Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – Contributi

 

 

 

IL ruolo presidenziale e la distinzione tra funzioni di garanzia e funzioni d’indirizzo politico*

 

Omar Chessa

Università di Sassari

 

 

 

Sommario: 1. Un modello interpretativo ricorrente. – 2. Atti composti e atti complessi. – 3. La concezione garantistica di Serio Galeotti. – 4. La separatezza tra «indirizzo politico presidenziale» e «indirizzo politico governativo» nel pensiero di Giuseppe Guarino. – 5. Il Capo dello Stato come organo di «indirizzo politico costituzionale» nel pensiero di Paolo Barile. – 6. La distinzione tra indirizzo e garanzia come nuovo fondamento della concezione polifunzionale. – 7. La dubbia distinzione tra «atti politici» e «atti di controllo». – 8. Scambi di ruolo e incoerenze del modello. – 9. La dissociazione tra forma e sostanza nell’ordine costituzionale delle competenze presidenziali. – 10. Capo dello Stato e sovranità popolare nel pensiero di Vezio Crisafulli. – 11. Capo dello Stato e indirizzo politico alla luce degli articoli 87, 90 e 95 della Costituzione. – 12. La “terza via” della Repubblica parlamentare italiana. – 13. La sovra interpretazione del principio maggioritario. – 14. L’essenza del costituzionalismo. – 15. Il Capo dello Stato come rappresentate dell’unità nazionale. – 16. L’evoluzione possibile del ruolo presidenziale e la centralità del Parlamento.

 

 

1. – Un modello interpretativo ricorrente

 

Lo scopo di questa mia relazione è discutere un paradigma interpretativo ricorrente, consolidatosi negli ultimi decenni: mi riferisco al modello della distinzione tra organi costituzionali di direzione politica e organi costituzionali di garanzia e, correlativamene, tra funzioni d’indirizzo e funzioni di garanzia. Com’è noto, mentre tra gli organi d’indirizzo si annoverano il Parlamento e il Governo, invece tra quelli di garanzia rientrerebbero la Corte costituzionale e il Capo dello Stato.

Questa grande divisione ha un rilievo strategico importante, perché a tutt’oggi si traduce operativamente soprattutto nella teoria polifunzionale della controfirma ministeriale. Esiste cioè un nesso molto forte tra la tesi della distinzione tra indirizzo e garanzia e la tesi che attribuisce diverse funzioni all’istituto della controfirma. Peraltro tra queste due tesi non c’è un prius e un posterius. Difatti si sostengono reciprocamente, senza che sia possibile indicare chiare priorità logiche: l’una accredita l’altra, e viceversa.

In questa mia relazione vorrei provare a sciogliere questo intreccio complicato di nessi argomentativi che si supportano vicendevolmente.

 

 

2. – Atti composti e atti complessi

 

In base alla concezione polifunzionale della controfirma gli atti presidenziali sono (almeno prevalentemente) «atti composti», classificabili secondo diverse categorie.

Atto “composto” è quello in cui confluiscono due attività qualitativamente distinte: una funzione attiva o principale e una funzione accessoria o di controllo. Quando l’attività principale, o la funzione attiva, è svolta dal Governo e quella accessoria e di controllo è esercitata dal Capo dello Stato, ci troviamo dinanzi ad atti presidenziali sostanzialmente governativi; quando invece è il Capo dello Stato a svolgere la funzione principale e il Governo quella accessoria (e di controllo), allora abbiamo davanti degli atti non solo formalmente ma pure sostanzialmente presidenziali[1].

La nozione di «atto composto» ha un rilievo strategico, che si coglie soprattutto nel confronto con la nozione di «atto complesso». Anche quest’ultimo esprime la confluenza tra due attività distinte. Con la differenza, però, che in questo secondo caso le due attività sono parimenti determinanti e costitutive dell’atto, poiché concorrono in modo uguale alla determinazione del suo contenuto. Non c’è, perciò, la possibilità di graduare l’importanza delle due attività, di modo che una sia principale e l’altra accessoria[2].

Al contrario, gli atti composti sarebbero caratterizzati sia dalla «eterogeneità funzionale delle attività concorrenti (del Governo e del Presidente della Repubblica)», sia dal fatto di poter essere ricondotti entro tipologie distinte, secondo che acquisti prevalenza l’attività dell’uno o dell’altro organo costituzionale, con la conseguenza che la controfirma ministeriale non avrebbe per tutti la medesima funzione e il medesimo valore, ma varierebbe secondo il tipo di atto presidenziale considerato (e in ciò consisterebbe, per l’appunto, la sua polifunzionalità).

Stando a questa ricostruzione, vi sarebbero – com’è noto – due o tre tipologie differenti di atto presidenziale. Per le classificazioni bipartite gli atti del Capo dello Stato o sono sostanzialmente governativi o propriamente presidenziali. Le classificazioni tripartite aggiungono, invece, una terza tipologia: la categoria degli atti complessi, che si aggiungerebbero pertanto agli atti sostanzialmente governativi e a quelli sostanzialmente presidenziali[3].

Come si vede, c’è uno stacco netto rispetto alla dottrina dell’atto complesso. Che può riassumersi in due punti fondamentali:

a) l’eterogeneità funzionale dei ruoli presidenziale e governativo nel compimento degli atti del capo dello Stato (e che pertanto sarebbero atti composti, almeno in larga prevalenza e con l’eccezione dei poteri di nomina del Governo e scioglimento delle Camere). In particolare, mentre al Governo spetterebbe la funzione “politica” di determinare il contenuto dell’atto, al Presidente della Repubblica (d’ora in poi PdR) invece competerebbe una funzione di controllo giuridico, di regolarità costituzionale dell’attività governativa.

b) La variabilità dell’intensità dei medesimi ruoli secondo il tipo di atto, cosicché laddove fosse preponderante la funzione presidenziale di controllo giuridico-costituzionale l’atto sarebbe propriamente presidenziale e, viceversa, sostanzialmente governativo laddove invece fosse prevalente la funzione di direzione politica del Governo.

È evidente come la teoria polifunzionale della controfirma (e la correlata suddivisione degli atti presidenziali in più categorie diverse) presupponga la distinzione teorica generale tra organi/attività di indirizzo politico e organi/attività di garanzia (costituzionale). Perlomeno questa pare la vulgata corrente più diffusa. In origine però non tutte le concezioni polifunzionali (che furono proposte nei primi anni di vigenza della Costituzione repubblicana) muovevano dalla scissione tra indirizzo e garanzia[4]. Non bisogna dimenticare, infatti, che importanti fautori dell’orientamento polifunzionale, come Giuseppe Guarino e Paolo Barile, non ebbero difficoltà a configurare il PdR come organo anch’esso d’indirizzo politico.

In ogni modo, quale che sia la configurazione complessiva della funzione assegnata al Capo dello Stato (se riconducibile a quelle “politiche” ovvero a quelle di “controllo giuridico”), ciò che accomuna tutti gli orientamenti favorevoli al polifunzionalismo della controfirma, è l’idea che ci sia una separazione funzionale, oltreché organica, del PdR rispetto agli altri organi costituzionali, e segnatamente rispetto al Governo.

 

 

3. – La concezione garantistica di Serio Galeotti

 

Non c’è dubbio che il primo a ipotizzare una differenziazione funzionale tra il Capo dello Stato e gli altri organi costituzionali sia stato Serio Galeotti[5].

Poiché il PdR è un organo costituzionale distinto dagli altri, secondo Galeotti non può che avere una propria, peculiare funzione. Di qui il problema di coglierne i tratti differenziali rispetto alle competenze spettanti agli altri organi costituzionali.

Dopo avere escluso che la funzione presidenziale possa ricondursi a quella legislativa, a quella governativo-esecutiva e infine a quella giurisdizionale, Galeotti propone di intenderla alla stregua di una «funzione (amministrativa) di controllo»[6], elevando in particolare il potere di promulgazione a paradigma dell’intera funzione organica spettante al PdR[7]. Difatti, l’attività che il Capo dello Stato svolge in occasione della promulgazione di una legge sarebbe quella che più chiaramente rivela il proprium del ruolo presidenziale nel sistema costituzionale; e che meglio svelerebbe e descriverebbe la struttura costante della partecipazione presidenziale al compimento degli atti che la Costituzione formalmente gli attribuisce.

Ma come intende Galeotti la natura della promulgazione? La domanda è importante, perché sulla base della (discutibile) analogia sopra descritta la natura della promulgazione enucleerebbe l’essenza stessa dell’intera attività presidenziale. Orbene, in quanto volta a sindacare «la validità e regolarità dell’atto legislativo»[8] per Galeotti la promulgazione sarebbe attività di controllo dal carattere squisitamente giuridico (e non politico). Di conseguenza «non resta che configurare l’attività del Presidente della Repubblica altro che come funzione di controllo»[9].

Dentro quest’impostazione non c’è più posto per la dottrina dell’atto complesso[10]. Ogni atto presidenziale sarebbe invece un «atto-procedimento»[11] o «atto composto»[12], scomponibile in due diverse fasi o momenti, corrispondenti alle diverse funzioni spettanti al Governo e al PdR: a una prima fase costituita dalla proposta governativa – che determina il contenuto dell’atto e che «funge da presupposto necessario, e per così dire da stimolo all’esercizio dell’attività corrispondente nel Capo dello Stato»[13] – ne seguirebbe una seconda costituita dal controllo presidenziale, «la quale si sostanzia praticamente in un’accessione o adesione alla proposta governativa»[14], sempre che ovviamente il PdR non giudichi viziata la regolarità dell’attività del Governo.

Nonostante tutto, il fatto che la dottrina dell’«atto-procedimento» (o «composto») occupi il posto di quella dell’atto complesso non significa di per sé proporre una teoria polifunzionale della controfirma. E difatti, le tesi avanzate da Galeotti nel 1949 si muovono ancora dentro il solco delle ricostruzioni monofunzionali: da una parte la controfirma presuppone sempre una proposta e quindi la determinazione governativa del contenuto dell’atto, dall’altra la firma presidenziale (e la stessa adozione dell’atto) è sempre esplicazione di una funzione di controllo giuridico-costituzionale. Pur trattandosi di ruoli diversi sotto il profilo funzionale, la loro distribuzione comunque rimane fissa.

Perché la tesi della eterogeneità funzionale tra PdR e Governo sfoci nella classificazione degli atti del Capo dello Stato secondo la titolarità sostanziale degli stessi, occorrerà attendere il contributo di Giuseppe Guarino del 1951. Si tratta di un mutamento di prospettiva che in Galeotti ancora non si compie. Una cosa, infatti, è chiedersi – come Galeotti fa – quale sia la funzione, sempre uguale a se stessa, che il PdR svolge in relazione a ciascun atto presidenziale; un’altra, invece, è chiedersi – come farà Guarino – quali atti formalmente presidenziali sono effettiva, sostantiva esplicazione della funzione presidenziale e quali, viceversa, della funzione governativa[15].

Ciò nondimeno, sebbene la dottrina dell’eterogeneità funzionale tra PdR e Governo (e conseguentemente dell’«atto composto») non implichi automaticamente la teoria polifunzionale della controfirma, resta però fermo che la seconda presuppone necessariamente la prima: ed è pertanto sulla fondatezza di questa che occorre ancora interrogarsi.

Innanzitutto una precisazione. È sempre opportuno distinguere tra separazione organica e funzionale e ricordare che la prima non ridonda automaticamente nella seconda. Nel nostro sistema costituzionale il Capo dello Stato non è più il titolare unico e il capo del potere esecutivo, ed è separato organicamente dal Governo; ma da ciò non discende logicamente che debba esserci pure una separazione di tipo funzionale. Del resto, la nozione stessa di “atto complesso” testimonia che è ben possibile che tra due o più attori distinti vi sia tanto un rapporto di condivisione competenziale quanto di separazione organica.

Ciò precisato, si è detto che per argomentare la peculiarità della funzione presidenziale rispetto a quella governativa, Galeotti assume il potere di promulgazione come paradigma generale. È assai dubbio però che in questo caso sia corretto prendere la parte per il tutto. Semmai può essere un’ipotesi iniziale, la cui fondatezza tuttavia deve ancora essere accertata. Che la promulgazione sveli l’essenza della funzione presidenziale, enucleando caratteri comuni a tutte le attività del capo dello Stato, è tesi che non basta asserire, ma che occorre pure dimostrare: e questo Galeotti non lo fa.

In ogni modo, pur ammettendo la correttezza di tale generalizzazione, non è lo stesso condivisibile l’idea che la promulgazione di una legge sia esercizio di un controllo giuridico anziché politico: e ciò perché non ha nessun appiglio positivo la tesi secondo cui il diniego di promulgazione debba sempre essere motivato sulla base di ragioni d’ordine giuridico-costituzionale[16].

In realtà, analizzando attentamente il pensiero di Galeotti, il riferimento paradigmatico alla promulgazione (intesa alla stregua di un controllo giuridico sulla validità e regolarità degli atti legislativi) è poco più di uno stratagemma espositivo. È un’altra la vera chiave di volta della concezione garantistica del PdR: ossia, è l’idea che esso non sia, o non possa o non debba essere, organo d’indirizzo politico in quanto politicamente irresponsabile.

In particolare, Galeotti non si limita – in modo negativo – ad escludere che il Capo dello Stato partecipi delle funzioni governative in quanto politicamente irresponsabile, ma – in modo positivo – fonda sulla responsabilità penale (per alto tradimento e attentato alla Costituzione) ex art. 90 Cost. la funzione presidenziale di controllo giuridico[17]. Mentre l’irresponsabilità politica sgancerebbe la partecipazione presidenziale dalla funzione di governo, la responsabilità penale invece la connetterebbe alla funzione di controllo giuridico-costituzionale. La prima vieterebbe al Capo dello Stato di ingerirsi nelle decisioni politiche del Governo, la seconda gli imporrebbe di farsi carico dei compiti di garanzia costituzionale.

Come si vede, è un argomento bifronte. Ora non considererò qui la prima faccia[18], ma mi soffermerò sulla seconda.

Il ragionamento di Galeotti può sintetizzarsi così: se il PdR è penalmente responsabile per attentato alla Costituzione, allora non può «porre in essere (…) alcun atto che possa integrar(ne) la fattispecie»[19]. Siccome però il Capo dello Stato non è l’autore sostanziale dell’atto lesivo, se ne deve concludere che è penalmente responsabile se omette di vigilare sull’attività governativa, consentendo così il compimento di atti incostituzionali. Insomma, «il Presidente della Repubblica ha l’obbligo giuridico di astenersi dall’esercitare la sua competenza, ogni volta che la proposta governativa fatta all’uopo, abbia per oggetto un atto che, ultimato, integrerebbe la fattispecie di alto tradimento o di attentato alla Costituzione»[20].

Sennonché, a un’analisi più attenta, per la tesi di Galeotti l’art. 90 Cost. è più un problema che una risorsa.

Per prima cosa si afferma che l’attentato alla Costituzione si produce non già quando il Capo dello Stato si oppone al Governo (o al Parlamento in occasione della promulgazione legislativa), rifiutando di firmare questo o quell’atto, bensì quando lo firma omettendo il doveroso controllo. Ciò significa che ogni volta che è dichiarata l’incostituzionalità di una legge o di un atto avente forza di legge, il Capo dello Stato è penalmente responsabile per aver emanato l’atto – nel caso degli atti con forza di legge – ovvero per avere promulgato la legge senza averla previamente rinviata?

Forse allo scopo di superare questa difficoltà, Galeotti precisa che l’attentato alla Costituzione è qualcosa di più che una semplice violazione della stessa, realizzandosi solo quando la violazione è «di tale natura e gravità, da esser capace di sovvertire la Costituzione in uno (dei) principi istituzionali dell’ordinamento»[21]. Ma è agevole costatare come in questo modo i contorni della responsabilità penale divengono impalpabili. E soprattutto, chi dovrebbe agire per farla valere, lo stesso Parlamento che ha politicamente compiuto l’atto incriminato o consentito al suo compimento (da parte del gabinetto)? È irrealistico che la stessa maggioranza politica voglia un atto e poi metta in stato d’accusa il PdR per averlo compiuto; e suonerebbe come una ritorsione odiosa se fosse una nuova maggioranza politica a incriminare il Capo dello Stato per gli atti compiuti con il consenso determinante, e più spesso con l’iniziativa, della maggioranza precedente[22].

 

 

4. – La separatezza tra «indirizzo politico presidenziale» e «indirizzo politico governativo» nel pensiero di Giuseppe Guarino

 

Diversamente da Galeotti, Giuseppe Guarino non accoglie il modello interpretativo imperniato sulla netta distinzione tra organi/attività d’indirizzo politico e organi/attività di garanzia e ritiene che pure il Capo dello Stato sia un centro di potere politico alla stregua del Governo e del Parlamento[23].

Su un punto però i due Autori concordano: ci sarebbe una linea netta di demarcazione tra la funzione presidenziale e quella governativa. Sicché, per Guarino, «Presidente e Governo esercitano due funzioni politiche e queste funzioni politiche sono distinte e ciascuno dei due organi esercita la propria funzione in condizione di autonomia»[24]. Il Capo dello Stato e il Governo sarebbero dunque titolari entrambi di «funzioni politiche», ma esse sarebbero distinte, anzi «autonome», poiché i due organi «esercitano la sovranità ciascuno nell’ambito della propria competenza»[25].

Ebbene, che i due organi abbiano funzioni reciprocamente autonome è una premessa importante. Sfruttando fino in fondo le potenzialità semantiche del lemma “autonomia”, Guarino compie il salto verso la concezione polifunzionale della controfirma, giungendo di conseguenza a classificare gli atti presidenziali secondo diversi tipi.

Posto, infatti, che il PdR e il Governo sono reciprocamente autonomi, l’Autore si chiede, in successione: «1) quali degli atti che portano la firma congiunta del Presidente e di un ministro sono da ricondursi all’autonomia del Presidente e quali invece all’autonomia del Governo; 2) quale è il ruolo che giocano rispettivamente i ministri in relazione agli atti che esprimono la politica presidenziale ed il Presidente in relazione agli atti che esprimono l’indirizzo governativo»[26]. Ma ponendo il problema in questi termini, il gioco è fatto: siccome i due organi hanno sfere separate d’autonomia, bisogna chiedersi quali atti formalmente presidenziali ricadono ora nella competenza esclusiva dell’uno ora in quella dell’altro[27].

Si tratta evidentemente di una petizione di principio, che sovraccarica la nozione di “autonomia” di valenze che non possiede necessariamente (o meglio: che può possedere in taluni casi, se si riesce a dimostrarlo di volta in volta). Affinché due soggetti siano reciprocamente autonomi o indipendenti non è necessario che abbiano compiti distinti e reciprocamente esclusivi, ma è sufficiente che uno non abbia il potere di determinare la decisione dell’altro. Se per il compimento di un determinato atto è richiesto l’accordo di due organi, uno è sicuramente autonomo rispetto all’altro se è libero di prestare o no il proprio consenso: in questo caso la condivisione funzionale convive perfettamente con una condizione d’autonomia reciproca[28].

Ovviamente ciò non significa che sia in sé sbagliata la tesi, proposta da Guarino, di una separazione tra «indirizzo politico presidenziale» e «indirizzo politico governativo». Essa è invero pienamente condivisibile nella misura in cui afferma che i due organi possono darsi e perseguire finalità politiche distinte. La politica presidenziale e quella governativa possono convergere come divergere. Se l’atto presidenziale viene firmato e controfirmato, vorrà dire che convergono (o che non divergono a tal punto da impedirne l’adozione); e al contrario divergono, se alla firma non segue la controfirma o se alla proposta (governativa) non segue l’adozione (presidenziale)[29].

Ammesso perciò che il PdR e il Governo possono legittimamente essere portatori di indirizzi distinti, non è però ammissibile convertire la possibilità di darsi un proprio indirizzo nel potere di conseguirlo mediante proprie competenze esclusive e propri atti tipici. Se pure è vero che i due organi possono agire in vista d’obiettivi politici diversi, da ciò tuttavia non può trarsi logicamente che ciascuno ha la disponibilità piena ed esclusiva di propri atti finali. Questo sarebbe un salto logico. Per passare da un’asserzione all’altra occorrono nuovi argomenti che non limitarsi ad evocare la possibile e legittima separazione tra indirizzo presidenziale e governativo[30].

Sarebbe tuttavia scorretto illustrare il pensiero di Guarino come se appendesse l’idea della separazione competenziale tra PdR e Governo alla sola possibilità che i due organi si diano indirizzi politici differenti.

In realtà dalla faretra argomentativa dell’Autore può sfilarsi anche un'altra freccia. La mutua esclusività delle competenze presidenziali e governative viene, infatti, fondata pure sul principio della responsabilità ministeriale sancita dall’art. 95 Cost., nel senso che «il Governo non potrebbe assumere la responsabilità di un indirizzo la cui elaborazione non competesse ad esso esclusivamente»[31].

L’argomento però prova troppo. Se fosse vero che una data attività debba ricadere nella competenza esclusiva di chi ne risponde (in questo caso politicamente), allora tutta l’attività presidenziale dovrebbe ricadere nella competenza esclusiva del Governo, visto che, in base all’art. 89, i ministri (mediante appunto controfirma) si assumono la responsabilità politica dell’attività presidenziale nella sua interezza: il che però renderebbe impossibile, come ognuno vede, lo stesso orientamento polifunzionale.

Certo, si può contro-obiettare – come Guarino fa, quasi anticipando l’obiezione – che in base all’art. 89 «i ministri (…) non sono responsabili in luogo del Presidente, o per l’atto del Presidente, ma sono responsabili per fatto proprio, per l’atto della controfirma, che è atto del solo ministro e non anche del Presidente»[32]. Sennonché questa seconda asserzione contraddice la prima, poiché delle due l’una: o la responsabilità politica dei ministri copre l’attività presidenziale nella sua interezza, e allora è giusto che il Governo ne abbia, sotto il profilo sostanziale, la competenza esclusiva; o, invece, copre solo «l’atto della controfirma», ma in tal caso la competenza esclusiva del gabinetto non potrà pretendere di assorbire anche ciò che non è «atto della controfirma».

Infine, pure ammettendo che la distinzione tra «indirizzo presidenziale» e «indirizzo governativo» consenta di classificare gli atti del Capo dello Stato in modo da farli ricadere ora nella competenza esclusiva del primo ora in quella del secondo, è comunque assai controvertibile il criterio di demarcazione tra gli uni e gli altri. Ancora una volta Guarino attinge dall’art. 95 (questa volta però in combinato disposto con l’art. 94): siccome «il Governo del proprio indirizzo è responsabile politicamente verso le Camere nella misura in cui queste sono in grado di revocargli la fiducia», allora se ne dovrebbe dedurre che «l’attività di indirizzo del Governo non si può estendere ad atti che siano sottratti all’influenza delle maggioranze parlamentari»[33]. La misura della competenza governativa (legittimamente opponibile a quella presidenziale) sarebbe data, perciò, dall’ampiezza di quanto, per Costituzione, spetta alla potestà decisionale della maggioranza parlamentare: fin dove s’estende questa arriverebbe pure l’altra; e al di là questo limite si dispiegherebbe quella del Capo dello Stato[34]. 

Ma fin dove s’estende, o può legittimamente estendersi, «l’influenza delle maggioranze parlamentari» (che della competenza governativa è il definiens)? Guarino dice solo che «è sottratto all’influenza della maggioranza tutto ciò che è regolato da norme costituzionali e, indipendentemente da questo limite formale, tutto ciò che attiene alla posizione della stessa maggioranza nel sistema»[35]. Ne discende allora che non fa parte dell’indirizzo politico del Governo, e della maggioranza parlamentare che lo sostiene e ne determina la misura, tutto ciò che la Costituzione assegna all’indirizzo politico presidenziale: ma se la conclusione è questa, è forte l’impressione che la strada percorsa sia molto poca. Nell’intento di chi l’ha formulata, la distinzione tra «indirizzo presidenziale» e «indirizzo governativo» dovrebbe servire per costruire la classificazione costituzionale degli atti presidenziali secondo competenza, ma in questo caso il nesso di strumentalità si rovescia ed è alla classificazione degli atti presidenziali, quale risulterebbe da norme costituzionali, che si chiede di precisare dove passi la linea di confine tra i due indirizzi (presidenziale e governativo).

 

 

5. – Il Capo dello Stato come organo di «indirizzo politico costituzionale» nel pensiero di Paolo Barile

 

Anche Paolo Barile, alla pari di Giuseppe Guarino, non accede alla distinzione tra organi/attività d’indirizzo politico e garanzia costituzionale, su cui invece s’impernia la tesi di Galeotti[36]. E neppure ritiene utile «creare una ennesima funzione a sé stante, la c.d. funzione presidenziale»[37].

Per differenziare i ruoli presidenziale e governativo (e con ciò rendere possibile la classificazione degli atti del Capo dello Stato secondo la prevalenza dell’uno ovvero dell’altro), Barile elabora invece la distinzione tra «indirizzo politico generale o costituzionale» e «indirizzo politico di maggioranza». Il primo poggerebbe sulla «costituzione materiale e sulla risultante delle forze politiche sottostanti» e tenderebbe «ad attuare i fini costituzionali permanenti»; il secondo avrebbe carattere «contingente, di maggioranza», sarebbe «anch’esso condizionato e vincolato nei fini dalla Costituzione»; costituzione che però tenderebbe «ad attuare solo parzialmente, in quelle parti che sono ad esso congeniali, e non in quelle che avversa»[38].

Ora, mentre «tutti gli organi costituzionali (sono) compartecipi della funzione di indirizzo politico (…) generale o costituzionale», invece «solo alcuni di tali organi (sono) contitolari della funzione di indirizzo (…) di maggioranza». Sicché il problema è quello «di stabilire se il Capo dello Stato, che partecipa istituzionalmente (in quanto organo costituzionale) alla prima funzione, partecipi o no anche alla seconda»[39].

Barile – com’è noto – risponde di no, poiché «il Capo dello Stato ha per suo precipuo compito quello di controllare l’indirizzo di maggioranza, ed eventualmente di correggerlo per allinearlo alla attuazione dei fini costituzionali»[40]. Di conseguenza, «poiché controllare non è partecipare ad una funzione attiva, egli non è contitolare della funzione di indirizzo di maggioranza, ma lo è solo della funzione di indirizzo generale, per meglio esplicare la quale, appunto, è chiamato a controllare l’attività della maggioranza»[41]. Da una parte, dunque, tutti gli organi costituzionali – le Camere, il Governo, il PdR e la Corte costituzionale – sarebbero contitolari della funzione di indirizzo politico generale o costituzionale, dall’altra solo le Camere e il Governo sarebbero contitolari dell’indirizzo politico di maggioranza[42].

Questa ricostruzione del ruolo del PdR nel sistema costituzionale affonda le radici in una rilettura (e riproposta) della dottrina mortatiana della costituzione in senso materiale. Non è questa la sede per esaminare i profili teorico-generali del pensiero di Barile. Qui basta soltanto rilevare come sia impossibile precisare con apprezzabile nettezza concettuale la differenza tra i due profili dell’indirizzo politico di cui abbiamo appena detto.

Prima di illustrare le due facce della funzione di indirizzo politico, Barile premette che essa è «immediatamente esecutiva della Costituzione» e che pertanto «non è libera nella scelta del fine, in quanto espressamente vincolata dalla Costituzione, per cui i fini che essa può perseguire sono quelli e solo quelli espressamente o implicitamente previsti nella Costituzione»[43]. Trattandosi di una definizione generale della funzione di indirizzo politico, dovrebbe valere sia per quello generale o costituzionale sia per quello di maggioranza: entrambi sono e devono essere esecutivi dei soli fini costituzionalmente previsti. E dunque, sia l’attività del PdR che quella del raccordo tra Governo e Parlamento sono attuazione delle finalità costituzionali.

Per certi versi è lo stesso Barile ad affermarlo esplicitamente quando precisa che «tutti gli organi costituzionali (sono) compartecipi della funzione di indirizzo politico (…) generale o costituzionale». Però subito dopo aggiunge – come si è detto – che «solo alcuni di tali organi (sono) contitolari della funzione di indirizzo (…) di maggioranza», e cioè il Parlamento e il Governo[44]. Questi ultimi due organi, quindi, sarebbero titolari sia dell’indirizzo politico costituzionale che di maggioranza. La questione allora è la seguente: posto che l’indirizzo politico genericamente inteso può essere solo esecuzione della Costituzione, in cosa differiscono qualitativamente i due profili dell’indirizzo politico?

Per intendere sino in fondo la strategia argomentativa di Barile si deve sempre tenere presente che egli cala la teoria della costituzione materiale nel contesto repubblicano multipartitico e deve perciò riconoscere che all’avvicendarsi democratico di maggioranze politiche diverse devono poter corrispondere modalità diverse di attuazione (politica) dei fini costituzionali. Ogni maggioranza politica (che controlli il raccordo Parlamento-Governo) definisce il proprio peculiare indirizzo politico di maggioranza, che presumibilmente sarà differente da quello prescelto da maggioranze diversamente composte.

Barile però asserisce anche che il Capo dello Stato potrà «controllare l’indirizzo di maggioranza» e anche «correggerlo per allinearlo all’attuazione dei fini costituzionali»[45]. Ciò significa che alla concezione dei principi costituzionali adottata dalle forze di maggioranza potrà opporne una propria. Ma se è così, allora anche il PdR oltre ad essere titolare di una funzione di indirizzo politico costituzionale sarà altresì titolare di un indirizzo politico presidenziale, esattamente speculare a quello di maggioranza. Se l’indirizzo di maggioranza non è altro che una tra le diverse modalità di attuazione dei fini costituzionali, lo stesso potrà dirsi per l’indirizzo presidenziale, soprattutto nella misura in cui è teso a correggere il primo.

Può obiettarsi che la vera differenza sta nel fatto che l’indirizzo di maggioranza è attivo, propulsivo, mentre quello costituzionale posto dal PdR è solo negativo e paralizzante. Ma anche così la sostanza non cambia: se ci si contrappone alle scelte d’indirizzo della maggioranza è perché si ha un’idea diversa di come debba procedere l’attuazione costituzionale. E non si capisce perché la concezione dei principi costituzionali affermata dal Capo dello Stato sia più “corretta” di quella fatta propria dalle forze di maggioranza[46].

In ogni modo, emerge chiaramente che l’indirizzo di maggioranza non è né può essere distinto da quello generale o costituzionale, ma deve essere come quest’ultimo: in tanto il primo è legittimo in quanto non si discosti dal secondo. Ma quando se ne discosta? Quando alle scelte della maggioranza si contrappongono quelle del Capo dello Stato. Ma ciò significa solo che per aversi un’azione statale informata al canone dell’indirizzo politico costituzionale – perciò legittima – occorre l’accordo, il consenso di tutti gli organi costituzionali; e che l’attuazione costituzionale – cioè la politica statale – è la risultante di tutte le diverse letture che ne possono dare, in un momento dato, tutti gli organi costituzionali.

Per concludere, nella impostazione teorica di Barile, ispirata alla dottrina mortatiana della costituzione materiale, la politica statale – quella che s’invera e traduce in atto attraverso l’ordine formale delle competenze – non può essere mai altro che attuazione di principi costituzionali sostantivi. La differenza tra l’indirizzo presidenziale e quello di maggioranza non consiste perciò nel fatto che il primo trae ispirazione dai fini costituzionali, mentre il secondo no. Sotto questo profilo è alfine inspiegabile perché l’indirizzo presidenziale è solo costituzionale, mentre quello del raccordo Governo-Parlamento è anche di maggioranza (oltre che costituzionale, ovviamente). Non c’è, infatti, nessuna ragione concettuale perché l’indirizzo del PdR non possa essere, appunto, anche “presidenziale” oltre che “costituzionale”, con perfetta simmetria rispetto al Governo e al Parlamento. E pertanto, non essendoci alcuna vera differenza qualitativa tra i due “indirizzi”, non c’è altresì alcuna ragione per cui alcuni atti presidenziali debbano riservarsi esclusivamente all’uno ovvero all’altro.

 

 

6. – La distinzione tra indirizzo e garanzia come nuovo fondamento della concezione polifunzionale

 

Giuseppe Guarino e Paolo Barile condividono due idee fondamentali riguardo al PdR. Ambedue ritengono che ci sia una profonda differenziazione funzionale tra Capo dello Stato e Governo. Ed ambedue rappresentano però i due organi come d’indirizzo politico.

Nella dottrina italiana la prima idea ebbe più fortuna della seconda. In un certo senso questo esito deve imputarsi al declino della dottrina della costituzione materiale. Una volta che nella dottrina italiana si esaurisce la forza propulsiva dell’idea che la politica – e quindi la legislazione – non possono essere altro che lo sviluppo attuativo di un programma costituzionale, sarà sempre più difficile sostenere che l’indirizzo politico è esecuzione della Costituzione e si arriverà a presupporre la differenziazione netta tra politica e diritto costituzionale, tra libera (ma responsabile) espressione della prima e garanzia del secondo; e ciò fino al punto di porre su piani concettuali distinti e in capo ad organi diversi e separati la funzione che spetta a chi può fare la politica e la funzione che spetta a chi deve garantire la costituzione.

Non per caso anche nei lavori di chi si colloca nella scia del maestro fiorentino, e mi riferisco soprattutto a Enzo Cheli, la funzione di «indirizzo politico costituzionale» diverrà sinonimo di «garanzia costituzionale», non casualmente affidata al PdR e alla Corte costituzionale, ossia agli stessi organi cui, nella costruzione di Barile, spettava l’indirizzo politico costituzionale; e, simmetricamente, la funzione di «indirizzo politico di maggioranza» diverrà la funzione d’indirizzo politico tout court, ossia il potere di decidere liberamente i contenuti dell’ordinamento rispettando il dettato costituzionale quale limite esterno e principalmente negativo[47].

Si tratta, evidentemente, di un nuovo modo di concepire la nozione d’indirizzo politico, che non ha più che flebili legami con le teorizzazioni che la dottrina italiana ne offrì tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso[48].

Nel modello interpretativo basato sul binomio “indirizzo/garanzia”, l’indirizzo politico non è più ciò che coordina e unifica le restanti funzioni statali, predeterminando i fini cui tutte le competenze sono preordinate. Non è più «il principio d’unità, posto accanto al principio di divisione»[49], cioè la condizione stessa di possibilità dell’ordinamento come assetto unitario. Perché, se così fosse, all’indirizzo non potrebbe certo contrapporsi la dimensione della garanzia: se la direzione politica ha il compito di coordinare e unificare l’intera azione statale in vista di un fine generale a essa non potrebbe certo sottrarsi l’attività di garanzia.

Tuttavia, pur non essendo più quella di un tempo, la nozione d’indirizzo politico continua a svolgere una funzione normativa (e non meramente esistenziale), poiché è adoperata in funzione dogmatica per classificare talune tipologie di atti costituzionali, principalmente allo scopo d’individuarne i titolari effettivi laddove per il loro compimento la Costituzione preveda la formale partecipazione di più organi costituzionali distinti. Sicché vi sarebbero atti costituzionali che sono esplicazione d’indirizzo politico e atti che invece sarebbero espressione d’altro: e nella prima categoria rientrerebbero, anzitutto, la legge ordinaria del Parlamento e, a seguire, tutti quegli atti del Capo dello Stato che si ricollegherebbero a competenze tradizionali del potere esecutivo e dell’attività di governo. Ovviamente è con riferimento a quest’ultima categoria d’atti che troverebbe utile applicazione l’uso dogmatico della nozione d’indirizzo politico, con l’obiettivo appunto di determinarne l’organo autenticamente competente. In un certo senso, evocando la funzione d’indirizzo politico, si svelerebbe quale ordine sostanziale delle competenze si celerebbe al di sotto di quello formale fissato in Costituzione. E così, quando talune norme costituzionali di competenza – quelle relative al Capo dello Stato, per la precisione – riconducono il compimento di un medesimo atto all’azione congiunta di più organi costituzionali, la nozione d’indirizzo politico ci segnalerebbe, di volta in volta, quale tra gli organi coinvolti debba esserne l’autore materiale.

L’uso dogmatico della nozione normativa d’indirizzo politico solleva un formidabile problema di metodo. Che il testo costituzionale non fornisca i criteri della sua lettura e che pertanto questi devono essere costruiti e giustificati dall’interprete, è idea largamente diffusa. Inevitabilmente il processo ermeneutico si vale pure di “materiali” che non sono direttamente offerti dagli enunciati scritti e senza i quali il passaggio dalle disposizioni alle norme non sarebbe spiegabile. Tuttavia nel caso esaminato ci troviamo di fronte ad un fenomeno diverso. Se la Costituzione dice semplicemente che per aversi un atto presidenziale oltre alla firma (e decreto) del Capo dello Stato occorre la controfirma del Governo, perché mai dovremmo chiederci se il dominus della relativa competenza debba essere l’uno ovvero l’altro organo costituzionale? Porsi tale questione equivale a porsi un genuino problema interpretativo? Non è più lineare supporre che le volontà di ambedue gli organi abbiano eguale forza costitutiva? Le considerazioni di sistema, infatti, dovrebbero servire per sciogliere i nodi ermeneutici del testo, non già per sostituirlo (come quando si fa finta, ad esempio, che al posto di «ministri proponenti» ci sia scritto «ministri competenti»…).

Nel caso considerato è forte l’impressione che il testo costituzionale non venga né interpretato né integrato – ché un’interpretazione è sempre un’integrazione, come già si è detto a proposito del passaggio dalle disposizioni alle norme – ma sia invero corretto in modo che la sistematica degli atti costituzionali corrisponda all’idea, estranea al testo, che solo alcuni organi costituzionali possono “fare politica”, cioè esprimere scelte d’indirizzo. E siccome si è postulato che il PdR non sarebbe tra questi, talune sue competenze previste nella costituzione scritta sarebbero in realtà interamente del Governo in virtù della loro idoneità a esprimere scelte politiche. Col risultato che il sistema occuperebbe così il posto della scrittura.

 

 

7. – La dubbia distinzione tra «atti politici» e «atti di controllo»

 

Applicando il binomio indirizzo/garanzia, non s’avanza solo la pretesa d’indicare, per taluni atti o competenze, quali ne siano i titolari sostanziali, a integrazione o forse correzione delle titolarità formali fissate dal testo. Si ottiene altresì il risultato di distinguere gli atti costituzionali «politici», cioè «liberi nel fine», dagli atti costituzionali «di controllo», che sarebbero invece esercitabili solo in vista di finalità costituzionali.

I primi, infatti, sarebbero espressione di una «funzione limitata dalla Costituzione formale, ma non positivamente vincolata ai fini posti nella Costituzione formale»; i secondi, invece, di una funzione «che si presenta non solo limitata, ma anche positivamente vincolata ai fini posti nella Costituzione formale»[50].

  Sennonché pure in questo caso l’impressione è che non si abbia a che fare con un vero e proprio criterio interpretativo, ma con qualcos’altro. Fintantoché viene applicata a competenze come quella legislativa o quelle spettanti alla Corte costituzionale, la distinzione tra atti politici e atti di controllo non pone alcun problema, non foss’altro perché nulla aggiunge né toglie all’intendimento della disciplina costituzionale relativa al procedimento di formazione della legge o alle decisioni che chiudono il sindacato di costituzionalità delle leggi: più che un vero criterio interpretativo, in questo caso, è una descrizione, neppure tanto accurata, del tipo di competenze spettanti al parlamento o al giudice costituzionale.

Tutto appare più complicato, all'opposto, quando è usata per classificare gli atti presidenziali. Se uno di questi viene catalogato tra gli atti di controllo, la detta distinzione imporrà d’intenderne la relativa competenza come se il suo esercizio fosse possibile solo per far valere una regola o principio costituzionale. Se, per esempio, si postula che il potere di rinvio delle leggi ex art. 74 sia esplicazione di una funzione di controllo, allora il PdR dovrebbe poter opporre al legislatore il veto sospensivo solo per tutelare principi e regole costituzionali, cioè solo se ragioni d’ordine costituzionale lo giustificano. Per questa via, però, si è ottenuto l’effetto di ispessire il testo costituzionale, integrandolo con norme che di per sé non potrebbe veicolare[51]. È come se – per fare un altro esempio – ad ogni disposizione che prevedesse un’attribuzione presidenziale classificabile come sostanzialmente governativa (in quanto facente capo ad un atto politico), si aggiungesse surrettiziamente una norma implicita che subordina il diniego presidenziale di firma alla necessità di far valere principi costituzionali sostantivi: in questo caso, affinché il Capo dello Stato possa legittimamente rifiutarsi di adottare l’atto, non sarebbe sufficiente appellarsi alla norma costituzionale che gliene attribuisce la relativa competenza, essendo quest’ultima non già «libera nel fine» ma «positivamente vincolata ai fini posti nella costituzione formale». E così, anche se il decreto-legge è un atto presidenziale, il PdR non potrebbe nondimeno negarne l’emanazione se non per preservare il rispetto di norme costituzionali, come se nella Costituzione ci fosse scritto: “il Capo dello Stato emana i decreti-legge, ma può non emanarli solo se è necessario per tutelare norme costituzionali che altrimenti sarebbero violate”. Ora, la parte finale di questa proposizione ipotetica può essere il risultato corretto dell’interpretazione del testo vigente? Da quale disposizione o complesso di disposizioni può trarsi? È evidente – credo – che questo limite immanente a molte prerogative presidenziali, che le teorie polifunzionali fingono di scorgere nella costituzione formale, è in realtà il portato di una sistematica generale che ha pochissimi agganci nel testo e moltissimi nell’idea o pregiudizio generale che il PdR, diversamente dal Parlamento e dal Governo, possa agire solo per richiamare gli altri organi costituzionali al rispetto della Costituzione, nonostante questa, tra le diverse definizioni che offre della figura presidenziale, non adoperi mai la formula “garante della Costituzione”[52].

 

 

8. – Scambi di ruolo e incoerenze del modello

 

La classificazione degli atti presidenziali in almeno due categorie distinte – gli atti “politici” sostanzialmente governativi e gli atti “di controllo” sostanzialmente presidenziali – è il prodotto più significativo del binomio indirizzo/garanzia. Ovviamente anche la concezione della controfirma dovrà essere coerente con queste premesse e postulare che l’istituto abbia significati e ruoli diversi secondo il tipo di atto cui accede. Qui però si situa un altro punto controverso della tesi criticata.

In particolare, la difficoltà non sorge con i c.d. atti sostanzialmente governativi, poiché in relazione ad essi la controfirma attesterebbe che il Capo dello Stato ha dato seguito alla proposta ministeriale e che pertanto la determinazione del contenuto dell’atto è governativa. A fare problema sono, piuttosto, i c.d. atti sostanzialmente presidenziali, a proposito dei quali non si comprende quale funzione possa mai avere la controfirma ministeriale[53].

In alcune versioni della teoria polifunzionale sembra quasi che si voglia affermare uno scambio di ruoli tra PdR e Governo riguardo alle diverse tipologie di atti: in taluni sarebbe il Governo a determinarne (politicamente) il contenuto, con il PdR che controlla la regolarità costituzionale dell’attività governativa; in altri sarebbe il Capo dello Stato a deciderne il contenuto, con il Governo che ne controlla la regolarità costituzionale[54]. Ma oltre al fatto che questa intercambiabilità funzionale, che tanto s’avvicina alla logica sottesa al giuoco fanciullesco guardie e ladri[55], sembra sconfessare la stessa premessa di fondo di una netta separazione tra attività/organi di indirizzo e attività/organi di garanzia, c’è da dire inoltre che appare logicamente difettosa l’ipotesi che il Governo eserciti un controllo costituzionale sugli atti presidenziali di controllo costituzionale![56]

Preavvertendo l’insorgere di questa difficoltà e quasi al fine di precostituire la replica ad una possibile obiezione, Crisafulli e Barile sostennero che, nel caso degli atti propriamente presidenziali, l’attività governativa fosse una sorta di «controllo politico» diretto a vigilare affinché, a sua volta, l’attività presidenziale di controllo costituzionale non sconfinasse nell’indirizzo politico del Governo ingerendosi in scelte spettanti al solo gabinetto responsabile di fronte alle Camere[57]. Tuttavia non si comprende in che termini la scelta di un giudice costituzionale o il rinvio di una legge alle Camere – per stare agli atti che sono diffusamente definiti come propriamente presidenziali – realizzi un’invasione dell’indirizzo politico riservato al Governo: ciò accade quando il PdR propone come nuovo giudice costituzionale un giurista notoriamente ostile alla linea politica del Governo (e della sua maggioranza parlamentare) e quando rinvia una legge che è un momento essenziale del programma governativo? Se «controllo politico» ha da essere, è solo in queste ipotesi che esso troverebbe senso e giustificazione: ma ad accogliere questa conclusione si finirebbe, di fatto, col concepire gli atti propriamente presidenziali come se fossero, in realtà, atti complessi, bisognosi del consenso pieno di ambedue gli organi costituzionali interessati.

Del resto, che quello denunciato sia un difetto insanabile delle tesi criticate è infine provato dallo stesso atteggiamento rinunciatario di numerosi studiosi che nondimeno si dichiarano fautori dell’approccio polifunzionale. Davanti all’impossibilità di dare una giustificazione della partecipazione governativa agli atti propriamente presidenziali arrivano, infatti, alla conclusione che in tali casi la controfirma ministeriale non ha, appunto, alcun senso, non chiarendo però se da ciò debba trarsi che tali atti, in base al diritto costituzionale vigente, siano esenti da controfirma ovvero se ciò debba intendersi soltanto come un invito al futuro legislatore di revisione a tenerne conto in sede di riforma eventuale dell’art. 89 della Costituzione. In fin dei conti, l’atteggiamento è un po’ quello di chi non riuscendo a comporre un puzzle preferisce pensare che il difetto stia nei tasselli anziché nella propria opera di ricostruzione[58].

 

 

9. – La dissociazione tra forma e sostanza nell’ordine costituzionale delle competenze presidenziali

 

La concezione polifunzionale della controfirma propone una dissociazione tra forma e sostanza.

Tutti gli atti presidenziali – per definizione stessa ricavabile dal significato dell’aggettivo qualificativo – non possono che essere “presidenziali”. E però questa tautologia – a giudizio dell’indirizzo polifunzionale – enuncerebbe una verità incontroversa soltanto sul piano formale, col risultato che tutti gli atti presidenziali sarebbero, sì, tutti formalmente tali, ma non tutti lo sarebbero pure sostanzialmente. Per alcuni di essi, dunque, alla forma non corrisponderebbe la sostanza. L’ordine formale delle competenze (presidenziali) sarebbe in realtà corretto da un ordine sostanziale, che pur scorrendo sottotraccia, costituirebbe il “vero” diritto costituzionale vigente.

Bisogna precisare che in questo caso la dissociazione tra forma e sostanza, tra ordine formale e ordine sostanziale delle competenze (presidenziali), non è la distinzione tra diritto e politica, tra astratta disciplina costituzionale e concreti svolgimenti della prassi, ma è invece la distinzione tra diritto “apparente”e diritto “vero”, cosicché è la violazione di questo secondo, e non del primo, a dover essere sanzionata giuridicamente.

Neppure è la distinzione tra disposizione e norma, cioè tra l’enunciato scritto e la sua interpretazione. Non avrebbe senso, infatti, sostenere che le disposizioni ci parlano di “atti presidenziali” – con ciò presumendo che il loro significato sia stato determinato – e che però le loro interpretazioni ci consegnano la diversa realtà di atti che sotto il profilo sostanziale non sarebbero “presidenziali”, ma altro. Distinguere tra disposizioni e norme non equivale a contrapporre le une alle altre. Nel caso, invece, della dissociazione tra forma e sostanza c’è una cosciente, deliberata e sistematica svalutazione del testo (e di quanto esso inequivocabilmente ci comunica) nelle parti in cui non si armonizza col sistema, col modello teorico che si vuole guidi la definizione delle attività presidenziali.

Questo atteggiamento è rivelato con nettezza dalle parole di Mortati, il quale – appunto – anziché proporre le sue tesi sul ruolo presidenziale come interpretazioni corrette dei testi, preferisce deprezzare questi ultimi (o la parte di essi che non supportano la sua ricostruzione) quale retaggio di una tradizione superata. Ed ecco perciò che s’imputa alla «tradizione storica» di avere «influenzato lo stesso costituente inducendolo a conferire agli atti in parola una configurazione formale non corrispondente alla realtà dei rapporti regolati»[59]: con ciò evidenziando un presunto contrasto interno alla disciplina costituzionale, tra testi e testi, ossia tra enunciati che qualificano come presidenziali taluni atti costituzionali ed enunciati che, invece, nel disciplinarli ne sconfesserebbero la natura presidenziale[60].

Al limite, l’operazione di Mortati sarebbe stata condivisibile se la Costituzione non avesse razionalizzato la figura del Capo dello Stato e avesse invece recepito nella sua interezza il retaggio caduco della tradizione statutaria. Sennonché è lo stesso Mortati – curiosamente dopo avere stigmatizzato «l’influenza» e «l’ostacolo» della «tradizione storica» – a riconoscere e sottolineare con enfasi i cambiamenti che, in ordine alla figura del Capo dello Stato, la costituzione repubblicana avrebbe introdotto rispetto al previgente regime statutario[61]. Con ciò ammettendo implicitamente che laddove la Costituzione ha voluto innovare, lo ha fatto senza titubanze; e che quando ciò non è accaduto, è perché non se ne ravvisò la necessità.

 

 

10. – Capo dello Stato e sovranità popolare nel pensiero di Vezio Crisafulli

 

Finora ho criticato la concezione polifunzionale della controfirma, ritenendo che la concezione garantistica del Capo dello Stato fosse una base fragile. Se ne dovrebbe dunque ricavare la conclusione che il PdR sia organo d’indirizzo politico?

In realtà, l’alternativa “organo d’indirizzo od organo di garanzia?” è una camicia di Nesso dalla quale non bisogna lasciarsi intrappolare. Infatti, l’operazione che qui mi propongo non è quella di stabilire se il Capo dello Stato sia una «struttura governante» oppure no. Mi chiedo, invece, se esistono argomenti di diritto costituzionale contro la tesi che gli atti presidenziali siano atti complessi. E la conclusione cui pervengo è negativa[62].

Onde evitare equivoci, dico subito che condivido pienamente l’idea secondo cui per il costituzionalismo democratico-pluralista non è pensabile il dualismo tra capo dello stato e istituzione parlamentare, salvo che il primo non tragga investitura da un proprio canale elettivo, distinto da quello parlamentare, come accade nelle esperienze di governo presidenziale. Tuttavia di quest’idea non deve farsi un uso improprio, con l’obiettivo di giustificare conclusioni d’ordine generale che non può sorreggere affatto.

Ad esempio, Vezio Crisafulli non aveva certo torto quando sosteneva che «tutti gli organi dello Stato-soggetto trovano oggi la fonte, immediata o mediata, dei loro poteri nella volontà popolare, il principio democratico improntando l’intera struttura della comunità statale e dei soggetti governanti»; e aveva sicuramente ragione quando notava che il PdR non «ha dietro di sé la forza della investitura popolare, in fatto diretta e può dirsi plebiscitaria, del Presidente degli Stati Uniti» e che, di conseguenza, «non può in alcun modo considerarsi come un centro di forze politiche attive, suscettibili di pesare, sull’altro piatto della bilancia, più e nemmeno quanto le Assemblee derivanti dal suffragio universale»[63]. Non è però corretto assolutizzare tale punto di vista e sostenere che «per questa ragione il Presidente è, negli Stati Uniti, e non è, in Italia, organo di indirizzo politico, essendo nella logica dei sistemi democratici che la direzione politica risalga, direttamente o indirettamente, alla maggioranza popolare»[64].

Per dimostrare l’estraneità presidenziale dal circuito dell’indirizzo politico, sempre Crisafulli afferma che «la potestà di indirizzo politico è condizionata dalla scelte effettuate direttamente dal popolo, mentre l’esercizio dei poteri del Presidente si svolge in piena indipendenza da queste, anche se non possa, naturalmente, prescinderne»[65]. Ciò lascia a intendere che in uno stato democratico deve esserci almeno una parziale determinazione dell’indirizzo politico da parte del corpo elettorale: resta però da capire quando, precisamente, ci troviamo di fronte a «scelte effettuate direttamente dal popolo». La tesi crisafulliana sembra, infatti, presupporre l’irrealistica «dottrina classica della democrazia»[66] secondo cui i cittadini si autodeterminano per mezzo della rappresentanza politica. In realtà, il popolo non pone né tantomeno decide le issues, ma solo seleziona la classe governante che le porrà e deciderà. Semmai, potrà dirsi che nel contesto di un sistema bipartitico e/o bipolare il corpo elettorale dà il proprio assenso ad una proposta programmatica e ad una leadership di governo.

Ma pure ammettendo che quest’ultima sia una «scelta effettuata direttamente dal popolo», come la mettiamo con i sistemi multipartitici? Non dobbiamo considerarli democratici? È indubbio che il governo formato da una coalizione partitica post-elettorale non possa prescindere completamente dagli indirizzi particolari delle singole forze che la compongono e che pertanto il programma complessivo dell’esecutivo sia la risultante dei programmi partitici particolari cui i cittadini hanno dato il loro assenso votando per i partiti che li hanno proposti[67].

 

 

11. – Capo dello Stato e indirizzo politico alla luce degli articoli 87, 90 e 95 della Costituzione

 

La posizione di Crisafulli non è certo isolata in dottrina, se è vero che anche altri sono pervenuti e pervengono alle medesime conclusioni, seppure seguendo vie argomentative diverse.

In particolare, per escludere che il Capo dello Stato sia un centro d’iniziativa politica potenzialmente concorrente rispetto al Governo s’invocano numerose disposizioni costituzionali: gli artt. 87, primo comma, 90 e 95.

A proposito dell’art. 87, «se il capo dello Stato – così si argomenta – rappresenta l’unità nazionale, questo vuol dire che tutta la nazione deve trovare, in quell’organo, la propria rappresentazione, sicchè il presidente non si potrebbe far portatore delle esigenze o delle preferenze politiche di una fazione, e men che meno potrebbe costituirsi un vero e proprio “partito del presidente”»[68]. C’è da dire, però, che associare l’impoliticità alla funzione di rappresentanza è operazione difficile da giustificare nel contesto del pensiero giuspolitico moderno e contemporaneo. Rappresentare l’unità nazionale è tradizionalmente la massima espressione di politicità. Non per caso, a mente dell’art. 67 della Costituzione, anche «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione»: pure dei parlamentari dovremmo asserire l’estraneità rispetto al processo formativo dell’indirizzo politico?[69]

Un altro argomento che è speso frequentemente per sostenere l’estraneità del PdR dall’attività politica è l’art. 95 della Costituzione, laddove attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri la direzione della politica generale del Governo e il mantenimento dell’unità di indirizzo politico (siccome determinato dal Consiglio dei ministri)[70].

Tuttavia neppure in questo caso l’obiettivo è raggiunto, poiché l’art. 95 non definisce certo la posizione del Governo rispetto agli altri organi costituzionali (circoscrivendo la funzione d’indirizzo politico alla sola sfera governativa: cosa palesemente insostenibile, visto il ruolo delle Camere), ma solo definisce i rapporti tra le diverse componenti dell’esecutivo[71].

L’ultimo argomento da cui si cercato d’inferire l’estraneità del PdR dall’attività d’indirizzo politico, è quello della sua irresponsabilità ex art. 90 Cost.: poiché in un regime democratico al potere politico si associa sempre la responsabilità politica, se il Capo dello Stato non è «responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni» ciò significa che le sue funzioni sono estranee al potere d’indirizzo politico[72].

Sennonché, è sicuramente sbagliato negare “politicità” al PdR perché non è responsabile politicamente di fronte al Parlamento: neppure il presidente statunitense lo è, eppure nessuno direbbe che non è organo politicamente responsabile. Ancora una volta può utilmente richiamarsi l’analogia con la posizione dei parlamentari. La responsabilità politica del PdR, infatti, pur essendo inesistente di fronte al Parlamento, come prescrive l’art. 90 Cost., è tuttavia del medesimo tipo di quella cui soggiacciono i membri delle Camere: come i parlamentari, anche il Capo dello Stato può non essere rieletto[73].

Che poi nella prassi repubblicana la mancata rielezione del PdR non sia mai stata una sanzione politica, cioè un modo per far valere una responsabilità politica istituzionale, non dimostra certo che il diritto costituzionale voglia negare carattere di “politicità” alla carica presidenziale: semmai dimostra che in questi decenni di esperienza repubblicana il sistema politico-partitico ha sistematicamente voluto e realizzato, in larga parte almeno, la neutralizzazione politica del Capo dello Stato[74].

Infine, c’è ancora una variante dell’argomento dell’irresponsabilità politica, che probabilmente è la più risalente nel tempo (è del 1949) e che si deve alla penna raffinata di Serio Galeotti[75]. Combina l’art. 90 con il principio di sovranità popolare ex art. 1 Cost., individuando un continuum tra scelte del corpo elettorale, indirizzo delle Camere rappresentative e azione del Governo responsabile dinanzi a quest’ultime: in virtù di ciò non sarebbe possibile «accumulare in un organo individuale, politicamente irresponsabile e non immediata espressione della volontà popolare, una somma di potere tale da farlo capace di paralizzare a suo arbitrio, lo svolgersi dell’attività di governo»[76].

Per comodità espositiva si può esprimere il punto di vista di Galeotti in forma d’interrogazione retorica: se ciò che il Governo fa soddisfa il Parlamento, in virtù di quale legittimazione democratica il PdR potrebbe bloccare l’opera dell’esecutivo e, così facendo, rovesciare la valutazione positiva datane dalle Camere? Difatti, a seguire quest’orientamento, se l’indirizzo politico del PdR è il medesimo del Governo, nulla quaestio; ma se se ne discosta, ciò non equivale a paralizzare in modo antidemocratico lo stesso indirizzo politico delle Camere? Di qui la recisa negazione che il Capo dello Stato possa agire come organo d’indirizzo politico.

In realtà la logica democratico-rappresentativa del sistema non è intaccata dalla politicità del PdR, poiché se è vero che questo può paralizzare l’azione del Governo, è vero anche che può soltanto frenare temporaneamente quella delle Camere, come vedremo meglio in seguito a proposito del rinvio delle leggi ex art. 74 Cost. Non è corretto, inoltre, argomentare presumendo la perfetta corrispondenza tra volontà governativa e volontà parlamentare: è chiaro che soltanto sotto questa condizione sarebbe antidemocratico consentire ad un organo privo d’investitura popolare diretta di contrapporsi al Governo. Invece c’è una bella differenza tra il potersi contrapporre alla volontà politica del Parlamento e il potersi contrapporre alla volontà politica dell’esecutivo; e se la seconda ipotesi si risolvesse logicamente nella prima, non avrebbe senso la stessa distinzione funzionale (ed organica) tra Camere e Governo[77].

 

 

12. – La “terza via” della Repubblica parlamentare italiana

 

Per inquadrare correttamente il problema della “politicità” del capo dello Stato non bisogna trascurare il fatto che la presidenza della repubblica è pur sempre una carica elettiva, ancorché indiretta. Non si diventa presidenti per diritto divino o ereditario, ma sempre per effetto di scelte compiute dentro il circuito della legittimazione democratica.

È quasi scontato sottolineare questa circostanza e la differenza profonda che marca rispetto alla posizione costituzionale ricoperta dal monarca in molti regimi parlamentari europei: ma se non lo si fa, si perdono di vista le peculiarità della nostra figura presidenziale.

In particolare deve evidenziarsi un dato: se confrontata con quella del Governo, l’investitura democratica del PdR non è certo di livello inferiore.

Può obiettarsi che il Governo legittimato democraticamente dall’investitura parlamentare è sempre responsabile politicamente di fronte alle Camere e che, pertanto, può essere centro d’iniziativa politica in quanto ne risponda costantemente, mentre lo stesso non varrebbe per il Capo dello Stato. Ciò nondimeno si deve tenere presente che:

a) l’investitura elettivo-parlamentare del PdR è ben più forte e ampia di quella che riceve il Governo tramite il voto di fiducia[78]. Perciò, è sicuramente corretto – almeno dal punto di vista della teoria democratica – non consentire a una maggioranza parlamentare qualsiasi di determinare la cessazione dalla carica, di sfiduciare un PdR eletto a maggioranza qualificata da un Parlamento in seduta comune, peraltro integrato da delegati regionali. A ben vedere, ciò chiarisce perché l’art. 90 enuncia l’irresponsabilità presidenziale, giustificandone l’interpretazione che ne circoscrive la portata ai soli rapporti con le Camere. In altre parole, solo un Parlamento in seduta comune integrato dai delegati regionali può far valere la responsabilità politica nei confronti del PdR, non rieleggendolo.

b) Inoltre, il Capo dello Stato – in base alla teoria dell’atto presidenziale come atto complesso, che qui propongo – non può mai agire da solo, ma solo con il concorso dell’esecutivo. È vero dunque che, a differenza del Governo, non è responsabile politicamente dinanzi alle Camere, ma è altresì vero che la sua iniziativa politica non può sortire alcun effetto e tradursi in qualche atto senza il consenso di un esecutivo che invece (responsabile) lo sia.

In sostanza, tanto il Governo quanto il PdR sono privi d’investitura elettiva diretta e ambedue mutuano “democraticità” dal Parlamento, unico organo che nella nostra forma di governo nazionale sia eletto direttamente dal corpo elettorale.

Se quanto scritto è corretto, il governo parlamentare italiano si discosta sia dalle monarchie parlamentari europee sia dalla repubblica presidenziale statunitense. Da un lato, il fatto che l’investitura del capo dello stato non sia dinastico-tradizionale, ma “parlamentare integrata”, non consente di appiattire il ruolo del nostro PdR su quello del re nelle monarchie parlamentari esistenti; dall’altro lato, il fatto che la detta investitura elettiva non sia propriamente di secondo grado ma solo genericamente indiretta, non consente di assimilare il nostro regime parlamentare al dualismo netto del regime presidenziale statunitense[79].

Da quanto osservato si ricava, inoltre, che il nostro PdR non può certo essere un veto player rispetto al parlamento[80]; e segnatamente non può esserlo rispetto alla funzione legislativa ordinaria[81]. Può esserlo invece nei confronti del Governo, come risulta sia dalla dottrina dell’atto complesso, sia dal fatto che la legittimazione democratica del PdR non è inferiore a quella del gabinetto.

Per chiarire meglio il concetto può essere utile adoperare come cartina di tornasole la nota tesi di Jones secondo cui esistono assetti costituzionali dove «separated institutions competing for shared powers»: dove, cioè, organi distinti e provvisti di distinte legittimazioni (democratiche) competono tra loro per esercitare poteri condivisi[82]. È noto che questa formula è stata coniata con riferimento alla costituzione federale americana e per descrivere soprattutto i rapporti tra President, House of Representatives e Senate. Ma in un certo senso può impiegarsi anche per la nostra forma di governo, limitatamente però al rapporto tra Governo e PdR. In virtù, infatti, di quanto si è scritto sinora con riguardo alla dottrina dell’atto complesso, tutti i poteri del PdR – per effetto della necessaria controfirma del ministro proponente – sono anche poteri del Governo; e viceversa, tutti i poteri del Governo, avendo essi sempre la forma dell’atto presidenziale, sono sempre anche poteri del capo dello stato. Abbiamo quindi organi distinti, con un mandato temporalmente distinto e ciascuno provvisto di una propria distinta legittimazione democratico-parlamentare, i quali condividono le medesime funzioni e che perciò possono legittimamente competere tra loro per piegarne l’esercizio a interessi politici differenti.

Grazie alle virtualità insite nel ruolo presidenziale (per come risulta dalla ricostruzione del disegno costituzionale proposta in queste pagine), non abbiamo il dualismo americano tra esecutivo e legislativo, ma non abbiamo neppure il tipo di monismo che invece ci viene tradizionalmente attribuito. Abbiamo invece una sorta di “terza via” tra la repubblica presidenziale (statunitense) e la monarchia parlamentare (contemporanea).

Non c’è dualismo tra governo e parlamento, ma non c’è neppure integrale dipendenza dell’esecutivo dal legislativo, perché in realtà – almeno dal punto di vista funzionale se non strutturale e organico – abbiamo un esecutivo diviso, di cui solo un’articolazione funzionale, quella che mette capo al gabinetto, è responsabile politicamente dinanzi alle Camere. L’altra branca, quella costituita dal PdR, non dipende per la sua sopravvivenza dal consenso di una maggioranza parlamentare. D’altro canto, però, non può mai agire da sola, cioè in modo potenzialmente idoneo a entrare in conflitto con l’indirizzo parlamentare, ma sempre e soltanto con l’accordo del Governo. Con riferimento alle funzioni presidenzial-governative il capo dello stato e il gabinetto sono ciascuno il potenziale veto player dell’altro: separated institutions competing for shared powers, appunto[83].

È dunque impensabile una politica presidenziale attiva che non sia anche e nello stesso tempo una politica governativa politicamente responsabile di fronte alle Camere. Non c’è dubbio che l’atto presidenziale sia esercizio di potestas: ma lo è proprio perché è un atto complesso, cioè presidenziale e governativo a un tempo. L’indirizzo politico del PdR è perciò manifestazione di potestas nella misura in cui converge con quello del Governo. È invece manifestazione di auctoritas quando se ne discosta e assume un profilo non già attivo bensì negativo, ossia quando si palesa come volontà di non fare e quindi di frenare e impedire che si faccia[84].

Ovviamente non si può escludere che i detti poteri d’interdizione reciproca rimangano quiescenti e che col tempo si affermino delle convenzioni che graduino il ruolo di ciascuno dei due organi nella determinazione del contenuto dell’atto o che, addirittura, ne assegnino la relativa competenza ad uno solo di essi. Poiché le caratteristiche del sistema partitico, e più in generale politico, e i rapporti di forza tra gli attori costituzionali possono variare nel tempo, può ben accadere che negli svolgimenti della prassi il modello dell’atto complesso, in taluni ipotesi, ceda il passo al modello dell’atto “semplice” (ora sostanzialmente governativo, ora sostanzialmente presidenziale).

Ciò non deve sorprendere, né tantomeno ingenerare il convincimento che ci si trovi dinanzi a violazioni della Costituzione. Un potere previsto dalla Costituzione può esercitarsi oppure no, secondo il libero apprezzamento di chi di volta in volta n’è il titolare: ciò che conta è che il suo eventuale esercizio, laddove fosse anche rarissimo, non sia ritenuto illegittimo alla luce di prassi e convenzioni che fino a quel momento andavano in direzione opposta. Mutuando la terminologia di Albert Venn Dicey, occorre distinguere tra conventions of the Constitution e law of the Constitution, onde evitare che le prime possano sopraffare il secondo per sostituirsi ad esso[85].

 

 

13. – La sovrainterpretazione del principio maggioritario

 

La tesi secondo cui il PdR è provvisto di una legittimazione democratica non inferiore a quella del Governo può essere contestata per mezzo di una strategia argomentativa che può riassumersi così: poiché di fatto, nel contesto di una competizione essenzialmente bipolare e grazie ad una legge elettorale che concede un premio di maggioranza alla lista (o coalizione di liste) più votate, il significato sostanziale del voto popolare è diventato quello di un’investitura popolare diretta dell’esecutivo, se ne deve perciò concludere che la funzione d’indirizzo politico deve spettare al solo Governo (nel suo raccordo con la maggioranza parlamentare), con esclusione del Capo dello Stato. Come si vede, una tesi normativa – la spettanza esclusiva della funzione d’indirizzo politico in capo al continuum governo-maggioranza parlamentare – viene desunta dalla descrizione di un dato fattuale – la corrispondenza tra elezione parlamentare e scelta del governo[86].

Si dirà che è il principio costituzionale di sovranità popolare a permettere, o imporre, questa trasformazione di un essere in un dover essere. Ma è proprio qui che si situa il punto critico della tesi illustrata: è veramente corretto presumere che il principio di sovranità popolare dia copertura o addirittura auspichi e richieda la coincidenza sostanziale di elezione parlamentare e scelta diretta dell’esecutivo? Si può applicare a questo caso la logica dei “due piccioni con una fava”, assumendo che il popolo sia più “sovrano” se in un sol colpo esprime la composizione politica di due organi costituzionali (il Parlamento e il Governo)?

La risposta non può che essere negativa. E per convincersene occorre riflettere proprio sul rapporto tra Parlamento e Governo e sul modo in cui è implicitamente descritto dalla tesi in esame. Se con un’unica elezione popolare si determina la composizione del legislativo e dell’esecutivo, entrambi dovrebbero poter parlare “in nome del popolo sovrano”, con pari dignità ed eguale peso politico: il che però modifica surrettiziamente la disciplina del rapporto fiduciario di cui all’art. 94 della Costituzione. Sarebbe possibile, infatti, revocare legittimamente la fiducia a un Governo investito direttamente dalla fiducia popolare?

È noto che per i sostenitori della democrazia maggioritaria alla sfiducia parlamentare deve seguire lo scioglimento anticipato delle Camere, altrimenti si realizzerebbe un sovvertimento della volontà popolare. Ciò però comporta che le Camere non siano più libere di sostituire un Governo con un altro, sebbene nella costituzione vigente non vi sia alcun collegamento automatico tra sfiducia e scioglimento[87].

E non si tratterebbe in questo caso di aggiungere semplicemente una nuova norma costituzionale a quelle preesistenti ricavabili dalla costituzione scritta, perché invero si realizza qualcosa di più dirompente, che difficilmente supera il raffronto di compatibilità con le disposizioni costituzionali vigenti: una cosa è, infatti, asserire che il Parlamento può accordare o revocare la fiducia al Governo, altra cosa è asserire che lo possa fare una sola volta per legislatura. Questa seconda norma non si aggiunge semplicemente alla prima – per effetto di un’integrazione del diritto costituzionale scaturente dal Kombinat costituito dalla disciplina del sistema elettorale e delle prassi convenzionali – ma si propone al posto della prima[88].

Inoltre, a seguire la tesi criticata, dovrebbe concludersi che la disciplina costituzionale della forma di governo nazionale è la medesima di quella regionale vigente. Anche qui, infatti, il voto popolare legittima contemporaneamente il legislativo e l’esecutivo; e il primo non può sfiduciare il secondo senza incorrere nella sanzione dello scioglimento anticipato: in questo caso, però, la disciplina scritta pone chiaramente la regola dell’elezione diretta del vertice dell’esecutivo e la regola del simul stabunt, simul cadent, con ciò dimostrando che c’è una bella differenza tra un testo che pone espressamente queste regole e un testo che invece non vi fa il benché minimo cenno; e che non è certo corretto intendere il secondo come se veicolasse lo stesso significato del primo.

Dunque, è lecito concludere che il Governo non può parlare “in nome del popolo sovrano” con eguale titolo del Parlamento e che, in realtà, trae la propria base di legittimazione democratica dalle Camere. Difatti, posto che il Parlamento può sempre sostituire il Governo in carica con un altro, il diritto costituzionale non fa alcuna differenza tra il ruolo e la posizione di un Governo il cui premier sia il «capo della coalizione» che ha vinto il confronto elettorale e il ruolo o la posizione di un Governo e di un premier che sostituisse il primo per effetto di una ricomposizione parlamentare degli equilibri politico-partitici.

Ciò dimostra che per il diritto costituzionale vigente non c’è alcun canale diretto tra corpo elettorale e Governo e che deve sempre presumersi che il gabinetto sia, in ogni momento e circostanza, emanazione diretta della volontà parlamentare e non popolare. Pertanto, sempre per il diritto costituzionale vigente, la sua forza di derivazione democratica non può intendersi come se fosse superiore a quella del PdR. Alla luce della comune origine parlamentare i due organi costituzionali “pari sono”[89].

 

 

14. – L’essenza del costituzionalismo

 

Rinunciare al paradigma interpretativo basato sulla distinzione tra indirizzo e garanzia non equivale a rinunciare al costituzionalismo[90].

Basti riflettere al tipo di rapporto che alla luce della dottrina dell’atto complesso dovrebbe intercorrere tra PdR e Governo: sono connessi funzionalmente, hanno entrambi una legittimazione democratico-parlamentare, ma nessuno può determinare l’origine e la sopravvivenza dell’altro[91]. Non ha questo potere il Governo nei confronti del Capo dello Stato, né lo ha il secondo nei confronti del primo. È vero che è il PdR a nominare il Governo, ma è vero pure che la scelta è condizionata fortemente dall’assetto e volontà delle forze politiche parlamentari. E in ogni modo non può liberamente revocarlo[92]. Insomma, per intendere il rapporto tra Capo dello Stato e Governo pare più utile fare riferimento al modello separazionista americano che non a quello imperniato sulla distinzione tra indirizzo e garanzia.

Infatti quest’ultimo modello, che tanta fortuna ha avuto nella ricostruzione del diritto costituzionale italiano vigente, non raccoglie l’eredità del costituzionalismo americano di derivazione montesquieuiana e madisoniana, ma si colloca nella meno impegnativa tradizione del governo costituzionale come “governo limitato da leggi”. Non afferma il principio secondo cui “il potere arresta il potere”. Gli organi di garanzia, o quelli che in questi termini vengono descritti, non sono “potere” ma soltanto istanze di controllo della legalità del potere. Non contrappongono indirizzo ad indirizzo, interesse ad interesse, ambizione ad ambizione: solo verificano che il potere non esorbiti dalle competenze assegnategli dal diritto. Pertanto il potere investito dalla regola di maggioranza non incontra il proprio limite in un altro potere, anch’esso legittimato dalla regola di maggioranza.

Come si vede, il binomio indirizzo/garanzia sembra presumere – assai irrealisticamente – una cesura netta tra passione e ragione: la prima tutta nel versante degli organi d’indirizzo, la seconda tutta nel versante degli organi di garanzia. I primi avrebbero il diritto d’essere faziosi, i secondi il dovere dell’obiettività e dell’imparzialità. A ben vedere, il costituzionalismo che distingue tra indirizzo e garanzia, pur aderendo al principio secondo cui il diritto arresta il potere, in realtà per un lungo tratto se ne discosta: precisamente quando postula che il limite impersonale del diritto sia gestito non già dall’operare di meccanismi sistemici complessivi, ma da “persone fisiche”, sulla cui volontà e capacità d’essere obiettivi, razionali e impersonali non si può certo giurare[93].

Se si vuole prendere il costituzionalismo sul serio, deve riconoscersi che la garanzia è un effetto sistemico complessivo del disegno costituzionale; e non già la missione che istituzionalmente qualifica un attore costituzionale particolare, tantomeno se è un organo monocratico. In questo caso, infatti, l’imparzialità della funzione dipenderà dalla volontà o capacità d’essere imparziale del soggetto che riveste la carica. Ma ciò è quanto storicamente il costituzionalismo ha sempre voluto evitare: poiché bisogna diffidare degli uomini, delle loro passioni e appetiti, ci si deve affidare alla garanzia offerta dall’assetto costituzionale complessivo e non alla buona volontà di questo o quell’individuo chiamato a garantire tutti gli altri. La garanzia riposa nel principio secondo cui “il potere arresta il potere” e non nella previsione di un organo la cui funzione sia quella, appunto, di fare da garante.

Lo stesso vale per i giudici: la garanzia della loro imparzialità non è data solo dal fatto d’essere indipendenti rispetto ad ogni altro potere, ma anche dalla loro diffusione e pluralità, ossia dal fatto che la decisione di un giudice che non è stato imparziale può essere sempre corretta o superata dalla decisione di un altro giudice e dal fatto che la produzione giurisprudenziale del diritto vivente è un’impresa collettiva cui partecipa un numero indefinito di soggetti[94]. Se il giudice fosse un unico e onnicompetente Salomone, la sola garanzia della sua imparzialità la darebbe la sua natura d’uomo saggio e prudente: ma il costituzionalismo – come si è detto – muove sempre dall’opposta presunzione che gli uomini non siano quasi mai saggi e prudenti e che per questo occorre un sistema istituzionale bilanciato in modo da trasformare l’arbitrio di uno nell’antidoto contro l’arbitrio dell’altro.

 

 

15. – Il Capo dello Stato come rappresentate dell’unità nazionale

 

Nel costituzionalismo europeo è assai radicato il mito del potere unico imparziale, del pouvoir neutre che assicura il razionale e armonico funzionamento delle istituzioni costituzionali stando al di sopra delle passioni e degli interessi di parte[95].

Per argomentare il carattere imparziale e neutrale della politica presidenziale si è soliti richiamare la formula dell’art. 87 Cost., a mente del quale il PdR «rappresenta l’unità nazionale»[96]. In se è un’operazione corretta: che la funzione della rappresentanza (politica) sia quella di formare la volontà della nazione intera, facendo prevalere l’interesse generale della comunità sugli interessi particolari dei singoli e dei gruppi, lo dice una lunga tradizione di pensiero.

Piuttosto, ciò che non è corretto è attribuire questo compito solo alla prestazione rappresentativa fornita dal capo dello stato e non anche a quella offerta dalle assemblee elettive. Difatti, è soprattutto con riferimento a quest’ultime che si è sempre sottolineato il nesso tra rappresentanza politica e cura razionale e imparziale dell’interesse generale (o bene comune o volontà generale). Già nel 1774 nel famoso Discorso agli elettori di Bristol Edmund Burke affermava che

 

«Il parlamento non è un congresso di ambasciatori di interessi diversi e ostili, che ciascuno deve sostenere come agente o avvocato contro altri agenti o avvocati. Il parlamento è invece un’assemblea deliberativa di una nazione, con un solo interesse, quello della comunità, ove non debbono essere gli scopi o i pregiudizi locali a guidare le decisioni, ma il bene comune che nasce dalla ragione generale»[97]

 

Nella visione burkeana la cura razionale del bene comune della nazione è un compito che doverosamente spetta non solo all’organo collegiale in sé, all’assemblea elettiva considerata nella sua interezza, nel suo plenum, ma anche a ciascun parlamentare. Ogni membro dell’assemblea deve partecipare alla deliberazione parlamentare avendo di mira l’interesse generale e non quello particolare che ha contribuito in modo decisivo alla sua elezione. Di qui il principio del divieto di mandato imperativo che in tutte le costituzioni moderne e contemporanee, ivi compresa quella italiana repubblicana, è proposto come corollario necessario del principio rappresentativo.

Stando dunque alla visione della rappresentanza parlamentare che è implicata dal principio del divieto di mandato imperativo, non vi sarebbe alcuna differenza tra la prestazioni rappresentative del parlamento e quella di un capo di stato che sia definito come «rappresentante dell’unità nazionale». Su entrambi graverebbe il dovere di rappresentare l’intero e non le singole parti e di perseguire l’interesse generale (o comune o nazionale) e non già quello particolare riconducibile a una o più partizioni del corpo sociale.

Tuttavia può obiettarsi che la lezione del realismo è un’altra. E che illusorio e ideologico riporre nella rappresentanza politica la cura dell’interesse generale e del bene comune.

A quest’obiezione disincantata può replicarsi che, se si sottolinea il carattere mitico o addirittura mistificante della connessione tra rappresentanza politica e interesse generale, ciò dovrebbe valere per ogni organo statale rappresentativo, ivi compreso il Capo dello Stato. Non è pensabile che, da un lato, si affermi che la rappresentanza politica sia sempre rappresentazione del solo fine politico particolare della fazione egemone e che, dall’altro, s’individui in un organo monocratico la rappresentanza dell’interesse generale contro l’azione partigiana delle altre articolazioni statali. Se il nesso tra rappresentanza e bene comune è una finzione, questa lo è sempre, quale che sia l’organo statale che si prende in considerazione.

Ovviamente ciò non significa che la funzione e la posizione rappresentativa del parlamentare e del Capo dello Stato siano sempre perfettamente coincidenti. La responsabilità politica e il desiderio di essere rieletto spingono il parlamentare verso la cura degli interessi della faction che può garantire o impedire la sua eventuale rielezione. Astrattamente lo stesso varrebbe anche per il PdR: se vuole essere rieletto deve guardare con particolare sollecitudine alle istanze delle forze politiche da cui spera di ottenere la rielezione (o su cui conta per ottenerla). E quindi anche per il Capo dello Stato la speranza di un secondo mandato (ovvero di un ulteriore mandato, non essendovi nella nostra Costituzione limiti al numero di questi) può operare quale fattore che disturba la ricerca imparziale dell’interesse generale. Tuttavia, diversamente dal singolo parlamentare, il PdR ha un potente incentivo affinché la sua azione sia tendenzialmente rivolta alla volontà generale: siccome per la sua rielezione occorre una base di consenso più ampia di quella che è richiesta per il parlamentare, è più facile sanzionare la parzialità del Capo dello Stato che non quella del parlamentare. Più recisamente, mentre la parzialità del secondo può essere il fattore decisivo della sua rielezione, la parzialità del primo può essere, al contrario, ciò che la compromette[98].

In ogni modo, quale che sia la lezione che può ricavarsi dal realismo politico, nelle costituzioni democratiche contemporanee rimane fermo il legame tra rappresentanza politica, divieto di mandato imperativo e cura dell’interesse generale. E quindi, per definizione stessa, il potere rappresentativo ha sempre per obiettivo la ricerca della volontà generale della comunità rappresentata o «volontà popolare ipotetica», come direbbe Ernst Fraenkel[99].

Si tratta evidentemente di un ideale regolativo, di un principio di dover essere che la realtà, l’essere delle regolarità politiche può disattendere, ma non certo invalidare[100].

 

 

16. – L’evoluzione possibile del ruolo presidenziale e la centralità del Parlamento

 

In questo lavoro non mi propongo di giudicare l’opportunità delle pratiche convenzionali correnti. Se il sistema politico italiano si riconosce ampiamente nelle convenzioni che in questi decenni d’esperienza repubblicana hanno prodotto l’effetto di neutralizzare la politicità della figura presidenziale per mutarla in una carica che svolge soltanto compiti di controllo e garanzia, non sarebbe certo corretto sostenere che tali convenzioni sono contrarie a Costituzione.

Né può escludersi che per la nostra vita politico-istituzionale sia perfino salutare che il Capo dello Stato non debordi dalle regole convenzionali che finora ne hanno guidato il ruolo: chi può dire con certezza se vi sia più bisogno di un PdR garante e attore neutro imparziale ovvero di un PdR che compete con gli altri organi costituzionali per la direzione politica? Questo è solo un giudizio politico, più o meno condivisibile, e non può certo spacciarsi per un’interpretazione costituzionale. Valutare favorevolmente una regola convenzionale non equivale a tramutarla in regola costituzionale; e rimane inteso che se il PdR vuole esercitare pienamente i suoi poteri per imprimere od ostacolare scelte d’indirizzo anziché per salvaguardare principi costituzionali, non sarebbe corretto sostenere che ciò sarebbe precluso dal diritto costituzionale vigente.

Tra l’altro non bisogna dimenticare che le convenzioni costituzionali sono molto più fragili di quanto non si creda e che le dinamiche bipolari o bipartitiche possono, da un momento all’altro, determinarne l’improvvisa scomparsa.

Ad esempio, con l’attuale legge elettorale la lista (o coalizione di liste) che prende un voto in più delle altre ottiene, grazie al premio, la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari e può darsi il caso che abbia potenzialmente il numero di voti che occorrerebbero per eleggere il Capo dello Stato nel quarto scrutinio. Ora, se riuscisse a farsi eleggere alla Presidenza della Repubblica il leader del partito maggioritario (o coalizione maggioritaria), è assai probabile che decida di dirigere la politica nazionale dalla postazione del Quirinale anziché da Palazzo Chigi e che nomini come Presidente del Consiglio un suo delfino, pronto ad assecondarlo in ogni sua iniziativa. Questo corrisponderebbe, né più né meno, a quello che accade in Francia nei rapporti tra Presidente, Primo ministro e maggioranza parlamentare nelle fasi in cui non c’è coabitazione ma perfetta consonanza politica tra i tre attori costituzionali[101].

Insomma, se chi ha il controllo ferreo di un’ampia maggioranza parlamentare riesce a farsi eleggere alla Presidenza della Repubblica, non per questo rinuncerà alla sua posizione di leadership e, anzi, è molto probabile che si valga dell’eminente posizione costituzionale acquisita per rinsaldarla ulteriormente e determinare la politica governativa attraverso uomini di sua fiducia. In questo caso il “governo del Presidente” non sarebbe la soluzione d’emergenza per fronteggiare fasi di crisi in cui è incerta la fisionomia politica del Parlamento ed è assente una vera maggioranza parlamentare[102], ma al contrario sarebbe una modalità ordinaria di funzionamento del sistema quando la maggioranza parlamentare e la sua leadership sono salde. È facile osservare che in un quadro politico di questo tipo le convenzioni che assegnano al PdR un compito di garanzia e un ruolo imparziale si dissolverebbero come neve al sole.

Ovviamente non rientra tra i miei intendimenti auspicare uno sbocco di tal fatta. Anzi, è ben possibile che dalla riappropriazione presidenziale di un ruolo più incisivo scaturiscano svolgimenti sistemici che vanno nella direzione di una rinnovata centralità parlamentare. Con questa formula non si vogliono evocare passate esperienze di democrazia consensuale (o compromissoria) tipiche di assetti multipartitici parecchio frammentati e polarizzati ideologicamente. Nulla di tutto questo. Si vuole, più semplicemente, suggerire un modo efficace per consentire al Parlamento di recuperare le funzioni che nella prassi degli ultimi anni gli sono state sostanzialmente conculcate dal Governo, in dispregio di quella separazione funzionale tra esecutivo e legislativo che pure è parte tanto importante del nostro disegno costituzionale repubblicano[103].

Difatti, di fronte ad un PdR che esercitasse i suoi poteri di veto rispetto all’azione governativa, quale altra via rimarrebbe al Governo per attuare il proprio programma se non quella, fisiologica, di passare attraverso i lavori parlamentari? Ad esempio, se il PdR si rifiutasse di adottare i decreti legge tutte le volte che, a suo giudizio, non ricorrono condizioni di necessità e urgenza o non ne ravvisasse l’opportunità politica, quale altra via rimarrebbe al Governo se non quella di rinunciare all’uso improprio della decretazione d’urgenza come strumento d’iniziativa legislativa rinforzata?

In conclusione, un PdR che effettivamente esercitasse le funzioni assegnategli dalla Costituzione, è forse il mezzo più potente per costringere il Governo a impegnarsi in quello che in qualsiasi democrazia rappresentativa (sia parlamentare che presidenziale) dovrebbe essere il suo cimento per eccellenza: adoperarsi affinché, atto per atto, vi sia il costante sostegno di una maggioranza parlamentare anziché escogitare espedienti per eludere il confronto parlamentare o artifici per indurre il sostanziale svuotamento funzionale delle Camere.

 

 



 

* Testo della relazione al convegno di Messina “Evoluzione del sistema politico-istituzionale e ruolo del Presidente della Repubblica” del 19-20 novembre 2010.

 

[1] Per usare le parole di S. Galeotti, B. Pezzini, Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, in Dig. disc. pubbl., XI, 1996, 447, atti composti sono quelli in cui è possibile «individuare una funzione attiva e principale ed una funzione accessoria e di controllo, che sono svolte rispettivamente dal Governo e dal Presidente negli atti presidenziali-governativi, e inversamente dal Presidente e dal Governo negli atti tipicamente presidenziali».

Analoghe ricostruzioni sono assai diffuse, soprattutto nella manualistica corrente. Volendo ricordare solo i testi più diffusi e recenti, vedi: P. Barile, E, Cheli, S, Grassi, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Torino, 2008, 208; R. Bin, G. Pitruzzella, Diritto costituzionale, VIII ed., Torino, 2007, 233 ss.; T. Martines, Diritto costituzionale, XI ed. (interamente riveduta da G. Silvestri), Milano, 2005, 447 ss.

 

[2] Volendo – ancora una volta – usare le sintetiche parole di S. Galeotti, B. Pezzini, Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, cit., 447, la teoria dell’atto complesso «postula (…), nell’accezione dominante in dottrina, la fusione in un atto unitario di due atti-parziali, oggettivamente omogenei, cioè esplicazione della stessa funzione», sicché non solo la firma presidenziale e la controfirma ministeriale avrebbero il medesimo ruolo funzionale – esprimere il consenso politico al compimento dell’atto – ma neppure sarebbe possibile isolare più tipi di atto presidenziale, secondo la prevalenza accordata dall’ordinamento all’una o all’altra volontà dei due organi costituzionali interessati.

Questo confronto tra la nozione di «atto composto» e quella di «atto complesso» non è una divagazione stravagante rispetto al tema che sto trattando. Basti ricordare che all’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana del ’47 ci fu chi come A. M. Sandulli, Il presidente della repubblica e la funzione amministrativa, in Riv. amm., 1950, 149 ss. spec. 155, 161, propose di definire tutti gli atti presidenziali, nessuno escluso, come atti complessi, ossia come atti che richiedono – per il loro compimento – il concorso eguale di due volontà distinte ma parimenti determinanti: ossia, quella del Capo dello Stato e quella del Governo. Infatti, a proposito del rapporto tra la volontà governativa e quella presidenziale Sandulli scrive che «si tratta di due volontà parimenti essenziali e indispensabili, parimenti libere nella loro determinazione – entro i limiti dell’interesse pubblico cui devono presiedere – e dotate di pari potere efficiente in ordine all’effetto giuridico da conseguire» (ibidem, 161) cosicché «la partecipazione presidenziale all’azione del potere esecutivo rappresenta (…) l’estrinsecazione di una concreta e reale potestà, che, in mancanza di norme in contrario, non può non esser considerata pienamente discrezionale» (ibidem, 155).

Inoltre non bisogna dimenticare che la dottrina dell’atto complesso era la dottrina dell’atto regio nel previgente regime statutario (come ricostruisco nel lavoro monografico Il Presidente della Repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana, Jovene Editore, Napoli, 2010, 19 ss.) E forse – anticipo qualche conclusione – non sarebbe sbagliato ritenere che questa dottrina debba ancora applicarsi all’intero complesso delle competenze presidenziali, ovviamente nel quadro di una concezione monofunzionale della controfirma (come propongo nel mio libro Il Presidente della Repubblica parlamentare, cit., passim).

 

[3] Per tutti vedi C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Padova, 1976, 652.

 

[4] Tranne quella di Serio Galeotti, il primo ad avere ricostruito l’attività presidenziale nei termini di una funzione di controllo giuridico e il Capo dello Stato come «garante o tutore della Costituzione», come Egli stesso ricorda in S. Galeotti, Il Presidente della Repubblica: struttura garantistica o struttura governante? (1985), in Id., Il Presidente della Repubblica garante della Costituzione. La concezione garantistica del capo dello stato negli scritti dell’autore dal 1949 ad oggi, Milano, 1992, 241.

 

[5] Il quale in La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, Milano, 1949, 15, afferma nettamente che «la funzione che s’incardina nell’organo (il PdR) e conseguentemente ne foggia la struttura, non può essere ricondotta a nessuna delle due funzioni, legislativa o governativo-esecutiva».

 

[6] S. Galeotti, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, cit., 25 ss.

 

[7] «La struttura propria della promulgazione, la posizione che tale struttura postula nell’organo, non è per nulla dissimile, ma è affatto analoga a quella che l’organo ci rivela costantemente nell’esercizio della sua attività» (Ibidem, 27).

 

[8] Ibidem, 25.

 

[9] Ibidem, 25.

 

[10] Che infatti Galeotti giudica «infeconda», perché «preclude un esatto intendimento della natura della funzione reale del Capo dello Stato» (Ibidem, 29).

 

[11] Per usare la terminologia che Galeotti impiega nella monografia del ’49 (Ibidem, 29, 32).

 

[12] Formula che a partire dal saggio del 1950, Il rinvio presidenziale di una legge, cit., 93 ss., sostituisce la precedente.

 

[13] S. Galeotti, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, cit., 29.

 

[14] S. Galeotti, op. ult. cit., 29.

 

[15] Che nella prima fase della riflessione di Galeotti il mutamento di prospettiva segnalato non sia ancora maturo ne offre la riprova il saggio del 1950, Il rinvio presidenziale di una legge, cit., 78 ss., dove l’Autore prende sì atto con soddisfazione che il primo rinvio di una legge ex art. 74 non ha preso l’avvio da una proposta governativa e che il Capo dello Stato lo ha disposto come se fosse una sua, esclusiva pertinenza sostanziale; tuttavia non offre alcuna ragione teorica che giustifichi la prassi nascente, limitandosi invero a salutarla come epifania del ruolo di garanzia “attiva”, e non più solo “passiva”, del PdR. E però rimane il fatto che fino a quel momento le tesi di Galeotti consentivano di giustificare solo la funzione di garanzia “passiva” (veicolata sì dalla dottrina dell’«atto composto» anziché «complesso», ma pur sempre legata ad una visione monofunzionale della controfirma). Addirittura, sempre nel saggio del ’59 (Il rinvio presidenziale di una legge, cit., 97, 100, 101) l’Autore afferma che il «congegno» predisposto dall’art. 89 «male si combina, e solo attraverso artificiosi accomodamenti, con talune attribuzioni, che (…) per la loro natura e la “causa”, sono tipicamente di pertinenza del Presidente della Repubblica». In altre parole, lascia intendere che è lo stesso testo della Costituzione, nella formulazione di alcune sue disposizioni e in particolare dell’art. 89, ad impedire che si faccia un chiaro riconoscimento della funzione presidenziale di garanzia attiva. Infatti, laddove vengono in rilievo attribuzioni presidenziale che, appunto, «per la loro natura e causa sono tipicamente di pertinenza del Presidente della Repubblica», secondo Galeotti «la norma ed il meccanismo della controfirma si riducono ad essere un inutile ingombro o, peggio, una disposizione deformante o paralizzante della competenza presidenziale». Il che però avrebbe dovuto indurre l’Autore ad abbandonare la categoria degli atti tipicamente presidenziali e non già ad affermarne l’esistenza nonostante il contrario dettato dell’art. 89.

 

[16] Per una trattazione più approfondita dei profili concernenti la promulgazione e il rinvio delle leggi rinvio al mio Il Presidente della Repubblica parlamentare, cit., 227-232.

 

[17] S. Galeotti, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, cit., 36.

 

[18] Perché lo farò più in là, nel paragrafo ??.

 

[19] S. Galeotti, op. ult. cit., 36.

 

[20] Ibidem, 37.

 

[21] Ibidem, 38.

 

[22] Per intendere correttamente il senso dell’art. 90 bisogna dunque abbandonare e, in un certo senso, rovesciare la prospettiva di Galeotti. In realtà la responsabilità penale del Capo dello Stato scatta quando non compie o firma atti che invero sono dovuti; ossia, quando la sua inazione non è legittima esplicazione di valutazioni politiche diverse rispetto a quelle del Governo, ma è un’illegittima attività di compromissione del corretto funzionamento dei meccanismi costituzionali. Ciò accade, ad esempio, quando il PdR si rifiuta di promulgare la legge riapprovata dal Parlamento a seguito di rinvio; quando nomina per più volte consecutive un Presidente del Consiglio sgradito alla maggioranza parlamentare; quando non indice le elezioni delle nuove Camere o non ne fissa la prima riunione (art. 87, comma 3, Cost.); quando non indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione (art. 87, comma 6, Cost.); quando non ratifica i trattati internazionali nonostante sia intervenuta l’autorizzazione legislativa delle Camere (art. 87, comma 8, Cost.). Come si vede, tutte le ipotesi menzionate concernono atti il cui compimento è dovuto – pena la violazione di fondamentali prerogative delle Camere e del corpo elettorale – e non riserva alcun margine di valutazione discrezionale per il Capo dello Stato.

 

[23] G. Guarino, Il Presidente della Repubblica italiana (note preliminari), in Riv. trim. dir. pubbl., Milano, 1951, ora ripubblicato in Id., Dalla Costituzione all’Unione europea (del fare diritto per cinquant’anni), Napoli, 1994na, 327. La costituzione repubblicana avrebbe, infatti, introdotto «un regime pluralistico, in cui il potere politico è diviso tra una pluralità di soggetti od organi costituzionali (…), soggetti ed organi che sono tutti sottoposti alla legge ed esercitano la sovranità ciascuno nell’ambito della propria competenza»: e il PdR sarebbe uno di questi.

 

[24] G. Guarino, op. ult. cit., 342.

 

[25] Ibidem, 327. Corsivo mio.

 

[26] Ibidem, 337.

 

[27] E difatti, per scolpire con maggiore efficacia la rigida separatezza funzionale tra i due organi, Guarino scrive che «relativamente agli atti di indirizzo politico del Governo è da escludersi ogni positiva ingerenza del Presidente; reciprocamente, al di là della linea di demarcazione segnata dall’indirizzo governativo si estende l’attività politica del Presidente dalla quale, a sua volta, è da escludere ogni ingerenza del Governo» (Ibidem, 343).

 

[28] E infatti la nozione di «atto complesso» soddisfa indubbiamente questa definizione minima di “autonomia”, perché pur condividendo il medesimo compito i diversi soggetti che partecipano al suo compimento sono tutti egualmente liberi di determinare il proprio apporto prescindendo da quello degli altri.

 

[29] Insomma, mutuando una formula che è stata impiegata per definire la dinamica dei rapporti tra gli organi costituzionali dell’esperienza statunitense, è ben possibile che “separated institutions competing for shared powers”, ossia che organi/istituzioni reciprocamente separate quanto ai meccanismi d’investitura competano politicamente tra loro nell’esercizio congiunto di medesime funzioni. La teoria dell’atto presidenziale come atto complesso in qualche modo postula che ciascuno dei due organi interessati, il PdR e il Governo, siano uno il veto players dell’altro.

 

[30] Peraltro lo stesso Guarino (ibidem, 338) dichiara di riconoscersi in una concezione «esistenziale» e non «normativa» dell’indirizzo politico: il che sarebbe palesemente contraddetto dall’ascrivere alla distinzione tra i due indirizzi la portata “costruttiva” e, quindi, “normativa” che si è testé criticata…

 

[31] G. Guarino, op. ult. cit., 339.

 

[32] Ibidem, 335.

 

[33] Ibidem, 339, 340.

 

[34] Riassuntivamente, a giudizio di Guarino possediamo dunque « tre punti fermi: a) solo per gli atti di indirizzo governativo il Governo è responsabile verso le Camere; b) relativamente agli atti di indirizzo politico del Governo è da escludersi ogni positiva ingerenza del Presidente; c) reciprocamente, al di là della linea di demarcazione segnata all’indirizzo governativo si estende l’attività politica del Presidente dalla quale, a sua volta, è da escludere ogni ingerenza positiva del Governo» (Ibidem, 343).

 

[35] Ibidem, 341.

 

[36] Bisogna dire però che S. Galeotti, Il Presidente della Repubblica: struttura garantistica o struttura governante?, cit., 251 ss., attribuisce anche a Guarino e Barile il merito di avere veicolato la concezione garantistica del PdR nella dottrina italiana, seppure lamentando «l’annidarsi – nelle teorie degli Autori citati – di una residua persistente “natura politica” delle funzioni e dell’organo del Presidente della Repubblica» . In ogni modo, come già si è detto, il contributo di Guarino e Barile è stato fondamentale per la costruzione della visione polifunzionale della controfirma. 

 

[37] P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1958, 307.

 

[38] P. Barile, op. ult. cit., 308.

 

[39] Ibidem, 308.

 

[40] Ibidem, 308-309.

 

[41] Ibidem, 309.

 

[42] Posto che per espressa ammissione di Barile la funzione d’indirizzo politico costituzionale accomuna tutti gli organi costituzionali, non si capisce per quale ragione A. Baldassarre, Capo dello Stato, in Dig. disc. pubbl., II, 486, rimproveri all’Autore fiorentino di avere teorizzato «un’immedesimazione tanto esclusiva e stretta tra i valori costituzionali e il Capo dello Stato da portare a identificare quest’ultimo con la “viva vox constitutionis”». Di conseguenza, non essendo l’indirizzo politico costituzionale di esclusiva spettanza presidenziale, è altresì fuori tiro puntualizzare – sempre in polemica con Barile – che occorre individuare «negli organi della legislazione ordinaria i principali (anche se non esclusivi) destinatari del compito di svolgimento e sviluppo dei valori costituzionali» (A. Baldassarre, op. ult. cit., 486).

 

[43] P. Barile, op. ult. cit., 307-308. Come si vede, è una concezione dalla chiara ascendenza mortatiana.

 

[44] Ibidem, 308.

 

[45] Ibidem, 308-309.

 

[46] Forse perché il PdR, per via delle sue modalità d’elezione, è per definizione super partes? Sicuramente è super partes rispetto alle forze politiche, ma solo perché fa parte a sé, come attore politico autonomo.

 

[47] E. Cheli, Atto politico e funzione d’indirizzo politico, Milano, 1961, 137 ss.; Id., Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, in La riforma mancata, Bologna, 2000, 60, 61.

 

[48] Mi riferisco ovviamente a C. Mortati, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, Milano, 1931, (ristampa inalterata del 2000); V. Crisafulli, Per una teoria giuridica dell’indirizzo politico, in Studi Urbinati, 1939; e a C. Lavagna, Contributo alla determinazione dei rapporti giuridici fra Capo del governo e Ministri, Roma, 1942, 41 ss., benché quest’ultimo – com’è noto – propendesse per una concezione «esistenziale» e non già «normativa» dell’indirizzo politico.

 

[49] Secondo la definizione di C. Mortati, L’ordinamento del governo nel nuovo diritto pubblico italiano, cit., 9.

 

[50] E. Cheli, op. ult. cit., 111-112.

 

[51] L’art. 74, per stare all’esempio, dice solo che il rinvio deve essere motivato, non già che deve essere motivato alla luce di contenuti costituzionali. Stando al testo costituzionale, il messaggio motivato può essere solo l’occasione per il Capo dello stato di indicare le modificazioni che gradirebbe fossero apportate alla legge rinviata.

 

[52] Com’è noto, l’art. 87 dice solo, e non è poco, che «il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato» e che «rappresenta l’unità nazionale». Ed è l’unico organo costituzionale per il quale si spendono definizioni generali. Tutti gli altri sono invece indirettamente definiti dalla disciplina delle loro competenze.

 

[53] Come del resto è riconosciuto dagli stessi fautori della concezione polifunzionale. Vedi, infatti, la proposta ricostruttiva di E. Cheli, Sub art. 89 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Tomo II, Roma.Bologna, 1983, 146, secondo cui «una lettura libera e attenta della norma dovrebbe (…) condurre (…) ad affermare il carattere necessario e condizionante della controfirma solo nei confronti degli atti presidenziali scaturenti da una proposta ministeriale, cioè, nei confronti degli atti sostanzialmente governativi». Nella sostanza concorde è l’opinione di A. Ruggeri, Controfirma ministeriale e teoria della Costituzione, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Il diritto costituzionale come regola e limite al potere. Scritti in onore di Lorenza Carlassare, II, Napoli, 2009, 711, il quale afferma che «nessun senso va dato alla controfirma sugli atti sostanzialmente presidenziali».

 

[54] Per tutti vedi E. Cheli, Sub Art. 89 Cost., cit., 113, secondo cui «negli atti propriamente presidenziali la firma è destinata a rappresentare l’espressione dell’iniziativa e della volontà preminente realizzata nell’atto, mentre la controfirma concreta una forma particolare di “verifica” o “controllo” costituzionale esercitato dal Governo sull’azione del Presidente», mentre «negli atti governativi questo rapporto s’inverte, nel senso che è la controfirma ministeriale a manifestare il potere d’iniziativa e di determinazione preminente, mentre attraverso la firma del Presidente si realizza una forma speciale di controllo costituzionale sull’azione del Governo».

 

[55] L’immagine è, notoriamente di C. Esposito, Controfirma ministeriale, in Enc. dir., X, 295, nt. 42, che giudicava «inaccettabile» «questa tesi del Capo dello Stato e dei ministri che giocano di volta in volta il ruolo del guardiano o del possibile ladro, del controllore o del controllato».

 

[56] Difatti tale ipotesi, per dirlo con le parole di C. Esposito, op. ult. cit., 295, «dopo avere escluso che i ministri possano avere un ruolo determinante rispetto agli atti “imparziali” del Capo dello Stato, (afferma) poi che i ministri possono elevarsi a giudici della effettiva imparzialità dei considerati atti del Capo dello Stato e possono fondatamente negare la propria controfirma a decisioni del Capo dello Stato che peccano per parzialità o per contrasto con i fini per i quali essi sarebbero stati consentiti al Capo dello Stato».

 

[57] In particolare, P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, cit., 315, definisce la controfirma degli atti propriamente presidenziali come «controllo avente lo scopo di evitare che il Capo dello Stato invada la competenza della funzione di indirizzo di maggioranza»; V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Jus, 1958, ora ripubblicato in Id., Stato popolo governo. Illusioni e delusioni costituzionali, Milano, 1985, 192, 193, lo definisce come «controllo interessato (almeno, per la parte in cui si rivolge a prevenire indebite interferenze presidenziali nella funzione di indirizzo politico), essendo affidato allo stesso organo, che ha, in fatto, e si presume avere, in diritto, interesse alla libera esplicazione dell’attività propria e di quella della maggioranza parlamentare».

 

[58] Il primo a manifestare quest’atteggiamento fu, nel 1949, S. GaleottI, Il rinvio presidenziale di una legge, cit., 100-102, laddove con riferimento all’atto propriamente presidenziale di rinvio della legge, scriveva che «il congegno dell’art. 89 (…) non costituisce in questo caso soltanto un inutile ingombro, ma si traduce in una contraddittoria ed irrazionale disposizione, per la quale si determina il capovolgimento di un’attribuzione tipicamente presidenziale»; e che «deve riconoscersi la profonda menomazione che l’istituto costruito dall’art. 74 viene a subire dalla presenza di un congegno giuridico, quale quello della controfirma, che per l’infecondità e le difficoltà cui dà luogo, mostra il suo carattere di arretrata struttura». Di qui l’appello a una «cosciente volontà revisionistica» o al «costituirsi di una prassi in tema di detta attribuzione, che (…) finisca col ridurre la controfirma a mero requisito formale di validità del messaggio presidenziale». Ciò però dimostra solo che la dottrina di Galeotti è una coperta troppo corta e che la soluzione non può certo essere il taglio dei piedi, ma la tessitura di una coperta nuova, che dia conto adeguatamente del testo costituzionale nella sua interezza, senza amputazioni, praticate o richieste, di quelle parti che non s’acconciano con la teoria prescelta.

La tesi di Galeotti è ripresa in tempi più recenti da E. Cheli, Sub Art. 89 Cost., cit., 142, e Id., Il Presidente della Repubblica come organo di garanzia costituzionale, cit., 70, il quale, con riferimento agli atti propriamente presidenziale, ritiene che «l’apposizione della controfirma finisce per presentarsi, sotto ogni aspetto, come un non-senso» e che trattasi di «relitto storico». La medesima tesi è, da ultimo, riproposta da A. Ruggeri, Controfirma ministeriale e teoria della Costituzione, cit., 711.

 

[59] C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 646. Rilievo che peraltro è riproposto con riferimento all’istituto della controfirma ministeriale quale risulta dall’art. 89 Cost., «essendo la disposizione retaggio della tradizione, ed espressione altresì del primato onorifico che (al PdR) viene dalla qualità di capo dello stato» (pag. 651).

 

[60] Ma in realtà non è vero che la disciplina puntuale di taluni atti presidenziali ci consegna in modo inequivoco la certezza che la loro natura non sia presidenziale. Semmai è una possibilità interpretativa, che però deve comunque tenere conto del fatto che l’atto è costituzionalmente qualificato come “presidenziale”. Si prenda il caso dei decreti-legge. L’art. 77, comma 2, Cost. dice che «il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge». Questa disposizione, in sé e per sé considerata, può certamente veicolare la norma secondo cui i decreti-legge sono “atti governativi”. Tuttavia bisogna pur sempre tenere conto che l’art. 87, comma 5, Cost. dice che il PdR «emana i decreti aventi valore di legge» e che, pertanto, in sé e per sé considerato, può veicolare la norma secondo cui i decreti-legge sono atti presidenziali. Dobbiamo dunque scegliere tra l’art. 77, comma 2, e l’art. 87, comma 5, rilevando un contrasto tra il primo e il secondo, per poi risolverlo qualificando come vero diritto quanto è asserito dall’art. 77 e dequalificando come retaggio tralatizio e trascurabile quanto è invece attestato dall’art. 87? A ben vedere, ciò è quanto viene proposto dal metodo della dissociazione tra forma e sostanza che qui si critica. Applicando tale metodo, l’art. 87 conterrebbe un mero dato formale, la qualificazione di taluni atti come “presidenziali”, mentre l’art. 77 conterrebbe il vero dato sostanziale, ossia il vero diritto costituzionale vigente: la competenza esclusivamente governativa dei decreti-legge. Ed è solo ricorrendo alla detta dissociazione formale/sostanziale che si può superare (o provare a superare) quello che invero sarebbe, a rigore, la corretta interpretazione sistematica delle due disposizioni congiunte: e cioè, che i decreti-legge sono tanto presidenziali quanto governativi e che per il loro compimento sono necessarie ambedue le volontà del PdR e del Governo.

 

[61] Cambiamenti che C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 646 ss., illustra puntualmente attraverso «un confronto fra le norme più significative dello statuto albertino (…) e quelle della vigente costituzione». E così, mentre «lo statuto attribuiva al re la qualifica di “capo supremo dello stato”; lo chiamava a partecipare alla formazione della legge mediante un atto di vera e propria approvazione che si aggiungeva a quelli delle camere; conferiva “solo” al re il potere esecutivo; lo considerava “fonte della giustizia”, che era amministrata “in suo nome” dai giudici “da lui nominati”», ora invece «nessuna di tali attribuzioni è data al Presidente della Repubblica, in conformità alle esigenze della logica democratica».

 

[62] Per certi versi faccio mia l’impostazione di M. Luciani, Sulla titolarità sostanziale del potere di grazia del Presidente della Repubblica, in Corr. Giur., II, 2007, 190 ss., spec. 191, il quale, sulla scia di Sandulli, ritiene corretto «muovere dalla presunzione che (gli atti presidenziali) – proprio per la compresenza formale dell’intervento presidenziale e di quello ministeriale – siano da considerare complessi anche nella sostanza a meno che non sia altrimenti dimostrabile la loro natura di atti “ministeriali” ovvero “propriamente presidenziali”», aggiungendo che «solo robuste e documentate ragioni di sistema possono far escludere che la sequenza firma presidenziale - controfirma ministeriale esprima una sostanziale collaborazione di volontà dei due organi». Ebbene, la mia tesi è che per nessun atto presidenziale vi siano «robuste e documentate ragioni di sistema» in grado di falsificare la tesi dell’atto complesso, come cerco di mostrare nel mio Il Presidente della Repubblica parlamentare, cit., 227 ss., con riferimento particolare agli atti di cui agli artt. 74, 87, 88, 92 e 135 della Costituzione.

 

[63] V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, cit., 172, 173.

 

[64] V. Crisafulli, op. ult. cit., 173, nt. 24.

 

[65] V. Crisafulli, op. ult. cit., 189, nt. 44.

 

[66] Come la chiama J. A. Schumpeter, Capitalism, Socialism and Democracy, New York Harper 1942, trad. ital. Capitalismo socialismo e democrazia, Milano 1955, 235, 252, in contrapposizione alla «dottrina realistica della democrazia». 

 

[67] C’è da dire che lo stesso Crisafulli (sempre nel lavoro citato, ma a pag. 188, nt. 44) apre una breccia nella parete argomentativa che erige per separare la funzione presidenziale dalla potestà di indirizzo politico; in particolare laddove consente che «anche del Presidente potrà dirsi che concorre al governare, largamente inteso, così come vi concorrono, allora, tutti gli organi costituzionali, e persino, talvolta, le comuni autorità giudiziarie»; e ancor più – paradossalmente –  laddove precisa che il capo dello stato «non concorre se non dal di fuori (ponendo e rimuovendo limiti) alla determinazione dell’indirizzo politico strettamente inteso». Ora, è evidente che porre o rimuovere limiti alla determinazione dell’indirizzo politico significa partecipare alla sua elaborazione. Inoltre, non è chiaro se Crisafulli afferma che il PdR «non concorre alla determinazione dell’indirizzo politico» dopo avere analizzato le sua attribuzioni o se invece non faccia esattamente il contrario, analizzando e ricostruendo le attribuzioni presidenziali muovendo dal presupposto che il PdR non concorra alla determinazione dell’indirizzo politico. L’esclusione del capo dello stato dalla funzione di governo è la causa o l’effetto della ricostruzione che Crisafulli offre delle competenze presidenziali? Come si è visto, si tratta di una questione cruciale che, particolarmente nel campo delle ricostruzioni polifunzionali dell’istituto della controfirma, si agita sullo sfondo, il più delle volte irrisolta e spesso perfino ignorata.

 

[68] M. luciani, Corte costituzionale e presidente della repubblica, in Foro it., 2000, 26 ss.

 

[69] Può contro-obiettarsi che mentre il singolo parlamentare «rappresenta la Nazione», il PdR invece «rappresenta l’unità nazionale»: sicché il secondo – diversamente dal primo – non potrebbe farsi portatore di «nessuna politica di parte» (come sostenuto sempre da M. luciani, op. ult. cit., 27). Ora, a parte il fatto che l’espressione «politica di parte» presuppone logicamente che vi sia anche una politica «non di parte» e che è assai arduo distinguere tra la prima e la seconda, atteso che chiunque si faccia portatore di una “politica” ne afferma la corrispondenza con l’interesse generale, c’è da dire in più che “rappresentare la Nazione” è la medesima cosa che “rappresentare l’unità nazionale”: che ci starebbe a fare, altrimenti, il divieto di mandato imperativo se non a sganciare la prestazione rappresentativa di ciascun parlamentare da questa o quella frazione di nazione per agganciarla alla totalità unitaria degli interessi nazionali?

Un tentativo di dimostrare che, in base alla formula dell’art. 87, primo comma, i parlamentari e il PdR incarnano «valori rappresentativi diversi» è in V. Sica, La controfirma, Napoli, 1953, 47 ss. Ma su questi temi si ritornerà più diffusamente nella parte III, capitolo II. 

 

[70] Per tutti vedi V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, cit., 173, nt. 24.

 

[71] «Tale norma infatti – come nota A. M. Sandulli, op. cit., 155 – prevede una posizione preminente del presidente del Consiglio, in ordine alla direzione politica, nei confronti del Governo, e non nei confronti del presidente della Repubblica, che è estraneo al Governo».

 

[72] La tesi è molto diffusa in dottrina. Recentemente è stata riproposta, tra gli altri, da V. Angiolini, Le braci del diritto costituzionale e i confini della responsabilità politica, in Riv. dir. cost., 1998, 57 ss., spec. 92 ss.; e A. Ruggeri, Controfirma ministeriale e teoria della Costituzione, cit., 7.

 

[73] L’autore che più convintamente ha respinto la tesi che associa irresponsabilità ad estraneità dall’indirizzo politico e che più vigorosamente ha sottolineato le analogie, sotto questo profilo, tra la figura presidenziale e la posizione del parlamentare, è senza dubbio G. Guarino, Il Presidente della Repubblica italiana (note preliminari), cit., 323, 324, soprattutto quando osserva che per la nostra Costituzione «tutti i centri di iniziativa politica godono, in principio della irresponsabilità politica», a partire dai cittadini comuni per arrivare ai parlamentari (artt. 67 e 68) e consiglieri regionali (art. 122). E ancora, «la irresponsabilità del Presidente della Repubblica ha dunque lo stesso fondamento della irresponsabilità degli altri organi costituzionali, e non esistono ragioni perché ad essa sia dia un fondamento speciale. L’art. 90 si inserisce in un completo sistema di norme che dispongono tutte nello stesso senso. Nessuna illazione perciò può trarsi dalla irresponsabilità sulla incapacità del Presidente a svolgere una attività politica indipendente. L’essere irresponsabile è, al contrario, la prova che egli, così come i membri del Parlamento, è destinato a svolgere funzioni costituzionali in piena indipendenza» (corsivo mio). In tempi più recenti la tesi che ritiene compatibile il regime dell’irresponsabilità funzionale con l’esercizio di poteri d’indirizzo politico è stata riproposta da M. Cavino, L’irresponsabilità del Capo dello Stato nelle esperienze italiana (1948-2008) e francese (1958-2008), Milano, 2008, spec. 255.

 

[74] Obiettivo che – a giudizio di G. U. Rescigno, Il Presidente della Repubblica – Art. 87, in Commentario della Costituzione a cura di Giuseppe Branca, Bologna-Roma, 1978, 186 – si è perseguito anche mirando «per quanto è possibile ad escludere il capo dello Stato dalle critiche»: e difatti le forze politiche «questo fanno non per “avvantaggiare” il capo dello Stato ma esattamente all’opposto perché, sottraendolo alle vicende della responsabilità politica, esigono contemporaneamente e di necessità che egli sia escluso anche da tutte le decisioni politiche legate alla lotta tra i partiti e alla funzione di governo». Che poi tale neutralizzazione politica sia perfettamente riuscita è assai contestabile, come emerge chiaramente dalla ricostruzione storica che di varie presidenze repubblicane è offerta da L. Paladin, Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana, Bologna, 2004, 129 ss. e 196 ss., spec. 202.

 

[75] S. Galeotti, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, cit., 34, 35.

 

[76] Ibidem, 35.

 

[77] Opportunamente M. Cartabia, Legislazione e funzione di governo, in Riv. dir. cost., 2006, 50 ss., spec. 89 ss., giudica «un poco semplicistica (…) l’insistenza sulla continuità politica tra governo e parlamento nelle forme di governo parlamentari derivante dal legame fiduciario (…) spesso invocata a dimostrazione dell’omogeneità dal punto di vista dell’indirizzo politico della sede parlamentare e di quella governativa». Difatti, «le decisioni che si assumono all’interno del governo non sempre sono sostenute unanimemente dall’intera maggioranza che lo compone (…) Non a caso nelle forme di governo parlamentari sono soprattutto i governi sostenuti da maggioranze deboli e poco coese che tendono ad abusare degli strumenti normativi messi a loro disposizione dalle Costituzioni». Sulla non perfetta corrispondenza tra volontà politica del governo e della maggioranza parlamentare vedi già A. Manzella, Il parlamento, Bologna, 2003 (III ed.), 421 ss., che sottolinea «la profonda diversità che esiste fra il parlamento che vota la fiducia al governo, il parlamento che fa una legge, il parlamento che controlla la gestione finanziaria di un ente, il parlamento che svolge funzioni di indirizzo e coordinamento costituzionali. Si tratta (…) di situazioni profondamente diverse che non possono non riflettersi sul concreto atteggiarsi del rapporto tra maggioranza e opposizione».

 

[78] Com’è noto, l’art. 83, terzo comma, Cost. prescrive per l’elezione parlamentare del Capo dello Stato la maggioranza qualificata dei 2/3 nei primi tre scrutini e la maggioranza assoluta per le successive votazioni, mentre è sufficiente la maggioranza semplice per l’investitura fiduciaria del Governo.

 

[79] Come argomentato da L. Elia, Una formula equivoca: l’elezione indiretta del Presidente della Repubblica, in Giur. cost., 1968, 1530 ss., spec. 1534, «non sembra possibile mettere sullo stesso piano il generico concetto di elezione indiretta (cioè compiuto da un corpo elettorale elettivo, o, rectius, formato da un’assemblea elettiva) ed elezioni di secondo grado (in cui si hanno elettori primari ed elettori scelti ad hoc, secondari)». Nel primo caso «il corpo elettorale è costituito soltanto dai corpi o assemblee a loro volta elettivi (ma per fini che trascendono l’atto di elezione che essi sono chiamati a compiere)». Di conseguenza esiste una differenza tra il tipo dell’elezione di secondo grado, qual è quella che concerne il presidente statunitense, e il tipo dell’elezione genericamente indiretta, qual è invece quella che presiede all’investitura del nostro PdR. Nel primo caso il collegio dei Grandi Elettori che elegge il presidente americano è eletto, a sua volta, al solo scopo (e quindi con il solo compito) di procedere alla designazione presidenziale: ciascuno di loro, pertanto, riceve una delega sulla base dell’intenzione di voto per il presidente, quasi una sorta di mandato vincolato. Nel secondo caso, invece, i parlamentari (che sono la stragrande parte degli elettori presidenziali, visto l’esiguo numero dei delegati regionali) non vengono, a loro volta, eletti dal corpo elettorale con la sola missione di votare per questo o quel candidato alla carica di capo dello stato: semmai, tra le altre cose, essi sono eletti principalmente per la loro intenzione di appoggiare questo o quel governo. Sotto questo profilo è sicuramente più corretto stabilire un’analogia tra l’elezione del president americano da parte del collegio dei Grandi Elettori e la designazione del primo ministro da parte del collegio dei parlamentari (che non tra il primo caso e l’elezione del nostro PdR), come propongono infatti M. S. Shugart, J. M. Carey, Presidents and Assemblies: Constitutional Design and Electoral Dynamics, 1992, trad. ital. Presidenti e assemblee. Disegno costituzionale e dinamiche elettorali, Bologna, Il Mulino, 1995, 266, 267, sulla scia di G. Cox, The Efficient Secret, New York, Cambridge University Press, 1987, 143.

 

[80] Per usare la nota formula di G. Tsebelis, Veto Players. How political institutions work, New York, 2002, trad. ital. Poteri di veto. Come funzionano le istituzioni politiche, Bologna, 2004, passim.

 

[81] E difatti il potere presidenziale di rinvio delle leggi ex art. 75 Cost. non è il legislative veto del presidente americano.

 

[82] C. O. Jones, The Separated Presidency: Making It Work in Contemporary Politics, in AA.VV. (A. King), The New American Political System, Washington D.C., 1990, 3.

 

[83] All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione repubblicana numerosi commentatori osservarono che, a differenza del regime statutario, non è più vero che «al solo (Capo dello Stato) appartiene il potere esecutivo» e notarono che pertanto il governo era ormai divenuto «Governo della Repubblica», con la scomparsa di quella preminenza gerarchica che caratterizzava il rapporto tra la corona e il suo gabinetto. Orbene, che la Costituzione del ’48 abbia introdotto una separazione organica e una reciproca autonomia tra PdR e Governo è fuor di dubbio; è dubbia invece l’operazione di chi pretende di ricavare da questo pure qualcosa che invero non contiene. In particolare, è escluso che possa «avvalorare l’opinione che al Presidente della Repubblica non appartenga ormai più il potere di governo, o più esattamente, che la sua attività non possa più essere configurata come esplicazione della funzione governativo-esecutiva», come invece fu sostenuto da S. Galeotti, La posizione costituzionale del Presidente della Repubblica, cit., 19. La separazione organica, infatti, non implica di per sé pure la separazione funzionale, la quale in questo caso è chiaramente smentita dalla previsione di numerose attribuzioni presidenziali coincidenti con poteri tipici dell’esecutivo: da quelli di nomina delle cariche dello Stato ai poteri di decretazione normativa, ecc.

 

[84] Il PdR è dunque organo investito di potestas, capace di politica attiva, quando agisce di concerto col Governo e traduce la sua volontà in specifici atti presidenziali. Diventa invece organo investito di auctoritas quando decide di rimanere inerte, di non compiere l’atto presidenziale richiesto dal Governo. Sulla distinzione tra auctoritas e potestas vedi, per tutti, C. Schmitt, Dottrina della costituzione, cit., 109, nt. 1.

 

[85] Come sostenuto da G. U. Rescigno, Le convenzioni costituzionali, Padova, 1972, 54 ss., «ferma restando la unità giuridica degli atti del Capo dello Stato, regole ulteriori fondate sulla convenzione si incaricano di delimitare i poteri rispettivi del Capo dello Stato e dei ministri». Sarebbe però sbagliato – come lo stesso Rescigno precisa – ritenere che «queste regole ulteriori siano giuridiche». Difatti, la Costituzione prevede solo che «gli atti del Capo dello Stato debbono essere controfirmati da un ministro (…) questo è tutto ciò di cui hanno bisogno giudici, autorità amministrative e cittadini. Tutto il resto, giuridicamente, non deve interessare loro».

Per quanto riguarda invece la distinzione tra laws of the Constitutions e conventions of the Constitution, vedi ovviamente il classico lavoro di A. V. Dicey, Introduction to the Study of the Law of the Constitution (1885), London, 9th ed. (1952), 23 ss.

 

[86] Mi sembra che possa ricondursi a questo filone pure la tesi della «doppia fiducia» propugnata da A. Ruggeri, Crisi di governo, scioglimento delle Camere e teoria della Costituzione, in www.forumcostituzionale.it, paper, 5. 

 

[87] Difatti, in base al testo costituzionale, il solo effetto che consegue dall’approvazione della mozione di sfiducia è l’obbligo di dimissioni del gabinetto e non si fa minimamente cenno a un obbligo di scioglimento del Parlamento. Ciò è confermato pure dalla disciplina espressa dello scioglimento anticipato contenuta nell’art. 88 Cost., dove non si fa menzione di circostanze che renderebbero obbligatorio la dissoluzione delle Camere.

 

[88] Sicché, a mio giudizio, non può certo sostenersi che quella criticata nel testo possa essere una delle tante interpretazioni possibili degli artt. 94 e 88 Cost.; o che sia un’interpretazione che le prassi convenzionali potrebbero legittimamente consolidare. Se una disposizione accorda a un soggetto il potere di fare o disfare una certa cosa, senza specificare il numero di volte, è ragionevole e corretto intendere ciò come se non vi siano limiti di questo tipo. Certo, può anche darsi che i limiti all’esercizio di una facoltà possano estrapolarsi dalla considerazione congiunta di più disposizioni pertinenti al caso. Ma nel caso di specie quali altre disposizioni costituzionali, oltre agli artt. 94 e 88, possono invocarsi per sorreggere l’interpretazione secondo cui la Costituzione pone un limite di tal fatta al potere del Parlamento di accordare e revocare la fiducia? Gli unici agganci sono le prassi convenzionali e talune indicazioni della legge elettorale (soprattutto l’indicazione del «capo della coalizione» nella lista elettorale): ma sono sufficienti per accreditare l’interpretazione costituzionale che critico? Ad esempio, posto che in base alla costituzione vigente, il Parlamento può adottare leggi costituzionali, sarebbe concepibile la tesi secondo cui le prassi convenzionali o talune disposizioni di legge ordinaria possono validamente imporre come vincolo sanzionabile il limite di una sola legge costituzionale per legislatura (o all’anno oppure ogni due anni, ecc.)? È chiaro che pure in questo caso non si avrebbe la semplice integrazione di una disciplina costituzionale, ma la sua sostituzione o elusione. 

 

[89] Con la differenza – repetita iuvant – che mentre il Governo può essere destituito in qualsiasi momento dal Parlamento, il Capo dello Stato può solo non essere rieletto al termine del suo mandato, fatta salva ovviamente la sua destituzione in caso di alto tradimento e attentato alla Costituzione. Differenza che si spiega in ragione della diversa composizione del Parlamento che vota la fiducia/sfiducia e del Parlamento che elegge il Capo dello Stato; e delle diverse maggioranze che sono richieste per l’approvazione delle votazioni fiduciarie e l’elezione presidenziale.

 

[90] Uso qui il lemma “costituzionalismo” non già per indicare qualsiasi discorso che abbia a che fare con le costituzioni, siano esse intese come documenti scritti o leggi fondamentali ovvero come insieme dei caratteri e/o dei principi che definiscono la struttura di una comunità politica; bensì per designare quell’ideale che propugna la limitazione giuridica del potere politico: ossia, intendo riferirmi al costituzionalismo in senso assiologico e sulla scia di C. J. Friedrich, Constitutional Government and Democracy, Boston, 1950, trad. ital., Governo costituzionale e democrazia, Neri Pozza Editore, Venezia, s.d., 176 ss., al concetto «funzionale» di costituzione come «efficace limitazione regolarizzata del potere».

 

[91] Per usare la formula di M. S. Shugart, J. M. Carey, Presidenti e assemblee. Disegno costituzionale e dinamiche elettorali, cit., 35 ss., spec. 36.

 

[92] Su questo problema specifico mi permetto di rinviare al mio Il Presidente della Repubblica parlamentare, 33 ss.

 

[93] Come già vigorosamente sostenuto da C. Esposito, Capo dello Stato, in Enc. dir., VI, 235, «la circostanza che nelle più recenti costituzioni parlamentari si è riconosciuto un qualche campo di autonoma attività del Capo dello Stato (…) non significa che con ciò si sia inteso attribuire alla “Ragione” impersonata dal Capo dello Stato un qualche diritto a governare, contro il mondo delle passioni rappresentate dalle camere e dal governo». Difatti, che il PdR «nelle decisioni debba ispirarsi al bene comune, o meglio che ess(o) debba agire secondo le proprie visioni del bene comune, può bene ammettersi, ma non pare che questo costituisca un titolo specifico, distintivo della competenza del Capo dello Stato da cui possa trarsi la conseguenza che alcuni poteri, in quanto debbono essere imparzialmente esercitati, debbano spettare in proprio al Capo dello Stato. Si tratta di un limite o di un elemento generale, esistente in ogni attribuzione di competenza».

 

[94] Ai giudici, che sono essi stessi numerosi e presenti in modo diffuso sul territorio nazionale, debbono infatti aggiungersi tutti coloro, parti private, funzionari amministrativi, avvocati e dottrina, che indirettamente contribuiscono all’elaborazione giurisprudenziale del diritto vivente, costituendo il contesto nel quale si esercita la giurisdizione e dal quale non può non trarre i più vari condizionamenti, influenze, suggerimenti, ecc.

 

[95] Per ragioni di spazio non ricostruisco qui l’origine di questa mitologia costituzionale, né la sua utilità euristica con riferimento alla figura del capo di stato parlamentare: chi volesse, può leggere quanto scrivo nel mio Il Presidente della Repubblica parlamentare, 145 ss., dove prendo in esame la teoria constantiana del «potere neutro» e le sue applicazioni più recenti.

 

[96] Cfr. G. Guarino, Il Presidente della Repubblica, cit., 368; V. Sica, La controfirma, cit., 47 ss.; V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, cit., 176, che proprio facendo leva sulla formula contenuta nell’art. 87, primo comma, costruisce il PdR come «organo di dichiarazione» degli atti governativi, la cui attività «risponderebbe al criterio politico di cancellarne ogni carattere di parte»; T. Martines, Contributo ad una teoria giuridica delle forze politiche, Milano, 1957, ora in Id., Opere, I, Milano, 2000, 178 ss.; F. Cuocolo, Imparzialità e tutela della Costituzione nell’esercizio dei poteri del presidente della Repubblica, in Rass. dir. pubbl., 1959, spec. 78 ss.; M. Galizia, Studi sui rapporti tra parlamento e governo, I, Milano, 1972, 237 ss.; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., 648; A. Baldassarre, C. Mezzanotte, Presidente della Repubblica e maggioranza di governo, in G. Silvestri (a cura di), La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1985, spec. 85 ss.; L. Ventura, Il rappresentante dell’unità nazionale, in G. Silvestri (a cura di), La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, cit., 477 ss.; C. Pinelli, Il ruolo del Presidente della Repubblica e le prospettive di riforma elettorale ed istituzionale, in M. Luciani, M. Volpi (a cura di), Il Presidente della Repubblica, Bologna, 1997, 437 ss.; C. Rossano, Il Presidente della Repubblica, in Enc. giur., agg. 2002, 2, che però giudica «equivoca» la formula del «potere neutro»; M. luciani, Corte costituzionale e presidente della repubblica, cit., 26 ss., il quale però in un altro lavoro (Introduzione. Il Presidente della Repubblica oltre la funzione di garanzia, in M. Luciani, M. Volpi (a cura di), Il Presidente della Repubblica, cit., 20 ss.) esclude che il Capo dello Stato sia organo di garanzia.

 

[97] Il brano di Edmund Burke è citato dall’antologia di scritti di autori vari sulla rappresentanza politica curata da D. Fisichella, La rappresentanza politica. Antologia Milano, 1983, 65 ss.

 

[98] Questa circostanza rende l’imparzialità del Capo dello stato non solo una «utopia obbligata», com’è affermato da M. Fiorillo, Il Capo dello Stato, Roma-Bari, 2002, 16, ma anche – aggiungo io con un ardito ossimoro – un’utopia possibile. Il che per certi versi equivale ad asserire, per dirlo con le parole di G. Caporali, Il Presidente della Repubblica e l’emanazione degli atti con forza di legge, Torino, 2000, 58, che «l’imparzialità dell’istituto presidenziale (…) caratterizza solo tendenzialmente l’organo, potendo il Presidente, a seconda delle circostanze politiche, assumere un ruolo diverso, eventualmente connotato da un certo favor per alcune delle forze politiche».

 

[99] Che la differenzia dalla «volontà popolare empirica» (E. Fraenkel, Die repräsentative und die plebiszitäre Komponente im demokratischen Verfassungsstaat, Tübingen, 1958, trad. ital. La componente rappresentativa e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico, Torino, 1994, passim).

 

[100] Tra l’altro questo scarto tra essere dei rapporti politici effettivi e dover essere dei principi costituzionali in tema di rappresentanza politica non è affatto ignoto al costituzionalismo moderno, in particolare a quello americano. Il discorso madisoniano sulla separazione dei poteri si collega espressamente al timore che il fine di fazione divenga tanto forte da assurgere al rango d’interesse o fine generale dello stato. Perciò «all’ambizione bisogna opporre l’ambizione», al potere il potere e all’interesse l’interesse, in modo tale da impedire che una parte divenga il tutto e che una fazione si faccia Stato. Delle due l’una, infatti: o la costituzione è strumento d’affermazione progressiva del fine politico o interesse particolare della fazione più forte oppure ne è l’antidoto.

 

[101] Come si vede, per aversi uno sbocco di tipo “francese” non è certo necessaria la dottrina dell’atto presidenziale come atto complesso (come invece sembra paventare G. Scaccia, La funzione presidenziale di controllo sulle leggi e sugli atti equiparati, in www.rivistaaic.it, n. 1/2001, pubblicato il 15/12/2010, riferendosi alle mie tesi).

 

[102] Come accadde in Italia nei primi anni ’90.

 

[103] Illustro approfonditamente questo punto nel mio Il Presidente della Repubblica parlamentare, cit., 107 ss.