David di leggere qui, come pure in 3.84, derecto.

 

[15] I debiti nascenti da delitto, viste le loro diverse caratteristiche strutturali, seguivano invece una strada differente, potendo essere esperite dai creditori direttamente contro chi ha acquistato la potestà sul colpevole le azioni nossali, in base al noto principio ‘noxa caput sequitur’. Cfr. al riguardo Gai 4.77: …Ex diverso quoque directa actio noxalis esse incipit. Nam si pater familias noxam commiserit, et is se in adrogationem tibi dederit aut servus tuus esse coeperit, <quod> quibusdam casibus accidere primo commentario tradidimus, incipit tecum noxalis actio esse quae ante directa fuit.

 

[16] Difatti, attraverso questo tipo di adoptio il soggetto che veniva adrogatus ricadeva sotto la patria potestas dell’adrogator e assumeva la qualità di filius familias: è esplicito in tal senso il dettato di Gai 1.99. Inoltre, dello stesso effetto vi è notizia indiretta anche in Gai 1. 107.

 

[17] Comunemente in dottrina la capitis deminutio minima viene indicata, nei casi specifici sicuramente attestati dell’adrogatio e della conventio in manum della donna sui iuris, come un modo di estinzione delle obbligazioni: cfr., a titolo paradigmatico, E. Betti, Istituzioni di diritto romano, II.1, Padova 1960, 486 s., in collegamento con l’ipotesi di un’originaria intrasmissibilità passiva delle obbligazioni.

 

[18] L’unica opinione divergente è quella di M. Voigt, Das ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, III, Leipzig 1858-1876, rist. Aalen 1966, 685 ss., rimasta però isolata.

 

[19] Sottolinea la genericità dell’affermazione gaiana anche M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, 77.

 

[20] Gai 1.162: Minima est capitis deminutio, cum et civitas et libertas retinetur, sed status hominis commutatur; quod accidit in his qui adoptantur, item in his quae coemptionem faciunt, et in his qui mancipio dantur quique ex mancipatione manumittuntur; adeo quidem, ut quotiens quisque mancipetur aut manumittatur, totiens capite deminuatur. Cfr. pure Paul. 2 ad Sab. D. 4.5.11, Tit. Ulp. 11.13 e Inst. Iust. 1.16.3, dove detta capitis deminutio viene definita semplicemente come status mutatio.

 

[21] F. Dessertaux, Études cit., I, 18, ritiene completa l’elencazione gaiana degli eventi che provocano capitis deminutio minima; a differenza di quanto afferma B. Albanese, Capitis deminutio cit., 42 nt. 17; seguito anche da L. Di Lella, Formulae ficticiae cit., 182 nt. 152, il quale li considera invece solo esempi salienti, in considerazione della sua locuzione introduttiva (quod accidit), la cui struttura è simile in tutti i tre paragrafi che descrivono in modo non esaustivo le diverse capitis deminutiones. Personalmente, mi sembra di poter condividere l’opinione dell’Albanese per la semplice circostanza che altri casi di capitis deminutio possono facilmente trovare un riscontro testuale o essere ipotizzati con un certo margine di verosimiglianza: ad esempio, Gaio tace della diffarreatio la quale, seppur nella sua rarità, deve considerarsi tra gli eventi che comportano una capitis deminutio minima, non essendovi dubbio alcuno che in questo caso la donna non sia più loco filiae rispetto al marito, e dunque si sia estinto ogni vincolo agnatizio con la famiglia di questi. Ed è anche facile supporre che vi fosse capitis deminutio nella remancipatio dalla manus, come atto inverso alla coemptio: in tal senso cfr. P. Bonfante, Corso di diritto romano, I, Roma 1925, rist. Milano 1963, 168.

 

[22] Tali ultimi due casi non sono invece menzionati in Tit. Ulp. 11.13, dove il riferimento è solo all’adoptio e alla conventio in manum.

 

[23] E questo è ovvio, altrimenti, come osserva correttamente B. Albanese, Capitis deminutio cit., 42 nt. 17, si sarebbe venuta a creare l’assurda situazione di appartenere contemporaneamente a due diversi gruppi agnatizi, vale a dire quello del pater emancipante e quello del titolare del mancipium.

 

[24] Per la verità, c’è una vecchia, e sotto alcuni profili, suggestiva ipotesi formulata da M. Cohn, Beiträge zur Bearbeitung des römischen Rechts, I.2, Berlin 1880, 108, 118; F. Eisele, Beiträge zur römischen Rechtsgeschichte. Zur Natur und Geschichte der capitis deminutio, Freiburg und Leipzig, 1886, 180; ripresa successivamente da M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio cit., 81; i quali intendono il testo come se Gaio avesse scritto qualcosa come his qui adrogantur, in quanto nell’adoptio in senso stretto la capitis deminutio minima risulterebbe dal passaggio attraverso il mancipium e non dall’adoptio stessa. Pur nella consapevolezza che l’adoptio in senso stretto ha, ai fini della capitis deminutio, la sua prima causa nel passaggio attraverso il mancipium, ritengo però che Gaio non possa non aver inteso il termine che nel suo significato più ampio, precisando comunque in un passaggio successivo un principio incontestabile qual è quello appena espresso: in tal senso già F. Dessertaux, Études cit., I, 20 e 36. V. pure Id., Études cit., II, 258, dove lo studioso francese ribadisce senza mezzi termini che nell’adoptio in senso stretto è ciascuno degli atti, e non l’adozione stessa, che comporta capitis deminutio.

 

[25] Gai 1.98:  Adoptio autem duobus modis fit, aut populi auctoritate, aut imperio magistratus, veluti praetoris. Nello stesso duplice senso, inoltre, il termine è utilizzato in Tit. Ulp. 11.13.

 

[26] Non c’è infatti ragione alcuna per accogliere quanto sembra affermare in senso contrario H. Krüger, Geschichte der capitis deminutio, Breslau 1887, 79.

 

[27] Gai 1.111: … Sed hoc totum ius partim legibus sublatum est, partim ipsa desuetudine obliteratum est.

 

[28] Gai 1.112:…Quod ius etiam nostris temporibus in usu est; nam flamines maiores, id est Diales Martiales Quirinales, item reges sacrorum nisi ex farreatis nati non leguntur; ac ne ipsi quidem sine confarreatione sacerdotium habere possunt. Sull’influenza dei due SC, uno dell’11 a.C., e l’altro del tempo di Tiberio, che privarono la confarreatio di quasi tutte le conseguenze giuridiche, cfr. B. Albanese, Le persone cit., 318 nt. 17; L. Messina, Le lacune di Gai 1.136-137, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, II, Napoli 1984, 817 nt. 7; C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote, II, Roma 2005, 208 nt. 60.

 

[29] Come mette in rilievo U. Coli, Capitis deminutio cit., 193, la dottrina è sostanzialmente concorde nell’intendere la familia come quella communi iure.

 

[30] È bene precisare con F.C. Savigny, System des heutigen römischen Rechts, II, Berlin 1840-49, trad. it. V. Scialoja (Sistema del diritto romano attuale), Torino 1888, 75, come, in effetti, la capitis deminutio minima operasse unicamente sul piano del diritto privato.

 

[31] Qui, come in seguito, faccio riferimento al termine permutatio, utilizzato da Gaio in Inst. 1.159 e in 4 ad ed. prov. D. 4.5.1, poi riproposto anche in P.S. 1.7.2, nonostante nelle fonti, tra le quali una dello stesso manuale gaiano, 1.162, si trovino utilizzati indifferentemente anche i termini commutatio e commutari (Est autem capitis deminutio, prioris status commutatio) o mutatio e mutari (Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.9.4, Paul. 1 sent. D. 4.1.2, P.S. 3.6.29, Tit. Ulp. 11.13, C.I. 7.16.28).

 

[32] In tal caso, infatti, si estingue il rapporto giuridico di adgnatio, come testimonia inequivocabilmente Gai 1.158: Sed agnationis quidem ius capitis deminutione perimitur, cognationis vero ius eo modo non commutatur, quia civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest. Nello stesso senso v. pure Gai 3. 21,27 e 51; Tit. Ulp. 27.5, 28.9, Iul. 27 dig. D. 38.7.1, Pomp. 4 ad Sab. D. 38.8.5, Pomp. 10 ad Q. Muc. D. 38.16.11, Ulp. 12 ad Sab. D. 38.17.1.8, Inst. Iust. 3.4.2, 3.5.1 e 3.10.1).

 

[33] Ad esempio, non può certo parlarsi di capitis deminutio nel caso in cui un servo diviene libero e cittadino sui iuris, o nel caso in cui sempre un servo viene adottato e diventa libero, civis e alieni iuris, non avendo i servi vincoli agnatizi che possano estinguersi.

 

[34] Si potrebbe, a dire il vero, anche configurare il caso dell’adozione e della conventio in manum di una donna alieni iuris, qualora il passaggio nella nuova famiglia implichi per il capite deminutus anche un peggioramento nel rango domestico: in tal senso cfr. B. Albanese, Capitis deminutio cit., 43.

 

[35] Cfr. Gai 3.104: Praeterea inutilis est stipulatio, si ab eo stipuler qui iuri meo subiectus est, item si is a me stipuletur. Servus quidem et qui in mancipio est et ___l_________s et quae in manu est non solum ipsi, cuius iuri subiecti subiectaeve sunt, obligari non possunt, sed ne alii quidem ulli. Sulle diverse integrazioni del passo cfr. S. Longo, Filiusfamilias se obligat cit., part. 86, la quale – ponendosi in contrasto con un orientamento dottrinale concorde nel riconoscere al filius familias la capacità di obbligarsi iure civili verso terzi già in epoca classica – non ritiene che la lacuna possa essere ricostruita con la sola menzione della filia familias, così come proposto dallo Stundemund, e seguito in maniera incondizionata da tutti gli editori delle Institutiones di Gaio, e propone invece, oltre che sulla base di argomentazioni di carattere generale, anche sulla base di precise valutazioni sotto il profilo paleografico, l’integrazione delle parole ‘filius filiaque familias’.

 

[36] In tal senso F. Carrelli, D. 4.5.2.1 e la causae cognitio nella restitutio in integrum adversus capite deminutos, in SDHI 2, 1936, 142 nt. 12, il quale motiva la sua opinione anche sulla circostanza che Gaio abbia menzionato nel passo solo la coemptio e non le altre ipotesi di conventio in manum. Non mi sembra però che l’argomento sia convincente, rappresentando fra l’altro la coemptio la forma di conventio in manum ormai più utilizzata al suo tempo.

 

[37] S. Longo, Filius familias se obligat cit., 171.

 

[38] Non ne dubita affatto R. Quadrato, Le Institutiones nell’insegnamento di Gaio. Omissioni e rinvii, Napoli 1979, 78, sulla base di un’accurata ricerca nel lessico delle Istituzioni di Gaio.

 

[39] Si veda, ed esempio, Gai 4.155, dove l’unica fattispecie che legittima il ricorso all’interdictum de vi armata è il compimento della deiectio con l’uso di armi: Interdum tamen etsi eum vi deiecerim, qui a me vi aut clam aut precario possiderit, cogor ei restituere possessionem, velut si armis eum vi deiecerim; nam propter atrocitatem delicti in tantum patior actionem, ut omni modo debeam ei restituere possessionem 

 

[40] Sul punto v. anche, sempre di S. Longo, Naturalis obligatio e debitum servi in Gai 3.119 a, in Iura 46, 2000, 56 nt. 16. 

 

[41] Cfr. in tal senso B. Albanese, Capitis deminutio cit., 63, il quale esclude che una tale disciplina possa essere applicata ad altre ipotesi di capitis deminutio minima.

 

[42] Sono parole di A. Metro, Rec. a Mercogliano, Actiones ficticiae cit., in Index 29, 2001, 372.

 

[43] In effetti, la fictio non è una clausola autonoma della formula, di per sé “individuabile”, ma solo un elemento dell’intentio: e con il termine fictio, dunque, si fa riferimento a qualcosa che si finge, ma non certo ad una pars formulae. Sull’argomento cfr. più approfonditamente C.A. Cannata, Profilo istituzionale cit., 84, il quale osserva pure che, naturalmente, la circostanza che si finge è espressa nei concepta verba, anche se tale espressione comporta tutto un particolare tenore dell’intentio.

 

[44] L’espressione fingitur capite deminutus deminutave non esse è ritenuta da E. Bianchi, Fictio iuris cit., 335, “ellittica”, ma comunque equivalente a quella di ‘se alieno iuri non subicere’.

 

[45] M. Lupoi, Metafore giuridiche e finzioni: la parola data, in Le finzioni del diritto cit., 161, rileva come nel caso di specie, più che di una finzione, si debba parlare piuttosto di una contro-finzione (che viene distinta, a sua volta, dall’anti-finzione). Lo studioso, partendo dal presupposto che l’adozione – eguagliando l’adottato al figlio legittimo, non essendo l’adottato figlio nel mondo reale ma solo in quello giuridico – sia essa stessa una finzione, che nell’equiparazione può produrre effetti non desiderati, afferma che attraverso la contro-finzione è possibile evitare che tutta la disciplina giuridica della fattispecie originaria sia mutuata da quella equiparata. In questa prospettiva ciò significa che la finzione radicata su una metafora già di per sé conduce alla equiparazione, e che la contro-finzione paralizza in parte questo effetto. Mi sembra, però, di poter escludere che l’adozione (così come, d’altro canto, la stessa conventio in manum) possa essere considerata una finzione giuridica in senso proprio, mancando in essa l’elemento sostituente e quello sostituito propri di ogni fictio: tutt’al più, in questo caso si può intendere la finzione come uno scostamento dalla ‘realtà naturale’, che riguarda solo l’effetto dell’equiparazione della posizione di soggetti estranei alla familia a quella dei figli.

 

[46] O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3a ed., Leipzig 1927, rist. anast. Aalen 1985, 118, ha ricostruito così, con certezza, la formula edittale: SI PARET NS NS CAPITE DEMINUTUS NON ESSET, TUM SI NM NM AO AO….DARE OPORTERET, IUDEX NM NM AO AO NM NM AO AO…C.S.N.P.A. Come rileva al proposito M. Talamanca, s.v. Processo civile (dir. rom.) in ED. 36, Milano 1987, 58 nt. 411, data la struttura della formula, nel caso di specie bisogna presupporre che la circostanza a base della fictio fosse pacifica tra le parti, in modo da non dover essere lasciata all’accertamento del giudice.

 

[47] Laddove la finzione riguardava sempre un elemento positivo: che lo straniero sia cittadino romano, che sia decorso il tempo per l’usucapione, che un soggetto che non ha la qualifica di erede sia tale. Del resto, è appena da ricordare che la fictio romana conosceva solo «deux angles d’attaque», vale a dire non vi erano finzioni giuridiche che non fossero affermative o negative: in tal senso cfr. Y. Thomas, Fictio legis. L’empire de la fiction romaine et ses limites médievales, in Droits. Révue francais de théorie juridique, 21, 1995, 22.

 

[48] È quanto a giusta ragione osserva C.A. Cannata, Finzioni, in Le finzioni del diritto cit., 47. In particolare, lo studioso precisa che «l’ordine del pretore al giudice di applicare norme relative ad un caso diverso non è mascherato facendo apparire il caso diverso». D’altro canto, «scopo generale della finzione processuale era quello di realizzare l’applicazione analogica di regole proprie di una situazione A ad una situazione B, che si vuole considerare analoga ad A, ma che l’interprete del sistema non potrebbe considerare analoga».

 

[49] Anche sotto questo profilo vi è una differenza di questa finzione rispetto a quelle menzionate da Gaio in precedenza, che invece avevano ad oggetto sia la legittimazione passiva che quella attiva del soggetto interessato.

 

[50] Al quale soggetto, pertanto, non viene consentita la proposizione di alcuna azione nei confronti dei terzi.

 

[51] D’altro canto, è lo stesso Gaio stesso a mettere in risalto la differenza, introducendo la trattazione della finzione di 3.84 con un praeterea, mentre le precedenti finzioni erano state tutte introdotte, quasi a volerle parificare tra loro, in qualche misura, con un ripetuto item. In tal senso v. C. Furia, Gai 3.84 cit., 121 s.; E. Bianchi, Fictio iuris cit., 328 e 334; G. Falcone, Appunti sul IV commentario cit., 112, il quale osserva pure che l’item accorpa tra loro tutti esempi di actiones per le quali si sottolinea la matrice legislativa (nostribus legibus). Lo stesso studioso sicilano, fra l’altro, ritiene improbabile che il differente incipit del paragrafo possa trovare la sua spiegazione semplicemente in chiave cronologica, essendo tra le diverse fictiones quella che rescinde la capitis deminutio la più recente, come invece propone, anche se prudentemente, E. Bianchi, op. cit., 266 e 327.

 

[52] In tal senso U. Robbe, La hereditas iacet e il significato della hereditas in diritto romano, Milano 1975, 169 s.

 

[53] Così come, tra gli altri, si legge nei manuali di V. Arangio Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 14a ed., Napoli 1966 rist. 1991, 58; M. Talamanca, Istituzioni cit., 122; A.D. Manfredini, Istituzioni di diritto romano, Torino 2000, 93, 428; D. Dalla - R. Lambertini, Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Torino 2001, 85. V. pure, senza ulteriori specificazioni, e con qualche perplessità, V. Giuffrè, Il diritto dei privati nell’esperienza romana. I principali gangli, 3a ed., Napoli 2002, 90.

 

[54] Cfr. in particolare B. Albanese, Le persone cit., 275; M. J. García Garrido, Derecho privado romano. I. Instituciones, 2a ed., Madrid 1982, 453; C.A. Cannata, Corso di Istituzioni di diritto romano, Torino 2001, 55.

 

[55] S. Longo, Filius familias se obligat cit., part. 121.

 

[56] In relazione a ciò, F. Dessertaux, Études II cit., 305, osserva a ragione che l’estinzione dei debiti non è una conseguenza dei principi generali, ma è per la prima ed unica volta un effetto proprio della capitis deminutio.

 

[57] Nel manoscritto veronese si legge defendatur, ma gli editori concordano per defendantur, data la concordanza con i plurali eorum e subiecissent.

 

[58] Gai 3.82: Sunt autem etiam alterius generis successiones, quae neque lege XII tabularum neque praetoris edicto, sed eo iure <quod> consensu receptum est introductae sunt. È di tutta evidenza l’analogia del congegno fondamentale di tali successioni con quello delle successioni mortis causa, pur escludendosi l’assimilazione totale tra le due fattispecie, visto che in quelle inter vivos le conseguenze inerenti alla successione ereditaria sono in taluni casi attenuate, in altri completamente escluse dall’applicazione dei principi di diritto familiare, essendo l’acquisto del patrimonio del tutto subordinato all’acquisto di una potestà familiare.

 

[59] Per la verità, si potrebbero leggere le parole eo iure, quod consensu receptum est sia come direttamente allusive alla formazione consuetudinaria dell’istituto, sia all’attività di elaborazione dei giuristi, che attribuiscono giuridicità alla prassi: ed al riguardo cfr. H.L.W. Nelson-U. Manthe, Gai Institutiones III, 1-87. Text und Kommentar, Berlin 1992, 200. È certo, però, che qualsivoglia ipotesi si decida di accogliere, si deve comunque riconoscere per tali successioni la mancanza di una matrice legislativa.

 

[60] Così B. Biondi, Diritto ereditario romano, Milano 1954, 22.

 

[61] D’altro canto, già nel paragrafo precedente il giurista antonino aveva specificato, avviando il raffronto con il caso della donna conventa in manum, che la trattazione riguardava il caso del paterfamilias che si dava in adozione. Il passo è il 3.83: Etenim cum pater familias se in adoptionem dedit mulierve in manum convenit, omnes eius res incorporales et corporales, quaeque ei debitae sunt, patri adoptivo coemptionarive adquiruntur, exceptis his quae per capitis deminutionem pereunt, quales sunt ususfructus, operarum obligatio libertinorum quae per iusiurandum contracta est, et lites contestatae legitimo iudicio. Sul passo cfr. in particolare A. Torrent, La adrogatio en el sistema de las sucesiones universales inter vivos, in RIDA 14, 1967, 447 ss.

 

[62] In questo modo ci si trova in perfetta coerenza con il principio del ius civile che impedisce l’impoverimento del paterfamilias a seguito dell’operato dei sottoposti. In tal senso cfr., tra gli altri, G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, 3a ed., con la collaborazione di F. Sitzia e L. Vacca, Torino 1991, 390, il quale accoglie l’opinione in precedenza espressa da G. Mandry, Das gemeine Familiengüterrecht mit Ausschluss des ehelichen Güterrechts I, Tübingen 1871, 170, 176, 340, e successivamente ripresa da P. Bonfante, Corso di diritto romano, VI, Le successioni. Parte generale, Roma 1930, rist. Milano 1974, 30 s.

 

[63] La stessa espressione si riscontra anche in Gai. 23 ad ed. prov. D. 42.5.7.

 

[64] Sul problema del trapasso all’adrogator della qualità di heres cfr. in particolare G. Gandolfi, Ipse pater adoptivus aut coemptionator heres fit, in SDHI 21, 1955, 910 ss.

 

[65] Risponde infatti ad un principio generale la circostanza che essi, in quanto eredi, siano tenuti dei debiti ereditari senza distinzione.

 

[66] E. Betti, In iure cessio hereditatis, successio in ius e titolo di heres, in Studi in onore S. Solazzi, Napoli 1949, 98 nt. 20, ritiene impropria la locuzione desinit esse heres che si trova nel passo e la intende invece come desinit vocari ad hereditatem.

 

[67] Mi sembra una chiara svista tipografica quella di C. Furia, Gai 3.84 cit., 111, che parla al proposito dell’adrogator. Non riesco invece a comprendere la lettura del passo gaiano dalla stessa proposta (poi testualmente riportata senza alcuna osservazione anche da E. Bianchi, Fictio iuris cit., 332 nt. 377) nel senso di permanenza dell’obbligazione assunta in capo ai soggetti che hanno subito una capitis deminutio, mancando, peraltro, in questa sede, ogni riferimento ad una sua eventuale persistenza come obligatio naturalis. Mi sembra, infatti, che per il modo in cui l’affermazione è stata formulata dall’autrice, essa vada ad urtare contro il dato testuale, che invece è chiaro e non lascia spazio ad una interpretazione diversa da quella dell’estinzione iure civili dell’obbligazione.

 

[68] D’altro canto, è appena il caso di rilevare che la capitis deminutio non comporta solo l’estinzione per ius civile dei rapporti giuridici passivi inerenti alla persona, come l’obligatio, ma anche di quei rapporti attivi che abbiano carattere strettamente personale quali l’ususfructus, l’operarum obligatio liberti per iusiurandum contracta, o le lites contestatae legitimo iudicio. In tal senso cfr. Gai 3.83, riportato supra, nt. 61.

 

[69] Un’assunzione di debiti che altro non è se non l’obligari hereditati di cui parlano anche Iul. 42 dig. D. 28.1.12, Ulp. 1 ad Sab. D. 29.2.5 pr., Ulp. 6 ad Sab. D. 29.2.6 pr. e 4, Paul. 2 ad Sab. D. 29.2.22, e Mod. lib. sing. de heurem. D. 29.2.50.

 

[70] La venditio era preceduta, com’è ovvio, da una missio in bona, che non era contemplata nel più generale titolo edittale “quibus ex causis in possessionem eatur”, e che O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 117 ss., 422, ha inserito in quello “de restitutionibus”.

 

[71] La defensio del debitore capite deminutus si poteva realizzare o attraverso il pagamento diretto della somma da parte del titolare del potere su di lui, o con la garanzia  da parte dello stesso che quella determinata somma sarebbe stata pagata.

 

[72] È quanto osserva, in un discorso di più ampio respiro, F. Lucrezi, Senatusconsultum Macedonianum cit., 78.

 

[73] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni cit., 122.

 

[74] In dottrina si è affermato che la clausola della missio fosse un completamento necessario dell’editto concernente la concessione dell’azione ai creditori: in tal senso tra gli altri cfr. G. Mandry, Das Gemeine Familiengüterrecht cit., II, 346 ss; O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., § 42, 95; P.F. Girard, Manuel élémentaire de droit romain, 4a ed., Paris 1929, 197; F. Dessertaux, Contribution à l’étude de l’edit, in NRH 36, 1912, 434 e nt. 3; G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis cit., 162.

 

[75] Da un punto di vista pratico si può pensare, come ha fatto rilevare B. Biondi, Diritto ereditario cit., 24, a qualcosa di simile a quello che accadeva per il beneficio dell’inventario.

 

[76] Cfr. M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio cit., 82, ed E. Bianchi, Fictio iuris cit., 331.

 

[77] In tal senso v. già S. Solazzi, Gai 3.84 e le obbligazioni dell’erede, in Labeo 4, 1958, 7 ss., ora in Scritti di diritto romano cit., VI, 61.

 

[78] La sopravvivenza di questo patrimonio è, dunque, il risultato di un abile congegno pretorio che, come osserva E. Betti, In iure cessio hereditatis cit., 599 s., «risponde all’interesse dei creditori con maggiore precisione ed elasticità di quanto non potrebbe rispondervi una successio nei debiti, col collocare i creditori di fronte ad un nuovo debitore».

 

[79] Per le integrazioni del passo cfr., per tutti, P. Krüger, Gai Institutiones ad Codicis Veronensis apographum Stundemundianum novis curis auctum, in Collectio librorum iuris anteiustiniani, 4a ed., a cura di P. Krüger-Th. Mommsen-G. Stundemund, I, Berolini 1899, 178, e la letteratura ivi citata.

 

[80] S. Solazzi, Il concorso dei creditori nel diritto romano, I, Napoli 1937, 108.

 

[81] O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 422 ss. Diverse considerazioni hanno orientato il Lenel in questa direzione. In primo luogo, perché altrimenti non si riuscirebbe a ravvisare alcuna valida motivazione per stabilire un regime diverso per la donna in manu e il libero in causa mancipi rispetto a quello che vige per i figli e per i servi; inoltre, deporrebbe in senso contrario il dettato di Gai 3.104, che afferma l’incapacità di obbligarsi sia per la donna in manu sia che per chi si trova in mancipium. Da ultimo, la donna in manu sarebbe in questa maniera libera di sperperare tutti i beni portati al marito, senza che questi avesse possibilità alcuna di impedirglielo. 

 

[82] Mi sembra decisamente collocarsi in tale prospettiva pure F. Mercogliano, Formulae ficticiae cit., 44 e nt. 157. Pongono in stretto contatto tra loro i tre testi gaiani anche E. Bianchi, Fictio iuris cit., 338 s. e L. Di Lella, Formulae ficticiae cit., 183 e nt. 156.

 

[83] In senso contrario S. Solazzi, Il concorso dei creditori nel diritto romano, I, Napoli 1937, 108 ss.

 

[84] Nel senso che il procedimento è quello della normale bonorum venditio che si concede nel caso di indefensio del debitore.

 

[85] S. Solazzi, Il concorso dei creditori, I cit., 110 s. Il Solazzi aggiunge pure, a sostegno della sua ipotesi, che in 3.84 Gaio scrive solo si…non defendantur, senza l’aggiunta dell’in solidum.

 

[86] Mi sembra anche opportuno precisare che, non essendovi una taxatio, è proprio il momento dell’esecuzione quello nel quale vi è il restringimento della responsabilità del pater nei limiti del patrimonio che sarebbe stato del sottoposto se non avesse subito una permutatio status.

 

[87] B. Albanese, Capitis deminutio cit., 64 nt. 78.

 

[88] In margine, in generale, è appena il caso di rilevare che nella letteratura giuridica romana manca ogni tentativo di definire la fictio. Come però osserva M. Bretone, Finzioni e formule cit., 311, possiamo considerarla implicita, stando comunque attenti a non confonderla con la fictio retorica, di cui Quintiliano (5.10.95-99), riassunto da Giulio Vittore (403 Halm = 43, 14-28 Giannini-Celentano) è il massimo interprete. Peraltro, a tal proposito, non si può non considerare Ulp. 45 ad ed. D. 50.5.8.4, dove è netta, oltre che dichiarata, l’antitesi – che si estende certamente oltre il suo ambito particolare – tra la veritas e quod quis finxit. E ciò che pro vero adseveratur è da considerare come falsum e si contrappone alla veritas in P.S. 5.25.3 (Coll. 8.6.1).

 

[89] Sottolinea in particolare la ragione del rilevante numero di finzioni pretorie nella coesistenza tra i due sistemi, l’uno più formalistico, l’altro più flessibile, J. Glemp, De conceptu fictionis iuris apud Romanos, Pont. Univ. Lat. 1974, 48. V. pure nella stessa prospettiva S. Pugliatti, s.v. Finzione (dir. rom.), in ED. 17, Milano 1968, 662 ss.; F. Todescan, Diritto e realtà cit., 77. Inoltre, sull’argomento deve essere menzionato altresì G. Grosso, Riflessioni su ius civile, ius gentium, ius honorarium nella dialettica tra tecnicismo-tradizionalismo giuridico e adeguazione allo sviluppo economico e sociale in Roma, in Studi G. Donatuti I, Milano 1973, 439 ss., ora in Scritti storico giuridici I, Torino 2000, 935 ss.

 

[90] L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana, trad. it. R. Orestano, Milano 1938, 154, al riguardo afferma che «il pretore si appoggia interamente all’azione civile. Se manca nel fatto un presupposto essenziale del ius civile, egli ne finge semplicemente la presenza». 

 

[91] Rinvio qui a E. Bianchi, Fictio iuris cit., 345 ss. e part. nt. 401, e a M. Bretone, Finzioni e formule cit., 298 s., il quale rileva pure come il legame tra l’aequitas e la fictio sia un motivo ricorrente nella riflessione giuridica dell’età intermedia e della prima epoca moderna. Aggiungo solo un’efficace osservazione di G. Bertachini, il quale nel suo Repertorium precisa che “fictio cessat, ubi aequitas cessat”.

 

[92] In effetti, nelle fonti si riscontra solo l’espressione ficticiae actiones, peraltro solo una volta in maniera esplicita, in Tit. Ulp. 28.12 – un testo sempre considerato al riparo da sospetti di alterazione, anche nella fase più interpolazionistica degli studi – a proposito dei bonorum possessores: Hi, quibus ex successorio edicto bonorum possessio datur, heredes quidem non sunt, sed heredis loco constituuntur beneficio praetoris. Ideoque seu ipsi agant seu cum his agatur, ficticiis actionibus opus est, in quibus heredes esse finguntur. D’altro canto, è bene rilevare che è anche assai raro nelle fonti l’uso dell’aggettivo ficticius, che si ritrova, oltre al passo appena richiamato, solo in C.I. 1.5.10 pr., in relazione ad una emptio. Di contro, è invece frequentemente attestato, ed in particolar modo in Gaio, le cui Istituzioni costituiscono il riferimento principale per la comprensione dell’argomento, e dove entrambe le espressioni difettano totalmente, l’uso del termine fictio e del verbo fingere – del quale fictio è sostantivo derivato – in senso formulare (cfr. VIR, II, Berolini 1933, 828 e 889 ss., sub his vocibus). È ovvio, però, che nei testi della compilazione giustinianea sia scomparso ogni accenno alle fictiones formulari, al pari di tutte le allusioni ai problemi di tecnica formulare. Quanto al significato etimologico di tali lemmi, appartenenti al patrimonio indoeuropeo comune, che esprimono all’inizio il modellare l’argilla, e poi successivamente sono stati estesi al plasmare, trasformare, creare, supporre, inventare, simulare, rinvio a A. Walde-J. Hoffmann, Lateinisches Ethymologisches Wörterbuch, I, Heidelberg 1938, 3 a ed., 501 s., s.v. fingo, e a A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, Paris 1959, 235 s., s.v. fingo, e, sotto un profilo più strettamente giuridico, a R. Leonard, in PW, VI,  Stuttgart 1909, 22770 s., s.v. fictio.

 

[93] Naturalmente, vi è una differenza rispetto alle ordinarie azioni civili, in cui nell’intentio il verbo compare invece all’indicativo. Al riguardo, come osserva G. Aricò Anselmo, Sequestro omittendam possessionis causa, in AUPA 40, 1988, 304, l’indicativo, che è il modo dell’obiettività, è utilizzato quando il giudice «deve accertare se esiste un presupposto (non indicato nella formula ovvero indicato nella demonstratio) al quale far risalire alla stregua del diritto civile la necessità che N.N. dia ad A.A.», mentre invece il congiuntivo, che è il modo della possibilità, è utilizzato «quando il giudice deve valutare se esisterebbe un presupposto al quale far risalire la necessità ora detta o l’altra, che la cosa sia dell’attore ex iure Quiritum, qualora fosse vero un certo presupposto, tenendo per vero il quale gli si impone di compiere la sua valutazione. In pratica, tra il giudice e la materia da giudicare si frappone il diaframma di una finzione, passando attraverso il quale l’esame del giudice è costretto a deviare dal normale criterio di obiettività». 

 

[94] Questo perché, in effetti, il fatto oggetto della fictio nella realtà non si è verificato. D’altro canto, come osservava H. Vahinger, Die Philosophie des Als-ob, Leipzig 1914, 2a ed., 171 ss., una delle caratteristiche fondamentali della finzione è proprio la sua contraddizione con la realtà. Sull’irrealtà del fatto ammesso nella fictio v., da ultimo, F.M. Silla, La cognitio sulle libertates fideicommissae, Padova 2008, 138 e nt. 4, in una breve ma lucida analisi della contrapposizione tra il meccanismo della fictio e quello dell’analogia.

 

[95] È opportuno sottolineare che l’ordine proviene dal magistrato giusdicente ed è diretto al giudice: difatti, «alla finzione processuale corrisponde un ordine, quindi un atto precettivo, ma emanato in funzione di un disegno normativo». Si esprime così C.A. Cannata, Finzioni cit., 46.

 

[96] Cfr. pure R. Llano Cifuentes, Naturaleza jurìdica de la fictio iuris, Madrid 1963, 49.

 

[97] In tal senso v. M. Talamanca, s.v. Processo civile cit., 56 nt. 397. V. pure R. Dekkers, La fiction juridique. Étude de droit romain et de droit comparé, Paris 1935, 39 nt. 1; C.A. Cannata, Profilo istituzionale cit., 84, che distingue tra circostanze di fatto o di diritto.

 

[98] Ma, come si è già detto, la fictio può anche avere ad oggetto un effetto di diritto, scaturente da una legis actio, come ad esempio nel caso del si pignus captum esset, descritto in Gai 4.32.

 

[99] E. Bianchi, Fictio iuris cit., 338 e 343. È però il caso di rilevare come lo stesso Bianchi, pur senza aderire integralmente all’ipotesi secondo la quale le fictiones pretorie potevano ricadere indifferentemente su elementi fattuali o giuridici, in una pagina precedente dello stesso lavoro (337), aveva comunque ammesso che l’oggetto delle finzioni pretorie potesse essere, a seconda dei casi, differente. Cfr. pure, contrario all’opinione espressa da E. Bianchi, F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 84.

 

[100] Nel formulare tali riserve mi avvalgo dell’autorità di B. Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, Frankfurt am Main, 1987, 1, 2a ed., 182 ss. (§67), il quale osservava come tutte le finzioni esposte da Gaio in 4.34-38, piuttosto che situazioni fattuali, avessero ad oggetto rapporti giuridici.

 

[101] F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 76, parla di «azioni modellate, anziché simulate», richiamando anche N. Dumont-Kisliakoff, La simulation en droit romain, Paris 1970, 23 ss.

 

[102] Non si capisce, infatti, come potrebbe funzionare la fictio né per quanto riguarda un’estensione edittale né per quanto riguarda un’estensione decretale di tali formulae.

 

[103] In tal senso già si sono espressi O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 183, e V. Scialoja, Procedura civile romana. Esercizio e difesa dei diritti, Roma 1936, 335. All’argomento dedica anche un buono spazio J. Glemp, De conceptu fictionis cit., 54, il quale ravvisa nell’impedimento ad un’actio in factum con formula ficticia non solo ragioni logiche, ma anche ragioni che si pongono su di un piano storico. Una ricca bibliografia sul punto, riassuntiva delle diverse opinioni formulate dagli studiosi, si può trovare in A. Dos Santos Justo, A fictio iuris no Dereito Romano (Actio ficticia). Época clásica, in Universidade de Coimbra. Boletim de la Faculdade de Direito, 32, 1989, 92 ss. Da ultimi, sulla circostanza che le formule fittizie dovessero essere necessariamente in ius conceptae, cfr. E. Bianchi, Fictio iuris cit., 264 nt. 217; F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 64 s.; S. Longo, Filiusfamilias se obligat cit., 116 nt. 52.

 

[104] Non è casuale, tra l’altro, che le formule riportate da Gaio in 4.34-38 siano tutte in ius conceptae.

 

[105] La terminologia di questa categoria di azioni non è, com’è noto, romana, mancando per essa nelle fonti una denominazione precisa. Per indicarla in dottrina sono state utilizzate anche espressioni analoghe, quale ad esempio, in modo meno preciso, formule con trasposizione di condanna. Cfr., al riguardo, la discussione in M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht, 2a ed. (bearb. K. Hackl), München 1996, 262, tra “Subjektswechsel” e “Subjektsumstellung”.

 

[106] Ognuna di queste actiones, veri e propri procedimenti di estensione giuridica, ha una propria peculiarità. Le prime, come si è visto, considerano ai fini della sentenza circostanze esistenti o mancanti; le seconde indicano in una persona diversa dal titolare del rapporto fatto valere in giudizio il destinatario della condemnatio; le ultime sono invece quelle nelle quali, mancando un rapporto di ius civile cui potersi appoggiare, veniva enunciato non un rapporto giuridico, ma un semplice fatto o atto. In tal senso cfr. G. Pugliese, Il processo formulare I, Lezioni a.a. 1947-48, Milano 1963, 116, il quale mette in risalto come la contrapposizione sotto il profilo del fondamento tra actiones civiles e actiones honorariae – che sono, a conti fatti, tutte le azioni esercitate mediante un processo formulare – consista in primo luogo nel fatto che le actiones civiles “spettavano”, mentre quelle honorariae venivano “date”, ricalcando, in fondo, la contrapposizione tra ius civile in senso ampio e ius honorarium.

 

[107] Per la verità, anche se statisticamente l’aggettivazione utilis in senso attributivo del termine (rispetto al denominativo di una classe) si ritrova più spesso con riferimento alle actiones (o alle formulae), non mancano però nelle fonti testimonianze di altri mezzi giudiziari, quali gli interdicta o in particolar modo le exceptiones, qualificate anch’esse come utiles. Su queste ultime cfr. in particolare G. Nicosia, Exceptio utilis, in ZSS 75, 1958, 251 ss., ora in Silloge, Scritti 1956-1996, Catania 1998, 67 ss.; E. Betancourt, Sobre las exceptiones llamadas utiles, in AHDE 50, 1980, 703 ss. Sull’argomento v. pure G. Wesener, Nichtediktale Einreden, in ZSS 112, 1995, 109 ss. In generale, sull’aggettivazione utilis, anche se in un’ottica più protesa al versante delle azioni, cfr. G. Bortolucci, Actio utilis, Modena 1909, e R. Dekkers, Les actions utiles en droit romain classique, in RUB 41, 1936, 237 ss.

 

[108] E. Volterra, Istituzioni di diritto privato romano, Roma 1961, 228 ss.

 

[109] M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano cit., 318. Lo studioso aggiunge, inoltre, che «un’actio è utilis quando si tratta di un’azione edittale, la quale, civile od onoraria che sia, venga data al di fuori dei presupposti previsti per la sua concessione, ma codesta qualifica nulla dice circa il modo in cui l’azione edittale veniva adattata al caso concreto».

 

[110] Cfr. per tutti M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht cit., 252 ss., con letteratura.

 

[111] Così L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana cit., 163. Si potrebbe aggiungere, richiamando G. Nicosia, Exceptio utilis cit. 101, che «anche terminologicamente l’attributo utilis richiama l’idea di un’utilizzazione, di un adattamento in via utile di uno schema preesistente. E l’orientamento generale della dottrina è in tal senso. In questa prospettiva, D. Mantovani, Le formule del processo privato romano. Per la didattica delle Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Padova 1999, 33, afferma che nelle actiones utiles «l’aggettivo serve ad indicare che la formula di un’azione-base, prima inservibile per un determinato scopo, è resa utile da un adattamento».

 

[112] Così come ha messo in evidenza M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht cit., 251 nt. 20. Si deve pure aggiungere che A. Guarino, Diritto privato romano, 17.8, distingue, seppur cautamente, tra le azioni “rettilinee” (le actiones directae), e quelle c.d. “di ripiego” (nelle quali o si ha la trasposizione di soggetti, o la finzione di un requisito civilistico, o l’imitazione estensiva di un’actio). Sul tema cfr. pure I. Alibrandi, Delle azioni dirette ed utili, in Giornale di giurisprudenza teorico-pratica I, 1870, 129 ss., n.v. (= Opere giuridiche e storiche, I, Roma 1896, 149 ss.).

 

[113] Potrebbe essere superfluo sottolineare che l’actio è utilis solo quando vi sia espansione di un’azione e non nel caso di una creazione ex novo da parte del pretore di una nuova azione: il che comporta, ovviamente, anche il profilo dell’estensione del regime sostanziale.

 

[114] Ampia e dettagliata bibliografia si può rinvenire in F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., 48, il quale esamina singolarmente i passi più significativi nei quali la contrapposizione tra azioni directae e utiles emerge in maniera ancora più netta che in Gai. 3.84: si tratta di Pap. 4 resp. D. 23.4.26.3, Ulp. 9 ad ed. D. 3.3.27.1, Ulp. 4 ad ed. praet. D. 44.7.37 pr. e di Paul. 1 sent. D. 3.5.46.1. Cfr. pure, altrettanto significativo, Pap. 16 resp. D. 48.23.3.

 

[115] In particolar modo, con riferimento a quest’ultima aggettivazione, l’actio utilis, in contrapposizione all’actio inanis, per la quale mancano le condizioni di esperibilità, sta ad identificare un’azione esperibile o esperita efficacemente.

 

[116] È l’ipotesi, assolutamente fantasiosa, di R. Sotty, Les actions qualifiées d’utiles cit., 139 ss., il quale vi ravvisa anche una contrapposizione simmetricamente inversa del dare utilem actionem al denegare actionem, in quanto in questo caso attraverso la concessione di un’azione altrimenti destinata all’insuccesso il pretore costringe il convenuto a cooperare (V. pure Id., Recherches sur les utiles actions cit., 381 ss., 611 ss.). Su quest’ultimo tema v. per tutti A. Metro, La denegatio actionis, Milano 1972, 92 ss.

 

[117] In tal senso S. Riccobono, Formulae ficticiae cit., 5. Cfr. pure Id., Corso cit. 211 ss.

 

[118] E. Valiño, Actiones ficticiae, Pamplona 1974, 343.

 

[119] A. D’Ors, Sobre las pretendidas actiones reales in factum, in Iura 20, 1969, 115.

 

[120] Su questo aspetto mi sembra di poter concordare con R. Sotty, Les actions qualifiées d’utiles cit., 140 ss. Sul punto v. anche C. Furia, Gai 3.84 cit., 123.

 

[121] Più cautamente, sia pur con diverse angolazioni, anche G. Wesener, Utiles actiones in factum, in Studi E. Betti 4, Milano 1962, 493 ss.; W. Selb, Formulare Analogien in actiones utiles und actiones in factum am Beispiel Julians, in Studi A. Biscardi 3, Milano 1982, 315 ss.; G. Thielmann, Actio utilis und actio in factum zu den Klagen im Umfeld der lex Aquilia, in Studi A. Biscardi 3 cit., 2, 295 ss., collegano detta qualifica solo alle formulae in ius conceptae.

 

[122] In tal senso non hanno dubbi M. Talamanca, Processo civile cit., 62, e G. Pugliese, Istituzioni cit., 331 s. Pure E. Betti, Diritto romano I, Parte generale, Padova 1935, 519, riconduceva alle actiones utiles i due meccanismi della fictio e della trasposizione di soggetti, «l’una col ricollegare le conseguenze proprie di una data fattispecie ad una fattispecie stimata analoga, l’altra col deviarle in capo ad una persona diversa alterando il valore dell’intentio quale premessa della condemnatio». Nella stessa prospettiva si muove anche G. Nicosia, Institutiones. Profili di diritto privato romano I, Catania 1997, 174 s. (in senso conforme Id., Nuovi profili istituzionali essenziali di diritto romano, 2a ed., Catania 2002, 90), il quale afferma che il sintagma actio utilis talora ricorre «per indicare precisamente un’actio nella cui formula compare una fictio, talora in senso più generico, in riferimento ad altri adattamenti o estensioni». Cfr. inoltre C.A Cannata, Profilo istituzionale cit., 131.

 

[123] Difatti, entrambe le espressioni, pur mettendo in rilievo profili diversi, esprimono la stessa realtà processuale: ed in tal senso cfr. in particolare M. Kaser, Das römische Zivilprozessrecht cit., 238. G. Finazzi, Ricerche in tema di negotiorum gestio, II.1. Requisiti delle actiones negotiorum gestorum, Cassino 2003, 446 nt. 259, precisa che «mentre con actio utilis si insiste sulla funzione di fornire un mezzo processuale idoneo, con actio ad exemplum si pone l’accento sul modello al quale tale mezzo è ispirato e dunque è improbabile che le due terminologie integrassero fenomeni diversi dal punto di vista della tecnica formulare». Su dette azioni v. soprattutto G. Wesener, Actiones ad exemplum, in ZSS 75, 1958, 220, il quale sottolinea come non le si possa inquadrare in una categoria unitaria, e che la loro caratteristica sia quella di essere «nachgebildete Klagen». Lo stesso studioso afferma inoltre che queste stesse azioni andrebbero a loro volta distinte da quelle strutturate con il termine quasi, sulle quali v. più approfonditamente Id., Zur Denkform des quasi in der römischen Jurisprudenz, in Studi Donatuti 3, Milano 1973, 1387 ss. Per l’uso dell’avverbio quasi cfr. pure, nello specifico, in un costante confronto tra antico e moderno, K. Hackl, Von “quasi” im römischen zum “als ob” im modernen Recht, in Rechtsgeschichte und Privatrechtsdogmatik, Heidelberg s.d. ma 1999, 117 s. e T. Giaro, L’art de comparer le cas, in SDHI 60, 1994, 522 ss. Altre considerazioni in A. Lovato, Studi sulle disputationes di Ulpiano, Bari 2003, 273 ss.

 

[124] Una rapida scorsa ai passi contenuti nel Digesto nei quali compare in tal senso l’aggettivazione con riferimento ad un’actio può essere sufficiente ad accogliere questo orientamento: cfr. Ulp. 9 ad ed. D. 3.3.27.1, Paul. 1 sent. D. 3.5.46 (47).1, Ulp. 15 ad ed. D. 5.3.13.10, Ulp. 18 ad ed. D. 9.2.13 pr., Ulp. 4 ad ed. praet. D. 44.7.37 pr., Pap. 16 resp. D. 48.23.3. V. pure Coll. 10.7.8 e Inst. Iust. 4.3.16.

 

[125] R. Sotty, Les actions qualifiées d’utiles cit., part. 142.

 

[126] In senso conforme si può richiamare solo R. Stolmar, Actio utilis. Grundlagen, Wesen, Voraussetzungen, Anwendungen, Wirkungen. I. Die genesis der utilis actio aus der Celsinischen Durchgangstheorie, Sindelfingen 1984, passim; Id., Die formula der actio utilis, Sindelfingen 1992, 47 ss.

 

[127] G. Falcone, Appunti sul IV commentario cit., 74.

 

[128] Peraltro, anche la compattezza tra il ficto se herede del paragrafo 34, relativo al bonorum possessor, e del paragrafo 35, relativo al bonorum emptor, appare perfettamente coordinata in uno schema espositivo unitario.

 

[129] C. Furia, Gai 3.84 cit., 125.

 

[130] F. Mercogliano, Actiones ficticiae cit., part. 60 e 142.

 

[131] In tal senso cfr. anche P. Collinet, La nature des actions, des interdits et des exceptions dan l’oeuvre de Justinien, Nemours 1947, 451.

 

[132] È bene anche sottolineare come il verbo rescindere non sia particolarmente ricorrente nel lessico gaiano: infatti, oltre che nei tre passi qui richiamati, lo si ritrova nelle Institutiones solo altre due volte, in 1.46 e in 2.143. Cfr. P. Zanzucchi, Vocabolario delle Istituzioni di Gaio, Milano s.d. ma 1910, rist. anast. Torino 1961, 102, ed i nuovi supporti informatici.

 

[133] U. Betti, Diritto romano cit., 522.

 

[134] Sui due passi cfr. pure S. Di Paola, Contributi ad una teoria della invalidità e della inefficacia in diritto romano, Milano 1966, 58 ss.

 

[135] Cfr. Gai 3.18. Hactenus lege XII tabularum finitae sunt intestatorum hereditates. quod ius quemadmodum strictum fuerit, palam est intellegere, e Gai 3.25: Sed hae iuris iniquitates edicto praetoris emendatae sunt.

 

[136] U. Robbe, La hereditas iacet cit., 176.

 

[137] La fictio, come osserva P. Voci, Diritto ereditario romano, I, Milano 1960, 181, certamente si trovava nell’editto pretorio. In tal senso cfr. O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 343, il quale propone la seguente ricostruzione della clausola: …his qui in poteste morientis fuerunt fuissentve si capite deminuti non essent

 

[138] D’altro canto, occorre comunque considerare che doveva necessariamente trattarsi di soggetti divenuti sui iuris e rimasti tali, in quanto diversamente la potestà finta, che deriva dalla rescissione della capitis deminutio, sarebbe andata ad urtare contro quella reale del padre adottivo.

 

[139] In relazione alla quale è fondamentale Gai 3.26: nam liberos omnes, qui legitimo iure deficiuntur, vocat ad hereditatem, proinde ac si in potestate parentis mortis tempore fuissent, sive soli sint sive etiam sui heredes, id est qui in potestate patris fuerunt, concurrant. Il passo, per essere meglio compreso, deve essere confrontato con il paragrafo immediatamente successivo: Agnatos autem capite deminutos non secundo gradu post suos heredes vocat, id est non eo gradu vocat, quo per legem vocarentur, si capite deminuti non essent; sed tertio proximitatis nomine; licet enim capitis deminutione ius legitimum perdiderint, certe cognationis iura retinent. Itaque si quis alius sit qui integrum ius agnationis habebit, is potior erit, etiamsi longiore gradu fuerit.

 

[140] V. infra, paragrafo 8.

 

[141] F. Carrelli, D. 4.5.2.1 cit., 142 s.

 

[142] O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 117 n. 4. In tal senso anche A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 129. A parte la costruzione del passo con il presente (sit) al posto dell’imperfetto (esset), cui lo stesso Lenel non sembra dare particolare peso, non mi sembra che vi possano essere dubbi sulla riferibilità dell’inciso, da un punto di vista logico, al di là della genericità che risulta dall’id, più a capite deminuti deminutave esse dicentur che ad actum contractumve.

 

[143] Diversamente, ma senza alcun supporto testuale, G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis cit., 160, il quale sostiene invece che Gaio desse conto della restitutio contenuta nell’editto.

 

[144] Critica nei confronti di F. Carrelli, op. loc. cit., è anche C. Furia, Gai 3.84 cit., 129 s.

 

[145] Paul. 1 ad ed. D. 50.1.26 pr.-1: Ea, quae magis imperii sunt quam iurisdictionis, magistratus municipalis facere non potest. Magistratibus municipalibus non permittitur in integrum restituere aut bona rei servandae causa iubere possideri aut dotis servandae causa vel legatorum servandorum causa. In definitiva, Paolo attribuisce all’in integrum restitutio natura mista, fondandola prevalentemente sull’imperium piuttosto che sulla iurisdictio: motivo per il quale detto rimedio, insieme alle missiones in possessionem e alle stipulationes pretoriae è estraneo ai poteri dei magistrati municipali. Nella stessa prospettiva si pone pure Ulpiano, il quale in 1 ad ed. D. 2.1.4 afferma: Iubere caveri praetoria stipulatione et in possessionem mittere imperii magis est quam iurisdictionis. Sui due testi e, più in generale, sul problema degli atti magis imperii quam iurisdictionis, v. in particolare G. Pugliese, Il processo formulare cit., 70 ss. Cfr. inoltre F. Fabbrini, Per la storia della restitutio in integrum, in Labeo 13, 1967, 201 ss. 

 

[146] Tra queste cause si possono menzionare il metus, il dolus malus, la minore età, il falsus tutor, l’absentia rei publicae causa, l’alia iusta causa, l’alienatio iudicii mutandi causa facta, la fraus creditorum.

 

[147] Non vi sono invece dubbi sul senso da attribuire all’espressione cognitio causa – o meglio alla sua forma assoluta causa cognita – con riferimento al pretore come valutazione discrezionale delle circostanze. A tal riguardo cfr. R. Martini, Il problema della causae cognito pretoria, Milano 1960, 44.

 

[148] Per una diversa interpretazione si veda B. Albanese, Capitis deminutio cit., 64, il quale invece affida alla discrezionalità del pretore, “causa cognita”, dunque, la possibilità di convenire in giudizio i capite deminuti.

 

[149] In tal senso F.C. Savigny, Sistema cit., II, 89; A. Bethmann-Hollweg, Der römische Civilprozess, II, Bonn 1865, 750; M. Cohn, Beiträge cit., II, 308, O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte II, Leipzig 1901, 1084 s.; F. Girard, Manuel cit., 1128 nt. 7; P. Bonfante, Corso I cit., 171; M. Lauria, Iurisdictio, in Studi Bonfante II, cit., 513; più di recente, R. Martini, Il problema della causae cognitio cit., 74 ss.

 

[150] F. Carrelli, D. 4.5.2.1 cit., 141 ss.; Id. Decretum e sententia nella restitutio in integrum, in Ann. Bari 1, 1938, 130 e nt. 1.

 

[151] G. Cervenca, Studi vari sulla restitutio in integrum, Milano 1965, part. 9. Peraltro, lo stesso studioso giunge alla conclusione (21) che ogni qual volta nelle fonti si parla di “postulare in integrum restitutionem” questo equivalga, in fondo, al “postulare cognitionem (de in integrum restitutione)”.

 

[152] D. 4.1.3: Omnes in integrum restitutiones causa cognita a praetore promittuntur, scilicet ut iustitiam earum causarum examinet, an verae sint, quarum nomine singulis subvenit.

 

[153] In tal senso cfr. in particolare F. Carrelli, D. 4.5.2.1 cit., 146, Id., Decretum e sententia cit., 123 nt. 1; R. Orestano, Ius singulare e privilegium in diritto romano, in Ann. Macerata 12-13 (1939), 62 nt. 3; M. Lemosse, Cognitio. Étude sur le rôle du juge dans l’instruction du proces civil antique, Paris 1944, rist. anast. Roma 1971, 202 ss.; G. Cervenca, Studi vari cit., 17 s.

 

[154] Su posizioni opposte è invece R. Martini, Il problema della causae cognitio cit., 74 ss., il quale ritiene che l’affermazione di Modestino dovesse essere stata formulata diversamente, riguardando solo la restitutio dei minori, e che fosse stata poi generalizzata dai compilatori, o quanto meno, che fosse stata inserita in un discorso, a noi non conosciuto e non conoscibile, che avesse una portata più limitata e comunque diversa da quella che poi ha avuto.

 

[155] Sul significato di iustitia v., in generale, A. Carcaterra, Iustitia nelle fonti e nella storia del diritto romano, Bari 1951.

 

[156] Questa prima fase era stata denominata dalla dottrina più antica, con un’espressione ormai abbandonata, data la mancanza di ogni supporto testuale, iudicium rescidens.

 

[157] Tale ipotesi è stata sostenuta in particolare da E. Carrelli, Decretum e sententia cit., 129 ss. (del quale v. pure L’actio Publiciana rescissoria, in SDHI 3, 1937, 20, e Sul beneficium restitutionis, in SDHI 4, 1938, 7) sulla scorta di un’opinione avanzata da G.C. Burchardi, Die Lehre von Wiedereinsetzung in den vorigen Stand, Göttingen 1831, 454 ss., ed accolta principalmente da J. Duquesne, Cicéron “Pro Flacco” chap. 30-32 et l’in integrum restitutio, in Annales de l’Univ. de Grenoble, 1908, 33 ss.; E. Levy, Zur nacklassischen in integrum restitutio, in ZSS 86, 1951, 362 ss., ora in Gesammelte Schriften I, Köln Graz 1963, 446; M. Kaser, Römisches Privatrecht, 3a ed., München-Berlin 1964, 322. Da queste ipotesi si discosta di poco quella di L. Wenger, Istituzioni di procedura civile romana cit., 243, secondo il quale il magistrato avrebbe talvolta affidato l’indagine ad un iudex, che avrebbe deciso nel c.d. iudicium rescidens la sussistenza o meno degli estremi per la restituzione.

 

[158] Dopo una prima apertura in tal senso da parte di O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte cit., II, 1090 ss., secondo il quale il pretore accordava la restitutio solo concedendo l’actio rescissoria (o un’exceptio), senza ammettere alcun decretum; l’ipotesi è stata sostenuta in maniera più pervicace da M. Lauria, Iurisdictio cit., 514 ss., e seguita dalla maggior parte della dottrina. In tal senso v., tra gli altri, G. Impallomeni, Studi sui mezzi di revoca degli atti fraudolenti nel diritto romano classico, Padova 1958, 46 ss.; M. Amelotti, Actiones perpetuae e actiones temporales nel processo formulare, in SDHI 22, 1956, 185 ss., ora in Scritti giuridici, a cura di L. Migliardi Zingale, Torino 1996, 371; G. Cervenca, Studi vari cit., 27 ss.

 

[159] Si tratterebbe, nello specifico, di soli quattro testi giuridici: Ulp. 6 ad ed. D. 3.1.1.10, Mod. 2 resp. D. 4.4.29.2, Scaev. 1 resp. D. 4.4.47.1 e C.I. 2.39.2. Inoltre, qualche accenno ad un decretum di restitutio si ritrova nella Pro Flacco di Cicerone, in 21.49 e 31.76, e in 32.77-78, con riferimento a casi di applicazione della procedura nelle provincie.

 

[160] F. Carrelli, Decretum e sententia cit., 209 s..

 

[161] Al contrario, i passi che nominano una sententia di in integrum restitutio sono pochi ed insospettabili: in tal senso G. Cervenca, Studi vari cit., 27 s. e nt. 66.

 

[162] Fra questi, sono particolarmente significativi Ulp. 9 ad ed. D. 3.3.39.6 e Gai. 3 ad ed. prov. D. 3.3.46.3. Altri riferimenti testuali più specifici si possono trovare in G. Cervenca, Studi vari cit., 48 ss.

 

[163] Sul punto cfr. P. Voci, L’errore nel diritto romano, Milano 1937, 244 ss. Di contro, v’è anche da rilevare come in nessuno dei due passi vi sia menzione, ad esempio, dell’alienatio iudicii mutandi causa facta, che invece è prevista dall’editto.

 

[164] Cfr. P.S. 1.7.2: Integri restitutionem praetor tribuit ex his causis, quae per metum dolum et status permutationem et iustum errorem et absentiam necessariam et infirmitatem aetatis gesta esse dicuntur.

 

[165] Sulla non classicità delle Pauli Sententiae, ormai comunemente ammessa in dottrina, v. in particolare D. Liebs, Römische Jurisprudenz in Africa. Mit Studien zu den pseudopaulinischen Sentenzen, Berlin 1993, 28 ss.

 

[166] Non è da condividere l’ipotesi di F. Carrelli, D. 4.5.2.1 cit., 95 ss., che attribuisce a Paolo l’enorme errore di chiamare iudicium una restitutio in integrum. Sul punto cfr. C. Furia, Gai 3.84 cit., 128.

 

[167] Sul passo, ed in particolare sulla sua non previsione originaria di un’azione, cfr. G. Impallomeni, Studi sui mezzi di revoca cit., 12 ss.

 

[168] Mi avvalgo dell’autorità di F.C. Savigny, Sistema cit., II, 2, 85 nt. n. il quale, basandosi sui pochi testi pervenutici, ammette nel caso di specie la configurabilità di una restitutio in integrum, anche se “anomala”: ed infatti, la considera molto diversa, per esempio, da quella dei minorenni.

 

[169] M. Lauria, Iurisdictio cit., 517.

 

[170] Mette in risalto, seppur rapidamente, l’analiticità della formulazione del testo edittale E. Bianchi, Fictio iuris cit., 335.

 

[171] Gai 3.84: Ex diverso quod is debuit qui se in adoptionem dedit, quaeve in manum convenit…ed ancora, nello stesso passo, più avanti:…et ne ipse quidem qui se in adoptionem dedit, quaeve in manum convenit, maneat obligatus obligatave, quia scilicet per capitis deminutionem liberetur, tamen in eum eamve utilis actio datur rescissa capitis deminutione

 

[172] Gai 4.38: deminutus deminutave fuerit, velut mulier per coemptionem, masculus per adrogationem…introducta est contra eum eamve utilis actio.

 

[173] Su tali presupposti cfr. in particolare l’approfondita disamina di M. Miceli, Sulla struttura formulare delle actiones adiecticiae qualitatis, Torino 2001, 229 ss.

 

[174] Mentre, infatti, la responsabilità nossale è ambulatoria, nel senso che è strettamente legata allo schiavo o al figlio, e lo segue in tutte le vicende potestative successive, quella sanzionata dall’actio de peculio è strettamente collegata al soggetto che esercita il rapporto potestativo al momento della conclusione del negozio, permanendo in capo ad esso indipendentemente dalle modifiche nei rapporti potestativi.

 

[175] In tal senso, a ragione, F. Dessertaux, Études cit., II, 352, il quale in considerazione di ciò ravvisa pure, in un certo senso, un effetto retroattivo dell’adrogatio. D’altro canto, una simile interpretazione potrebbe trovare un utile supporto in Pomp. 7 ad Sab. D. 33.8.7: Si quis creditori suo adrogandum se dederit et egetur de peculio cum adrogatore, idem puto dicendum, quod de herede dicitur. La testimonianza, che ammette l’esperibilità dell’actio de peculio per un credito anteriore all’arrogazione, ha un suo particolare interesse, in quanto è da considerare come questo giurista, pur essendo un sabiniano, attraverso tale affermazione potrebbe dimostrare, in fondo, di condividere la dottrina proculiana, effettivamente poi prevalsa.

 

[176] Su tale principio v. in particolare H. Niederländer, Die Bereicherungshaftung im klassischen Recht, Weimar 1953, e M. Talamanca, In tema di azioni di arricchimento, in AG 146, 1964, 33 ss. V. anche, in ambiti più specifici, i più recenti contributi di L. Labruna, Rescriptum divi Pii. Gli atti del pupillo sine tutoris auctoritate, Napoli 1962; K. Misera, Der Bereicherungsgedanke bei der Schenkung unter Ehegatten, Köln Wien 1974; S. Heine, Condictio sine datione. Zur Haftung aus ungerechtfertiger Bereicherung im klassischen römischen Recht und zur Entstehung des Bereicherungsrechts im BGB, Berlin 2006; J.D. Harke, Geschäftsführung und Bereicherung, Berlin 2007.

 

[177] Cfr. Ulp. 2 disp. D. 15.1.32 pr.: …quod ubicumque est veluti patrimonium intuetur. Cfr. pure Inst. Iust. 4.6.10.

 

[178] S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio cit., 179 nt. 52, richiama al proposito Paul. 4 ad Plaut. D. 15.1.47.6, dove si afferma che ciò che si è detto per la vendita si deve applicare a qualsiasi mutamento del dominium: …quia quasi patrimonium liberi hominis peculium servi intellegitur, ubicumque esset.

 

[179] Al riguardo B. Albanese, Capitis deminutio cit., 64 nt. 81, rileva come tale idea si nota già in Cic. Top. 23, dove il patrimonio della uxor in manu è considerato come una specie di dote. Peraltro, detta idea sarà portata alle sue estreme conseguenze nel diritto giustinianeo, rimanendo la titolarità dei bona in capo allo stesso adrogatus.

 

[180] F. DESSERTAUX, Études cit., II, 352.

 

[181] C. Furia, Gai 3.84 cit., 112 ss.

 

[182] D. 44.7.39: Filius familias ex omnibus causis tamquam pater familias obligatur et ob id agi cum eo tamquam cum patre familias potest.

 

[183] Dunque, la convenibilità del filius familias sarebbe da intendere anche per le obbligazioni da delitto. Sul problema cfr. B. Albanese, Le persone cit., 275 nt. 314.

 

[184] L. Di Lella, Formulae ficticiae cit., 184 ss. In senso conforme all’ipotesi del Di Lella v. pure F. D’Ippolito, Tagliacarte, in Labeo 30, 1984, 380 s. e F. Salerno, Dalla consecratio alla publicatio bonorum, Napoli 1990, 209.

 

[185] S. Longo, Filiusfamilias se obligat cit., 126 nt. 72.

 

[186] U. Bianchi, Fictio iuris cit., part. 327.

 

[187] Si deve concordare con F. Gallo, Eredità di Labeone in materia contrattuale, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano (Milano, 7-9 aprile 1987), I, Milano 1988, 41 ss., ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova 2006, 142, il quale, nonostante opinioni differenti, esclude che i riferimenti al gestum possano essere attribuibili a Labeone o ad Ulpiano.

 

[188] È la prospettiva convincente di L. Garofalo, Contratto, obbligazione e convenzione in Sesto Pedio, in Le dottrine del contratto cit., part. 346 ss. (=Studi per Giovanni Nicosia, IV, Milano 2007, 15 ss.), il quale sottolinea come quella dell’atto e del contratto siano «due categorie in relazione di contiguità». Se, dunque, si prova a leggere da questa angolazione anche il testo edittale al quale si fa riferimento, non appare condivisibile l’opinione di A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 129, secondo il quale l’endiadi actum contractumve sarebbe riferibile ai debiti non contrattuali e a quelli propriamente contrattuali.

 

[189] In tal senso F. Dessertaux, Études cit., I, 75 nt. 2, e II, 304, 356; Id., Contribution a l’étude de l’edit cit., 425 ss. Lo studioso francese dubita però che l’editto di cui era a conoscenza Labeone, che egli definisce “primitivo” per distinguerlo da quelli posteriori, avesse la stessa portata di quello inserito da Salvio Giuliano nell’editto perpetuo. V. pure M. Voigt, Das ius naturale cit., 683 ss. e nt. 1137.

 

[190] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Leipzig 1889, rist. anast. Roma 2000, 502 nt. 3.

 

[191] Sulla sostituzione da parte dei compilatori della perifrasi “eos ad quos bona pervenerunt” al posto del sector cfr. F. Salerno, Dalla consecratio alla publicatio bonorum cit., 208.

 

[192] O. Lenel, Das Edictum perpetuum cit., 117 nt. 4.

 

[193] Eisele, Beiträge zur römischen Rechtsgeschichte cit., 161.

 

[194] In tal senso in particolare U. Coli, Capitis deminutio cit., 158 ss.; F. Dessertaux, Capitis deminutio cit., 86 ss.; da ultimo B. Albanese, Capitis deminutio cit., 35 nt. 6. Va comunque segnalata anche la differente opinione di M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio cit., 48 ss., 53 ss. e 85 ss.; Id., Das römische Privatrecht, München 1971, 271, il quale sostiene invece che storicamente capitis deminutio sarebbe stata solo quella consistente nella perdita della cittadinanza e della libertà. L’illustre studioso avrebbe trovato, tra l’altro, conferma alla sua ipotesi, alla quale non fornisce però alcun supporto attendibile, nella congettura che prima dell’introduzione dell’editto de capite deminutis la conventio in manum e l’adrogatio non avrebbero comportato capitis deminutio.

 

[195] È l’argomentazione che ha utilizzato C. Furia, Gai 3. 84 cit., 118.

 

[196] Si deve al riguardo comunque considerare che tra le diverse fictiones riportate nell’elencazione gaiana questa è sicuramente la più ardita, denotando, rispetto alle altre, il più alto grado di astrazione: così E. Bianchi, Fictio iuris cit., 336.

 

[197] Per la verità, C. Furia, Gai 3.84 cit. 119, parla indifferentemente di coinvolgimento del terzo nel «rapporto obbligatorio». A me sembra, invece, più corretto distinguere le due situazioni, e parlare in questo caso di rapporto processuale.

 

[198] Anche qui non mi sembra di poter concordare con C. Furia, op. loc. cit., la quale invece ipotizza la contemporanea introduzione delle due azioni.

 

[199] Non lasciano spazio ad una interpretazione differente i passi di Gaio in precedenza richiamati, che la descrivono in questo modo.

 

[200] S. Solazzi, Studi sull’actio de peculio cit., 178 ss., non dubita affatto della possibilità per il creditore, una volta introdotta l’actio de peculio, di ricorrere indifferentemente all’actio ficticia contro il proprio debitore o all’actio de peculio contro l’avente potestà su di lui qualora la sua pretesa creditoria non avesse potuto trovare soddisfazione. Cfr. pure B. Albanese, Capitis deminutio cit., 64. 

 

[201] Rimane invece dubbiosa C. Furia, Gai 3.84 cit., 120, la quale peraltro mette in evidenza come nessun cenno alla concorrenza delle azioni esiste nell’opera di E. Levy, Die Konkurrenz der Aktionen, II, Berlin 1964.

 

[202] Osserva P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 122, nt. 11, che qui la frase è ellittica, mancando il verbo della subordinata ipotetica introdotta dal si.

 

[203] Anche se, come fa rilevare M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 62 nt. 434, il suo impiego è «chiaramente finalizzato al contesto topico della discussione, dal quale qualsiasi estrapolazione può risultare soggetta ad estrema cautela».

 

[204] In tal senso O. Gradenwitz, Natur und Sklave bei der naturalis obligatio, in Festgabe T. Schirmer, Königsberg 1900, 31; H. Siber, Naturalis obligatio cit., 10; S. Perozzi, Istituzioni cit., II, 45 e nt. 1; E. Albertario, A proposito di naturalis obligatio, in AG 102, 1929, 239, ora in Studi cit. 3, Milano 1936, 68; G. Segré, Obligatio, obligare, obligari nei testi della giurisprudenza classica e al tempo di Diocleziano, in Studi Bonfante III, cit., 605 nt. 312, ora in Scritti vari di diritto romano, Torino 1952, 392 nt. 314; J. Vážný, Naturalis obligatio cit., 172; W. Flume, Studien zur Akzessorietät der römischen Bürgschaftsstipulationen, Weimar 1932, 99 nt. 2; V. De Villa, Studi cit., 55 ss., 135 nt. 15; F. De Martino, Le garanzie personali dell’obbligazione, I, Roma 1940, 96 nt. 2; M. Kaser, Zur Geschichte der capitis deminutio cit., 48; A. Burdese, La nozione classica cit., 112 ss; Id., Dubbi cit., 508, e, più in generale, Id., Manuale di diritto privato romano, Torino 1975, 611 nt. 6 (v. anche Id., La naturalis obligatio cit., 220, dove sembra cambiare l’opinione espressa in precedenza, affermando che la frase potrebbe essere genuina); P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I, Le garanzie personali, Padova 1962, 80; S. Longo, Filius familias se obligat cit., 130 s. Ne sostengono invece la classicità J.A.C. Thomas, Naturalis obligatio pupilli, in Sein und Werden im Recht, Festgabe für von U. Lubtow, Berlin 1970, 475 s.; G.E. Longo, Ricerche cit., 151 ss., e P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 120 ss. Da ultima, L. DI CINTIO, L’obbligo del pupillo tra naturalis obligatio e vinculum aequitatis, in SDHI 74, 2008, 480 s., si pone su di un piano differente. L’autrice non ritiene infatti che il termine naturaliter debba necessariamente riferirsi alla obligatio per il solo fatto di essere vicino al verbo obligari, e attribuisce ad esso un valore autonomo, ricavandone in definitiva, in maniera non persuasiva, che in D. 4.5.2.2 non si parlasse di obbligazioni naturali.

 

[205] Non ravvisa invece alcun contrasto tra le due affermazioni A.D. Manfredini, rec. a S. Longo cit., in Iura 55, 2004-05, 256.

 

[206] Gai 3.84: …et ne ipse quidem, qui se in adoptionem dedit quaeve in manum convenit, maneat obligatus obligatave, quia scilicet per capitis deminutionem liberetur….

 

[207] Gai 4.38: …desinit iure civili debere nobis, nec directo intendi potest sibi dare eum eamve oportere

 

[208] O. Gradenwitz, Natur und Sklave cit., 31.

 

[209] Diversamente G. Broggini, Obligatio naturalis cit., 381, il quale con eccessiva disinvoltura ipotizza che il riferimento di Ulpiano fosse limitato alle obbligazioni naturali pregresse alla permutatio status, nel senso che queste (e solo queste) continuassero a sussistere, non potendo un istituto civilistico quale è la capitis deminutio distruggere un diritto di credito naturale.

 

[210] Può essere interessante al riguardo la lettura di uno squarcio dello scholio 3 al passo corrispondente dei Basilici, 46.2.1 (Ed. Scheltema-Holwerda, Groningen-Gravenhage, 1965, B VII, 2737) nel quale si afferma che il pretore interviene a sanzionare un obbligo fondato sul ius naturale: lšgei dš Ð OÙlpianÒj, Óti oƒ k£pitij Øpost£ntej deminout…ona kaˆ tucÕn e„j qšsin ˜autoÝj ™pidedwkÒtej, ØpŸr mŸn tîn prÕ tÁj k£pitij deminout…onoj sunallagm£twn mšnousi fusikîj e„j ÐlÒklhron ™necÒmenoi: tù g¦r politikù nomJ teqn£nai dokoàsi. kaˆ di¦ toàto d…dwsin e„j ÐlÒklhron kat\ autîn tÕn eskissÒrion tÚpon Ð pra…twr, ™peid¾ kat¦ fÚsin ™nšcontai. tù dš fusikù dika…J pantacoà sunršcein Ð pra…twr e‡wqe.

 

[211] In tal senso, sostanzialmente, H. Siber, Naturalis obligatio cit., 10; E. Albertario, Naturalis obligatio cit., 57 ss.; F. Pringsheim, rec. a Siber, in ZSS 46, 1926, 355; J. Vážný, Naturalis obligatio cit., 170 ss.; V. De Villa, Studi cit., 30 ss.; A. Burdese, La nozione classica cit., 111 ss., Id., Dubbi in tema di naturalis obligatio, 508 ss.

 

[212] Scaev. 1 resp.: Servus effectus non idcirco, quod postea indulgentia principali libertatem consecutus est, redisse dicitur in obligationem creditorum.

 

[213] Cfr. O. Lenel, Palingenesia cit., II, 292 nt.1, il quale propende per il suo inserimento nel titolo de capite minutis oppure in quello del SC. Velleiano. In senso conforme v. pure, tra gli altri, H. Siber, Naturalis obligatio cit., 10; V. De Villa, Studi cit., 55; A. Burdese, La nozione classica cit., 131; M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 64 nt. 448.

 

[214] A. Burdese, La naturalis obligatio cit., 215 s.

 

[215]…cum vero genere novationis transeat obligatio, fideiussorem aut iure aut exceptione liberandum. Al riguardo, cfr. M. Talamanca, rec. a P. Sturm, Stipulatio Aquiliana. Textgestalt und Tragweite der aquilianischen Ausgleichsquittung im klassischen römischen Recht, München 1972, in BIDR 76, 1973, 305 ss.

 

[216] In relazione all’utilizzo dell’espressione natura debitum, o di quelle altre sentite come tendenzialmente equivalenti a quella di naturalis obligatio (o naturaliter obligari), quali naturale debitum, o natura debere, in realtà, come osserva M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 59 ss., resta ancora da vedere se alla diversità dell’espressione possa corrispondere o meno «un’eventuale, seppur non esclusiva, specializzazione semantica».

 

[217] Cfr. in tal senso M. Talamanca, s.v. Fideiussione: a) parte storica, in ED. 17, Milano 1968, 335 s., il quale mette in risalto la differenza tra la motivazione del perdurare della responsabilità del fideiussor in caso di capitis deminutio minima del reus, o di altre capitis deminutiones dello stesso. Nel primo caso, infatti, essa va ricercata nella naturalis obligatio del capite deminutus, da ancorarsi o meno all’actio ficticia rescissa capitis deminutione, concessa in questo caso dal pretore; nelle altre capitis deminutiones, invece, deve essere ricercata nella circostanza che la capitis deminutio non comporta l’estinzione dell’obbligazione del debitore principale. Non hanno trovato, infatti, rispetto a quest’ultima affermazione, riscontro i tentativi di dimostrazione in contrario di W. Flume, Studien cit., 95 ss., nonostante l’adesione di F. De Martino, Le garanzie personali cit., 148.

 

[218] In particolare è questa la ricostruzione di H. Siber, Naturalis obligatio cit., 9 ss., seguito da S. Perozzi, Istituzioni cit., 45 nt. 1; V. De Villa, Studi cit.; E. Albertario, A proposito cit., 68 e Id. Corso cit., 96 ss.; G. Segré, Obligatio cit., 256 e 392 nt. 314; W. Flume, Studien cit., 99 nt. 2; A. De Martino, Le garanzie personali cit., 96 nt. 2; A. Burdese, La nozione classica cit., 112 s.: cum reus ita liberatur a creditore, ut iure honorario debitum maneat. Contra, v. G. Beseler, Romanistische Studien cit., 321 e 326. Per altro verso, è singolare l’opinione di P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni cit., 78, il quale afferma che la naturalis obligatio cui si riferiva qui Scevola è l’obbligazione da arricchimento.

 

[219] Sono le parole con cui si esprime A. Burdese, Dubbi in tema di naturalis obligatio cit., 485, richiamando altresì l’attenzione sul pensiero del Cuiacio in occasione della trattazione della naturalis obligatio pupilli. 

 

[220] Del resto, quello della naturalis obligatio è ormai un vero e proprio concetto tecnico che si trova spesso utilizzato nei passi di Ulpiano: in particolare ha una sua rilevanza in 73 ad ed. D. 20.1.14.1, 47 ad Sab. D. 46.1.8.3, 46 ad Sab. D. 46.2.1.1, o con qualche lieve variante terminologica, in 15 ad ed. D. 5.3.25.11, 40 ad Sab. D. 26.8.5 pr., 17 disp. D. 44.7.4, e in 48 ad Sab. D. 45.1.1.2. Così, sono altrettanto significativi i richiami al debitum naturale, anche questo nelle sue diverse varianti terminologiche che si leggono in 15 ad ed. D. 5.3.31.1, 27 ad ed. D. 13.5.1.17, 26 ad ed. D. 12.6.26.12, 29 ad ed. D. 15.1.11.2, 30 ad Sab. D. 16.2.6, e in 16 ad ed. D. 50.16.10.

 

[221] È l’opinione di M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 62. Resta aperto, comunque, ma non solubile, aggiunge lo studioso, il problema se «la concettualizzazione come obligatio naturalis sia dipesa da una completa coincidenza di effetti o non l’abbia, invece, per qualche aspetto marginale, favorita» (nt. 435).

 

[222] Cfr. in tal senso F.C. Savigny, Sistema cit., II, 2, 84.

 

[223] Iav. 2 ex post. Lab. D. 35.1.40.3: Dominus servo aureos quinque eius legaverat: ‘heres meus Sticho servo meo, quem testamento liberum esse iussi, aureos quinque, quos in tabulis debeo, dato’. nihil servo legatum esse Namusa Servium respondisse scribit, quia dominus servo nihil debere potuisset: ego puto secundum mentem testatoris naturale magis quam civile debitum spectandum esse, et eo iure utimur. 

 

[224] Riporto anche qui testualmente A. Burdese, La naturalis obligatio cit., 207.

 

[225] Potrebbe ben riferirsi all’obligatio naturalis del capite deminutus pure il laconico Ulp. 73 ad ed. D. 20.1.14.1: Ex quibus casibus naturalis obligatio consistit, pignus perseverare consistit. In tal senso cfr. M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 64 nt. 449.

 

[226] Com’è superfluo ricordare, Giuliano aveva ripreso gli insegnamenti del suo maestro Giavoleno.

 

[227] Ulp. 47 ad Sab. D. 46.1.8.3: Et post litem contestatam fideiussor accipi potest, quia et civilis et naturalis subest obligatio: et hoc et Iulianus admittit eoque iure utimur. an ergo condemnato reo exceptione uti possit, quaeritur: nam ipso iure non liberatur. et si quidem iudicati actionis acceptus non est, sed tantum litis exercitationis, rectissime dicetur uti eum exceptione posse: si vero acceptus fuerit etiam totius causae, cessabit exceptio. Si tratta di un testo difficilmente sospettabile nella sua prima parte, ma da utilizzare con cautela nella seconda. Tra le diverse interpretazioni dell’inciso et civilis et naturalis subest obligatio proposte dalla dottrina (tra queste, si deve menzionare quella di P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 228 ss., che intende, per giustificare la sua ipotesi di partenza, l’etet come un aut…aut, riportandolo al gioco tra iudicium legitimum e iudicium imperio continens), la più verosimile è senza dubbio quella di A. Burdese, La nozione classica di naturalis obligatio cit., 120 ss., condivisa peraltro anche da M. Talamanca nella sua recensione a P. Sturm cit., 306 nt. 30, a parere del quale il testo esprime la coesistenza tra il condemnari oportere come supporto all’obligatio civilis, ed il residuarsi dell’obbligazione sostanziale come obligatio naturalis. Sul passo più di recente è tornata G. Sacconi, Studi sulle obbligazioni solidali da contratto in diritto romano, Milano, 1973, 32 ss., con considerazioni che però non convincono appieno. Cfr. pure Ven. 15 stip. D. 46.8.8.1.

 

[228] Paul. 3 quaest. D. 12.6.60 pr.: Iulianus verum debitorem post litem contestatam manente adhuc iudicio negabat solventem repetere posse, quia nec absolutus nec condemnatus repetere posset: licet enim absolutus sit, natura tamen debitor permanet. similemque esse ei dicit, qui ita promisit, sive navis ex Asia venerit sive non venerit, quia ex una causa alterius solutionis origo proficiscitur. Il problema prospettato nel testo è quello di un debitore che, convenuto in giudizio, adempie dopo la litis contestatio e perdurando il iudicium. Questi, nella medesima fase del processo, non può, seguendo l’opinione di Giuliano, ripetere il pagato né in caso di assoluzione, che in quanto ingiusta lascerebbe sussistere un’obligatio naturalis, né tanto meno in caso di condanna, verificandosi nel caso di specie un’ipotesi simile a quella di chi promette sive navis ex Asia venerit sive non venerit sive navis ex Asia venerit sive non venerit, dove l’adempimento sarebbe comunque irripetibile, in quanto solutio indebiti. Dunque, qui il natura debere del debitore è chiaramente, come afferma M. Talamanca, rec. a F. Sturm cit., 305, l’obbligazione originaria, che persiste in modo affievolito dopo la sentenza assolutoria.

 

[229] Paul. 4 quaest. D. 36.1.61(59) pr. : Debitor sub pignore creditorem heredem instituit eumque rogavit restituere hereditatem filiae suae, <id est testatoris>: cum nollet adire ut suspectam, coactus iussu praetoris adit et restituit: cum emptorem pignoris non inveniret, desiderabat permitti sibi iure dominii id possidere, respondi: aditione quidem hereditatis confusa obligatio est: videamus autem, ne et pignus liberatum sit sublata naturali obligatione. atquin sive possidet creditor actor idemque heres rem sive non possidet, videamus de effectu rei. et si possidet, nulla actione a fideicommissario conveniri potest, neque pigneraticia, quoniam hereditaria est actio, neque fideicommissum, quasi minus restituerit, recte petetur: quod eveniret, si nullum pignus intercessisset: possidet enim eam rem quasi creditor. sed et si fideicommissarius rem teneat, et hic Serviana actio tenebit: verum est enim non esse solutam pecuniam, quemadmodum dicimus, cum amissa est actio propter exceptionem. igitur non tantum retentio, sed etiam petitio pignoris nomine competit et solutum non repetetur. remanet ergo propter propter pignus naturalis obligatio… Il centro della questione prospettata nel testo, che è quello che interessa ai fini dell’indagine proposta, è nel riconoscimento della persistenza del diritto di pegno, malgrado l’avvenuta estinzione dell’obbligazione per confusio. Essa dipenderebbe, a sua volta, dalla persistenza o meno di un’obligatio naturalis, nonostante l’estinzione dell’obligatio civilis.

 

[230] Tuttavia, come osserva M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 65 nt. 451, in questo caso si deve considerare come possa essere inutile andare a ricercare in un’obligatio naturalis il supporto alla soluti retentio, in quanto esiste ancora formalmente l’obligatio civilis, ancorchè paralizzata dall’exceptio sul piano del diritto onorario.

 

[231] Paul. 30 ad ed. D. 14.6.10: quia naturalis obligatio manet. È appena il caso di precisare, data la laconicità del testo a seguito del raccordo operato dai giustinianei con il testo precedente (Ulp. 29 ad ed. D. 14.6.9.4:…sed et ipse filius, et tamen non repetit, qui hi demum solutum non repetunt, qui ob poenam creditorum actione liberantur, non quoniam exonerare eos lex voluit. Quamquam autem solvendo non repetant), che esso serve a motivare l’irripetibilità del pagato da parte dei creditori liberati ob poenam creditorum, tra i quali è da ricomprendersi appunto il filius familias, obbligatosi a titolo di mutuo nonostante il disposto del SC Macedoniano. V’è da dire, sotto diverso profilo, che la frase in questione potrebbe non essere stata formulata a proposito di tale SC, ma con riferimento all’edictum ‘quod cum eo qui in aliena potestate est negotium gestum’, del quale Paolo si occupava nello stesso libro, in relazione al quale sarebbe potuto venire in considerazione con maggiore specificità il riferimento alla naturalis obligatio. In tal senso A. Burdese, La nozione classica cit., 115 nt. 14; Id., La naturalis obligatio cit., 218, seppur più cauto rispetto alla posizione espressa in precedenza. Cfr. pure Ven. 2 stip. D. 14.6.18, più circostanziato.

 

[232] Ulp. 3 ad ed. D. 2.2.3.7: ex hac causa solutum repeti non posse Iulianus putat: superesse enim naturalem causam, quae inhibet repetitionem. Si tratta di un caso spesso preso in considerazione dalla dottrina sull’argomento. Com’è evidente, però, il testo non menziona espressamente l’obligatio naturalis; quello che in esso si afferma, invece, è che non è possibile la ripetizione del pagato, esistendo una causa naturale che vi si oppone. Ora, come ha osservato al riguardo P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 247 ss., detta naturalis causa non può essere necessariamente ricondotta ad un tipo di concettualizzazione che trovi il suo riferimento nella naturalis obligatio: solo giustifica come, nel caso, non si possa fondare la condictio indebiti sull’esistenza dell’exceptio. Cfr. pure,  più conferente, Pomp. 22 ad Sab. D. 12.6.19 pr.: Si poenae causa eius cui debetur debitor liberatus est, naturalis obligatio manet et ideo solutum repeti non potest. Qui, a parte l’esplicito riferimento – sotto forma di un principio generale – alla permanenza dell’obligatio naturalis a prescindere dalla liberazione del debitore, il discorso è diverso in quanto, in linea di principio, comunque questi non sembra che sia liberato ope exceptionis.

 

[233] È quello che si può chiamare “debito puro”, che non importa una responsabilità ad esso organicamente congiunta, e che si differenzia dal debito che è, inoltre, esigibile in quanto strettamente correlato a detta responsabilità: in tal senso v. E. Betti, Teoria generale delle obbligazioni. II. Struttura dei rapporti d’obbligazione, Milano 1953, 51 s.

 

[234] È sicuramente da condividere l’opinione di A. Burdese, Dubbi in tema di naturalis obligatio cit., 308, a parere del quale il rifermento del testo è a qualsiasi causa, purchè anteriore alla capitis deminutio del soggetto obbligato, e non invece, come ritiene P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 120 ss., alle fattispecie obbligatorie causali in contrapposizione a quelle formali. Sulla stessa prospettiva di A. Burdese si pongono anche gli autori delle diverse recensioni al lavoro dello studioso francese: L. Labruna, in Iura 16, 1965, 413 ss.; G.E. Longo, in Labeo 12, 1966, 382; M. Kaser, in ZSS 88, 1966, 468; G. Broggini cit., 380 s. 

 

[235] In tal senso in particolare G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis cit., 156 s. e 173. V., contra, L. Labruna, rec. a Longo cit., 294. Cfr., inoltre, su posizioni analoghe, G. Donatuti, rec. a Longo cit., in BIDR 65, 1962, 316.

 

[236] P. CORNIOLEY, Naturalis obligatio cit., 128.

 

[237] Il termine è di Papiniano, giurista particolarmente incline a questioni di natura etica, e lo si trova in 28 quaest. D. 46.3.95.4: Naturalis obligatio ut pecuniae numeratione, ita iusto pacto vel iureiurando ipso iure tollitur, quod vinculum aequitatis, quo solo sustinebatur, conventionis aequitate dissolvitur: ideoque fideiussor, quem pupillus dedit, ex istis causis liberari dicitur. Sul passo cfr., tra i più recenti, G. Falcone, Obligatio est iuris vinculum, Torino 2003, 179 ss., il quale lo utilizza per mettere in risalto la netta contrapposizione esistente tra i due diversi vincula.

 

[238] Sulla valenza da attribuire alle espressioni ‘etico’ e ‘morale’ nell’esperienza giuridica romana cfr. A. Mantello, Un’etica per il giurista? Profili di interpretazione giurisprudenziale nel primo Principato, in Per la storia del pensiero giuridico romano da Augusto agli Antonini, a cura di D. Mantovani, Torino 1997, 170 s.

 

[239] P. Voci, Le obbligazioni romane I.1, Milano 1969, 20 nt. 53, rende il termine in italiano con “catacresi”, vale a dire con lo stesso termine greco con cui si indicava la figura retorica attraverso la quale una parola veniva utilizzata oltre il suo senso proprio e che i latini rendevano con abusio.

 

[240] Cfr. Iul. 53 dig. D. 46.1.16.4: Naturales obligationes non eo solo aestimantur, si actio aliqua eorum nomine competit, verum etiam cum soluta pecunia repeti non potest: nam licet minus proprie debere dicantur naturales debitores, per abusionem intellegi possunt debitores et, qui ab his pecuniam recipiunt, debitum sibi recepisse. A questo passo viene normalmente accostato Ulp. 43 ad Sab. D. 15.1.41: Nec servus quicquam debere potest nec servo potest deberi, sed cum eo verbo abutimur, factum magis demonstramus quam ad ius civile referimus obligationem... Su tali passi v. in particolare I. Buti, Studi sulla capacità patrimoniale cit., 239 ss.; A. Mantello, Beneficium servile - debitum naturale cit., 189 ss., il quale osserva che, pur ritrovandosi in questi testi, come in altri, alcuni spunti interessanti, pur tuttavia tali richiami «non assurgono mai a canoni ermeneutici e definitori generali»; S. Longo, D. 46.1.16.3-4 (e D. 44.7.10): ancora una riflessione, in Fides Humanitas Ius. Studi in onore di L. Labruna 8, Napoli 2008, 2933 ss. Sulla non tecnicità e sull’applicazione impropria in relazione a tali rapporti delle espressioni debere e debitum, come pure del termine obligatio, cfr. G. Segré, Obligatio cit., 283. Per una lettura del rapporto tra i due passi da un angolo visuale differente da quello della obligatio naturalis si veda M. Miceli, Sulla struttura formulare cit., 347 ss.

 

[241] Utilizzo un’espressione di A. Mantello, Beneficium servile - debitum naturale cit., 389 nt. 336.

 

[242] R. Quadrato, La persona in Gaio. Il problema dello schiavo, in Iura 37, 1986, 19, si esprime in termini di «mediazione sottile» tra l’assetto normativo tradizionale e la realtà del subiectus che di fatto partecipava alla vita commerciale.

 

[243] Così G.E. Longo, Ricerche cit., 165, che l’espunge per intero. Cfr. pure O. Lenel, Palingenesia cit., II, 477 nt. 5, e S. Solazzi, Sulla capacità del filiusfamilias di stare in giudizio, in BIDR 9, 1899, 113 ss., ora in Studi cit., 33 nt. 71.

 

[244] In tal senso L. Labruna, rec. a Longo cit., 294. V. pure A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 128.

 

[245] F.C. SAVIGNY, Sistema cit., II, 2, 85 s. Peraltro, in tale occasione l’illustre studioso si pone in maniera particolarmente critica nei confronti dell’opinione del Cuiacio, Obs. 7, cap. 11, in Opera 3, Neap. 1758, 173, il quale tenta di spiegare il passaggio, ed in particolare l’interdum, in questi termini: non esse id perpetuum ut quis post capitis deminutionem iure civili obligetur, nimirum quia etsi adrogatus vel emancipatus obligetur, ea tamen quae convenit in manum non obligetur. Il riferimento sarebbe, dunque, al contratto stipulato con una donna in manum conventa, la quale non poteva obbligarsi: ed il contraente, che nulla sapeva della manus, avrebbe dovuto ottenere la restituzione. Contro detta ipotesi v. pure S. Solazzi, Sulla capacità del filius familias cit., 33 nt. 74 e G.E. Longo, Ricerche sull’obligatio naturalis cit., 166 nt. 53.

 

[246] Peraltro è pure da considerare che, come si è già detto in precedenza, detta restitutio non sembra essere stata mai accordata in forza di una clausola generale dell’editto, ma solo in qualche caso particolare, nessuno dei quali vicino a quello in questione: ed in ogni caso, si tratta di una restitutio ben distante da quella in questione, in primo luogo per il fatto che è preceduta da una causae cognitio, e poi per il fatto che la si deve invocare entro l’anno.

 

[247] O. Karlowa, Römische Rechtgeschichte cit., II, 236 ss.; M. Cohn, Beiträge cit., 329 ss.; G. Mandry, Das gemeine Familengüterrecht cit., I , 341.

 

[248] Né mi sembra aver spostato di molto i termini della questione F. Dessertaux, Études cit., I, 281 s., con il suo tentativo di perfezionamento della tesi del Savigny. Difatti, anche se il caso previsto fosse stato quello di un mancipio prolungato nel tempo, quale per esempio quello conseguente all’abbandono nossale, resterebbe comunque ugualmente inspiegabile la previsione da parte del pretore di questo particolare caso, estremamente differente nella sua tipologia rispetto agli altri dei quali si stava occupando nel suo editto.

 

[249] Così come si ritrova espressamente nello scolio 3 al passo corrispondente dei Basilici, 46.2.1, dove Stefano fa una parafrasi del discorso di Ulpiano. Del passo, già riportato alla nt. 211, si riporta nuovamente la sola parte che qui interessa: lšgei dš Ð OÙlpianÒj, Óti oƒ k£pitij Øpost£nt£ntej deminout…ona kaˆ tucÕn e„j qšsin ˜autoÝj ™pidedwkÒtej.

 

[250] S. Longo, Filius familias se obligat cit., 130, seguendo la sua particolare prospettiva, ha provato a sottintendere all’affermazione un naturaliter, che servirebbe a riportarla al sistema giuridico classico. Ma anche accogliendo una tale lettura, senza dubbio suggestiva, la sua presenza apparirebbe comunque superflua ed ingiustificata rispetto alla logica interna del frammento: di modo che ogni tentativo per il suo salvataggio rischia di risultare del tutto inutile.

 

[251] Tra gli altri, più o meno largamente, sospettano l’alterazione H. Siber, Naturalis obligatio cit., 16; E. Albertario, Corso I, cit., 104 ss.; V. De Villa, Studi cit., 60 ss.; M. Kaser, Die Rechtsgrundlage der actio rei uxoriae, in RIDA 2, 1949, 548 ss.; E. Levy, Natural law in Roman throught, in SDHI 15, 1949, 21 nt. 159, ora in Gesammelte Schriften I cit., 18 nt. 159; G.E. Longo, Ricerche in tema di obligatio naturalis cit., 193 ss. Più cauto invece è B. Biondi, Iudicia bonae fidei, in AUPA 1920, 194 e nt. 1, il quale dubita che il principio del passo possa essere interpolato, utilizzando a conforto anche Pap. 8 quaest. D. 47.12.10, dove con termini uguali a quelli di D. 4.5.8 il giurista severiano afferma che l’actio sepulchri violati è in bonum et aequum concepta. A favore dell’interpolazione v. pure F. Pringsheim, Ius aequum und ius strictum, in ZSS 42, 1922, 663.

 

[252] Non mi sembra di poter concordare con C.A. Maschi, La concezione naturalistica cit., 342, quando afferma che «iura naturalia non è qui un’entità astratta metagiuridica, ma il diritto pretorio considerato sotto l’aspetto del bonum e dell’aequum». Una critica complessiva all’opinione del Maschi è quella di E. Albertario, La critica del fr. 8 D. de capite deminutis, 4,5, in SDHI 4, 1938, 529 ss., ora in Studi VI, Milano 1953, 237 ss. Sull’argomento cfr. pure le osservazioni di R. CARDILLI, La nozione giuridica di fructus, Napoli 2000, 191 ss.

 

[253] Lo rileva W. Waldstein, Aequitas naturalis e ius naturale, in ‘Aequitas’. Giornate in memoria di P. Silli. Atti del convegno Trento. 11 e 12 aprile 2002, a cura di G. Santucci, Padova 2006, 45.

 

[254] Gai 1.158. Il passo, già riportato supra alla nt. 32, è celebre. In esso si afferma che mentre la capitis deminutio estingue i rapporti di agnazione, lascia invece sussistere quelli fondati sulla cognatio, in quanto un principio di diritto civile può corrumpere gli iura civilia, ma non certo quelli naturalia. Osserva al riguardo F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d.C. Il senso del passato, in Giuristi adrianei, Napoli 1980, 61, che nel testo gaiano vi è una vera e propria opposizione, in quanto «il giurista di un secolo che ha scoperto, sotto il particolarismo giuridico e politico in cui è frammentata la mappa dell’ecumene, la comune umanità dei loghikà zòa, non può non tradurre la diversità in opposizione».

 

[255] Inst. Iust. 1.15.3: Sed adgnationis quidem ius <omnis modibus> capitis deminutione <plerumque> perimitur: nam adgnatio iuris est nomen. cognationis vero ius non <omnis modibus> commutatur, quia civilis ratio civilia quidem iura corrompere potest, naturalia vero non <utique>. Lo stesso concetto si ritrova, oltre che nel passo corrispondente della Parafrasi di Teofilo, anche nelle stesse Istituzioni imperiali, in 3.1.11:  …naturalia enim iura civilis ratio peremere non potest...  

 

[256] M. Bartošek, La concezione naturalistica e materialistica dei giuristi classici, in Studi Albertario cit., II, 496, utilizza il concetto espresso nel testo per dimostrare come il ius naturale si trovi in una posizione privilegiata rispetto al ius civile, che al primo deve sempre cedere il primo posto, e soprattutto non lo deve mai ledere. Sui due passi cfr. R. Quadrato, rec. a H. Wagner, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius. Ius gentium und ius naturale in ihrem Verhältnis zum ius civile, Zutphen 1978, in Iura 29, 1978, 275, e da ultimo E. Stolfi, Al tramonto del ‘diritto naturale classico’, in Fides Humanitas Ius cit., 8, 5430 nt. 24.

 

[257] Per la verità, G. Segré, Obligatio cit., 535 nt. 109, ipotizza, ma senza alcun elemento decisivo a supporto, il riferimento alla capitis deminutio del debitore. 

 

[258] D.4.5.9 (Paul. 11 ad ed.): ut quandoque emancipata agat.

 

[259] Cfr. in tal senso A. Burdese, Dubbi in tema di naturalis obligatio cit., 510. Di differente avviso, ma senza addurre fondati motivi a supporto, P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 137, a parere del quale non c’è motivo di restingere l’applicazione della regola alla sola capitis deminutio minima, oggetto dell’editto del pretore.  

 

[260] Anche in questo caso può suscitare un qualche interesse per comprendere la posizione dei compilatori giustinianei la lettura dello Sch. 1 al passo corrispondente dei Basilici, 46.2.7 (Ed. Scheltema-Holwerda cit., B VII, 2742), dove l’obbligo di restituire la dote è ricondotto alla obligatio naturalis. Cfr. pure C.I. 5.12.30 pr. (a. 529), nel quale si afferma che…(res dotales) naturaliter in eius (sc. uxoris) permanserunt dominio...

 

[261] Sul passo, ed in particolare sulla problematica del ius naturale ivi connessa, cfr. G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, Milano 1962, 97.

 

[262] In tal senso A. Burdese, La nozione classica cit., 113. Si deve pure aggiungere che G. Falcone, Obligatio est iuris vinculum cit., 182 nt. 474, in considerazione del riferimento all’actio che si rinviene nel testo, ritiene che andrebbe valutato il fatto che «lo stesso Gaio considera in termini di ‘naturalità’ prestazioni coercibili tramite actio e imperniate sul valore dell’aequum», nonché «l’esistenza di un consolidato filone giurisprudenziale influenzato dalla morale stoica, al quale la predetta notazione di D. 4.5.8 sembra ricollegarsi, che all’aequum e alla natura riporta il divieto di arricchirsi a detrimento di altri».

 

[263] È quanto rileva anche C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto cit., 343.

 

[264] Non è condivisibile l’opinione di P. Cornioley, Naturalis obligatio cit., 137, il quale ritiene che il termine praestatio sia qui utilizzato nel suo senso originale, etimologico, derivato da pres stare, pressoché sinonimo di obligatio. È poco comprensibile, invece, l’interpretazione di P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, 10a ed., Milano 1987, e Corso I cit., 127, della naturalis praestatio come «questione di fatto».

 

[265] Del problema si occupa anche A. D’Ors, Sobre el edicto cit., 128, il quale però afferma che la qualifica emerge solo in maniera meno chiara, vista l’ambiguità dell’affermazione di Gaio.

 

[266] M. Talamanca, s.v. Obbligazioni cit., 66 nt. 463. Cfr. pure Id., Per la storia della giurisprudenza romana, in BIDR 80, 1977, 296 nt. 214. Inoltre, lo studioso nella stessa nota della pagina enciclopedica aggiunge pure che «sarebbe del tutto indebito estendere la disciplina che si può ricavare dall’uso in questione della concettualizzazione stessa a tutte le obligationes naturales iuris gentium, come sembra incline a fare il Cornioley, Naturalis obligatio cit., 134 ss., senza alcuna base testuale».

 

[267] Sulla riconducibilità da parte di Gaio dell’actio rei uxoriae alle actiones in bonum et aequum conceptae si veda in particolare A. Söllner, Zur Vorgeschichte und Funktion der actio rei uxoriae, Köln Wien 1969, 146 s.

 

[268] Tra le diverse spiegazioni fornite dalla dottrina alla persistenza dell’actio rei uxoriae nonostante l’avvenuta capitis deminutio è anche il caso di richiamare l’attenzione su quella di L. Mitteis, Römisches Privatrecht bis auf die Zeit Diokletians, Leipzig 1908, I, 61 nt. 65, che la riconduce all’origine pretoria di tale azione, e su quella di S. Perozzi, Istituzioni cit., I, 517 nt. 1, il quale invece trova la sua ragione fondante nel motivo procedurale e positivo (quia in bonum et aequum concepta est) che lo stesso Gaio adduce nel testo in esame.

 

[269] È particolarmente indicativo, oltre che formalmente ineccepibile, il paragrafo 3.119a delle sue Istituzioni, comunemente indicato come testimonianza certa dell’affermarsi della naturalis obligatio servi: Fideiussor vero omnibus obligationibus, id est sive re sive verbis sive litteris sive consensu contractae fuerint obligationes, adici  potest. Ac ne illud quidem interest, utrum civilis an naturalis obligatio sit cui adiciatur; adeo quidem, ut pro servo quoque obligetur, sive extraneus sit qui a servo fideiussorem accipiat, sive ipse dominus in id quod sibi debeatur.