Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – Contributi

 

 

tafaro-piccola.pngUn magistrato tra fascismo e diritto: Michele Delle Donne

 

Sebastiano Tafaro

Università di Bari

 

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Ricordi personali. – 3. L’attività di giureconsulto.

 

 

1. – Premessa

 

Spesso come studioso tendo ad isolarmi nell’astratto dei concetti ed a non tener conto delle circostanze che segnano la ‘vita’ dell’operatore del diritto.

Mi è capitato di recente di avere per le mani una breve autobiografia di un magistrato (Michele Delle Donne)[1], che ebbe ad operare sotto il fascismo e a cavallo tra la seconda guerra mondiale e la pace che, con annesse presenze di truppe di occupazioni, ne seguì.

Della lettura mi colpì la particolare certezza nel ‘diritto’ e nella sua capacità di imporsi anche a dispetto delle circostanze storiche sfavorevoli. Ne scorsi subito l’influenza del pensiero e della Weltanschauung dello Scialoja e mi incuriosii, rilevando, dalla seguente lettura, come quelle idee dessero forza e conferissero al giurista-magistrato un’ammirevole spirito d’indipendenza.

Scoprii anche quanto peso potessero avere le vicende (rectius le grandi contrarietà) personali nella formazione del giurista del primo secolo XX, soprattutto con riguardo alla difficoltà di accesso ai libri.

Ho redatto uno schizzo dell’uomo, che mi sembra anche un pannello di una particolare epoca della cultura giuridica italiana e mi è parso opportuno condividerlo con altri, segnalando la biografia del Delle Donne come un esempio di quella fiducia doctrinae, della quale Pomponio parlava a proposito di Labeone e in generale della iurisprudentia, e che, come orgogliosamente l’autore sottolineava nel sottotitolo, lo portarono da pastorello della Lucania a Primo presidente della Corte di Appello di Roma e Senatore del Regno.

La lettura rivela una personalità variegata, ricca di sfaccettature e valori che si prestano ad essere analizzati da angolature molteplici ed intriganti per chi la voglia cogliere nel fluire del suo tempo e della sua terra d’origine.

Vi sono schizzi di una terra, della civiltà contadina degli inizi del novecento e, soprattutto (per me estremamente interessante) della cultura, del modo di essere e della tempra degli uomini di quel periodo. Inoltre alcune critiche, come quelle al nuovo processo civile, i cui rilievi sono di grande attualità e potrebbero essere scritti oggi[2].

Le suggestioni che scaturiscono dalla lettura di quelle pagine sono molte ed invitano il lettore a ripercorrere una parte significativa della storia d’Italia, dalla Grande Guerra alla seconda guerra mondiale ed alla formazione della Repubblica italiana.

Ogni tappa della vita e del percorso formativo e di attività nella magistratura di quello che divenne senatore del Regno è spunto per collegamenti su fatti e personaggi che hanno dato sostanza alla realtà dell’Italia.

In questa sede vorrei soffermarmi su un profilo, che mi pare preminente nell’opera e nella visione di Michele Delle Donne: quello del giurista.

 

 

2. – Ricordi personali

 

Ma prima consentitemi di fare un brevissimo cenno ai ricordi personali del Delle Donne, perché hanno evocato in me immagini ed episodi della mia fanciullezza.

La descrizione delle abitazioni e dei costumi del tempo, soprattutto riguardo alle donne che andavano ad attingere acqua portando i barili sulla testa, posti sopra una sorta di ciambella di stoffa, corrisponde a un ricordo che mi ha accompagnato quotidianamente nella mia fanciullezza.

Così come l’immagine di lui fanciullo che pascolava due pecore ha rievocato i tanti miei compagni di gioco che andavano in giro nelle campagne dell’agro lucano (di Banzi) con una o due o tre pecore o capre, unendo al lavoro un gioco continuo, spesso intrecciato da racconti di vicende e fatti del paese; ad essi io mi accompagnavo quasi per l’intera giornata.

Non mi soffermo oltre su tanti aspetti, come quello della gerarchia negli istituti di istruzione, dove i ragazzi erano affidati ad un prefetto, ancora esistente al tempo in cui io ero seminarista a Potenza.

Non mi dilungo, per non cedere a rievocazioni forse nostalgiche, certamente profonde ed indelebili.

Solo attingo dalla mia memoria qualcosa concernente Francesco Saverio Nitti.

Su di lui il Delle Donne ci ha lasciato una bella pagina e una fulgida immagine, di uomo ricco di umanità e generosità. Fu il Nitti a consentirgli di laurearsi, concedendogli la somma di £. 250 necessaria perché potesse accedere all’esame di laurea.

Esso si chiuse con un atto di amore filiale e dedizione alla famiglia, la cui levatura da sola mette a nudo la tempra sia del Nitti sia del Delle Donne. Nitti offre a Delle Donne la possibilità di lavorare presso di lui, con la garanzia di una veloce e sicura carriera universitaria; Delle Donne rifiuta con queste parole «La ringrazio: accetterei con entusiasmo la Sua generosa offerta se fossi solo; ma la mia famiglia ha bisogno del mio aiuto, che io non potrei darle se mi dedicassi alla preparazione per la carriera universitaria». Nitti non si adombra e anzi gli dice «Avete ragione»[3].

Ho voluto richiamare, tra i tanti che meriterebbero di essere menzionati, l’incontro con Nitti per un altro motivo, esclusivamente famigliare e personale.

Nel 1945 Nitti aveva fondata l’Unione Democratica Nazionale nelle cui liste si candidò, l’anno dopo, all’Assemblea Costituente. Nel 1948 capeggiò una nuova formazione, il Blocco nazionale, con la quale intendeva percorrere una terza via tra i due blocchi allora esistenti: quello democratico e quello socialcomunista. In quelle occasioni venne a Banzi e con meraviglia di molti chiese di mia nonna (da lui affettuosamente chiamata Emilietta) e andò a trovarla. In seguito mia nonna mi raccontava di avere passato l’infanzia assieme a Nitti, il cui padre si recava a Banzi per attendere alla ripartizione del bosco collettivo del Comune, e che insieme ne avevano combinate di tutti i colori, arrivando a cavalcare asini e ... porci. L’episodio l’ho voluto ricordare perché è emblematico di quanto libera e legata alla ‘terra’ (oggi si direbbe all’ambiente) fosse la formazione dei fanciulli. Forse vanno cercate lì gli embrioni dell’indipendenza e assoluta originalità di quello che diventò presidente del Consiglio, esule ribelle ed antifascista, professore.

 

 

3. – L’attività di giureconsulto

 

Ma chiedendo scusa per questa sorta di mia ‘licenza’, vorrei tornare a quella che mi pare la costante più significativa dell’opera di Delle Donne: il suo sentirsi giurista, uomo che poneva il diritto alla base di ogni sua scelta, come fondamento della civiltà, giuridica e non.

Sul punto non vi sono dubbi o sbavature. Sempre egli dimostra di ricorrere al diritto e di sentirsi uomo del diritto. Citerò alcuni episodi illuminanti.

Prima voglio pormi un interrogativo: quale era l’idea di diritto che egli aveva presente?

Come trasparirà da alcuni momenti e da alcune decisioni era ben lungi da lui qualsiasi relativizzazione del diritto.

Intrecciandosi con l’assunto di Max Weber, della ‘avalutità della scienza’, era diffusa tra i grandi giuristi del tempo la convinzione che il diritto avesse una sua autonomia scientifica, la quale prescindeva dalla politica e, per molti versi, dalla stessa storia. Essa derivava dal fatto che, anche se espressione di uno Stato, il diritto, che all’epoca si incardinò prevalentemente nei Codici, fosse portatore di principi tratti dalla natura delle cose e perciò carichi di una loro assolutezza. Soprattutto il diritto civile era visto come un insieme coerente ed astratto di regole, le quali davano luogo ad un sistema organico.

Contro l’esclusione dei giuristi operata dal Montesquieu, con la dottrina della separazione dei poteri e giustificata da Tocqueville a causa della loro eccessiva corrività con i potenti e dinanzi all’affermazione dell’onnipotenza della legge, frutto della rivoluzione francese, si era fatta strada la dottrina di un diritto valevole di per sé, non dipendente dal capriccio dei legislatori.

Era vivo anche in Italia l’insegnamento di Bernard Windscheid, secondo il quale il civilista avrebbe dovuto tendere a costruire una scienza formale, pura e non contaminabile o compromettibile dalle circostanze della concreta realtà (etica, sociale ed economica) del tempo contingente. Partivano da queste radici giusnaturalistiche i maggiori civilisti italiani, i quali dettero vita alla pandettistica italiana. Essi affermarono che la migliore razionalità si era avverata nel diritto romano (ed in particolare nelle pandette di Giustiniano e nel Corpus iuris civilis): perciò i maggiori civilisti erano anche i maggiori romanisti: tra essi grande spicco ebbe Vittorio Scialoja – traduttore del Sistema di Windscheid[4], il quale dovette avere grande influenza nella formazione del Delle Donne come, in generale, dei giuristi del tempo[5].

Ne è testimonianza l’assunzione delle tesi dello Scialoja – espressa in uno dei primi scritti di diritto romano (perché si era convinti che il diritto romano fosse ‘il diritto’ e valesse per ogni circostanza e materia!) - in una delle prime discussioni affrontate in Cassazione (dove era arrivato nel 1928), in forma così convinta e calorosa che lo Scialoja se ne emozionò.

D’altra parte il Delle Donne doveva essersi ‘predisposto’ al nuovo diritto già attraverso lo studio del Sistema di diritto civile di Emanuele Gianturco, che egli dichiara di aver posto a base dei suoi studi nella Facoltà partenopea (34), nella quale si tentava di costruire il sistema del diritto tout court (per inciso, ricordo che Gianturco, assieme a Scialoja, L. e N. Coviello, G. Stolfi, rappresenta uno dei capifila della famosissima Scuola Napoletana di diritto civile).

In altre parole, il Delle Donne assorbì appieno la visione rinnovatrice, secondo la quale il diritto era autonomo e si autoreferenziava, poiché era in grado di affermare certezze rigorose (come quelle della matematica o della geometria) ed armoniose, la cui forza risiedeva nella razionalità della natura e potevano valere in qualsiasi regime ed in ogni tempo. Non a caso Delle Donne nota, a proposito delle udienze della Cassazione, «Avevo l’impressione di trovarmi nello svolgimento di un rito sacro...». D’altra parte, la stessa creazione della Corte di Cassazione, deputata a pronunciarsi soltanto sulla questione di diritto, poggia sulla convinzione dell’esistenza di un diritto o di principi del diritto, non provenienti dal caso ma applicabili al caso: cioè è conseguenza della convinzione della possibilità di elaborare principi generali ed astratti.

Della radicata fiducia nel diritto, inteso nella sua valenza generale ed astratta, vi sono molte tracce nell’operato del Delle Donne; ne cito alcune.

Nello stesso 1929 Vittorio Scialoja lo volle quale pubblico ministero presso il Consiglio Superiore Forense, da lui presieduto. I motivi di quella scelta dettata con l’esclusione di qualsiasi avvicendamento, possiamo intuirli e dovettero risiedere nel rigore logico del metodo argomentativo del Delle Donne e, sicuramente, nell’essenzialità dell’esposizione, depurata di ogni orpello saccente e prolisso, così come, durante l’uditorato presso il Tribunale di Roma (37 s.) il conterraneo Fagella aveva insegnato al discente Delle Donne ed era nella tecnica del grande Scialoja, il quale amava «ragionare chiaro, ma conciso» e perciò, quando scriveva, soleva «essere assai breve, taluno dice anche troppo breve».

Subito andarono in discussione i provvedimenti da prendere contro gli ex deputati aventiniani, radiati dall’albo perché invisi al Fascismo. Il Delle Donne ricorda la sua requisitoria nei confronti dell’onorevole avvocato Umberto Tupini. Con sottile logica sostenne che i fatti addebitati erano stati commessi quando non vi erano ancora le leggi fasciste, che si pretendeva avesse violato, e che successivamente non avevano potuto compiere nessun atto, ma solo esprimere opinioni, per le quali non erano perseguibili. La sua tesi fu accolta all’unanimità e Tupini fu riammesso all’esercizio della professione[6].

L’episodio dimostra quanto al tempo, grazie anche all’insegnamento di Scialoja, si avesse ‘fede’ nel diritto e lo si ritenesse avulso dalla contingenza storica, ma dipendente da rigore logico-argomentativo.

Nel quadro descritto vi è prova della convinzione d’indipendenza del giurista dal potere politico: sembra di rileggere una pagina della storia del diritto romano, dove l’imperatore Adriano, risponde ai giuristi che gli chiedevano l’autorizzazione a professare la loro attività, dicendo che essa non poteva derivare da un’autorizzazione, perché era la conseguenza della scientificità del giurista e del diritto (fiducia sui sono le parole del rescritto imperiale[7]).

Nello stesso contesto si inserisce un ‘gustoso’ episodio.

Il Guardasigilli Alfredo Rocco procedette alla promozione al III grado della Cassazione di alcuni magistrati. Tra essi non vi era Delle Donne. Per vie indipendenti e non dall’interessato, la notizia pervenne a Scialoja. Questi chiese udienza al Ministro con il quale si congratulò per le recenti nomine e in particolare per quella del Delle Donne, che per capacità certamente doveva essere tra i promossi. Il Ministro provvide subito a promuovere il Delle Donne, perché disse all’interessato che lo andò a ringraziare «... conversando con i più illustri esponenti del Foro, so su chi far cadere la mia scelta»: quindi la scelta non dipendeva dalle convinzioni personali, dall’appartenenza politica o da altro che non fosse la scientia iuris. Ciò perché era convincimento corrente che il rigore giuridico avesse forza autonoma ed andasse rispettato[8].

Derivava da ciò anche l’accettazione di tesi contrarie alle proprie.

Il Delle Donne riferisce alcuni significativi casi.

Nel 1925 il Delle Donne era stato inviato a Trieste; di lì, dopo molte sue insistenze, venne trasferito alla Corte di Appello di Torino. In una causa tra un privato ed un’opera pia era relatore il consigliere De Antoni, che svolse la sua tesi. Delle Donne, quale consigliere a latere, intervenne argomentando in maniera diversa dal De Antoni. Rinviata la decisione al giorno seguente Delle Donne fu, preliminarmente, avvicinato dal De Antoni, il quale gli disse «Mi hai fatto passare una notte insonne: hai ragione, ho trovato esatta la tua tesi».

Appena nominato in Cassazione, nel 1928, su un caso espose dettagliatamente un parere contrario a quello del consigliere Giulio Venzi, il quale era solito studiare ogni caso in maniera approfondita e scriversi il parere su un pezzo di carta. Dopo che Delle Donne finì di esporre le sue ragioni, in Camera di consiglio, il Venzi mostrò il foglio con il suo differente parere, ma aggiunse «era di avviso contrario al tuo, mi hai convinto: sono con te».

Due circostanze esaltarono la visione del diritto, come scienza autonoma ed autosufficiente, avuta dal Delle Donne.

Nel Regio Decreto del 30 gennaio 1941, n. 12 sull’ordinamento giudiziario. (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 28 del 4 febbraio 1941) all’art. 9 si era richiesto che i magistrati dovessero prestare giuramento con la seguente formula: giuro di essere fedele al Re Imperatore, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato e di adempiere coscienziosamente i miei doveri di magistrato.

Delle Donne, al pari degli altri magistrati del tempo, prima aveva rifiutato poi si era sottoposto a questo giuramento, perché convinto che non implicasse adesione al regime fascista, bensì comportasse soltanto lealtà verso lo Stato, il suo Statuto e le sue leggi, che egli era chiamato ad applicare, in ossequio alla dottrina della separazione dei poteri[9].

Ma quando nel 1944 con nuovo decreto ministeriale, pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica di Salò il 20 marzo, la formula del giuramento fu modificata in questi termini: giuro di servire lealmente la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi e di adempiere coscientemente i miei doveri di magistrato per il bene e per la grandezza della Patria ed il Guardasigilli, Pisenti, richiese a tutti i magistrati di giurare nuovamente secondo la nuova formula, pena la decadenza dall’ufficio[10], Delle Donne, in qualità della Corte di Appello di Roma, si oppose con una lettera indirizzata al Ministro. Argomento principale da lui addotto era che il nuovo giuramento avrebbe fatto entrare i magistrati «nelle file di uno dei due partiti in lotta civile, contro la missione stessa e le prerogative universalmente riconosciute alla Magistratura». Il giuramento non venne più richiesto: il Delle Donne si era appellato all’autonomia del diritto ed alla sua ‘neutralità’[11]; la sua tesi venne accolta[12].

Dopo l’occupazione di Roma, il Governo Militare Alleato il 14 giugno 1944 pretese di dare disposizioni riguardo all’amministrazione della Giustizia e di stabilire a quali criteri uniformare le sentenze.

In tal senso fu inviata circostanziata documentazione al Presidente della Corte di Appello di Roma, Delle Donne.

Di fronte ad essa ed all’interrogativo su come intitolare le sentenze, se cioè «In nome della legge» o «In nome del Popolo Italiano», il Delle Donne prese posizione rivendicando l’autonomia del diritto ed in particolare di quello interno di ciascuno Stato, negando la competenza degli occupanti e chiedendo, come ottenne, che le sentenze venissero emanate «Nel nome del Re d’Italia».

Leggiamo il suo circostanziato e palpitante racconto: «Io volli affrontare in pieno il problema del funzionamento della Giustizia che fu trattato nel mio Ufficio presso la Corte di Appello, il 20 giugno 1944, fra me ed i più elevati rappresentanti Ufficiali del Comando degli Alleati.

Ad essi, con l'aiuto dell'interprete, esposi brevemente, ma con piena convinzione, il mio punto di vista, e cioè: Gli Alleati, Potenze belligeranti, hanno con i loro eserciti occupato parte del territorio dello Stato italiano, ossia di una Potenza nemica. Tale situazione è regolata dal diritto internazionale ed in particolare dal Regolamento adottato all'Aia nel 1907 sulle leggi e gli usi della guerra. Secondo tale Accordo o Trattato, avente tuttora vigore, l'occupazione bellica deve considerarsi come fatto provvisorio: “Un territorio è considerato come occupato quando è posto di fatto sotto l'Autorità dell'esercito nemico (art. 42)”. Da ciò deriva che l'occupante non ha potere di sovranità; ad esso incombono il dovere di mantenere l'ordine nel territorio occupato, e quello di rispettare le leggi in vigore, lasciando libere nelle loro funzioni le autorità amministrative e giudiziarie, salva la revoca per giusti motivi, cioè assoluta necessità della guerra (cit. Reg. 1907, art. 43).

Da una parte l'intervento disposto dagli Alleati nell'Amministrazione della Giustizia eccederebbe i limiti dei poteri riconosciuti e segnati da quel Trattato, dall'altra i Magistrati italiani devono esercitare le loro funzioni secondo le leggi del nostro Stato ed in nome del loro legittimo Sovrano»[13].

Ecco che ancora una volta la scientia iuris prevaleva sulla situazione di fatto e sui rapporti di forza.

Riprova della fiducia nel diritto e nella neutralità di esso e di chi, come il magistrato, era chiamato ad applicarlo, si ha nella conclusione dei processi intentati contro il Delle Donne.

Essi si chiusero con la sua assoluzione, motivata proprio dalla constatazione che egli era stato al servizio del diritto e non del regime e che il primo non poteva identificarsi in una congiuntura o aggregazione storica.

Accusato da avvocati anonimi fu invitato a dimettersi, dal Ministro Tupini, il quale gli esprimeva il proprio rammarico per la richiesta che si vedeva costretto a fargli. Il Delle Donne si rifiutò, perché volle affermare il principio che «il diritto dovesse prevalere alla politica». Dunque, è ancora la certezza sulla valenza universale e sulla neutralità del diritto ad ispirare questa importantissima presa di posizione.

La vicenda, sia detto per inciso, si concluse con un compromesso: Delle Donne alla fine accettò di tornare alla Cassazione. Ma la sua era stata un’ulteriore affermazione della forza del diritto, considerato a sé stante e non intrecciato con la politica e le contingenze storiche.

Osservo, per inciso, che il Delle Donne difendeva una prerogativa dei magistrati, interpreti e servitori della sola legge, il cui mandato fu voluto a vita (per la prima volta), in Inghilterra, proprio per consentire loro di resistere al potere del Sovrano e di interpretare le istanze generali ed eterne del diritto.

Non vorrei, a questo punto, avere ingenerato l’equivoco che il Delle Donne fosse fautore di soluzioni astratte e avulse dal concreto. In realtà egli ebbe i piedi ben piantati per terra e si ispirò a realismo.

Ne è prova il suo intervento riguardo al nuovo Codice di procedura civile.

A Trieste aveva potuto costatare l’efficacia del Codice asburgico. Lì vi era l’oralità e l’immediatezza delle sentenze, pronunciate a fine udienza o, al massimo, entro la settimana.

Di fronte alla proposta del nuovo codice del 1942, voluto da Grandi e da Mussolini, il Delle Donne fu l’unico presidente di Corte di Appello ad esprime parere contrario e ad articolarlo attraverso comunicazioni del 18 marzo e del 5 luglio 1943, che egli trascrive integralmente nel suo dattiloscritto: «Applicazione del c.p.c. Roma, 18 marzo 1943: Eccellenza Il Ministro di Grazia e Giustizia – Roma.

L’attuazione della nuova procedura ha confermato in pieno le previsioni che ebbi già l’onore di manifestare, ponendo in maggiore evidenza da una parte la bontà del principio fondamentale sul potere del giudice, dall’altra la gravità dell’insufficienza del personale, alla quale si è aggiunta quella dei locali giudiziari. La buona volontà degli Avvocati e Procuratori e l’abnegazione dei Magistrati e dei Cancellieri non hanno dato i frutti che se ne potevano attendere ed in particolare il corso della giustizia civile non ha acquistato la celerità che era nel desiderio di tutti, a causa di mezzi che sono apparsi inadeguati alla struttura del nuovo rito.

La mia personale esperienza mi suggerirebbe alcune osservazioni sul sistema, quale è stato attuato, e specialmente sul principio dell’oralità in rapporto all’istituto del giudice istruttore, mentre in altre legislazioni l’oralità e l’immediatezza sono in funzione dell’attività collegiale; ma, nell’attuale momento, credo necessario bandire ogni discussione per indicare unicamente quali sono gli inconvenienti riscontrati nella pratica ed in qual modo si possa ovviare ad essi, senza procedere ad alcuna riforma della legge.

La mia cura, rivolta a tale scopo, mi aveva indotto fin dal gennaio u.s. a richiedere ai Sigg. Presidenti di Sezione della Corte, che ho l’altissimo onore di presiedere, le loro osservazioni sullo svolgimento del processo civile. Le relazioni, che trasmetto integralmente, contengono rilievi ed opinioni, quasi tutti relativi a singole questioni, sulle quali mi riservo di emettere istruzioni per l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. - Da parte mia ritengo più opportuno un esame da un punto di vista generale, che, salvando i principî basilari della procedura, ne metta in rilievo i più gravi inconvenienti, al fine di escogitare provvedimenti interni che agevolino l’opera della Magistratura, già superiore ad ogni encomio.

Chi frequenta le aule giudiziarie, nelle quali si svolgono procedimenti civili, rimane colpito da due fatti: le udienze istruttorie, che occupano interamente l’attività dei giudici, ai quali rimane ben poco tempo per l’estensione delle sentenze, hanno luogo in ambienti dove, per necessità, convengono contemporaneamente più giudici, con il relativo concorso di molti avvocati e di parti, in una commistione che non conferisce prestigio e dignità alla funzione giudiziaria e rende vano il precetto dell’art. 84 disp. di att. e trans., perchè il concorso dei partecipanti alle diverse istruttorie, nello stesso ambiente, non ne consente il segreto. Il contatto del giudice con le parti avviene senza la serenità e la riservatezza che costituiscono i più elementari coefficienti per l’autorità del giudice e l’efficacia dell’opera sua, specialmente nella fase conciliativa. A ciò si aggiunge la mancanza, nella maggior parte dei casi, del cancelliere, con la conseguenza della redazione dei verbali da parte degli avvocati. Questo stato di cose, sostanzialmente e formalmente, nuoce all’altissima funzione del giudice e rende in gran parte frustraneo l’intento della legge di una collaborazione effettiva, dignitosa e solenne fra il giudice e le parti.

L’altro fatto, sempre di ordine generale, consiste nelle remore del giudizio e nella durata eccessiva anche dei procedimenti più semplici e più urgenti, che ritengo dover ascrivere al numero eccessivo delle cause affidate a ciascun istruttore, almeno negli uffici giudiziari più importanti, ed all’ordine da seguire nella trattazione delle cause, secondo l’anzianità della iscrizione al ruolo. Ciò è di tutta evidenza, ove si consideri che, ad es. nel Tribunale di Roma sono in corso circa 12 mila procedimenti civili ed ogni giudice ha in media oltre 200 processi in istruttoria ed in questa Corte, dato il numero dei procedimenti che ascende a 1600, ogni consigliere deve istruire circa 70 cause. Soltanto un miracolo di sacrificio eroico può permettere lo svolgimento della Giustizia civile in modo da eliminare gli effetti più gravi di una stasi che potrebbe divenire cronica.

Sebbene non sappia concepire, nelle attuali condizioni, un rimedio che elimini la conseguenza dei due fatti, mi permetto accennare, senza alcuna pretesa, ad alcuni aspetti dell’attuazione del C.P.C.

La legge e le necessità attuali, se richiedono operosità, sagacia e profonda consapevolezza del proprio dovere a tutti i Giudici, richiedono a maggio ragione tali qualità a chi presiede i Collegi o le sezioni dei Collegi. Ed è sull’attività di costoro che si deve fare il massimo affidamento, non soltanto per la direzione del servizio ma ancora per l’esecuzione degli atti procedurali.

La facoltà data dall’art. 173 C.P.C. al presidente di procedere egli stesso all’istruttoria dovrebbe essere considerata quale un dovere, normale e costante. Egli che, per la designazione del giudice, deve compiere un esame sommario della citazione degli atti, in seguito alla costituzione delle parti, per affidare la causa ai componenti del Collegio, secondo le loro attitudini, è meglio di ogni altro in grado di decidere se una causa abbia bisogno o meno di istruzione probatoria, o se debba dichiararsi estinto il processo o se possa utilmente tentarsi la conciliazione. A proposito di tale compito, che ritengo molto difficile, mi consta che in qualche caso si esageri nell’imporre alle parti una conciliazione non voluta ed altra volta il giudice, nell’intento di raggiungere l’accordo, non usa la prudenza di tenere celata la propria opinione sull’esito del giudizio. Il presidente può esercitare la funzione conciliativa con maggiore autorità del giudice, salva la sostituzione di cui all’art. 174 C.P.C. ove questa si rendesse indispensabile.

L’uso della facoltà indicata, che si è detta anche dovere, può essere facilitato dall’opera del Cancelliere, il quale, presentando i fascicoli degli atti al presidente riferisce se sia mancata la costituzione delle parti, o se la costituzione sia regolare, per un’immediata dichiarazione di estinzione o per l’adempimento degli atti indicati nell’articolo 182 C.P.C.

Queste considerazioni valgono più segnatamente per il giudizio di appello, nel quale soltanto in via eccezionale e per gravi motivi si può chiedere l’ammissione di nuove prove e di nuovi documenti (art. 345 C.P.C.) e l’istruttore, per il rispetto dovuto alla sentenza appellata finchè non sia stata riformata, non ha il potere di ammettere né mezzi di istruzione proposti al primo giudice e da lui rifiutati, né nuovi mezzi. Le funzioni dell’istruttore, nell’udienza precollegiale, hanno carattere ordinativo e preparatorio più che inquisitorio, e possono agevolmente e nella massima parte essere adempiute dai presidenti.

Vero è che la direzione di una sezione del tribunale o della Corte di Appello implica un’attività di controllo ed una responsabilità quasi sempre grave; ma ciò non impedisce anzi agevola la partecipazione alla fase preparatoria, rendendo agile il procedimento e sollecita la decisione.

Con la sostituzione, alla quale si è fatto cenno, si opererebbe in realtà la distribuzione delle cause fra i giudici o i consiglieri, essendosi già dal presidente esaurita la fase preparatoria.

Si noti che già alcuni atti sono di competenza del Presidente e sono nella pratica numerosi, quali il provvedimento della concessione, revoca o sospensione dell’esecuzione provvisoria prima della nomina dell’istruttore o dell’unione di appelli proposti separatamente contro la medesima sentenza.

In realtà la sostituzione, qualora il Presidente non intendesse curare anche la relazione della causa, avrebbe lo stesso effetto della nomina del relatore, con una semplificazione degli atti e del procedimento.

In linea di opportunità, ed a parte ogni questione di principio, non sembra utile costringere il Presidente a fissare senz’altro l’udienza di comparizione davanti all’istruttore in una causa già matura a decisione, a due o più mesi di distanza dalla designazione, a causa dello stato del ruolo dell’istruttore, ed obbligare le parti a mere formalità dilatorie delle udienze per il richiamo alle conclusioni prese ed il rinvio alla udienza del Collegio, mentre dopo la fase compiuta dal Presidente, al relatore non rimarrebbe che fissare immediatamente l’udienza collegiale.

Con tale rimedio di ordine pratico si può ovviare alla censura mossa da un autorevole commentatore del cod. di rito (D’Onofrio - Commento - Vol. 1 pag. 313) il quale ritiene che l’istruttoria precedente all’udienza collegiale “rende singolarmente pesante il diritto di appello e molto dubbiosi sulla giustizia tecnica del sistema che ha preteso di applicare alle due fasi lo stesso istituto fondamentale dell’istruttore, senza tenere sufficientemente presente la radicale diversa situazione determinata dalla presenza di una decisione di merito già intervenuta”.

Per evitare ritardi nella trattazione della causa, dato che l’istanza per la designazione del giudice istruttore, avanti i Tribunali (art. 172) può essere presentata con separato ricorso nel termine di 30 giorni dalla scadenza del termine per la costituzione del convenuto, si potrebbe rivolgere invito ai Sindacati perchè gli avvocati inseriscano sempre nella citazione o nella comparsa di risposta l’istanza di designazione.

Per quanto finora il principio dell’oralità sia stato proclamato nel suo giusto rigore teorico, la pratica, sarebbe vano dissimularlo, ha temperato il principio che, nella sua profonda innovazione, non appaga il senso di garanzia che i difensori e le parti ripongono nella esposizione scritta delle loro ragioni di fatto e di diritto.

Lo scritto è ancora oggi considerato come il fattore indispensabile di precisione e di giustizia completa ed obbiettiva, e devo aggiungere che, per quanto è a mia conoscenza, raramente il giudice si vale del cap. art. 116 C.P.C. perchè il contegno delle parti si presta quasi sempre a dubbie e pericolose interpretazioni.

Per una necessità che direi spirituale, più forte di ogni esigenza procedurale, l’art. 183 C.P.C. viene interpretato in modo che la facoltà del giudice di autorizzare le parti a presentare memorie possa normalmente esercitarsi, tanto che la richiesta di discussione delle cause all’udienza del collegio è limitata, riferendosi gli avvocati alle loro conclusioni ed alle memorie scritte. Non saprei ritenere illegale il largo uso di tale facoltà, perchè questo è rimesso alle discrezionalità del giudice, il quale non può prescindere dalle circostanze tutte, non esclusa quella della impossibilità di ricordare i particolari di un così gran numero di cause affidate a ciascun giudice per l’istruttoria.

La pratica, che io pienamente approvo, si è costituita nel senso che le ordinanze siano ampiamente ed esaurientemente motivate, per evitare che in seguito siano soggette a modificazioni o revoche per mancata conoscenza di tutte le ragioni che le hanno determinate. E’ grave, ad esempio, che l’ordinanza la quale ammette un giuramento decisorio sia poi revocata ed è grave e poco confacente alla serietà della giustizia sia il motivare incompletamente sia il distruggere ciò che è stato il risultato di lungo studio e profonda meditazione. Il Collegio, per giungere ad un’ordinanza istruttoria, deve il più delle volte affrontare problemi delicatissimi di diritto e non è nel nostro costume giudiziario sorvolare sui problemi risolti o sul procedimento logico seguito, unicamente perchè il giudizio è sboccato in una ordinanza. Devo per verità dichiarare che finora non è mai avvenuta alcuna revoca di ordinanza emessa dal Collegio, perchè la richiesta, o la volontà di revoca si è infranta contro l’esauriente motivazione, non dissimile da quella che il Collegio espone per la decisione che ha carattere di sentenza.

Sulle oscurità e le lacune della legge si osserva che esse, per quanto concerne il giudizio di appello, si sono rivelate a tutt’oggi in numero piuttosto limitato.

L’appellante sovente aspetta la udienza di trattazione per costituirsi; tale fatto e la produzione di documenti nuovi, la quale a rigore dovrebbe essere consentita solo dal Collegio a norma del secondo comma dell’art. 345, provocano spesso la fissazione di una udienza istruttoria. Al solo scopo di ottenere la fissazione di una nuova udienza istruttoria l’avvocato chiede talvolta che sia ordinata la comparizione personale delle parti, le quali poi, o non compariscono, o compariscono per rifiutare qualsiasi proposta conciliativa.

Nel corso di applicazione del nuovo rito sono sorte le seguenti questioni:

a) - è l’istruttore o il Collegio che a norma del secondo comma dell’art. 349 può per gravi motivi ammettere i nuovi documenti e i nuovi mezzi di prova?

Le direttive del Ministero, contenute nella circolare n. 2690 del 14/4/1942, affermando che non possono essere ammessi dall’istruttore “i nuovi mezzi istruttori che la sentenza di primo grado abbia ritenuto superflui”; ma non si sa a quali mezzi tali direttive si riferiscano, giacchè i mezzi ritenuti superflui dal giudice di primo grado, non sono nuovi e quelli veramente nuovi non possono, se sono nuovi, essere stati ritenuti superflui in primo grado.

La distinzione fra mezzi nuovi e non nuovi è importante, giacchè i mezzi di istruzione proposti al giudice inferiore e da esso respinti secondo tutti gli autori non possono essere ammessi dall’istruttore, mentre quelli veramente nuovi secondo alcuni possono dall’istruttore essere ammessi (Zanzucchi, Il Nuovo Diritto Proc. vol. II, pag. 218) e secondo altri non lo possono (D’Onofrio, Commento, Vol. I, pag. 312) perchè l’art. 350 non accenna alla potestà dell’istruttore di ammettere nuove prove ed all’istruttore peraltro è precluso il vaglio del merito della sentenza appellata, finchè questa non sia stata riformata.

La Corte ritiene esatta questa seconda soluzione per i motivi addotti dalla dottrina, ma la questione e quindi anche la possibilità di diverse opinioni, permane.

b) - Permane anche il dubbio se tutto il ragionamento relativo alle nuove prove valga anche per la produzione dei nuovi documenti, sull’ammissibilità dei quali dovrebbe, per le ragioni esposte, provvedere soltanto il Collegio ed invece provvede talvolta l’istruttore.

c) - L’art. 294 del Cod. Proc. Civ. che riconosce all’istruttore la facoltà di rimettere in termine il contumace che si costituisce e di consentirgli lo svolgimento delle attività istruttorie precluse, può essere considerato implicitamente richiamato dall’art. 359 ed applicabile quindi anche nel giudizio di appello?

La questione va risolta nel senso che il solo Collegio può consentire al contumace che si costituisce l’esercizio delle attività che gli sarebbero precluse e ciò per gli stessi motivi sui quali poggia la soluzione della questione sub a). Comunque, anche su questo punto l’incertezza nuoce all’uniformità di applicazione della nuova legge processuale.

d) - L’istruttore che dichiara con ordinanza estinto il processo ad istanza di una delle parti per inattività dell’altra, può con la stessa ordinanza condannare l’altra parte delle spese del giudizio?

Su questo punto la legge presenta una lacuna. Ragioni di opportunità consigliano di adottare la soluzione affermativa, applicando per analogia, anche se questa sia alquanto discutibile, il principio sancito nell’ultimo comma dell’art. 306 Cod. Proc. Civ., nel quale si prevede la possibilità di liquidare le spese del giudizio mediante l’ordinanza dichiarativa dell’estinzione del processo per rinuncia agli atti del giudizio.

Anche in questa materia occorre che si intervenga per eliminare ogni incertezza.

e) - Se l’istruttore omette di dichiarare l’improcedibilità per mancata costituzione dell’appellante alla prima udienza e fissa una nuova udienza può l’appellante costituirsi in tale udienza?

Una questione analoga si faceva sotto l’impero del vecchio rito in tema di rigetto dell’appello senza esame. La soluzione affermativa di essa, coi motivi sui quali poggiava, induce a risolvere affermativamente anche la nuova questione.

f) - A dubbi ha dato luogo l’assenza delle parti, verificatasi nel corso del processo.

E’ avvenuto più volte che una delle parti, costituitasi in termine, non sia comparsa nell’udienza istruttoria di rimessione delle parti all’udienza Collegiale (art. 190 C.P.C.).

L’art. 190 sopra citato non contiene una sanzione per la mancata formulazione delle conclusioni nell’udienza in esso prevista e perciò si ritiene che, se la suddetta parte provvide a prendere le sue conclusioni nella fase iniziale della lite, esse devono essere prese in considerazione dal Collegio.

Tali conclusioni devono essere prese in esame anche se la parte assente nell’udienza di cui all’art. 190, si presenti all’udienza di discussione, ma si intende che essa non può modificare le sue iniziali conclusioni.

Talvolta per contro è avvenuto che la parte, avendo fissate le sue conclusioni nell’udienza istruttoria di cui all’art. 190, non sia comparsa all’udienza collegiale. Si è ritenuto che nonostante tale assenza si dovesse tenere conto delle suddette conclusioni.

h) - Per la dichiarazione di improcedibilità dell’appello nei casi previsti dall’art. 348 C.P.C. è necessaria l’istanza di parte?

Alcuni rispondono affermativamente in base all’art. 99 C.P.C., ma tale opinione non sembra accettabile, perchè i provvedimenti necessari a far cessare il processo per inattività delle parti, ricorrente in tutte le tre ipotesi previste nell’art. 348, oltre che nei casi di cui agli artt. 307 e 309, devono essere indipendenti, come si arguisce da questi due ultimi articoli dalla richiesta di parte.

i) - Quali sono gli atti che l’appellante deve inserire nel suo fascicolo, da presentare a norma dell’art. 348 n. 2?

Si dice che l’appellante debba per lo meno presentare, oltre alla sentenza appellata, gli atti necessari per la sua costituzione, i quali sono quelli di cui all’art. 165 (citazione, procura e documenti offerti in comunicazione) e che per esibizione di tali atti l’istruttore non abbia la facoltà di concedere, a norma dell’art. 348 n. 2 una dilazione, anche perchè se non deposita gli atti di cui all’art. 165 l’appellante non può costituirsi e la mancata costituzione è di per sé causa di improcedibilità dell’appello.

Tale opinione sembra esatta, ma la questione è controversa.

1) - E’ ammissibile, secondo il nuovo rito, l’intervento del terzo processo per ordine del giudice?

L’art. 344 del nuovo codice di rito, a differenza dell’art. 491 del codice abrogato, non prevede tale intervento, che perciò non può essere ritenuto ammissibile.

Il senso del dovere che il giudice italiano ha sempre avuto in altissimo grado e la devozione alla Patria particolarmente profonda in questo periodo danno affidamento che, nonostante le grandi difficoltà dovute a molteplici cause, il funzionamento della Giustizia non subirà né soste né deficienze né deviazioni»[14].

Subito dopo Delle Donne tornava a più riprese su questo nodo della Giustizia italiana e, senza esitazione, sostenne l’inapplicabilità di siffatta procedura, chiedendone la radicale modifica, perché «Il diritto, anche nel ramo della procedura è proporzionale, e deve contemperare l’interesse dell’organizzazione politica con quelli dei cittadini» ed era necessario lasciare «ai privati quel margine di libertà che è sufficiente per la tutela dei diritti operanti nella sfera della volontà privata»[15]. Egli sosteneva con forza che: «modestamente ritengo che il sistema seguito non ha raggiunto lo scopo di garantire nella forma più sicura e sollecita la difesa del diritto e debba essere senz’altro abbandonato.

Sopra ogni dibattito dottrinale sta il principio e l’esigenza della realtà giudiziaria, dovendo la procedura essere preordinata ed attuata per la migliore difesa del diritto sostanziale. La procedura cioè è da considerarsi quale mezzo che non deve intralciare o ritardare la dichiarazione e l’esecuzione del diritto, ma agevolarne l’esercizio.

Posto questo punto fondamentale del problema procedurale, occorre discendere all’esame del metodo più adatto, non seguendo teorie e schemi astratti, ma adottando le norme alle reali condizioni del nostro Paese, alla tradizione, al costume giudiziario, alla nostra indole, al grado di litigiosità del popolo, al numero ed alle condizioni dei Giudici, alla mentalità di essi e degli avvocati, alle condizioni sociali ed ai rapporti fra lo Stato ed il cittadino»[16].

In realtà il nuovo codice si basava sul decisivo continuo potere di intervento del giudice nel processo civile.

Ciò costituiva un rovesciamento della posizione di quanti ritenevano che si dovesse lasciare alle parti lo svolgimento della procedura e vedevano il giudice solo come terzo, garante e testimone dei fatti processuali e della regolarità del rito, nonché arbitro per la corretta applicazione del diritto (attraverso la sentenza).

Al riguardo occorre un breve excursus, che consenta di capire l’importanza della questione e per ricordare i termini e i contorni della querelle che accompagnò (ed è ancora attuale!...) il nuovo codice di procedura civile.

Studiosi eminenti mettevano in evidenza il fatto che i componenti del collegio giudicante arrivavano all’emanazione della sentenza senza una conoscenza diretta dell’andamento del processo e della sua istruzione. Essi dovevano giudicare soltanto sulla scorta delle ‘carte’ accumulatesi durante lo svolgimento della procedura; essi venivano investiti della questione solo attraverso la lettura dei verbali e degli atti scritti dalle parti (le ‘difese’). Chi aveva seguito la causa, cioè il giudice istruttore, quasi mai era anche il decidente.

Tutti i punti e tutte le questioni sollevati dalle parti, riguardo all’andamento del procedimento ed alle prove, venivano definiti dal Collegio attraverso una sentenza interlocutoria contro la quale era possibile proporre appello, causando dilatazione eccessiva dei tempi della decisione della lite.

Tutto ciò pareva inammissibile. Soprattutto quanti stavano perseguendo il nuovo diritto, basato su un ideale di perfezione (come era nelle aspirazioni di coloro –ed erano tanti - che si ispiravano alla pandettistica tedesca del Windscheid), insorsero. Primo fra tutti un allievo dello Scialoja, il Chiovenda. Questi in più riprese propose l’ideale di un processo civile perfetto ed idealizzato secondo le concezioni dirigistiche (che all’epoca si incentravano sull’intervento dello Stato, attraverso i suoi Tribunali) e sostenne l’indilazionabilità di una riforma radicale, la quale doveva essere assata sul principio dell’oralità e sugli altri principi ad essa collegati: l’immediatezza, la concentrazione, l'immutabilità del giudice e, da ultimo, la non appellabilità delle decisioni interlocutorie. Il giudice doveva essere posto al centro dello svolgimento del processo e divenire guida e vigile controllore di esso, contribuendo anche all’acquisizione del materiale probatorio.

Il Chiovenda portò avanti le sue tesi nella Commissione per il dopo-guerra (fatta istituire nel 1918 dallo Scialoja e composta da 600 membri, ai quali furono aggiunti altri 600 esperti, allo scopo di “studiare e proporre provvedimenti occorrenti al passaggio dallo stato di guerra allo stato di pace”), alla quale egli partecipò, con grande autorevolezza: sin dal 1920, fu predisposto il profilo del nuovo codice del 1940. Il progetto, predisposto dai più grandi processualisti (Piero Calamandrei, che stese la Relazione al Re, Francesco Carnelutti ed Enrico Redenti), fu sposato dal nuovo Guardasigilli Dino Grandi e dal Duce.

Si ricorda che lo stesso Mussolini, chiosando la richiesta di un magistrato, annotò a mano: «Ha ragione. Il giudice non dirige ma è diretto».

La conseguenza fu l’emarginazione delle parti, perché quasi tutti i poteri di gestione del processo furono demandati al giudice e in particolare al giudice-istruttore.

Le aspettative non trovarono riscontro nei risultati.

Si scoprì che il nuovo codice eludeva una delle aspirazioni prioritarie: invece di snellire, allungava i processi. Sul punto proprio le obiezioni del Delle Donne, come dirò, sono illuminanti, mettendo a nudo la lentezza e la farroginosità nascenti dalla nuova procedura, causa di difficoltà sia per i giudici sia per gli avvocati.

Questi ultimi, subito dopo la caduta del regime fascista, dopo il 25 Luglio del 1943, presero posizione contro il nuovo codice e ne chiesero l’abrogazione, auspicando persino il ritorno al codice del 1865. La loro protesta, andò avanti per diversi anni, ma non ottenne l’appoggio del Consiglio Nazionale Forense, presieduto da Piero Calamandrei, che aveva contribuito alla stesura del Codice e, come si è detto, aveva scritto la Relazione al Re.

Le proteste non ebbero esito e alla fine il Codice non venne abrogato.

Come emerge dal confronto delle date il Delle Donne fu il primo autorevole oppositore del nuovo codice e anticipò l’avversità manifestata dagli avvocati, ma solo dopo la caduta del Duce (nel luglio del 1943), la quale si fondava in più punti e soprattutto nella denuncia del pericolo di defatiganti lungaggini e dilatazioni dei tempi del processo sulle considerazioni svolte dal Delle Donne.

La vicenda fu, quindi, di grande rilievo e dimostrò lo spirito d’indipendenza e la priorità data al ‘diritto’ ed alla sua reale applicazione dal Delle Donne.

Questo spiega perché egli si è soffermato in maniera diffusa sull’episodio (che occupa ben 18 delle 98 pagine, dell’attuale edizione del suo scritto autobiografico).

Le obiezioni del Delle Donne si articolavano su più punti.

I principali erano costituiti dalla mancanza di adeguato personale ausiliario, dall’assenza di norme semplici che, come in Austria erano necessari a garantire la speditezza del procedimento, dall’eccessivo assorbimento dei magistrati in attività istruttorie. Egli denunciava che il carico giudiziario avrebbe impedito ai giudici, così come agli avvocati, di riservare tempo allo studio, con la conseguenza di un inevitabile abbassamento della qualità degli interpreti del diritto. Le condizioni di sovraffollamento dei locali (dove più giudici dovevano contemporaneamente svolgere le proprie mansioni) impediva persino la necessaria riservatezza e serenità. Inoltre la mancanza di cancellieri faceva sì che i verbali venissero redatti dagli avvocati, con le perplessità che ciò comportava. Il tutto rendeva impossibile la necessaria collaborazione fra il giudice e le parti. Il Delle Donne denunciava il pericolo concreto di “remore del giudizio” e “durata eccessiva anche dei procedimenti più semplici e più urgenti”, in gran parte dovute all’eccessivo numero di cause affidate a ciascun magistrato.

Egli poi si soffermava su alcuni inconvenienti legati alle incombenze dei Presidenti, costretti ad investirsi, almeno sommariamente, delle cause per potere procedere all’assegnazione ai magistrati istruttori, con perdita di tempo enorme e dispendio di energie a discapito dell’approfondimento e della formazione.

Delle Donne prese posizione sul cardine della riforma, la quale, secondo le visioni del Chiovenda, si era incentrata sul principio dell’oralità. Egli scrisse che quel principio, certamente buono in sé e se utilizzato davanti al collegio giudicante, era inadatto davanti al giudice istruttore. Nella pratica sarebbe stato fonte di lungaggini e mal si sarebbe conciliato con la prassi dei Tribunali italiani, dove gli avvocati preferivano, per chiarezza e precisione, affidarsi alle proprie memorie scritte, creando una duplicità di vie.

Sono rilievi penetranti, ancora oggi di grande attualità, che dimostrano l’attenzione acutissima per l’efficace e tempestiva applicazione del diritto ai casi concreti[17].

Ricordo, per inciso, che con la “novella” del 1950, tra l’altro, si attenuò il principio dell’oralità con la legalizzazione delle memorie scritte.

Vorrei, a questo punto, riandare a due aspetti della cultura e della formazione del giurista, quali emergono dalle pagine del Delle Donne.

Il primo: l’estrema penuria di bibliografia e la difficoltà per procurarsi i testi.

Il secondo: la particolarità degli studi giuridici con l’individuazione di un corso per le attività forensi e di notariato. Esso era accompagnato da una molteplicità di prove di accesso alle professioni, le quali, per la Magistratura, prevedevano reiterate modifiche.

Nell’ordinamento degli studi colpisce la presenza di un insegnamento di Enciclopedia giuridica[18] che aveva la funzione di Einführung al diritto, la quale, in seguito, fu affidata agli insegnamenti di Istituzioni di diritto romano e di Istituzioni di diritto privato ed in alcune Facoltà anche all’insegnamento di Filosofia del diritto.

La poliedricità e la vastità di interessi del Delle Donne è testimoniata dal suo felice passaggio dalle corti giudicanti alle procure e dai suoi scritti, di politica del diritto[19]:

Le pagine del Delle Donne ci immettono nel Gotha della scienza giuridica italiana. Bastano i nomi a darne il quadro: Venzi, Mortara, Barcellona, Mortara, Chiovenda, Calamandrei, De Ruggiero, Rocco, Vassalli, Orlando.

Su ciascuno di essi e sui rapporti avuti con il Delle Donne ci si potrebbe soffermare ancora a lungo.

Mi limito a ricordare la lettera di felicitazioni del Presidente della Vittoria, Vittorio Emanuele Orlando, e la cena, offerta da colleghi ed amici al Delle Donne, alla Casina delle rose al Pincio, durante la quale tutti i commensali convennero di lasciare la parola esclusivamente ad Orlando, che parlò soprattutto di diritto[20].

Alla fine di queste mie riflessioni mi è parso utile accendere i riflettori su una pagina del nostro recente passato, ancora co-presente, che ci dà uno spaccato di quelli che erano e quello che rappresentarono i giuristi nella transizione tra guerra, fascismo e dopoguerra.

 

 



 

[1] M. Delle Donne, Il mio racconto – Da pastorello della Lucania a primo presidente della Corte di Appello di Roma e Senatore del Regno, Genzano di Lucania 2006.

 

[2] Gran parte sono anticipatori di critiche radicali che si sono reiterate nel tempo intorno al processo civile: per tutte ricordo quelle mosse in più riprese da un grande processualista scomparso di recente, Franco Cipriani, del quale mi limito a citare il penetrante Il processo civile nello Stato democratico, E.S.I., Napoli 2006.

 

[3] Trascrivo il punto, che si trova alle pagine 33-34, perché ricco di indicazioni sulle qualità morali e la solidarietà del tempo, nonché sulla tempra del Nitti e del primato da tutti accordato alla famiglia: «Non m’ero iscritto all’Università per l’anno successivo alla licenza liceale né ebbi disponibile la somma necessaria per l’iscrizione se non nell’ottobre 1897. Avevo pagato intanto buona parte del vecchio debito e non intendevo interrompere il pagamento né assumere altro debito. Per economia, mi iscrissi, a mezzo Peppino Cristalli, alla Facoltà di giurisprudenza di Napoli, Corso di Notaio e Procuratore, e mi procurai le Istituzioni ed il Sistema di diritto civile del Gianturco, oltre un volumetto di Enciclopedia giuridica. Per entrambe le materie ebbi il 27, con la dispensa dalle tasse. Nell’anno seguente ottenni la stessa votazione e mi iscrissi perciò al terzo Corso di Laurea e così al quarto, senza alcuna spesa. Nel giugno del quarto anno il padre di un mio alunno, Senise, mi pregò di portare una sua lettera al prof. Nitti. Egli mi spiegò che, per la ripartizione dello storico bosco di Banzi, caro ad Orazio, e la liquidazione dei diritti di usi civici spettanti ai Bantini (circa 1200) Don Vincenzo Nitti aveva esercitato le funzioni di Agente Demaniale: il figlio, Francesco Saverio, nella sua dimora in Banzi, aveva fatto l’onore di tenere a battesimo il figlio del Senise, che perciò scriveva al compare, rinnovando le espressioni della sua riconoscenza. Nitti lesse e gradì molto la lettera, nella quale io ero indicato come maestro del figlio del Senise, e mi chiese lo scopo del mio viaggio a Napoli. Quando gli dissi che dovevo sostenere gli esami del quarto anno, mi domandò su quale libro avessi studiato “Scienza delle Finanze”. Mi ero servito, nella preparazione, di uno di quei sunti che erano allora in uso e lo dissi francamente. Nitti si levò dal lunghissimo e ampio tavolo del suo studio, nel quale mi aveva ricevuto, e da un armadio prese le dispense del suo Corso, da lui approvate, e me le offrì. Ringraziai più con gli occhi che con le parole. In tre giorni lessi più volte le dispense, chiare ed in forma volgarizzatrice della Scienza, affrontai l’esame avanti la Commissione, formata dal Nitti, che presiedeva, dal prof. Graziani, titolare della Cattedra di Economia politica e da un libero docente, senza trovare difficoltà nelle risposte: ottenni un 28. Esauriti gli esami di tutte le materie e presentata la tesi di laurea, che dovetti preparare in gran fretta, rimasi in attesa della discussione. Ne chiesi notizia al Segretario dell’Università, dott. Fontebasso, ed ebbi la sgradita sorpresa di apprendere che non sarei stato ammesso alla discussione della tesi se non avessi prima pagata la somma di £. 250, per omesso pagamento della differenza fra le tasse del Corso di Notaio e Procuratore e quelle del Corso di laurea. Un fulmine a ciel sereno! Mi aggiravo nei corridoi dell’Università con la tristezza di chi si trova all’improvviso dinanzi al crollo del suo piano, nell’incapacità di porvi rimedio, allorchè incontrai Nitti. Egli, vedendomi turbato, mi domandò che cosa mi fosse accaduto: conosciuta la richiesta di Fontebasso, mi invitò a seguirlo in Segreteria, dove chiese se non vi fosse modo di ammettermi alla discussione: egli si offriva a garantire per me il pagamento della tassa. Il regolamento non ammetteva alcuna deroga. Nitti scrisse un biglietto e mi incaricò di portarlo a casa sua. Era diretto a Donna Antonia, la quale mi consegnò la risposta: nella busta erano le 250 lire. Non abbracciai Nitti, per timore reverenziale ma nell’animo mio si impresse profondo il senso della gratitudine, per un atto così spontaneo, seguito dal rifiuto della mia offerta di dichiarazione scritta. Conseguita la laurea, con voti cento, mi recai da Nitti. Aveva sulle ginocchia il figlio Vincenzino, di circa tre anni: mi presentò suo Padre e Donna Antonia. Caduto il discorso sulle varie vie da seguire dopo la laurea, Nitti mi disse: «Potreste venire qui: vi metterei a disposizione la mia biblioteca ed in un paio d’anni potreste ottenere la libera docenza, e, in altro periodo, più o meno breve, la cattedra universitaria». Gli risposi: “La ringrazio: accetterei con entusiasmo la sua generosa offerta se fossi solo; ma la mia famiglia ha bisogno del mio aiuto, che io non potrei darle se mi dedicassi alla preparazione per la carriera universitaria: prenderò parte al concorso in Magistratura”. “Avete ragione” mi disse Nitti».

 

[4] Ricordo che, secondo il Windscheid «il civilista avrebbe dovuto tendere a costruire una scienza formale, scienza pura, scienza ordinante né contaminata né compromessa dalle dimensioni etica sociale economica»: così P. Grossi, La cultura del civilista italiano. Un profilo storico, Milano 2002, 20; cfr. B. Windscheid, Die Aufgaben der Rechtswissenschaft, raccolto in Gesammelte Reden und Abhandlungen, Leipzig 1904, dove è riprodotto il pensiero espresso nel discorso inaugurale (leipzige Rektoratsrede) del Rettorato, del 1884.

 

[5] In essi si radicava la convinzione dell’esistenza di un abstrakte Zivilrecht, costituente un sistema organico e coerente, nel quale la faceva da padrona una scienza giuridica agguerritissima.

 

[6] Sul punto e sull’affresco delle eccellenze del tempo e dell’ascendente di Scialoja, v. le stringate notazioni, op. cit., 43 s.: «La mia linea di discussione piacque a Vittorio Scialoja, che io vidi emozionato, in una delle prime udienze avanti la 2a Sezione, presieduta da Pietro Barcellona, quando in una causa di divisione ereditaria ricordai uno scritto di Lui, giovanissimo, titolare della Cattedra di diritto romano presso l’Università di Camerino. La Presidenza affidata a giuristi del valore di Giulio Venzi, Pietro Barcellona, Silvio Petrone ed altri, e la difesa delle parti sostenuta da Vittorio Scialoja, Ludovica Mortara, Giuseppe Chiovenda, Vittorio Emanuele Orlando, Piero Calamandrei, Federico Cammeo, Filippo Vassalli, De Ruggiero, Vincenzo Ianfolla ed altri e poi anche Alfredo Rocco, incutevano rispetto, destavano ammirazione e stimolavano allo studio più accurato anche per la dignità ed il prestigio della Magistratura. Avevo l’impressione di trovarmi nello svolgimento di un rito sacro, che io seguivo modestamente ma con intima gioia. Le udienze erano un godimento intellettuale ed una scuola ad alto livello di sapienza, di nobiltà di pensiero e di squisita colleganza nella ricerca del vero e del giusto. Non mancavano neppure le arguzie ed i motti di spirito. Nella discussione di un ricorso, pur riconoscendo l’acume ed il valore del patrono nel sostenere la sua tesi, dalla quale io dissentivo, ne chiesi il rigetto. Orlando, rivolto al suo avversario gli disse: “Beh! t’ha fatto un funerale di prima classe!”. Ricordo un episodio: Giulio Venzi si presentava all’udienza molto ben preparato e con il proprio parere, su ogni ricorso, scritto su di un pezzo di carta che teneva in tasca. Nella discussione di un ricorso io, ad un certo punto, temendo di prolungarmi troppo, nell’esposizione dei miei argomenti, ne chiesi venia al presidente. Questi insistette e direi quasi mi obbligò a proseguire, sicchè io svolsi la mia tesi agevolmente. In Camera di Consiglio Venzi tirò fuori da una tasca il suo pezzo di carta e mi disse: “Ero di avviso contrario al tuo; mi hai convinto: sono con te”. Circa due mesi dopo l’assunzione del mio ufficio il Procuratore Generale, S.E. Appiani, mi comunicò che dovendo procedere alla Destinazione di un Sostituto, con le funzioni di Pubblico Ministero presso il Consiglio Superiore Forense, aveva interpellato il presidente Vittorio Scialoja, e questi, senza alcuna esitazione, aveva fatto il mio nome, non solo, ma aveva richiesta l’esclusione di qualsiasi avvicendamento, seguito in precedenza. S.E. Appiani non mi nascose il suo stupore sia per il giudizio su di me espresso dal sommo giurista, ma rigoroso critico, sia perchè l’incarico presso quel Consiglio era considerato come anticamera della promozione, che avveniva a scelta del Ministro, ma che non poteva ottenersi se non dopo quattro anni di permanenza nel quarto grado. Dopo quel colloquio fui mandato frequentemente alle udienze delle Sezioni Unite, destinate solitamente agli Avvocati Generali o ai Sostituti Anziani. Nel periodo passato alla Procura generale presso la Cassazione si verificò in me un fenomeno non comune. In un’udienza delle Sezioni Unite, presieduta da Mariano D’Amelio, sempre sereno ed instancabile, erano fissate per la discussione ventuno ricorsi: inizio dell’udienza ore 12. Questa si prolungò, con brevissimi intervalli, fino alle ore ventuno. Negli ultimi ricorsi, come nei primi, la mia mente non ebbe un attimo di stanchezza, non solo, ma divenne sempre più lucida, astratta e leggera, quasi che lo spirito si fosse liberato dalla materia. La stanchezza mi giunse dopo e passò presto con il riposo. Il Consiglio Superiore Forense, presieduto da Vittorio Scialoja, era composto da una schiera di eminenti penalisti, di ogni parte d’Italia; le relazioni sui precedenti erano modelli di obiettività e di precisione ed i dibattiti si svolgevano sempre sereni ed elevati. Si presentarono alla discussione i ricorsi degli ex deputati aventiniani, radiati dall’albo per la loro attività politica: fra i ricorrenti ricordo l’On.le Umberto Tupini, che io non conoscevo, non avendolo mai veduto in Cassazione o altrove. Sostenni l’accoglimento dei ricorsi, perchè sarebbe stata illegittima una sanzione per l’attività svolta, anteriormente al fascismo, nell’ambito delle leggi prima vigenti, e perchè mancava ogni elemento di prova circa l’attività posteriore, non potendosi colpire le opinioni non seguite da atti contrari alle nuove leggi. Scialoja ed i Consiglieri furono unanimi nella decisione basata sulla mia tesi: i ricorrenti esercitarono quindi liberamente la loro professione di avvocato».

 

[7] D. 1.2.2.49, Pomp. L. sing. Enchir.

 

[8] V. op. cit., 46: «Alcuni dei miei colleghi, vincitori, con me, del concorso del 1928, come Aloisi, Azzariti, Saltelli, furono subito promossi al 3° grado. Non so come giunse la notizia a Vittorio Scialoja: Egli si presentò al Ministro di Grazia e Giustizia, Alfredo Rocco, a Lui legato da sincera amicizia e, stringendogli la mano, si congratulò vivamente con lui per il decreto emesso con la mia promozione. Il Ministro cadde dalle nuvole, dichiarò di ignorare se io avessi compiuto il quadriennio e promise una verifica. Per quella trovata, spiritosa e geniale, rivelatrice di un gran cuore, non sempre riconosciuto, fui subito promosso al 3° grado e nominato Procuratore Generale alla Corte di Appello di Bari. Tutto ciò mi fu riferito dall’avv. Mantica, di sua iniziativa, essendo egli valente e fedelissimo sostituto di Vittorio Scialoja».

 

[9] Op. cit., 46 s.: «Memore del consiglio paterno, non avevo mai chiesta la tessera fascista: questa non m’era stata mai sollecitata od offerta. In seguito, e precisamente dopo la Circolare Rocco, che invitava all’iscrizione, per eliminare un’apparente differenza tra tesserati e non, considerai che il rifiuto avrebbe portato logicamente alle dimissioni, che l’iscrizione all’unico partito non poneva vincoli né ledeva minimamente l’indipendenza dei Magistrati, che ognuno deve far valere da sé, né faceva dimenticare il giuramento prestato, e aderii all’invito. Questo mio concetto animò sempre la mia coscienza».

 

[10] Trascrivo qui il relativo decreto:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA - Visto il decreto del Duce 18 gennaio 1944-XXII, che ha prosciolto i dipendenti delle amministrazioni civili dello Stato dal giuramento di fedeltà prestato al Re all’atto della loro assunzione in servizio; - Vista la nuova formula del giuramento adottato per il personale civile delle amministrazioni pubbliche; - Ritenuta la necessità di modificare, adeguandola alla mutata formula politica dello stato, anche la formula di giuramento previsto per i magistrati dall’art. 9 dello ordinamento giudiziario, approvato con R.D. 30 gennaio 1941, n. 12; - Visto il decreto legislativo del Duce 8 ottobre 1943-XXI, concernente la sfera di competenza ed il funzionamento degli organi di governo; - Ritenuta la necessità assoluta ed urgente di provvedere:  D E C R E T A  Art. 1 La formula del giuramento da prestarsi dai magistrati a norma dell’art. 9 dell’Ordinamento giudiziario approvato con R.D. 30 gennaio 1941-XIX n. 12 è cosi modificata: “Giuro di servire lealmente la Repubblica Sociale Italiana nelle sue istituzioni e nelle sue leggi e di adempire coscienziosamente i miei doveri di magistrato per il bene e per la grandezza della Patria”. Art. 2 I Magistrati in attività di servizio, dovranno entro 40 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto prestare il giuramento secondo la formula di cui al precedente articolo. Art. 3 Il giuramento sarà prestato nelle mani del superiore gerarchico diretto. I Capi delle Corti di Cassazione e di Appello lo presteranno davanti al Ministro per la giustizia. Del prestato giuramento sarà redatto apposito verbale da conservarsi nel fascicolo personale del magistrato. Art. 4 Il presente decreto, da sottoporsi a ratifica del Consiglio dei Ministri, previa registrazione alla Corte dei Conti, sarà pubblicato nella Gazzetta Ufficiale d’Italia, entrando immediatamente in vigore, e, munito del sigillo dello Stato sarà inserito nella raccolta ufficiale delle leggi e decreti. Addì 21 febbraio 1944-XXII Il Ministro Pisenti. Al decreto seguì, in data 1° aprile 1944, la seguente Circolare del Ministro della Giustizia Pisenti sulla nuova formula del giuramento: MINISTERO DELLA GIUSTIZIA - Gabinetto - n. 2209/Br di prot. Posta Civile 309/1, 1 aprile 1944-XXII. Oggetto: Nuova formula di giuramento. Al Primo Presidente ed al Procuratore Generale di Stato, della Corte Suprema di Cassazione; ai Primi Presidenti, e ai Procuratori Generali di Stato presso le Corti di Appello di Ancona in Tolentino, Brescia, Bologna, Roma, Firenze, Perugia, Torino, Genova, Milano, L’Aquila, Venezia, Trieste; al Presidente e all’Avvocato Generale presso la Corte di Appello di Trento: Con decreto ministeriale pubblicato nella Gazzetta Ufficiale d’Italia del 20 febbraio u.s., è stata determinata la nuova formula di giuramento per i magistrati, in sostituzione di quella di cui all’art. 9 dell’ordinamento giudiziario vigente. In relazione alle gravi vicende verificatesi dall’8 settembre in poi, per cui il paese, abbandonato a sé stesso dal Capo dello stato e dal Governo Regio, ho dovuto cercare in un nuovo assetto politico la via della salvezza, i magistrati sono chiamati ad impegnare tutte le loro energie in questa impresa di ricostruzione nazionale. Il giuramento che il nuovo Stato ad essi richiede non è perciò che la promessa di adempiere con lealtà alle proprie specifiche funzioni nell’orbita delle leggi e delle istituzioni della Repubblica Sociale Italiana. Conoscendo l’austera dedizione al dovere e alla Patria di tutti i magistrati italiani, sono certo che nel pronunciare la nuova formula, che li inserisce in una nuova fase della storia politica della Patria, sentiranno profondamente ancora una volta l’imperativo del dovere verso l’Italia immortale. Il giuramento sarà presentato dai Capi della Corte Suprema di Cassazione e delle Corti nelle mie mani, come stabilito dal decreto, in data e in circostanze che renderò note prossimamente: successivamente i capi dei singoli uffici giudiziari di Tribunali e Procure presteranno giuramento nelle mani dei loro rispettivi Capi di Corte e, poi, convocheranno avanti a sé i magistrati direttamente dipendenti, compresi i primi Pretori ed i Pretori dirigenti dei Mandamenti, e questi gli altri, in modo che il giuramento di tutti (compresi i V. Pretori onorari, Giudici Conciliatori e Vice Conciliatori) possa avvenire entro il 30 aprile. Sarà perciò opportuno che siano fin d’ora adottate le disposizioni preparatorie. Il giuramento dovrà avvenire singolarmente in modo che ciascun magistrato legga la formula ad alta voce e la sottoscriva in presenza del capo; il relativo verbale sarà inviato al Ministero per l’unione al fascicolo personale. I magistrati in congedo ordinario o straordinario, in aspettativa o comunque impossibilitati a trasferirsi nella sede dove dovrebbero giurare presso il Superiore gerarchico, nonchè i magistrati addetti ad uffici diversi da quelli giudiziari - salvo istruzioni particolari per quelli addetti al Ministero della Giustizia - si presenteranno davanti al Capo dello Ufficio giudiziario del luogo dove risiedono, il quale curerà l’invio del verbale del giuramento al Ministero (Ufficio del Personale). In casi eccezionali (magistrati che non siano in grado di trasferirsi dal luogo di residenza per malattia documentata o per ragioni di servizio militare) autorizzo a richiedere il giuramento per iscritto, avvertendo che la firma dovrà essere certificata autografa da notaio o dal podestà del luogo di residenza e, per i militari, dal loro superiore diretto. Tale autografo sarà alligato al verbale che del ricevimento di essi sarà redatto dal Superiore gerarchico. Per i casi non previsti dalle presenti istruzioni i Capi di Corte disporranno per analogia, secondo il loro saggio criterio, riferendomi direttamente. Dopo il 30 aprile sarà dai Capi di ciascuna corte compilato l’elenco dei magistrati che non avranno prestato il giuramento, riferendo il motivo. L’Ufficio Superiore del personale del Ministero compilerà l’elenco dei Magistrati fuori ruolo che si trovino nelle medesime condizioni. Sono in corso disposizioni per il giuramento dei funzionari di cancelleria e segreteria e degli altri dipendenti dell’ordine giudiziario. “Per copia conforme” Addì, 1° aprile 1944-XXII. Il Capo del Gabinetto (F.to Verna) Il Ministro (F.to Pisenti).

 

[11] Scrive Delle Donne, op. cit., 58 s.: «Alla Circolare, nella mia qualità di Primo Presidente della Corte di Appello di Roma, risposi con la seguente lettera del 15 aprile 1944, alla quale aderì Gaetano Cosentino, Procuratore generale presso la Corte, che firmò insieme a me la copia dattilografata spedita al Ministro Pisenti. «Sig. Ministro della Giustizia, la circolare del 1° corr., che ci è stata comunicata dal Capo nucleo di collegamento, ha prodotto grave turbamento negli ambienti di questa Corte e del Tribunale locale. I Magistrati alle nostre dipendenze, pur avendo l’animo straziato dagli avvenimenti luttuosi della Patria e pur essendo moltissimi in gravi ristrettezze economiche, hanno finora compiuto il loro dovere con serenità, dignità ed elevatissimo spirito di sacrificio. Essi ritenevano, e noi con loro, che sarebbero stati lasciati estranei alle competizioni dei partiti in lotta fra loro, mentre il sacro suolo della nostra Italia è calpestato interamente da stranieri e questi esercitano con l’occupazione la sovranità di fatto a tutto il territorio del nostro Stato. In tali condizioni i magistrati della Corte e del Tribunale di Roma si sono uniformati alla regola del diritto internazionale ed interno in attesa del ristabilimento di uno stato di diritto e della liberazione da ogni e qualsiasi ingerenza di Potenze straniere. Intanto hanno amministrato la giustizia, sotto l’egida del diritto, nella certezza che la loro posizione, che è fuori e sopra ogni contesa politica, sarebbe stata tutelata e rispettata, secondo la tradizione che si è perpetuata, attraverso tutti i tempi e le più varie situazioni politiche. La richiesta del giuramento, che implica adesione alla Repubblica Sociale Italiana, avrebbe per immediato effetto la partecipazione dei magistrati ad un ordine politico, ancora di fatto, e ci farebbe entrare nelle file di uno dei due partiti in lotta civile, contro la missione stessa e le prerogative universalmente riconosciute alla Magistratura. Noi non abbiamo altro desiderio che quello di vedere al più presto la restaurazione di uno Stato Italiano, che ci renda liberi in casa nostra; ma finchè la situazione di fatto non è seguita da quella di diritto, preferiamo proseguire la nostra opera, come abbiamo fatto finora, attenendoci al diritto quale è applicabile nelle attuali condizioni e traendo dalla nostra purissima coscienza la forza di amministrare giustizia per la tutela del diritto dei privati e più ancora dello Stato, che supera le contingenze e domina la nostra attività ed i nostri spiriti».

 

[12] Lo stesso Delle Donne riporta il telegramma di risposta del Ministro (59): «telegramma n° 341 indirizzato al Primo Presidente della Corte di Appello di Roma - 78 S.C. X 17012    21    25/4    1045, ai Procuratori Generali et ai Primi Presidenti Corte Appello Ancona in Tolentino, Bologna, Firenze, Genova, Torino Milano, Perugia, + + + Roma + + +Venezia, Brescia, L’Aquila, Trieste. Indipendente da termine fissato da Decreto 21 febbraio 1944 sul giuramento rimanete in attesa mie ulteriori disposizioni Alt. Ministro Giustizia Pisenti. Pervenuto il 27 aprile 1944 alla Presidenza della Corte di Appello di Roma». In riferimento al quale annota: «Questo telegramma fece seguito alla mia lettera 15 aprile di rifiuto del giuramento, che non fu mai più richiesto».

 

[13] Op. cit., 93.

 

[14] Op. cit., 60 s.

 

[15] Op. cit., 76.

 

[16] Op. cit., 75.

 

[17] Op. cit., 60-89.

 

[18] Ricordato dal Delle Donne, op. cit., 34.

 

[19] Egli pubblicò un Saggio critico sul diritto pubblico italiano in rapporto alle attuali tendenze economiche, Torino 1917, ed un lavoro su, Consorzi amministrativi, che costituì la sua tesi di libera docenza e fu pubblicata, come parte generale, nel 1919.

 

[20] Ricordata a 47 s.