Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – D. & Innovazione

 

 

 

Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari – Consiglio di Facoltà del 22 settembre 2010

 

«Commemorazione accademica del Professore Senatore Francesco Cossiga, Presidente Emerito della Repubblica Italiana»

 

Palazzo dell’Università, Sala Consiliare dell’Ateneo

 

 

 

Commemorazione del Senatore Francesco Cossiga. Il profilo scientifico dello studioso

 

Omar Chessa

Università di Sassari, Professore ordinario di Diritto costituzionale

nella Facoltà di Giurisprudenza

 

 

 

La produzione scientifica di Francesco Cossiga si concentra soprattutto in un lasso temporale che va dal 1950 al 1953, e comprende scritti brevi ma comunque significativi.

Il futuro Presidente, infatti, muove i primi passi della sua carriera accademica (e politica) a Sassari, sua città natale ma, in fondo, è figlio del suo paese d’origine, Siligo, piccolo centro situato nel mezzo di quella sub-regione della Sardegna chiamata “Mejlogu”, “luogo di mezzo”; e Cossiga – verrebbe da dire: metonimicamente – è in tutto e per tutto un “uomo di mezzo”, continuamente sospeso tra le origini che intende preservare e il cambiamento che, soprattutto da politico, fu chiamato a gestire quasi di giorno in giorno.

Per coniugare tali propensioni palesemente divergenti occorrono doti particolari, che Cossiga possedeva in quantità, e che traspaiono già dai lavori giovanili: un’evidente tendenza alla conservazione del lascito dei Padri, accompagnato però da una certa inventiva nei metodi per ottenerla; una naturale inclinazione per la complicazione, temperata da un’esercitata cifra pragmatica che lo induceva talora a ricercare soluzioni immediate purché efficaci.

Cossiga è stato “uomo di mezzo”, sempre in bilico tra mediazione e intransigenza. Mai, però, egli ha sconfessato un piccolo ma coriaceo nucleo di principi per lui assolutamente intangibili, o – come si direbbe con terminologia più à la page – “non negoziabili”.

Principi che sono ben presenti nella sua produzione dottrinale.

Il primo esempio che ci piace portare a conforto di tale profilo è un lavoro pubblicato nel 1950 sulla Rassegna di diritto pubblico (rivista che era pubblicata a Napoli dall’editore Jovene e che ora non esiste più, ma in quegli anni era assai autorevole: pubblicò peraltro tutti i primi contributi di Giuseppe Guarino sulla costituzione repubblicana appena entrata in vigore). Il titolo del lavoro è I membri dei consigli regionali godono della inviolabilità parlamentare: si tratta di un’annotazione (non adesiva) ad una pronunzia delle Sezioni riunite della Corte di cassazione del 1950, con cui il supremo Collegio censurava la prassi dell’Assemblea regionale e della magistratura siciliana di estendere analogicamente l’istituto dell’inviolabilità parlamentare ai consiglieri regionali dell’isola. La tesi degli ermellini era che, trattandosi di disposizione eccezionale, in difetto di espressa previsione, non ne fosse possibile l’applicazione analogica, e l’argomento è di quelli che paiono difficilmente attaccabili.

Il giovane studioso – con uno stile argomentativo sicuro – indaga invece la ratio dell’istituto, critica in maniera puntuale la qualificazione dell’art. 68 della Costituzione quale norma eccezionale e ne dimostra invece la natura di coerente declinazione di un principio generale e indefettibile di autonomia degli organi deliberativi, con ciò gettando le basi per un fondato dissenso rispetto alla pronuncia annotata. Abilmente Cossiga individua il fulcro del ragionamento dei giudici di legittimità nel rapporto di specialità così come istituito dalla sentenza annotata (status dei comuni cittadini – status dei parlamentari) e sposta il piano di operatività del principio de quo sul livello istituzionale dei rapporti tra Parlamento e gli altri organi costituzionali.

Peraltro, una delle premesse che – anche se non esplicitata – sta a fondamento della ricostruzione cossighiana, è la comune natura di tutte le assemblee legislative, quale che sia il livello di governo nel quale si collocano: in altre parole, se c’è identità sotto il profilo funzionale – e in questo caso c’è, perchè il parlamento nazionale e i consigli regionali condividono la titolarità della funzione legislativa –  allora deve esserci pure identità di struttura, sia sotto il profilo dei principi organizzativi essenziali, sia sotto il profilo delle posizioni soggettive spettanti ai loro membri. Forse nel 1950 era troppo presto perché si affermasse con nettezza che le assemblee legislative nazionale e regionali sono egualmente esponenziali della sovranità popolare, egualmente rappresentative del corpo elettorale: in ogni modo, il discorso di Cossiga sulle inviolabilità parlamentari (e in genere dei membri delle assemblee legislative) contiene intuizioni interessanti, che sotto molti punti di vista sicuramente precorrono i tempi.

Sotto il profilo del metodo e della concezione teorica generale, nel saggio in oggetto trapela un’idea peculiare di Costituzione, che invariabilmente sarà riproposta anche nei saggi successivi: ossia, l’idea che la Costituzione, e l’ordinamento, non siano solo un insieme di norme, ma anche la risultante di prassi, applicazioni e considerazioni d’opportunità ed adeguatezza al caso, tutte armonicamente orientate verso la salvaguardia di qualcosa di superiore. Per Cossiga la costituzione non è solo un testo, ma anche un insieme di valori extratestuali che non solo fondano il valore giuridico del testo costituzionale, ma che altresì – pure alla luce degli svolgimenti della prassi - debbono orientare l’attuazione e l’interpretazione delle disposizioni scritte.

Questa teoria del diritto è ben visibile nello scritto cossighiano dell’anno successivo (nel 1951), il cui titolo è Diritto di petizione e diritti di libertà, pubblicato in Il Foro padano. È un saggio che ha per oggetto il diritto di petizione. Anch’esso è originato da un’annotazione, stavolta adesiva, ad una pronuncia giurisdizionale (nella fattispecie, del Pretore di Capua).

In tale scritto, più che il tema in sé, sembra rilevare – retrospettivamente – la concezione giuridica del futuro Presidente, che, fedele alla sua impostazione fondamentalmente storicistica, vede nella Costituzione il prodotto dell’interazione tra norme formali, prassi applicative ed azione popolare. Cito dal testo cossighiano: «la caratteristica peculiare degli ordinamenti democratici, prima e più ancora che da una organizzazione formale degli organi costituzionali, è data da una effettiva partecipazione della base popolare alla vita dello Stato».

Più chiaramente ancora: «(…) ogni ordinamento non è espressione astratta di una pura logicità formale ma è la costituzione giuridica di una concreta realtà politica che è momento di un comune processo storico (…)».

Ed infine: « nel valutare l’effettivo rendimento di un istituto, e quindi anche la sua vera natura, occorre, al di là di un esame puramente formale del complesso normativo, porlo sul piano del concreto funzionamento dell’ordinamento, occorre inserirlo, cioè, nel sistema costituzionale che non è un puro sistema statico di norme logiche ma un sistema dinamico di istituti che, nel loro concreto operare, possono per l’appunto, pur nel generale loro adeguarsi all’ordinamento normativo, produrre effetti e fenomeni da questo non previsti o non compiutamente previsti.».

I pochi frammenti riportati potrebbero tranquillamente essere stati scritti quarant’anni dopo, a supporto e spiegazione della singolare cifra della sua Presidenza della Repubblica. Ma soprattutto fanno emergere il profilo di uno studioso attento al dibattito teorico del suo tempo. Attento soprattutto al dibattito di teoria costituzionale che si svolse qualche anno prima nel mondo germanico durante gli anni della sfortunata repubblica di Weimar. Cossiga conosceva le opere di Hans Kelsen (nelle cui tesi però non si riconosceva) e aveva letto attentamente Carl Schmitt. Conosceva altresì le opere di autori minori (che poi minori non sono…), come Rudolf Smend e Hermann Heller: il passo citato sembra proprio rievocare, anche nella terminologia, le tesi di quest’ultimo, in particolare l’idea che la costituzione sia un fenomeno complesso, che intreccia normalità sociale e normatività giuridica, secondo un processo dinamico d’interazione continua.

Francesco Cossiga non è stato solo uomo politico e delle istituzioni in tempi di transizione, non è stato solo “uomo di mezzo”; è stato anche “uomo in mezzo”, in mezzo al popolo, alla gente di Sardegna.

In particolare, l’attenzione del giovane studioso per i problemi della sua terra è ben visibile negli scritti che stiamo commentando, aventi a oggetto le competenze regionali in materia creditizia (1952) e la libertà d’espatrio e d’emigrazione (1953).

Sotto il profilo metodologico, essi meritano di essere ricordati per la già poderosa crescita dello studioso, che si muove con estrema confidenza all’interno di perimetri apparentemente ristretti ma che presuppongono, in realtà, il dominio di una chiara e salda concezione istituzionale del diritto, in cui il dato testuale – per essere “approvato” – deve sempre superare il vaglio della “ragion pratica”.

Ma, soprattutto, i due saggi in parola (particolarmente il secondo) testimoniano il forte rapporto che il futuro Presidente ha sempre mantenuto con le problematiche sociali della Sardegna, e non è forse sbagliato ipotizzare che gli studi in questione possano aver rappresentato il primo “servizio” che il giovane Francesco Cossiga pensava di rendere alla comunità, nei limiti delle sue possibilità e dei suoi mezzi del momento.

Voglio chiudere questa rapida riflessione sul profilo scientifico dello studioso Cossiga con un ultimo saggio, che non appartiene alla produzione scientifica in senso proprio. Infatti non è stato pubblicato su riviste scientifiche di settore o in forma monografica. Si tratta del messaggio presidenziale sulle riforme costituzionali trasmesso alle Camere il 26 giugno 1991 (ai sensi, ovviamente, dell’art. 87, secondo comma, della Costituzione).

Nonostante la forma e la finalità istituzionale, questo messaggio è concepito come se fosse un saggio scientifico, dove trovano finalmente sviluppo e compimento quei motivi, quelle intuizioni, quelle analisi e – perché no? –  anche suggestioni che già caratterizzavano gli scritti giovanili ricordati prima.

Sicuramente non sarebbe un errore definire il messaggio presidenziale del 1991 come il documento che più e meglio d’ogni altro racchiude – con ampiezza e coerenza di svolgimenti – la dottrina costituzionale di Francesco Cossiga.

Fu – non a caso – un saggio che ebbe vasta eco non solo nel dibattito politico-giornalistico del tempo, ma anche nel dibattito specificamente costituzionalistico di allora: basti pensare che l’autorevole rivista Giurisprudenza costituzionale dedicò al messaggio, cosa mai fatta prima, un intero numero della rivista, ospitando in forma di dibattito le opinioni di numerosi costituzionalisti. Per il vero, le opinioni per la maggior parte non furono adesive e i contenuti del messaggio vennero criticati anche aspramente. Col senno di poi molti di questi giudizi negativi, probabilmente, andrebbero rivisti, soprattutto quelli concernenti le proposte di Cossiga circa il metodo da seguire per la realizzazione delle riforme costituzionali.

Dicevo, si tratta di un vero e proprio saggio, assai denso e corposo (oltre 60 pagine! Una sorta di snello lavoro monografico). Contiene numerose notazioni e analisi sulla cornice storico-politica nella quale si addivenne alla formulazione e approvazione della Costituzione del ‘47; vengono investigate le condizioni sociali ed economiche positive che ne hanno accompagnato l’attuazione nei decenni successivi e, di contro, le difficoltà del sistema politico-partitico, con una rassegna ragionata di tutti i problemi di funzionamento della forma di governo, del sistema elettorale, dell’ordinamento giudiziario e del sistema delle autonomie territoriali: l’analisi di Cossiga non risparmia nessun ganglio dell’articolazione costituzionale complessiva. Vengono, inoltre, ricordate ed esaminate tutte le proposte di riforma avanzate nelle legislature precedenti, con l’illustrazione testarda, ostinata, dei loro pregi e difetti.

Infine, il messaggio proponeva di modificare l’art. 138 della Costituzione in modo da sostituire il procedimento di revisione costituzionale vigente con un procedimento imperniato sull’elezione di un’Assemblea costituente, cui affidare il compito di riscrivere la parte organizzativa della Costituzione italiana. Insieme alle proposte e analisi in tema di forma di governo, fu indubbiamente il passo più criticato da parte della dottrina costituzionalistica del tempo. In particolare non piacque il riferimento alla necessità di avviare un processo costituente, poiché si riteneva che il potere costituente fosse ormai “esaurito” e che non fosse possibile riattivarlo senza porsi al di fuori della legalità costituzionale. Si temeva, inoltre, che questa rottura della continuità con la costituzione del ’47 potesse suonare come un giudizio sostanzialmente negativo sulla stessa esperienza costituzionale repubblicana per come, fino a quel momento, era stata realizzata dalle forze politiche costituenti.

In realtà, Cossiga non intendeva evocare la necessità di un potere costituente assoluto e totale, che facesse piazza pulita del passato marcando una profonda discontinuità con le realizzazioni costituzionali del dopoguerra. Non abbandonò mai l’idea, già vigorosamente avanzata negli scritti giovanili, che al di sopra del testo costituzionale vi fossero taluni principi superiori – “supremi” direbbe la dottrina costituzionalistica – che concernono la sovranità popolare, le libertà fondamentali dell’individuo, i principi di eguaglianza, i diritti sociali; principi che una costituzione democratico-pluralista, e le riforme di una costituzione democratico-pluralista, non potrebbero cancellare o depotenziare senza con ciò tradire la missione e il significato che sono propri di una costituzione degna di questo nome: la costituzione non è qualsiasi atto che organizzi il potere, ma è quell’atto che organizza il potere secondo certi valori e certi principi che la cultura del costituzionalismo considera irrinunciabili.

Ciò premesso, Cossiga semplicemente osservava che si era alla vigilia di trasformazioni costituzionali spontanee, non volute e impreviste – come puntualmente accadde di lì a un paio d’anni, quando in seguito all’introduzione del sistema elettorale maggioritario mutò la fisionomia dei partiti allora esistenti e furono travolte molte convenzioni costituzionali seguite fino a quel momento. A giudizio di Cossiga, il sistema politico-partitico e la stessa nazione italiana non potevano rimanere inerti di fronte a questi processi trasformativi, non potevano subirli passivamente: dovevano invece riprendere in mano le redini del proprio futuro costituzionale, come avevano fatto i Padri costituenti, nonostante le macerie della II guerra mondiale.

Cossiga è passato alla storia per essere stato il grande picconatore delle istituzioni repubblicane. In realtà, probabilmente, è stato l’ultimo dei grandi uomini politici italiani a credere nella capacità di autoriforma del sistema politico e a nutrire una profonda fiducia nella capacità del popolo italiano di gestire con consapevolezza il proprio destino costituzionale.