Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – Tradizione-Romana

 

 

manuEmanuela Calore

Università di Roma “Tor Vergata”

 

Considerazioni sulla clausola edittale

Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo

 

 

Sommario: I. Excursus storico. – I.1. Una possibile testimonianza della più recente clausola edittale in tema di vis e metus: Cicerone, In Verrem 2.3.65.152 e Ad Quintum fratrem 1.1.21. – I.2. Ancora sul ruolo della testimonianza di Cicerone nella ricostruzione della clausola edittale. – I.3. Le Controversiae di Seneca il retore: una possibile testimonianza dell’editto preadrianeo. – II. Considerazioni sulla clausola edittale riportata in D.4.2.1, con particolare riguardo agli strumenti pretori che introduceva. – II.1. Valutazione della tesi dell'esistenza di un'ulteriore clausola edittale: “Quod metus causa factum erit...”. – II.2. Il termine gestum presente nella clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”; il suo significato nel commento di Ulpiano (D.50.16.19 e D.4.2.9.2) e di Paolo (D.4.2.21.1-2) all'editto. – II.2.A. D.50.16.19. Il contributo di Labeone e di Ulpiano alla determinazione del significato del verbo gerere. – II.2.B. D.4.2.9.2. Pomponio, non contraddetto da Ulpiano, sembra attribuire alla fattispecie edittale descritta con il verbo gerere il caso di una estorta manumissio, o quello di una estorta demolizione di un edificio. Anche in D.4.2.9pr. Ulpiano riporta l'opinione di Pomponio; quest'ultimo a sua volta cita Labeone, che riferirebbe al gerere l'ipotesi dell'abbandono del fondo. Inoltre per Pomponio rientrerebbe nella previsione edittale il subire, per timore, una edificazione nel proprio fondo e il consegnare, metus causa, il possesso di un terreno. – II.2.C. D.4.2.21.1-2. Paolo, nel contesto del commento alla clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”, riporta il caso di un estorto trasferimento del possesso di un fondo, per il quale alla vittima di violenza viene concessa tutela con l'a.q.m.c. – II.3. Conclusioni.

 

 

I. – Excursus storico

 

D.4.2.1: Ulpianus libro undecimo ad edictum. Ait praetor: «Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo». olim ita edicebatur «quod vi metusve causa»: vis enim fiebat mentio propter necessitatem impositam contrariam voluntati: metus instantis vel futuri periculi causa mentis trepidatio. sed postea detracta est vis mentio ideo, quia quodcumque vi atroci fit, id metu quoque fieri videtur.

 

Ulpiano ci ricorda che un tempo l'editto del pretore prevedeva “…quod vi metusve causa”. Il riferimento alla vis serviva a coprire l'ambito di quanto compiuto per una necessità imposta contraria alla volontà, mentre il metus esprimeva lo stato di agitazione (mentis trepidatio) causato dalla minaccia di un pericolo attuale o futuro. In seguito, sempre secondo Ulpiano, il riferimento alla vis cadde, perché si ritenne che quanto compiuto per violenza (vis atrox) sembrava compiuto anche per timore[1].

 

Il testo di Ulpiano non specifica temporalmente quando sia stata compiuta l'eliminazione del termine vis dal testo edittale, però dall'utilizzo di olim, edicebatur, fiebat e detracta est si lascia intendere che questa sia avvenuta in tempi che Ulpiano considerava lontani. In alcuni testi del Digesto, contenenti il commento dei giuristi classici alla clausola edittale, poi, si fa ancora menzione al termine vis: ad esempio, Giuliano riportato da Ulpiano in D.4.2.9.7 e in D.4.2.12.2; Ulpiano in D.4.2.3pr., D.4.2.3.1, D.50.17.116 ecc.

Inoltre, in altre fonti, successive alla redazione dell'editto perpetuo da parte di Salvio Giuliano, si trovano richiamati insieme i termini “vis” e “metus”, si pensi, ad esempio, a Paolo in D.22.1.38.6 (Item si vi metusve causa rem tradam...); Ulpiano in D.37.15.7.2 (Nec exceptiones doli patiuntur vel vis metusve causa...), in D.40.12.16.1 (Si tamen vi metuque compulsus fuit...); C.2.19.3 (Imp. Gordianus A. Gaio. Si vi vel metu fundum avus tuus distrahere coactus est... [a. 238]); C.2.19.4 (Imp. Gordianus A. Primo et Eutycheti. Si per vim vel metum mortis aut cruciatus corporis venditio vobis extorta est...[a. 239]); C.2.19.5 (Imp. Gordianus A. Rufo militi. Non interest, a quo vis adhibita sit patri et patruo tuo, utrum ab emptore an vero sciente emptore ab alio, ut vi metuve possessionem vendere cogerentur. ... [a. 239]); Cons. 9.3 (Impp. Valens et Valentinianus AA. Mamertino pp. [Inter cet. et ad locum:] Pacta quidem per vim et metum apud omnes... [a. 365]); C.Th.4.20.4 (...Quod si de vi et metu is qui cessit queri voluerit); C.Th.15.14.9 (Impp. Arcad[ius] et Honor[ius] AA. Andromacho P[raefecto] U[rbi] ...doli ac vis et metus inchoata actio in tempus legitimum perseveret... [a. 395]); C.2.19 (De his quae vi metusve causa gesta sunt).

La presenza di entrambi i termini in testi successivi alla realizzazione dell'editto da parte di Giuliano non credo che possa essere interpretata come una “prova” della loro presenza nella clausola edittale contenuta nell'editto del periodo adrianeo e dell'eliminazione del riferimento alla vis da parte dei compilatori (anche perché, allora, non la dovremmo trovare neppure nel Digesto o nel Codex). Ciò, mi sembra, soprattutto perché: ci sono molti altri testi in cui non è presente il richiamo congiunto alla vis e al metus; la circostanza che il richiamo ad entrambi i termini non fosse più presente nella clausola edittale non avrebbe dovuto necessariamente comportarne un non richiamo congiunto; l'eliminazione della vis dalla clausola edittale, infatti, stando alle parole di Ulpiano (D.4.2.1), “quia quodcumque vi atroci fit, id metu quoque fieri videtur”, non era stata compiuta con la motivazione che si considerava irrilevante la vis, ma perché questa era implicita nella considerazione del metus. A ciò, poi, si potrebbe aggiungere che, secondo alcuni studiosi, la parola vis sarebbe stata eliminata dalla clausola edittale, ma non dalla rubrica dell'editto[2].

Oltre al problema storico, posto dalla caduta del richiamo alla vis, si pone anche la questione delle ragioni del superamento. Dalla prospettiva di Ulpiano ciò sembra dovuto alla inclusione della situazione ingenerata da vis nel metus: la vis provoca sempre anche metus[3].

Si è ritenuto che nell’editto “quod metus causa” si tenesse in considerazione, ai fini della tutela, non tanto il modo attraverso il quale la violenza fosse stata attuata, quanto piuttosto l’effetto della violenza[4]. La prospettiva segnalata potrebbe fornire una chiave di lettura idonea a spiegare le vere motivazioni che avrebbero spinto all'eliminazione del richiamo alla vis, oltre quanto è deducibile dal breve excursus di Ulpiano su questa clausola edittale.

La clausola edittale più recente dovrebbe essere quella che Ulpiano stava commentando e che quindi sarebbe quella presente nell'editto perpetuo adrianeo redatto da Salvio Giuliano[5], mentre per l'altra ci sono due possibilità: riferirla alla clausola edittale accolta da Ottavio e ricordata da Cicerone, con la quale si sarebbe promessa la formula Octaviana[6], oppure considerarla come intermedia tra quest'ultima e quella adrianea.

 

 

I.1. – Una possibile testimonianza della più recente clausola edittale in tema di vis e metus: Cicerone, In Verrem 2.3.65.152 e Ad Quintum fratrem 1.1.21

 

Cicerone nelle Verrine ricorda l'editto di Metello che concedeva una tutela al soggetto al quale era stato indotto metus:

 

Cic. In Verrem 2.3.65.152: Tenetur igitur iam, iudices, et manifesto tenetur avaritia, cupiditas hominis, scelus, improbitas, audacia. Quid? si haec quae dico ipsius amici defensoresque iudicarunt, quid amplius vultis? Adventu L. Metelli praetoris, cum omnis eius comites iste sibi suo illo panchresto medicamento amicos reddidisset, aditum est ad Metellum; eductus est Apronius. Eduxit vir primarius, C. Gallus senator; postulavit ab L. Metello ut ex edicto suo iudicium daret in Apronium, QUOD PER VIM AUT METUM ABSTULISSET, quam formulam Octavianam et Romae Metellus habuerat et habebat in provincia. Non impetrat, cum hoc diceret Metellus, praeiudicium se de capite C. Verris per hoc iudicium nolle fieri. Tota Metelli cohors hominum non ingratorum aderat Apronio; C. Gallus, homo vestri ordinis, a suo familiarissimo L. Metello iudicium ex edicto non potest impetrare.

 

Il senatore Gallo[7] aveva fatto ricorso al propretore Metello[8] per la concessione della formula Octaviana nei confronti di Apronio[9], che si muoveva al seguito di Verre, quod per vim aut metum abstulisset; la richiesta del senatore Gallo, però, non trovò accoglimento, perché Metello non concesse il iudicium affinché questo non pregiudicasse[10] la situazione di Verre, nei confronti del quale era stata instaurata a Roma una quaestio repetundarum.

L'espressione “quod per vim aut metum abstulisset” utilizzata da Cicerone ha le sembianze di un'espressione tecnica, che potrebbe essere ricondotta all'editto o alla formula; questa ipotesi, poi, pare supportata dal fatto che l'espressione, in modo sostanzialmente identico, ricorre in un altro passo di Cicerone, tratto dalle lettere ad Quintum fratrem.

 

Cic. Ad Quintum fratrem 1.1.21: ... His rebus nuper C. Octavius iucundissimus fuit, apud quem pr<ox>imus lictor quievit, tacuit accensus, quotiens quisque voluit dixit et quam voluit diu; quibus ille rebus fortasse nimis lenis videretur, nisi haec lenitas illam severitatem tueretur. Cogebantur Sullani homines quae per vim et metum abstulerant reddere...

 

Anche in questo testo ciceroniano è leggibile un riferimento alla formula Octaviana, come si ricava dalla menzione di C. Octavius[11], che avrebbe molto probabilmente introdotto la formula. L'espressione “... quae per vim et metum abstulerant reddere...” letta insieme a “quod per vim aut metum abstulisset” del testo precedente, potrebbe offrire un valido sostegno all'ipotesi che Cicerone avesse richiamato la clausola edittale o la formula dell'azione.

Dalle parole di Cicerone (In Verrem 2.3.65.152) che precedono l'espressione “quod per vim aut metum abstulisset” si dovrebbe dedurre che essa sia piuttosto riferibile alla formula, in quanto l'oratore dice “...ut ex edicto suo iudicium daret in Apronium, quod per vim...”; tuttavia, considerandone la natura in factum, la supposizione è discutibile[12].

Si potrebbe, quindi, ipotizzare che l’espressione utilizzata da Cicerone sia più appropriata per la clausola edittale che avrebbe introdotto la formula la quale, a parte il verbo e la formulazione attiva, è simile a quella contenuta in D.4.2.1.

Dall'espressione riportata da Cicerone si nota subito l’uso del verbo auferre rispetto al gerere che troviamo nella clausola edittale riportata in D.4.2.1 o al facere che secondo alcuni[13] sarebbe stato utilizzato per la clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c. La diversità dei verbi utilizzati è particolarmente rilevante: è stato, infatti, sostenuto che il primo si riferirebbe all’autore della violenza e quindi al convenuto nel giudizio instaurato con la formula Octaviana, il secondo si riferirebbe alla vittima[14]. Pertanto, con il passaggio dall'uno all'altro ci sarebbe stato un mutamento di prospettiva, perché il verbo auferre avrebbe rispecchiato l'attenzione del pretore all'autore della vis, mentre il ricorrere del verbo gerere nella clausola edittale più recente avrebbe piuttosto sottolineato l'interesse del pretore per gli atti compiuti dalla vittima della violenza e, quindi, una maggiore attenzione alla tutela di quest'ultima.

L’espressione, riportataci da Cicerone, aderendo alla prima ipotesi, vorrebbe dire “ciò che per mezzo di violenza o timore è stato portato via”; di conseguenza il pretore, con questa espressione della clausola edittale, si sarebbe riferito all’operato dell’autore della violenza; pertanto, se ne sarebbe potuto ricavare un intento della formula volto più alla punizione dell’autore della violenza, che all’eliminazione del danno subito dalla vittima, con la conseguenza che la formula originale sarebbe stata strettamente personale, diretta, appunto, contro l'autore della violenza[15].

Tuttavia, si deve precisare che il significato di vi auferre appena richiamato non sia l'unico. L'espressione vi auferre, infatti, potrebbe anche riferirsi al vantaggio patrimoniale conseguente alla violenza, cioè, a ciò che è stato ottenuto, ricevuto in seguito all'uso della violenza o alla induzione del timore[16]. L'espressione per vim et metum auferre non indica necessariamente il portar via, lo strappare con la forza e con la violenza qualcosa (più adatto ad ipotesi di violenza fisica), ma significa anche ottenere qualcosa da qualcuno, costringere qualcuno a consegnare qualcosa, approfittando della propria posizione di forza (più adatto ad ipotesi di vis compulsiva)[17], questo significato dell'espressione vi et metu auferre credo che sia anche quello da attribuire alla ablata pecunia della lex repetundarum.

Quest'ultimo significato di auferre, poi, sembra essere suffragato anche dal reddere che segue nell'espressione utilizzata da Cicerone, dal quale mi sembra si possano trarre indizi adatti a mettere in luce l'obiettivo primario di questo rimedio, la restituzione, perché se questo fosse stato la punizione dell'illecito commesso ci saremmo dovuti aspettare che l'oratore mettesse piuttosto in rilievo la pena e non la restituzione.

Non penso che la clausola edittale con cui il pretore Ottavio aveva introdotto la formula Octaviana si possa identificare con quella riportata da Ulpiano in D.4.2.1, seppure nella versione meno recente, nella quale erano inclusi i riferimenti sia alla vis che al metus[18]. Il linguaggio utilizzato da Cicerone nelle Verrine, infatti, è tale da far ritenere molto più probabile che la fattispecie prevista nella clausola edittale inserita nell'editto del pretore Ottavio fosse descritta attraverso il verbo auferre che bene si adattava pure al contesto nel quale la formula Octaviana era sorta, cioè quello strettamente connesso al crimen repetundarum. Pur non condividendo l'identificazione tra la clausola edittale più antica riportata da Ulpiano e quella riconducibile al pretore Ottavio, tuttavia, non resta escluso che la clausola edittale, accolta da Ottavio nel suo editto, contenesse le parole ratum non habebo (Cic., In Verrem 2.2.26.63)[19].

Non si può determinare con precisione il momento in cui si sia passati dalla formula Octaviana alla più matura a.q.m.c., o meglio, il periodo in cui si sia completato lo sviluppo della prima nella seconda, ma possiamo sicuramente constatare che Labeone[20] e Seneca[21] conoscevano già il rimedio pretorio nella forma più avanzata, cioè l'a.q.m.c., e, almeno al retore, erano note le parole edittali “quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo.

 

 

I.2. – Ancora sul ruolo della testimonianza di Cicerone nella ricostruzione della clausola edittale

 

Cicerone gioca un ruolo fondamentale non solo come testimone della formula Octaviana[22], ma anche come testimone di un'ulteriore tappa della rielaborazione[23] della clausola edittale riportata in D.4.2.1.

A questo proposito, mi sembrano significativi alcuni passi contenuti nel de Officiis, che potrebbero offrire un contributo prezioso a questo tentativo di ricostruzione.

Il primo passo è tratto dal de Officiis,I.10.32:

 

...Iam illis promissis standum non esse quis non videt, quae coactus quis metu, quae deceptus dolo promiserit? quae quidem pleraque iure praetorio liberantur, nonnulla legibus.

 

Cicerone aveva appena affermato che in alcune circostanze mantenere una promessa o un patto può diventare dannoso o per colui al quale è stato promesso o per colui il quale ha promesso e per questo (sempre in de Officiis I.10.32) afferma: “... Nec promissa igitur servanda sunt ea, quae sint iis, quibus promiseris, inutilia, nec si plus tibi ea noceant, quam illi prosint cui promiseris, contra officium est maius anteponi minori...”. Un esempio di promessa che non doveva essere mantenuta è proprio quello della promissio estorta con le minacce o carpita con l'inganno. Per questa ipotesi, riferisce l'Arpinate, il più delle volte interviene il diritto pretorio (iure praetorio liberantur) e in alcuni casi la legge (nonnulla legibus).

Dalle parole utilizzate da Cicerone in questo contesto, però, non è possibile capire se egli abbia presente la clausola edittale de pactis, oppure, più in particolare, quella relativa al metus[24].

Il secondo passo è tratto dal de Officiis III.24.92 in cui si legge:

 

Pacta et promissa semperne servanda sint, «quae nec vi nec dolo malo», ut praetores solent, «facta sint»...

 

È nota l'affinità di queste parole dell'Arpinate con la clausola edittale riportata da Ulpiano in D.2.14.7.7: “Ait praetor 'Pacta conventa, quae neque dolo malo, neque adversus leges plebis scita senatus consulta decreta edicta principum, neque quo fraus cui eorum fiat, facta erunt, servabo' [25]. Ai fini della nostra ricerca è interessante notare che dal confronto tra de Officiis III.24.92 e D.2.14.7.7 emerge l'assenza del richiamo alla vis nella testimonianza ulpianea della clausola edittale de pactis. Questo dato è stato spiegato ipotizzando che la clausola edittale riportata da Cicerone contenesse ancora il richiamo alla vis in quanto la recente introduzione della clausola “Quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo”, che era sì nota al Cicerone del de Officiis, avrebbe permesso di rescindere i negozi giuridici, ma non avrebbe ancora comportato il mutamento terminologico della clausola de pactis[26].

Ancora, in de Officiis III.29.103:

 

ut hoc ipsum videtur honestum conservandi iuris iurandi causa ad cruciatum revertisse, sed fit non honestum, quia, quod per vim hostium esse actum, ratum esse non debuit.

 

e in de Officiis III.30.110 si legge:

 

At non debuit ratum esse, quod erat actum per vim. …

 

Il contesto nel quale Cicerone scrive è quello del racconto della vicenda di M. Attilio Regolo, come esempio di quella onestà che si manifesta nella grandezza e nobiltà di un animo eccezionale[27]. Attilio Regolo, infatti, che era stato preso prigioniero in Africa dal capitano spartano Santippo, era stato inviato al senato, sotto il vincolo del giuramento che sarebbe ritornato a Cartagine se non fossero stati restituiti ai cartaginesi alcuni prigionieri. Giunto davanti al senato, egli espose la richiesta dei nemici e, non solo rifiutò di esprimere il proprio parere, ma addirittura affermò che la restituzione dei prigionieri cartaginesi non sarebbe stata utile, in quanto quelli erano dei giovani e buoni comandanti, se iam confectum senectute.

Le frasi di Cicerone, che sopra abbiamo riportato, in questo contesto, potrebbero voler significare che Regolo avrebbe potuto non mantenere fede al giuramento fatto, in quanto era stato posto in essere per vim, egli, infatti, si trovava in una situazione di prigionia, che non sarebbe cambiata se non in seguito al giuramento e alla promessa ivi contenuta, cioè il ritorno in Africa dei prigionieri cartaginesi; tuttavia, egli preferì mantenere fede al giuramento e subire, piuttosto, nuovamente i supplizi dei nemici, sebbene come precisa Cicerone, ai tempi di Regolo non si potesse far altro che mantenere fede al giuramento[28], così che, secondo l'Arpinate, degno di ammirazione sarebbe stato soprattutto il fatto che Regolo avesse espresso il parere di trattenere i prigionieri cartaginesi.

Nel ricordare questa gloriosa vicenda, come abbiamo visto, Cicerone utilizza due volte un'espressione assai affine alla clausola edittale meno recente ricordata da Ulpiano in D.4.2.1:

D.4.2.1

Cicerone

Quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo.

de Officiis III.29.103: ... quod per vim hostium esse actum, ratum esse non debuit.

 

de Officiis III.30.110: At non debuit ratum esse, quod erat actum per vim.

 

Le parole di Cicerone possono testimoniare una conoscenza da parte dello stesso della clausola edittale ricordata da Ulpiano; la costruzione della frase, il riferimento alla vis e l'espressione ratum non habere sembrano parlare in questo senso, sebbene nei testi di Cicerone, diversamente da Ulpiano, compaia il verbo agere[29].

Un confronto, poi, tra i passi delle Verrine sopra riportati e questi tratti dal de Officiis mostrano un cambiamento del modo di esprimersi di Cicerone che potrebbe essere connesso ad una modificazione della clausola edittale intercorsa nel periodo compreso tra la redazione delle due opere.

 

 

I.3. – Le Controversiae di Seneca il retore: una possibile testimonianza dell’editto preadrianeo

 

Un'ulteriore testimonianza della formulazione dell'editto anteriore alla redazione di Salvio Giuliano potrebbe provenire dalle parole di Seneca il Vecchio[30], il quale, all'inizio del primo secolo d.C., fa riferimento, alla vis, alla necessitas, al lucrum, al rescindere, al ratum ed alla poena.

Questi riferimenti sono contenuti nelle Controversiae[31] scritte da Seneca il Vecchio[32]. Il fatto che i testi per noi più interessanti siano tratti proprio da questo tipo di opera è particolarmente rilevante, perché nelle Controversiae si proponevano temi spesso legati a questioni giuridiche[33]. Seneca, nelle sue Controversiae, menzionava innanzitutto il principio giuridico dal quale dipendeva il tema, poi indicava il tema stesso, spesso con l'esposizione della situazione e poi passava agli epigrammi dei partecipanti alla controversia, a sostegno, rispettivamente, di una parte o dell'altra del caso[34].

Ai nostri fini, poi, è interessante sottolineare che è stata rilevata l’esistenza di paralleli genuini con il diritto romano per alcune delle questioni giuridiche e delle leggi trattate nelle Controversiae[35].

Alla luce di questo è da notare che nei libri 4 e 9 sono contenute delle discussioni in tema di metus: Contr. 4.8 “Per vim metumque gesta irrita sint[36] e Contr. 9.3 “Per vim metumque gesta ne sint rata. ....[37]. Il “principio giuridico” trattato nei due temi è molto probabilmente riconducibile, come si può ricavare da un confronto testuale, alla clausola edittale preadrianea, riportata in D.4.2.1 e cioè: “Quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo”.

Contr. 4.8 e Contr. 9.3.9 riportano il vivo di una discussione e di una riflessione sulla legittimazione passiva del terzo, riguardo ad un non meglio precisato rimedio contro la violenza, la costrizione, al tempo dell'editto preadrianeo[38].

Il contesto giuridico che fa da sfondo[39] alle controversie è probabilmente quello che ha già visto il passaggio dalla formula Octaviana all'a.q.m.c., come proverebbero le parole utilizzate da Seneca (vis et necessitas est, ita tantum rescindantur quae per vim et necessitatem gesta sunt) le quali sono in una visibile armonia con le parole utilizzate da Ulpiano in D.4.2.1 per descrivere la clausola edittale più antica.

La testimonianza di Seneca mi sembra che possa rappresentare una tappa dell'evoluzione della clausola edittale in tema di metus, più in particolare una tappa intermedia, come quella del Cicerone del de Officiis, tra la testimonianza riportataci da Cicerone nelle Verrine e quella riportataci da Ulpiano, perché da un lato vi è stato il mutamento dal verbo auferre al verbo gerere; dall'altro vi è ancora il richiamo congiunto alla vis e al metus. Certamente non vi è una totale coincidenza tra la clausola edittale meno recente riportata da Ulpiano in D.4.2.1 e le parole di Seneca, ma questo può dipendere dalle esigenze di forma richieste dall'opera nella quale queste testimonianze sono presenti[40].

 

 

II. – Considerazioni sulla clausola edittale riportata in D.4.2.1, con particolare riguardo agli strumenti pretori che introduceva

 

II.1. – Valutazione della tesi dell'esistenza di un'ulteriore clausola edittale: “Quod metus causa factum erit...

 

Si ritiene generalmente che nella redazione dell’Editto Perpetuo, realizzata da Salvio Giuliano, sotto la rubrica “Quod metus causa gestum erit” vi fossero due clausole, una avente ad oggetto la concessione della i.i.r. e riportata in D.4.2.1 e un’altra, non pervenutaci, la quale avrebbe riguardato la concessione dell’a.q.m.c.[41]. Secondo diversi studiosi la menzione della clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c., nelle opere dei giuristi a commento dell'editto, sarebbe stata poi eliminata dai compilatori giustinianei a seguito della fusione tra i.i.r. e a.q.m.c.[42]. La corrispondente decurtazione sarebbe stata subita anche dal Commento di Ulpiano all’editto[43].

Molto discussi sono, tuttavia, i rapporti e gli ambiti di applicazione delle due clausole edittali. Per averne la percezione basti pensare agli aspetti problematici che investono la clausola edittale che ci è nota, e cioè: quale rimedio contro il metus avesse introdotto; se è pensabile ritenere che questa clausola in realtà fosse riferita a tutti i rimedi contro il metus; a cosa si riferisce l'olim ita edicebatur: se alla formula Octaviana, oppure ad una versione dell’editto precedente alla versione di Salvio Giuliano e posteriore a tale formula; quale rapporto tra vis e metus fosse introdotto attraverso questa clausola.

Gli aspetti relativi all'excursus storico riportato da Ulpiano e ai rapporti tra vis e metus sono già stati brevemente indicati[44], quanto agli altri si potrebbe chiedere: se fosse fondata l’opinione di chi ipotizza che la clausola edittale che ci è stata tramandata è quella che avrebbe introdotto la i.i.r. [45], per quale motivo i compilatori avrebbero conservato questa a danno di quella che avrebbe introdotto l’a.q.m.c.[46], soprattutto in considerazione della circostanza che secondo l’opinione dominante i compilatori avrebbero operato numerose interpolazioni nel titolo del Digesto esaminato, volte all’eliminazione dei riferimenti alla i.i.r. in favore dell’azione[47]? Anche sulla base di simili dubbi una parte della dottrina romanistica ha ritenuto che l’editto tramandatoci, in realtà, si riferisse anche all’actio quod metus causa[48].

Un ulteriore dato che mi sembra necessario considerare per l’esame di questa problematica è che non solo nel Digesto non c’è traccia di una specifica clausola edittale che avrebbe dovuto introdurre l’a.q.m.c., ma anche le fonti letterarie che si riferiscono alle problematiche connesse ai rimedi concessi alla vittima di violenza non ne danno alcuna notizia.

In particolare, si può osservare come Seneca il Vecchio, nelle Controversiae[49], utilizzi l’espressione “per vim et metumque gesta”, che senz’altro ci fa pensare alla clausola edittale contenuta in D.4.2.1, la quale, come si è ricordato, secondo la dottrina dominante avrebbe introdotto la i.i.r. ma non l'a.q.m.c., e, neanche per riferirsi all’azione quod metus causa, utilizzi un’espressione riconducibile alla seconda clausola edittale, ipotizzata dalla dottrina dominante, che sarebbe stata caratterizzata dalla presenza del verbo facere e avrebbe introdotto l'azione[50].

Non solo, ma nell’affrontare la problematica delle clausole edittali proposte in tema di metus, si deve considerare che Gaio, Paolo e Ulpiano, commentano nel medesimo libro sia la i.i.r. che l’a.q.m.c.[51]. Ciò è spiegabile o ipotizzando che nell’editto del pretore le clausole che introducevano i rimedi menzionati erano poste una vicino all’altra, probabilmente sotto la stessa rubrica del titolo “De in integrum restitutionibus”, oppure, che con un’unica clausola si fossero introdotti entrambi i rimedi.

 

 

II.2. – Il termine gestum presente nella clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”; il suo significato nel commento di Ulpiano (D.50.16.19 e D.4.2.9.2) e di Paolo (D.4.2.21.1-2) all'editto

 

II.2.A. – D.50.16.19. Il contributo di Labeone e di Ulpiano alla determinazione del significato del verbo gerere

 

Secondo la ricostruzione palingenetica del commento di Ulpiano all'editto sul metus, nella parte dedicata al commento del termine gestum, verosimilmente vi era il testo collocato dai compilatori in D.50.16.19[52]:

 

Ulpianus libro undecimo ad edictum. Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam 'agantur', quaedam 'gerantur', quaedam 'contrahantur': et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci sunall£gma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam.

 

Ulpiano ci riferisce che la definizione di Labeone da lui riportata è tratta dal libro primo praetoris urbani[53].

Mentre è piuttosto sicuro che Ulpiano nel testo in esame stesse commentando la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit[54], lo stesso non può dirsi per il commento del giurista augusteo[55].

Questo testo, molto studiato in dottrina[56], a noi interessa particolarmente per la connessione che esso ha con la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”, in quanto potrebbe fornire elementi utili a determinare la portata del verbo gerere in questa clausola[57]. Anche se il contesto in cui Labeone aveva espresso la propria opinione era diverso rispetto a quello in cui Ulpiano la colloca, tuttavia il giurista severiano poteva aver trovato utile riportare la definizione labeoniana della parola gestum, sebbene questa, secondo alcuni studiosi[58], non corrispondeva con l'interpretazione ulpianea del verbo gerere nelle clausole edittali.

Il contenuto testuale di D.50.16.19 è stato fortemente messo in discussione[59] e i dubbi sembrano essere avvalorati da aspetti contenutistici[60] e da aspetti formali[61].

Per la parte del testo che particolarmente interessa in questa sede, cioè la frase “gestum rem significare sine verbis factam”, si deve osservare come essa abbia dato adito a diverse ipotesi di intervento compilatorio, perché così come è formulata sembra restringere in modo notevole il significato di gerere, in contrasto con le fonti che invece testimoniano un significato più ampio di questo verbo[62], non solo per Ulpiano, ma anche per Labeone[63].

Considerando il significato piuttosto ampio che il verbo gerere assume in diverse clausole edittali, così come risulta dal commento dei giuristi a questo verbo[64], mi sembra che sia necessario tentare di spiegare la definizione di gestum contenuta nel testo in esame. Da un lato si potrebbe supporre che Labeone non volesse definire la parola gestum ricorrente nelle clausole edittali, ma piuttosto «valori rigorosamente esatti da un teorico punto di vista lessicale» e per questo «-rifacendosi ad uno dei valori traslati correnti, e tradizionali, del verbo gerere- identifica evidentemente nel gestum la connotazione specifica delle 'attività di fatto'»[65]; dall'altro, sempre per spiegare le “contraddizioni” che ci sarebbero con il diverso significato che il verbo gerere assume nelle clausole edittali, si è ritenuto che la definizione di gestum riportata in D.50.16.19 non sia da attribuire né a Labeone, né ad Ulpiano, ma sia piuttosto stata inserita dai compilatori giustinianei, i quali avrebbero modificato il ruolo che Labeone aveva affidato al verbo gerere: cioè, quello di definiendum[66]. Secondo questa tesi, la definitio di actum e contractum sarebbe stata utilizzata per definire il verbo gerere, che ha, rispetto ai primi due termini, un significato più ampio[67].

Il valore attribuito al verbo gerere nel testo in esame è stato spesso inteso come un valore “particolare”, non tale da rispecchiarne la definizione in senso tecnico[68]. Questa conclusione sarebbe avvalorata dall'ampio significato attribuito al verbo gerere (tecnico) nelle clausole edittali sopra richiamate (e tra queste la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”) e accolto dai compilatori.

Tuttavia, a me sembra che Labeone, con la definizione riportata nel testo in esame, non fosse in contraddizione con se stesso rispetto ai diversi usi del verbo gerere che sono riscontrabili nelle fonti e a lui attribuibili[69], soprattutto se si considera che con questa definizione egli volesse indicare il significato residuale del verbo gerere, rispetto a quello più ampio che comprendeva sia actum che contractum. In questa definizione, infatti, il giurista augusteo fa rientrare ogni “attività” posta in essere senza verba, ma con questo non si voleva intendere che solamente le attività poste in essere sine verbis potessero essere incluse tra i gesta[70], piuttosto che in queste vi rientrassero anche quelle attività per le quali non fosse necessaria la pronuncia di parole (senza che ciò si considerasse compreso nel sive re dell'actum)[71]. A questo proposito è utile considerare che il termine gestum è definito, come emerge dall'espressione labeoniana in esame, attraverso il verbo facere e ciò non è in contraddizione con le altre fonti che tramandano il commento di Labeone al termine edittale gestum[72].

Inoltre, si deve considerare che nella ricostruzione palingenetica proposta dal Lenel, D.50.16.19 sarebbe preceduto da D.4.2.9.2 sempre tratto dal commento di Ulpiano all'editto sul metus.

 

II.2.B. – D.4.2.9.2. Pomponio, non contraddetto da Ulpiano, sembra attribuire alla fattispecie edittale descritta con il verbo gerere il caso di una estorta manumissio, o quello di una estorta demolizione di un edificio. Anche in D.4.2.9pr. Ulpiano riporta l'opinione di Pomponio; quest'ultimo a sua volta cita Labeone, che riferirebbe al gerere l'ipotesi dell'abbandono del fondo. Inoltre per Pomponio rientrerebbe nella previsione edittale il subire, per timore, una edificazione nel proprio fondo e il consegnare, metus causa, il possesso di un terreno

 

Ulpianus libro undecimo ad edictum. Idem Pomponius scribit quosdam bene putare etiam servi manumissionem vel aedificii depositionem, quam quis coactus fecit, ad restitutionem huius edicti porrigendam esse.

 

Ulpiano in questo testo riporta il pensiero di Pomponio, secondo il quale bene pensano alcuni (quidam) che la restitutio prevista da questo editto, cioè quello ricordato in D.4.2.1, debba essere estesa anche alla manomissione di un servo oppure alla demolizione di un edificio che qualcuno, perché costretto, abbia posto in essere[73].

Il testo, così come ci è stato tramandato, fa rientrare sia la manomissione del servo che la demolizione di un edificio nel gestum della clausola edittale, perché si legge che in entrambe le ipotesi è applicabile questo editto: “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”, ma questo dato è stato fortemente messo in discussione, perché la demolizione di un edificio rientrerebbe piuttosto nel facere e quindi darebbe luogo all'applicazione dell'a.q.m.c.[74]. Per spiegare il richiamo nello stesso testo della manomissione del servo e della demolizione di un edificio è stato sostenuto che entrambe le ipotesi avrebbero avuto come conseguenza la perdita definitiva della proprietà[75], così che rispetto a queste due fattispecie la restitutio non sarebbe stata possibile. Nel testo, però, non ci si chiede, almeno in modo espresso, se sia possibile, materialmente e giuridicamente, porre in essere una restitutio nelle due ipotesi discusse. In esso si legge che la manomissione o la demolizione “ad restitutionem huius edicti porrigendam esse”, però non credo che il problema fosse quello di stabilire se “concretamente” si potesse porre in essere una restitutio, ma piuttosto quello di determinare se alle due ipotesi potesse applicarsi questo editto: “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”.

L'ipotesi della manomissione di un servo, poteva creare più dubbi in merito alla possibilità di concedere una restitutio, soprattutto se intesa in senso tecnico come i.i.r.[76], che in merito alla riconducibilità della fattispecie al gestum edittale[77], mentre, viceversa, per l'ipotesi della demolizione di un edificio sarebbe più comprensibile la discussione sulla riconducibilità della fattispecie al gestum edittale che quella sulla possibilità di ottenere una restitutio.

La riconducibilità delle due ipotesi alla fattispecie edittale descritta con il termine gestum e la possibilità di concedere una restitutio sono strettamente connesse, perché solo se si verifica la prima condizione è possibile concedere la restitutio, cioè in primis si deve valutare se l'ipotesi presentata rientri in quelle astrattamente previste nella clausola edittale. Però, nel testo, l'accento non è posto sull'ipotetica impossibilità di una restitutio, ma piuttosto sulle due diverse “attività” e sulla possibilità di applicarvi la restitutio prevista dall'editto[78].

Dal tenore del testo, poi, emerge un dibattito sull'applicazione dell'editto a quelle due ipotesi, perché Pomponio esprime un'approvazione (... bene putare ...) rispetto all'opinione dei quidam che da altri presumibilmente era contrastata, come emerge anche dall'utilizzo del verbo porrigere[79].

La soluzione dei quidam, approvata da Pomponio e non contraddetta da Ulpiano, è che si debbano ricomprendere nella reintegrazione prevista dall'editto entrambe le ipotesi. Resta da spiegare il richiamo nel testo alla restitutio, con il quale dai più è stato visto un rinvio all'a.q.m.c. Non mi sembra, però, si possa escludere che con le parole “...ad restitutionem huius edicti porrigendam esse” Pomponio volesse intendere la finalità restitutoria della clausola edittale, intesa in senso ampio, tale da ricomprendere sia la i.i.r., intesa in senso tecnico, come autonomo rimedio pretorio, che l'a.q.m.c.[80].

Considerando il collegamento palingenetico tra D.4.2.9.2 e D.50.16.19 sembra che non vi fosse alcun contrasto tra la definizione, sebbene residuale, del termine gestum proposta da Labeone e l'ipotesi di un'attività come quella della aedificii depositio. Quest'ultima, infatti, sarebbe potuta rientrare in una res sine verbis facta[81].

Rispetto alla ricostruzione palingenetica proposta dal Lenel[82], che colloca D.4.2.9.2 prima di D.50.16.19, però, credo più probabile che Ulpiano avesse prima riportato le definitiones di Labeone e poi avesse discusso le fattispecie di D.4.2.9.2[83]; ciò per due motivi: da un lato, in questo modo, ci sarebbe l'aggancio tra l'ultima parte di D.50.16.19 e la fattispecie della demolizione dell'edificio discussa in D.4.2.9.2; dall'altro, da un punto di vista logico, credo più probabile che prima si fosse riportata la definitio e poi discussa un'ipotesi rientrante nel significato residuale di gestum che si era precisato.

Anche in D.4.2.9pr. Ulpiano riporta l'opinione di Pomponio, il quale, nella parte iniziale cita Labeone. Dalla ipotesi discusse in questa fonte rientrerebbero nella fattispecie edittale descritta con il verbo gerere sia l'ipotesi dell'abbandono di un fondo[84], sia il caso in cui qualcuno subisce, per timore, la costruzione di un edificio sul proprio fondo, sia il caso di una estorta consegna del possesso di un fondo:

 

D.4.2.9pr. Ulpianus libro undecimo ad edictum. Metum autem praesentem accipere debemus, non suspicionem inferendi eius: et ita Pomponius libro vicensimo octavo scribit. ait enim metum illatum accipiendum, id est si illatus est timor ab aliquo. denique tractat, si fundum meum dereliquero audito, quod quis cum armis veniret, an huic edicto locus sit? et refert Labeonem existimare edicto locum non esse et unde vi interdictum cessare, quoniam non videor vi deiectus, qui deici non expectavi sed profugi. aliter atque si, posteaquam armati ingressi sunt, tunc discessi: huic enim edicto locum facere. idem ait, et si forte adhibita manu in meo solo per vim aedifices, et interdictum quod vi aut clam et hoc edictum locum habere, scilicet quoniam metu patior id te facere. sed et si per vim tibi possessionem tradidero, dicit Pomponius hoc edicto locum esse.

 

Questo testo, però, a differenza di D.50.16.19 e di D.4.2.9.2, fa parte del commento di Ulpiano ai verbametus causa” e non, come quelli prima esaminati, ai verba “metus causa gestum[85]. Infatti, Ulpiano stava discutendo le ipotesi che sarebbero rientrate nella previsione edittale di metus. A questo proposito egli cita l'esempio trattato da Pomponio: l'abbandono del fondo, per il fatto di aver sentito dire che qualcuno vi stava giungendo con le armi.

Pomponio riferiva che Labeone[86] aveva ritenuto non applicabile questo editto, né l'interdetto quod vi aut clam, in quanto colui il quale aveva abbandonato il fondo non aveva aspettato di essere scacciato con la violenza, ma era fuggito prima, per la semplice paura di essere scacciato (quoniam non videor vi deiectus, qui deici non expectavi sed profugi[87]). Diversamente l'editto avrebbe avuto applicazione se la vittima della violenza si fosse allontanata dopo che gli armati avessero fatto ingresso nel fondo[88]. Nel gerere della clausola edittale, quindi, rientrerebbe l'ipotesi dell'abbandono del fondo.

Inoltre, Pomponio[89], citato da Ulpiano, menziona altre fattispecie, anche non rientranti in attività negoziali (ad esempio la costruzione su un fondo), a proposito del commento alla clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”, richiamata con le parole “hoc edictum[90]. Queste fattispecie avrebbero trovato tutela con l'a.q.m.c.[91] e sembrano offrire un ulteriore argomento all'ipotesi dell'esistenza di un'unica clausola edittale, quella riportata in D.4.2.1.

 

II.2.C. – D.4.2.21.1-2. Paolo, nel contesto del commento alla clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”, riporta il caso di un estorto trasferimento del possesso di un fondo, per il quale alla vittima di violenza viene concessa tutela con l'a.q.m.c.

 

Anche Paolo[92] sembra ricordare un'unica clausola edittale, la stessa ricordata da Ulpiano[93]:“Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” e, come quest'ultimo, pure il primo nel commento a questa clausola edittale menziona ipotesi di applicazione dell'a.q.m.c.

Certamente anche per il commento di Paolo all'editto si potrebbe ipotizzare che il richiamo dell'apposita clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c. sia stato eliminato dai compilatori[94], ma, come abbiamo visto per i testi tratti dal commento di Ulpiano[95] e ora per il commento di Paolo, questa ipotesi sembra meno probabile.

 

D.4.2.21.1-2: Paulus libro undecimo ad edictum. 1. Quod metus causa gestum erit, nullo tempore praetor ratum habebit. 2. Qui possessionem non sui fundi tradidit, non quanti fundus, sed quanti possessio est, eius quadruplum vel simplum cum fructibus consequetur:aestimatur enim quod restitui oportet, id est quod abest: abest autem nuda possessio cum suis fructibus. quod et Pomponius.

 

In questo testo Paolo parafrasa la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” e precisa che il pretore nullo tempore[96] ratum habebit[97] ciò che sarà fatto, in seguito all'induzione del metus.

A questo primo commento, nel Digesto segue il par. 2 e anche la ricostruzione palingenetica proposta dal Lenel mantiene lo stesso ordine[98].

Nel par. 2 Paolo tratta la questione di un soggetto che era stato costretto a trasferire il possesso di un fondo non suo; in questo caso, afferma il giurista, nell'aestimatio dell'a.q.m.c. la vittima di violenza non potrà conseguire il quadruplum o il simplum dei frutti e del valore del fondo, ma piuttosto il quadruplum o il simplum dei frutti e del valore del possesso, perché, spiega il giurista, l'aestimatio riguarda ciò che deve essere restituito, cioè ciò che è venuto a mancare alla vittima di violenza. Paolo ricorda che anche Pomponio era dello stesso parere.

Tra il par. 1 e il par. 2 non sembra esserci alcun legame, perché mentre nel primo Paolo ricorda la clausola edittale secondo la quale il pretore in nessun tempo avrebbe ratificato quanto era stato fatto metus causa, nel secondo discute l'aestimatio nell'a.q.m.c. in un caso specifico[99]; sulla base di ciò si è ipotizzato che l'attuale collocazione dei due paragrafi sia da attribuire ai compilatori giustinianei[100]. Però, è stato anche osservato che i testi contenuti nel frammento 21 trattano singole questioni, non collegate tra di loro[101] e che solamente se si vuole sostenere che Paolo con il par. 1 si fosse accinto a commentare le singole parole dell'editto, allora si potrebbe pensare ad un'origine giustinianea dell'insieme dei testi presenti nel frammento 21[102]. Tuttavia, dal contenuto dei paragrafi del frammento non sembra che Paolo stesse commentando le singole parole della clausola edittale.

D.4.2.21.2 potrebbe confermare che l'a.q.m.c. si applicava anche ad estorte tatsächliche Handlungen[103] e che queste potevano essere considerate ricomprese nella clausola edittale ricordata nel par. 1[104]. Questa ipotesi, in modo particolare, credo che sia avvalorata anche dalla presenza in questo frammento del par. 6, in cui Paolo, sempre nel contesto della clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” discute un'ipotesi di concorso tra a.q.m.c. e i.i.r. propter metum, senza che ci siano tracce della presenza di una diversa clausola edittale introduttiva dell'a.q.m.c.

 

 

II.3. – Conclusioni

 

L'analisi dei testi fin qui compiuta mi sembra confermare l'esistenza di un'unica clausola edittale, quella riportata in D.4.2.1.

A questo proposito, si può supporre che la clausola edittale, dopo le parole “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” recitasse: “Nisi restituetur, in quadruplum, post annum causa cognita in simplum, iudicium dabo[105].

In questo modo sarebbe spiegato: perché i giuristi che commentavano l’editto trattavano i due rimedi nel medesimo libro; perché troviamo nel Digesto questa sola clausola edittale riguardante il metus: attraverso quest’ultima, infatti, ci si poteva riferire a tutti e tre i rimedi concessi a tutela della vittima di metus; perché pure le fonti letterarie utilizzino l’espressione contenuta in D.4.2.1 anche in riferimento all’azione; perché anche nel Codice[106] la rubrica sia “De his quae vi metusve causa gesta sunt” e le costituzioni riguardino la i.i.r. e l'a.q.m.c. e, infine, perché nel commento dei giuristi alle parole edittali “ratum non habebo” si menzioni anche l'a.q.m.c.[107].

L’obiezione che si potrebbe muovere a questa ricostruzione è che in alcuni testi del Digesto[108] o delle Istituzioni[109], nel descrivere le fattispecie relative all’a.q.m.c., sarebbe stato utilizzato dai giuristi il verbo facere e non il verbo gerere presente nella clausola edittale, con la conseguente supposizione che nel primo potrebbero ricadere non solo le attività negoziali, ma anche quelle più propriamente fattuali, come la demolizione di un edificio[110], e che tale verbo fosse utilizzato nella clausola edittale che avrebbe introdotto l’a.q.m.c.

Mi sembra, però, che l’obiezione non possa trovare accoglimento, in quanto per giustificare la ricorrenza del verbo facere nei testi dei giuristi non è necessario presupporne l’esistenza nell’editto[111]. È stato, infatti, visto come in D.50.16.19 Labeone avesse ricondotto nel gestum le res sine verbis facta e come anche attività fattuali (ad esempio la demolizione di un edificio) potessero rientrare nella fattispecie descritta nella clausola edittale con il verbo gerere[112]. L’ampliamento dal gerere al facere, infatti, potrebbe essere frutto proprio dell’attività interpretativa della giurisprudenza[113].

Non sembra che alcuni frammenti di Ulpiano (D.4.2.9.7-8; D.4.2.12 e D.4.2.14pr.)[114] possano essere di ostacolo all'ipotesi di un'unica clausola edittale, perché le parole in essi contenute possono riferirsi alla seconda parte della clausola edittale che si è ipotizzata.

 

 



 

[1] Questo è un testo molto studiato e ciò che ha alimentato la discussione tra i romanisti è proprio la ricostruzione storica che Ulpiano ci fa dell’editto. Tra gli studiosi che se ne sono occupati emerge sicuramente F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, in ZSS 43 (1922), 232 e ss., il quale non vede nell’excursus storico la mano di Ulpiano, sia per motivi formali che contenutistici. Lo Schulz considerava più probabile che nell'editto adrianeo vi fosse ancora il riferimento alla vis (nel sostenere questo l'Autore si sentiva supportato dal fatto che Ulpiano, dopo aver ricordato che l'attuale stesura dell'editto conteneva solo la parola metus, avesse scritto: “Continet igitur haec clausula et vim et metum...” [D.4.2.3.1] e subito dopo avesse commentato prima la parola vis [D.4.2.3.1] e poi la parola metus [D.4.2.5]; che “vi metusve causa” si trovava ancora nel commento di giuristi postadrianei all'editto [D.22.1.38.6; D.37.15.7.2; D.40.12.16.1] e nella rubrica del Codice C.2.19) e considerava come interpolata l'ultima frase, in quanto i compilatori vi avrebbero voluto leggere un riferimento al factum (dunque al verbo che sarebbe stato presente nella clausola edittale che avrebbe introdotto l'a.q.m.c.) e non al gestum. Dubbi riguardo la clausola edittale sono stati espressi anche da O. Lenel, Das Edictum perpetuum, 3a ed., Aalen, 1985, 110, nt. 8. Anche C. Castello, Timor mortis vel cruciatus corporis, in Archivio Giuridico 17 (1939), 163 nt. 1 e ss., ha ritenuto che l'editto perpetuo adrianeo contesse ancora il termine vis, ma riteneva che la cancellazione del riferimento alla violenza risalisse al periodo di Diocleziano. Diversamente si sono pronunciati sulla sostanziale genuinità del resoconto di Ulpiano U. Von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, Greifswald, 1932, 100 e ss., il quale, più precisamente, ritiene: «Dieser rein historische Bericht kann nicht einfach byzantinischer Phantasie entsprungen sein; seinem Kern nach echt, rührt er in seiner heutigen Form wahrscheinlich von einem nachklassischen Bearbeiter des Ulpiankommentars her»; G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, in Romanistische Beiträge zur Rechtsgeschichte, Berlin, 1932, 107, nt. 4.

Come si vedrà, mi sembra che la ricostruzione del Cervenca, e quella solo in parte simile del Kaser (cfr. infra in questa nota), siano più corrispondenti all’evoluzione del nostro editto.

Una puntuale critica alla ricostruzione, appena ricordata, dello Schulz è stata fatta da G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3), in SDHI 31 (1965), 312 e ss., il quale ritiene che nella motivazione ulpianea i termini “vis” e “metus” si debbano intendere come una endiadi, cioè come la rappresentazione di uno stesso fenomeno del quale la vis costituirebbe il momento attivo, mentre il metus quello passivo. A questo proposito si deve precisare come lo Schulz stesso, in Classical Roman Law, Oxford, 1951, 601, riteneva che la formula Octaviana «contained the words per vim aut (or et) metum auferre whereby the praetor wished to describe extortion, i.e. what the medieval jurisprudence styled vis compulsiva as distinct from vis absoluta» e che «In any case vis aut (or et) metus should be taken as a sort of hendiadys: “fear caused by threat”». La conclusione riportata in questo passo di Ulpiano, diversamente, è stata ritenuta interpolata da C.A. Maschi, Il diritto romano I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica, 2a ed., Milano, 1966, 657, il quale ha sostenuto che nel precedente editto, quello del pretore Octavius, fosse contenuta sia la vis da intendersi come violenza assoluta, che il metus, da intendersi come violenza relativa, e che solamente in seguito alla creazione dell’actio vi bonorum raptorum si sarebbe arrivati ad una separazione dei due tipi di violenza inizialmente contenuti in un’unica formula, quella Octaviana. Con questa spiegazione il Maschi, indirettamente, riferisce la clausola edittale contenuta in D.4.2.1 all’a.q.m.c., poiché ciò consegue necessariamente dal ricondurre la clausola edittale meno recente alla formula Octaviana (come notano anche G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3), cit., 318 e M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, Padova, 1969, 142). Inoltre, si deve evidenziare che con la motivazione dell’Autore per l’eliminazione del termine “vis” (guardato dal lato attivo, di chi agisce, come nella rapina) difficilmente si riuscirebbe a spiegare il richiamo del termine in questione nei successivi frammenti e soprattutto in D.4.2.3. Poco probabile sembra il tentativo del Maschi di riferire le considerazioni qui contenute alla precedente clausola edittale, mentre più corretta sembra l’argomentazione che spiega l’eliminazione del termine “vis” dall’editto con la circostanza che la vis rappresenta il momento attivo e il metus è la violenza morale in senso passivo, ma con lo sguardo sempre rivolto al punto di vista della vittima della violenza. Anche U. Ebert, Vi metusve causa, in ZSS 86 (1969), 415 nt. 53, ha ritenuto che Ulpiano si stesse riferendo alla nuova clausola edittale. Inoltre l'Autore (405 e ss.) ha ricostruito lo sviluppo della clausola edittale sul metus in tre fasi: la prima, «Im alten Edikt», sarebbe consistita nel richiamo congiunto di «physische Gewalt (hier in Sinne von vis compulsiva) und Drohung»; la seconda nell’ampliamento del concetto di vis, fino a farlo coincidere con la nozione di necessitas; infine la terza sarebbe consistita nell’eliminazione del termine “vis”, forse anche per separare in modo chiaro il tenore dell’a.q.m.c. da quello dell’actio vi bonorum raptorum. Si veda anche A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, Amsterdam, 1971, 16 e ss., secondo il quale «Die primäre Bedeutung des Begriffs vis (auch im alten Metusrecht) ist zweifellos physische Gewalt. Angesichts des gesellschaftlichen Hintergrunds der Einführung der formula Octaviana (die Zeit der Bürgerkriege) liegt es auf der Hand, dass der Prätor bei der Einführung der formula in erster Linie an diese Form des Zwangs gedacht hat. Die Verbindung mit metus machte hierbei deutlich, dass sich das neue Rechtsmittel gegen physische Gewalt als Ursache von Furcht richtete (unter deren Einfluss das Opfer ein Veräusserungsgeschäft vorgenommen hatte), also nicht gegen physische Gewalt schlechthin (vis absoluta); gegen diese wurden in derselben Zeit andere Rechtsmittel eingeführt. Man darf annehmen, dass alsbald eingesehen wurde, dass physische Gewalt nicht das einzig denkbare Zwangsmittel ist, und ferner, dass dieses Zwangsmittel beim Ausgang der Bürgerkriege an Bedeutung verlor und durch andere Formen der Drohung überflügelt wurde, von denen sich viele in den Quellen finden, namentlich die blosse Bedrohung mit physischer Gewalt. [...] So konnte sich die Bedeutung von vis verlängern und das Anwendungsgebiet der Rechtsmittel gegen metus sich auf Zwang im allgemeinen (necessitas) erweitern. [...] Bei dieser Identität der Begriffe kann einer von ihnen in einer kurzgefassten Ediktsredaktion entbehrt werden». Ancora diversa è l'opinione di B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, Berlin, 1974, 196 e 197, secondo il quale vis sarebbe «erpresserischer Zwang schlechthin, also (kompulsive) physische Gewalt und Drohung» e, a differenza della vis, mancava nel metus la «zweckgerichtete Beugung des Willens. Maβgeblich war vielmehr ein durch gegenwärtige oder künftige Gefahr hervorgerufener metus». Secondo questa ricostruzione «Die Verfasser der Edikts haben also mit vi metusve causa zwei Tatbestände geregelt», cioè la costrizione attraverso l'uso della propria violenza, lo sfruttamento della violenza altrui. Contro una simile tesi M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, in ZSS 94 (1977), 118, che scrive «Näher zu liegen scheint mir eine andere Deutung, die, statt von zwei Tatbeständen, von zwei Aspekten oder Element eines, freilich komplexen Tatbestandes ausgeht. …. Die Begriffe vis und metus dienen im Doppelbegriff mithin dazu, einander wechselweise zu beschränken. Und nur weil metus in unserem Zusammenhang ständig im Sinn der durch menschliche Gewalttätigkeit ausgelösten Furcht verstanden worden ist, konnte man auf die Nennung der vis daneben schlieβlich verzichten». Considerano, invece, convicente la spiegazione di Kupisch: J. du Plessis - R. Zimmermann, The Relevance of Reverence; Undue Influence Civilian Style, in Maastricht Journal of European and Comparative Law vol. 10 num. 4 (2003), 348. Ancora ipotetica è la posizione di A. dOrs, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», in AHDE 51 (1981), 236. Più recentemente, C. Venturini, Note in materia di concussione e di actio metus, in IURA 45 (1994), 84 e ss., ha riconsiderato l'orientamento che tende a restituire a D.4.2.1 «una complessiva affidabilità togliendo, nel contempo, rilievo all'originaria menzione della vis ed alla successiva riduzione lessicale» (86). Da ciò sarebbe derivata la tendenza a retrodatare e a far coincidere le caratteristiche dell’a.q.m.c. con quelle della formula Octaviana. All'Autore «Preme invece richiamare il fatto che si presenta privo di obiettivo fondamento quello che è in genere considerato il principale punto fermo, ossia l'assunto che dall'accostamento tra formula Octaviana ed actio metus fa discendere l'esclusione dei casi di violenza fisica o assoluta dall'ambito operativo dell'uno o dell'altro rimedio» (87). Piuttosto, l'eliminazione del termine vis è spiegata dal Venturini con l'«esigenza di chiarificazione che nasceva dalle caratteristiche dell'actio metus e dall'ambiguità che abbiamo riscontrato in vi» (92), che, come l'Autore stesso osservava, era idoneo «a rispecchiare non solo l'esplicazione di una violenza morale ma anche (e, direi, in primo luogo) l'illegalità della condotta medesima, che proprio per questo può essere richiamata anche da una forma verbale di senso generico» (91).

 

[2] «Der spätere Gebrauch von “vi metusve causa” könnte sich hiernach damit erklären, daβ die Juristen den ihnen geläufigen und in der älteren Literatur ständigen Ausdruck beibehielten. Vielleicht auch stand die vollere Fassung immer noch in der Ediktsrubrik, die dann wörtlich in die des Codex übergegangen sein könnte. Die Digestenrubrik dagegen enthielt hiernach nicht die Rubrik des Edikts, sondern stellt die Anfangsworte des Ediktstextes selbst voran» (in questi termini: M. Kaser, Zum Ediktsstil, in Festschrift Schulz, II, Weimar, 1951, 41). Su queste problematiche si vedano anche Th. Mayer-Maly, voce Vis, in PWRE, IX, A1, München, 1961, 330; U. Ebert, Vi metusve causa, cit., 415, il quale spiega la presenza del termine vis o dell'espressione vis aut metus nella giurisprudenza tardo e postclassica con la non completa accettazione della sintesi dell'espressione vis aut metus resa con il concetto di metus; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 246 e 247, secondo il quale «Der Rückgriff auf das frühere, den allgemeinen Titel nicht aufweisende Album war so unschädlich wie die Reminiszenz an vi metusve causa». Ancora, in modo diverso, C. Venturini, Note in materia di concussione e di actio metus, cit., 91, il quale, dopo aver ripercorso l'eliminazione del termine vis dalla clausola edittale adrianea, afferma: «Mi sentirei allora di giustificare la riproduzione dell'antica locuzione edittale nella rubrica del Codice ed il suo contrasto con quella del titolo 4,2 del Digesto sulla base delle diverse finalità proprie dell'una e dell'altra, dirette la prima ad introdurre il commento della clausola e l'altra a richiamare, semplicemente, l'ambito applicativo dell'editto, ossia la corrispondente fattispecie sostanziale. Doveva riuscire perciò naturale rifarsi, in quest'ultimo caso, all'orientamento della giurisprudenza severiana testimoniato in D.22,1,38,6 e 47,15,7,2, che rendeva oggetto di persistente richiamo la formulazione edittale più antica con l'implicito fine di sottolineare l'irrilevanza della semplificazione testuale sul piano della sfera applicativa dell'actio, nonché a quello della cancelleria postclassica, che aveva riproposto la vis alla stregua di elemento utile per valutare la rilevanza giuridica del metus».

 

[3] In questo senso si veda V. Scialoja, Negozi giuridici. Corso di diritto romano nella R. Università di Roma nell'Anno Accademico 1892-1893 raccolto dai Dottori Mapei e Nannini, Roma, 1933, 320, secondo il quale vis e metus sono due aspetti della medesima cosa; C. Ferrini, Manuale di Pandette, quarta edizione curata e integrata da G. Grosso, Milano, 1953, 164; G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3), cit., 318.

 

[4] L. Vacca, Ricerche in tema di “actio vi bonorum raptorum, Milano, 1972, 105 e ss. (soprattutto 113). Si è anche detto che i rimedi pretori, pure in materia di timore provocato da violenza morale, fossero stati creati per tutelare le «anormalità che si verificano nel “processo di formazione della determinazione di volontà adottata dal dichiarante”». In questi termini C. Longo, Corso di diritto romano. Fatti giuridici, negozi giuridici, atti illeciti, Milano, 1935, 240 e 241. Che questa fosse l'opinione, oltre che dei giustinianei, anche dei giuristi classici è stato affermato da G. Longo, Contributi alla dottrina del dolo, Padova, 1937, 53, il quale riteneva che anche i giuristi romani si fossero posti dal punto di vista dei vizi del consenso e che «una medesima concezione (sia pure inespressa secondo la tendenza non teorizzante propria dei classici) ispirò gli interventi pretori di cui si è, dianzi, precisato il contenuto, la portata, lo spirito». Diversamente, C.F. Savigny, System des heutigen Römischen Rechts, III, ristampa dell'ed. pubblicata a Berlino nel 1840, Aalen, 1981, 100 e ss., 108 e 116; G. Zani, L'evoluzione storico-dogmatica dell'odierno sistema dei vizi del volere e delle relative azioni di annullamento, in RISG N.S. Anno II Fasc. I, 1927, 338 e ss.; E. Betti, Diritto romano, I. Parte generale, Padova, 1935, 311, il quale, a proposito del “ratum non habere” di cui in D.4.2.1 osservava: «Senonché, anche qui, il concetto classico non è che il negozio concluso in conseguenza di una minaccia sia nullo per un “vizio della volontà” ad esso intrinseco, ma è che, quantunque valido, trovi ostacolo alla propria efficacia in una reazione che la parte interessata può promuovere, fondandosi non già sul “vizio della volontà”, ma sopra una ingiusta lesione del proprio diritto e cioè sull'atto illecito di cui è stata vittima»; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 12 e ss. e 70 e ss., secondo il quale «Der byzantinische Professor nimmt zunächst eine Analyse der inneren Willenslage des Gezwungenen vor und stellt die Frage dahin: Hat der Verletzte die Rechtsfolge “Erbe zu werden” gewollt, obwohl auf ihn ein starker Druck ausgeübt ist? Die Lösung dieses Problems suchte und fand der Professor in der auf aristotelischen Gedankengängen fußenden Lehre der späteren Stoa», mentre, continua lo Studioso tedesco, «Die klassische Fragestellung lautet ganz anders: Es wird nicht erforscht, ob der Bedrohte gewollt hat, was er erklärte. Der Praetor sprach einem zivilen Formalgeschäft, das “metus causa” abgeschlossen war, die rechtliche Geltung ab. […] Deshalb erhob der Praetor das Geschäftsmotiv insofern zum wesentlichen Moment des juristischen Tatbestandes, als er verlangte, daß der Beweggrund nicht durch “Zwang” erzeugt sei»; B. Biondi, Prospettive romanistiche, Milano, 1933, 70 e ss., il quale, afferma esplicitamente «Il Pretore non attacca il negozio, ma considera la vis come un fatto, in un certo senso come qualche cosa di staccato dal negozio, ed accorda alla vittima un'azione penale per il quadruplo del danno subìto, nonché una exceptio ed una restitutio in integrum. Orbene come ridurre ad unità questi mezzi giuridici tanto disparati, e come tentare alcuna coordinazione con i principi del ius civile? [72]... In contrapposto alla validità del negozio affermata dal ius civile, abbiamo una eterogenea pluralità di mezzi pretori che hanno portata ed effetti tanto diversi da rendere impossibile comprenderli sotto un concetto unitario: mediante l'actio si ottiene una pena pecuniaria, con la exceptio la assoluzione in giudizio, con la restitutio si può agire ex novo; possiamo anche mettere insieme exceptio e restitutio; ma come presentare un concetto unico che comprenda anche l'azione penale? E come è possibile dire che la violenza rende annullabile il negozio, quando la vittima, avvalendosi del soccorso del Pretore, può anche ottenere il quadruplo del danno subìto, indipendentemente dalla efficacia del negozio? Al concetto di negozio annullabile si poté arrivare solo quando è scomparsa l'azione penale, la exceptio ha perduto tutto il suo carattere processuale, la restitutio in integrum è diventata una mera azione di nullità; in una parola quando è già compiuto quel processo di degenerazione del diritto romano, che consentiva di configurare la violenza, accanto al dolo e all'errore, come vizio della volontà che influisse direttamente sulla stessa efficacia del negozio. [73] ... La dottrina tradizionale, seguita anche dai trattatisti del diritto moderno, considera la violenza e il dolo come vizi della volontà accanto a talune figure di errore, presentando sottili distinzioni e disquisizioni intorno a tali vizi rispetto alla volontà. Orbene tutto ciò non corrisponde al pensiero dei classici. ... Orbene, questa varietà di mezzi pretori esclude che dolo e violenza si possano inquadrare sotto un unico profilo: non sono soltanto delitti, giacché il Pretore si pone anche dal punto di vista degli effetti del negozio, non sono viceversa soltanto cause di nullità o vizi della volontà, giacché, per le medesime ipotesi, si può agire con l'azione penale [73]». Una posizione meno rigida, invece, è stata assunta da F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 178 e ss., che ritiene non essere ancora familiare ai classici la concezione che vede in ogni negozio giuridico una “Willenserklärung”; i classici, quindi, secondo lo studioso tedesco non si sarebbero ancora posti, in generale, la domanda se per un negozio giuridico estorto si potesse parlare di una volontà giuridicamente rilevante. Però, lo Schulz osserva pure: «Gewisse Rechtsgeschäfte aber gründet freilich schon die klassische Lehre auf die voluntas, und hier stellt sich natürlich sofort der Zweifel ein, ob ein erzwungener Wille noch imstande sei, die Gültigkeit des Geschäftes zu tragen». (Relativamente alla validità o meno degli atti posti in essere metus causa, si veda pure l'evoluzione del pensiero dell'Autore stesso in F. Schulz, Classical Roman Law, cit., 602 e ss., dove si afferma l'invalidità degli atti informali, come ad esempio la traditio o la pro herede gestio e la validità, salvo l'utilizzo degli strumenti pretori, degli atti formali come la mancipatio, la stipulatio o la cretio); C. Sanfilippo, Il metus nei negozi giuridici, Padova, 1934, 176, il quale afferma che «il metus è un fatto illecito, e lo è in quanto impedisce o altera (cioè vizia) la libera volontà dei soggetti giuridici: i due concetti allora mi sembra non si escludano a vicenda ma uno sia integrato dall'altro: il metus cioè non è solo fatto illecito né solo vizio della volontà, ma è l'uno e l'altro».

 

[5] Come si è visto nella nt. 1, l'opinione non è concorde, ma a me sembra la più probabile.

 

[6] Cicerone, In Verrem 2.3.65.152 “... Quod per vim aut metum abstulisset ...”.

In questo senso: G.C. Burchardi, Die Lehre von der Wiedereinsetzung in den vorigen Stand, Göttingen, 1831, 303 e ss., il quale ritiene plausibile che l'editto di Ottavio fosse formulato in modo generale come quello riportatoci in D.4.2.1, più probabilmente nella versione meno recente ricordataci da Ulpiano; U. Schliemann, Die Lehre vom Zwange, Rostock, 1861, 5 e 6, secondo il quale le parole, probabilmente introduttive, dell'editto del pretore Ottavio sarebbero conservate in D.4.2.1, nel quale, poi, stando a D.4.2.14.11 sarebbero seguite, nella parte dedicata alla formula, le parole neque ea res arbitrio judicis restituetur; J. Duquesne, Cicéron Pro Flacco, chap. 30-32 et l'In Integrum Restitutio, in Annales de l'Université de Grenoble Tome XX n° 2 (1908), 25 e ss., il quale ritiene che il rimedio ricordato da Cicerone in Pro Flacco 21.49 potrebbe consistere in un'applicazione dell'editto “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”. In modo indiretto C.A. Maschi, Il diritto romano I. La prospettiva storica della giurisprudenza classica, cit., 657 (come notano anche G. Cervenca, Per la storia dell’editto ‘Quod metus causa’ (a proposito di D.4,2,1 e 3), cit., 318 e M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 142); B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 164, secondo il quale l'editto sul metus riportatoci in D.4.2.1 sarebbe identico a quello di Ottavio, «wodurch im Hinblick auf das paraphrastische auferre bestätigt würde, daβ mit gerere die (Erwerbs-) Handlung gemeint ist», infatti sostiene pure l'Autore (165) «Per vim auferre ist also durchaus vereinbar mit der Annahme, es handele sich bei Cicero um die konkretisierende Wiedergabe des vorhadrianischen Metusedikt»; nello stesso senso S. Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel, Tübingen, 2007, 25 e 26, nt. 86.

 

[7] C. Gallo fu senatore e amico del propretore della Sicilia nel 684=70 a.C. L. Metello. Non è certa l'identificazione di C. Gallus con G. Gallius, un magistrato romano sotto M. Antonius Creticus nel 682=72 a.C. in Grecia. In questo senso si veda F. Münzer, voce C. Gallius, in PWRE, VII,1, 1910, Stuttgart, 671.

 

[8] L. Cecilio Metello fu pretore urbano intorno al 71 a.C. e nell'anno successivo propretore in Sicilia come successore di Verre. La sua amministrazione è lodata in più luoghi da Cicerone. Metello si sforza di risollevare la situazione dopo il malgoverno di Verre, anche se poi passerà dalla parte di Verre. Si veda F. Münzer, voce Caecilius, in PWRE, III,1, 1897, Stuttgart, 1204-1205.

 

[9] Q. Apronio fu una pedina e un amico di Verre in Sicilia, descritto da Cicerone come modello di ogni “Schändlichkeit”. In questo senso E. Klebs, voce Q. Apronius, in PWRE, II,1, 1895, München, 274.

 

[10] Credo che sia necessaria qualche precisazione sul termine praeiudicium. Nel Thesaurus linguae latinae, vol. X, Lipsiae, 1987, il testo di Cicerone in esame viene riportato nell'ambito del significato strictius del termine: «α) de iudicio, quod quaestioni de re maiore praesumit». F. Avonzo, Coesistenza e connessione tra «iudicium publicum» e «iudicium privatum». Ricerche sul tardo diritto classico, in BIDR 59-60 (1956), 126 e ss., precisa che diversi sono i significati che il termine praeiudicium assume nel processo romano e che, in un primo significato, le espressioni praeiudicium-praeiudicare ricorrono per indicare «ogni circostanza che apparentemente e probabilmente influenzerà il giudice nella valutazione dei fatti sui quali è chiamato a rendere la sentenza. Un gran numero di passi tratti dalle opere di Cicerone ci rivela l'importanza che egli attribuiva al praeiudicium di qualunque genere: d'ordine politico e processuale, tratto da giudizi resi su controversie altrui come su proprie, da decisioni giudiziarie come anche da semplici atti e dichiarazioni di volontà o dalla personalità morale di una persona». L'Autrice, poi, ricorda che il termine praeiudicium assume nel processo romano una diversa importanza quando il pretore, grazie alla condizione quod praeiudicium non fiat, stabilisce la successione dei processi connessi. La Avonzo precisa che a favore della petizione di eredità nei confronti della rei vindicatio delle singole cose ereditarie e nei confronti della rivendicazione immobiliare in relazione all'actio confessoria servitutis, l'editto prevede la precedenza obbligatoria di un processo sull'altro e che a queste ipotesi se ne deve aggiungere una terza, stabilita a favore del iudicium publicum nei confronti del iudicium privatum. Proprio a questo proposito l'Autrice prende in considerazione il testo di Cicerone in esame (In Verrem 2.3.65.153) e afferma «La decisione di Metello di non accordare l'azione contro Apronio è evidentemente arbitraria, poiché non è possibile credere all'esistenza di una regola pregiudiziale così illimitata da prevedere la sospensione di qualunque processo privato fino alla sentenza su un processo capitale tra due parti differenti; e questo nota anche Cicerone, aggiungendo che Metello, scartando il pregiudizio che sarebbe derivato a Verre dalla sentenza dei recuperatori, ha però egli stesso già dato su di lui un più grave giudizio: infatti ha dimostrato di credere che, con la condanna di Apronio, anche Verre sarebbe apparso condannato». Inoltre, la Avonzo ritiene che la denegatio actionis di Metello non potesse trovare la propria giustificazione in una pretesa esistenza di una regola pregiudiziale, anche perché il crimen repetundarum non portò mai ad una condanna capitale (che per alcuni, si veda ad esempio O. Lenel, Das Edictum Perpetuum3, cit., 140, sarebbe stato un requisito della regola pregiudiziale stabilita nell'editto, contestata dalla Avonzo), mentre sarebbe stato più probabile che Cicerone parlasse di praeiudicium capitis, perché nei retori si sarebbe spesso fatta confusione tra la pena capitale e le pene conseguenti all'interdictio aquae et ignis e che Metello non si fosse espresso con quei termini. Diversamente, A. Burdese, Rec. a Avonzo F., Coesistenza e connessione tra «iudicium publicum» e «iudicium privatum». Ricerche sul tardo diritto classico, in BIDR 59-60 (1956), 125-198, in IURA 7 (1956), 159, il quale non esclude la possibilità dell'esistenza di una precisa regola pregiudiziale nell'editto, attraverso la quale si potrebbe pure meglio giustificare il testo di Cicerone in esame, «a proposito del quale l'A. infondatamente nega che Metello potesse parlare di praeiudicium de capite rispetto ad un giudizio che avrebbe comportato l'interdictio aquae et ignis». Tuttavia, ritengo più probabile, che Cicerone con il termine praeiudicium in tale contesto volesse intendere un pregiudizio di fatto. In questo senso si veda M. Marrone, L'efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in AUPA 24 (1955), 265, secondo il quale «Il pregiudizio di fatto non agiva solo in una lite, nella quale si riproponeva in discussione una questione già giudizialmente decisa; di praeiudicium (di fatto) le fonti parlano anche rispetto alla res similiter iudicata, nonché rispetto a giudicati precedenti, che avrebbero potuto influire sulla onorabilità della persona, la quale era parte in causa del processo attuale». Sempre M. Marrone, Sulla funzione delle «formulae praeiudiciales», in Scritti giuridici in onore di Giovanni Salemi, Milano, 1961, 131, ritiene che In Verrem 2.3.65.152-153 sia un testo da non trascurare sul rapporto tra iudicium publicum e iudicium privatum, perché in esso, sebbene in un caso particolare, Metello «denegò a C. Gallo l'azione quod metus contro Apronio, onde non pregiudicare l'esito di un processo criminale». Credo che l'Autore continuasse a pensare a un pregiudizio di fatto. Sul termine praeiudicium nel testo in esame si veda anche K. Hackl, Praeiudicium im klassischen Recht, Salzburg, 1976, 121, nt. 2, il quale, pure, nota che nel testo si tratta di un caso particolare: «Es handelt sich dabei aber nicht um die Beurteilung des dieselben Partein betreffenden Sachverhalts in konkurrierender Verfahren (Privat-und Kriminalprozeβ), sondern um die Ausschaltung der Präjudizialwirkung eines Urteils, wenn mehrere einer gemeinsamen Tat beschuldigt werden (Haupttäter und Beteiligte). Auch wenn in der Cicerostelle eine Metusklage gegen Apronius vom Prätor Metellus denegiert wird, soll damit keine Präjudizialwirkung gegen Apronius oder den Kläger dieses Zivilprozesses, sondern gegen den Haupttäter Verres verhindert werden».

 

[11] Sebbene da questi testi si possa ricavare che la formula Octaviana risalga a un pretore di nome Octavius, è discusso (si vd. P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, traduzione in italiano a cura di C. Longo, Milano, 1909, 429, nt. 4; É. Cuq, Manuel des institutions juridiques des romains, Paris, 1917, 582, nt. 2; e per l'ulteriore bibliografia in materia si rinvia a A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 247 nt. 9) se ci si riferisca a Cn. Octavius che fu pretore nel 79 e console nel 76 (V. Arangio-Ruiz, Le formule con demonstratio e la loro origine, in Rariora, Roma, 1946, 112; E. Costa, Cicerone giureconsulto, I, Bologna, 1927, 151-152; J. Carcopino, Les secrets de la correspondance de Cicéron, II, Paris, 1947, 200, nt. 1; L.-A. Constans, Cicéron, Correspondance, I, 4a ed., Paris, 1950, 208 e 288; J.M. Kelly, Roman Litigation, Oxford, 1966, 15, nt. 3; A. Lintott, Violence in republican Rome, 2a ed., Oxford, 1999, 129 e ss.), oppure a L. Octavius che fu pretore nel 78 e console nel 75 (A.F. Rudorff, Ueber die Octavianische Formel, cit., 150 e ss.; M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 147 e ss., anche sulla scorta del passo di Asconio, che, però, io non ritengo essere relativo alla formula Octaviana). Inoltre, secondo alcuni studiosi l'Octavius citato nella lettera di Cicerone sarebbe da identificare con il padre di Augusto, pretore nel 61 a.C. In questo senso: F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 217; J. Duquesne, Cicéron Pro Flacco, chap. 30-32 et l'In Integrum Restitutio, cit., 30, nt. 1; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 126 e ss.; F. Münzer, voce Octavius, in PWRE, XVII, 2, Stuttgart, 1937, 1806 e 1807, n. 15; T.R.S. Broughton, The Magistrates of the Roman Republic, II, New York, 1952, 83 e 86. Contra, in modo convincente, M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 144 e ss.; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 247, nt. 9; S. Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel, cit., 8, nt. 14.

Probabile appare la tesi che l'Ottavio, creatore della formula Octaviana, fosse L. Octavius, che è citato nei fasti capitolini come L. Octavius Cn. f. Cn. (si veda F. Münzer, voce Octavius, in PWRE, XVII, 2, cit., 1819, n. 25), ciò sia per la testimonianza del Codex Mediceus, in base al quale il prenome del pretore sarebbe Cn., sia per il fatto che L. Octavius fu proconsole in Cilicia nel 74 a.C. e a ciò si deve aggiungere che «la lettera di Cicerone al fratello Quinto verteva sull'amministrazione della provincia d'Asia e, in particolare, nel passo di cui si tratta, sull'amministrazione della giustizia in tale provincia, che, infine, particolarmente nelle provincie asiatiche, a causa del lungo proconsolato ivi esercitato da Silla, i seguaci del futuro dittatore avevano avuto modo di illecitamente arricchirsi» (in questi termini M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 145). Tuttavia, appare pure come plausibile la riconducibilità dell'autore della formula al Cn. Octavius che fu pretore nel 79 a.C. In questo senso S. Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel, cit., 8, nt. 14.

Nonostante dai testi esaminati e che si esamineranno in queste pagine sembri certa quantomeno la riconduzione della creazione della formula Octaviana e della clausola edittale ad essa relativa ad un pretore di nome Octavius, si deve tuttavia osservare che alcuni studiosi avevano, piuttosto, sostenuto che l'autore della clausola edittale riportata poi da Ulpiano in D.4.2.1 e della relativa actio, fosse Cassius. In quest'ultimo senso si erano espressi G. Noodt, Opera omnia ab ipso recognita, aucta, emendata, in multis in locis, atque in duos tomos distributa, Lugduni, 1724, 381 e ss. (De forma emendandi doli mali cap. XVI); P.P.H. de Dompierre de Jonquières, Specimen de restitutionibus in integrum, Lugduni-Batavorum, 1767, 125; A. Schultingii Notae ad Digesta seu Pandectas, Tomus primus, Lugduni-Batavorum, 1804, 491; K.A. Schneider, Die allgemein subsidiären Klagen des römischen Rechts, Rostock, 1834, 315 e ss., secondo i quali autore della clausola edittale, solo in parte riportata in D.4.2.1, sarebbe stato il pretore Cassius di cui parla Ulpiano in D.44.4.4.33. In relazione a queste diverse ipotesi avanzate dagli studiosi è interessante la posizione del F. Glück, Ausführliche Erläuterung der Pandecten nach Hellfeld Band 5,2, Erlangen, 1799, 468 e ss., secondo il quale l'actio a tutela della vittima di violenza fu concessa per la prima volta dal pretore Gneo Ottavio, che era stato citato da Cicerone nella lettera al fratello Quinto, ma questa azione avrebbe avuto come legittimato passivo soltanto coloro che avessero esercitato la vis o incusso timore. Il pretore Cassio (di cui si parla in D.44.4.4.33), invece, l'avrebbe estesa anche contro il possessore della res estorta. In questo senso, in realtà, si erano già pronunciati Io. Gottl. Heineccii Opuscula postuma, in quibus historia edictorum edictique perpetui, ipsiusque edicti perpetui, ordini et integritati suae restituti, partes II. Vita Ludovici Germanici Imp. Aliaque continentur. Omnia ex schedis paternis edita a Io. Christ. Gottl. Heineccio, Halae, 1744, 398; R.J. Pothier, Pandectae Justinianeae, in novum ordinem Digestae, cum legibus codicis, et novellis, quae jus pandectarum confirmant, explicant aut abrogant, Parisiis, 1818, 180, nt. 1, secondo il quale: «Ex Tullius discimus [Epist. I. 7. ad Quint. Fratr.] Cn. Octavium Praetorem Sullae temporibus, actionem metus dedisse adversus illos qui quid vi et Metu abstulissent: postea Cassius Praetor hanc actionem ad quosvis casus, quibus quid vi metusve causa gestum esset, porrexit. Exceptio metus interpretatione prudentium recepta est l. 4. § 33. ff. de Doli mali et met. except.».

 

[12] A.F. Rudorff, Ueber die Octavianische Formel, in Zeitschrift für geschichtliche Rechtswissenschaft 12 (1845), 156, riteneva che l'espressione, così come riportata da Cicerone, non potesse essere riconducibile alla formula per più motivi: il quod non poteva appartenere alla formula, poiché un’azione pretoria in factum non ha una demonstratio; il verbo al congiuntivo abstulisset difficilmente sarebbe stato utilizzato nella formula; l’espressione per vim et metum abstulisset è utilizzata molto spesso da Cicerone. L'Autore, poi, precisava (157) «Gehören aber die Worte per vim et metum abstulisse, oder wenn ein Dritter belangt wird: ablatum esse, in der That der Octavianischen Formel an, so ergiebt sich folgender Zusammenhang mit den Repetundeu». V. Arangio-Ruiz, Le formule con demonstratio e la loro origine, cit., 112 e 113, riteneva che le parole «quod – abstulisset» contenessero una citazione della formula. Continuava lo studioso «… la citazione è certo modificata nel trasporto alla costruzione indiretta, ma è chiaro che Cicerone aveva presente una formula con la demonstratio «quod As As a No No per vim aut metum abstulit rell.». La successiva elaborazione ha portato da una parte alla redazione impersonale di actio in rem scripta, dall’altra –ed è quello che qui interessa- alla sostituzione della intentio in factum alla demonstratio originaria». In questo caso, secondo il citato Autore, la modifica della struttura formulare potrebbe essere stata determinata dalla riforma dei presupposti di diritto materiale. A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 254 e ss., ha, in parziale accordo con il Rudorff, sostenuto che qualora il quod avesse trovato posto nel testo ufficiale, questo sarebbe stato da ricondurre all'editto, ma ha anche avanzato una diversa proposta. Secondo l'Autore olandese, infatti, Cicerone non avrebbe riportato fedelmente il testo, ma lo avrebbe parafrasato e con questa operazione avrebbe modificato la formulazione in senso passivo dell'editto (quod per vim aut metum ablatum esse dicetur) con quella in senso attivo (quod per vim aut metum abstulisset). Inoltre, egli precisa: «Auf diese Weise würde sich das Edikt sowohl an das quod ablatum siet der lex Acilia als auch an die passivische Formulierung des Metusedikts vorzüglich anschliessen. So lässt sich der Einfluss der pervenit-Klausel von der lex Acilia über die formula Octaviana bis zur passivischen Formulierung und der Drittwirkung der actio q.m.c. verfolgen».

Su questo aspetto si vd. anche B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 162 e ss. (il quale ritiene plausibile che Cicerone avesse avuto davanti agli occhi l'espressione edittale e l'abbia sostanzialmente parafrasata, 162 e 163, anche nt. 190); M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 126 nt. 94; C. Venturini, “Metus”, in Derecho romano de obligaciones, Homenajaje al Profesor José Murga Gener, Madrid, 1994, 924; D. Mantovani, Le formule del processo privato romano, 2a ed., Padova, 1999, 70, nt. 271, il quale ritiene che la formula Octaviana iniziasse con il Quod.

A me sembra più probabile che Cicerone, come già sostenuto dall'Hartkamp, avesse parafrasato la clausola edittale con la quale si prometteva la formula Octaviana. Interessante, poi, a questo proposito il confronto suggerito dall'Autore olandese con la lex Acilia. S. Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel, cit., 9, ritiene che Cicerone non avesse riportato precisamente le parole dell'editto o della formula.

 

[13] Cfr. infra § II.1.

 

[14] Si veda in questo senso M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 143 e ss., il quale in realtà considera i verbi auferre e gerere/facere (a seconda o meno che si condivida la tesi secondo la quale l'a.q.m.c. sarebbe stata introdotta da una clausola edittale contenente il verbo facere) rispettivamente nella formula Octaviana e nella formula dell'a.q.m.c., ma anche dalla nt. 171 sembra ricavarsi che le medesime considerazioni valgano per questi verbi nella clausola edittale. Diversamente per B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 127 e ss. e 146 e ss., per il quale il gerere indica l'acquisto, l'attività negoziale acquisitiva non solamente dell'autore della violenza parte del negozio, ma anche del terzo.

Relativamente al mutamento terminologico che si riscontra nelle due clausole edittali, si veda anche É. Cuq, Manuel des institutions juridiques des romains, cit., 582, secondo il quale, in seguito alla separazione, nella clausola edittale, tra gli atti di violenza che si concretizzavano in un bona rapere e quelli che, invece, determinavano la conclusione di un atto giuridico, sarebbe avvenuta la sostituzione del verbo gerere al verbo auferre.

 

[15] Si veda: F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 219; C. Ferrini, Viviano - Prisco Fulcinio, in Opere di Contardo Ferrini, II, Studi sulle fonti del diritto romano, a cura di E. Albertario, Milano, 1929, 75; C. Russo Ruggeri, Viviano giurista minore?, Milano, 1997, 75 e ss. Contra B. Kupisch, Cicero, Pro Flacco 21,49 f. und die in integrum restitutio gegen Urteile, in ZSS 91 (1974), 138, secondo il quale «Da per vim auferre nicht notwendig modal verstanden werden muβ, sondern auch kausal gemeint sein kann (vgl. Per vim vendere), kann der Zwang auch von einem Dritten herrühren, hier von Flaccus über die eingeschüchterten Rekuperatoren auf den Veräuβerer Heraklides».

 

[16] In questo senso, B. Kupisch, Considerazioni in tema di metus: L'actio quod metus causa, in Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo. Delle giornate di studio in ricordo di Giovanni Pugliese, a cura di L. Vacca, Padova, 2009, 147 e ss. [= Überlegungen zum Metusrecht: Die actio quod metus causa des klassischen römischen Rechts, in Spuren des römischen Rechts. Festschrift für Bruno Huwiler zum 65. Geburstag, Bern, 2007, 432 e ss.].

Per un attento esame del significato di auferre nel contesto del crimen repetundarum si vd. C. Venturini, Studi sul “crimen repetundarum” nell'età repubblicana, Milano, 1979, 248 e ss. Questo Autore sottolinea il diverso significato che il verbo auferre può assumere nell'ambito del crimen repetundarum e il fatto che il verbo auferre è molto utilizzato nelle Verrine «ma in misura diseguale». Inoltre il Venturini sottolinea «come auferre abbia finito per indicare, nella rappresentazione del crimen repetundarum, non tanto uno specifico comportamento attivo quanto, piuttosto, l'oggetto del reato nella sua forma più elementare ed immediata, ossia lo spossessamento ingiusto del soggetto passivo e l'illecito arricchimento dell'agente comunque realizzati, in dipendenza del vario estrinsecarsi del dolo». Anche alla luce delle osservazioni di quest'ultimo studioso è importante sottolineare un dato utile per la nostra ricerca, cioè che l'uso del verbo auferre ricorre sia nel contesto del crimen repetundarum che nell'espressione tipica di Cicerone per la formula Octaviana. Sicuramente, questo può essere un ulteriore indizio per lo stretto legame tra i due giudizi. In questo senso anche A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 249 e ss., il quale osservava pure che auferre non avesse solo il significato di sottrarre, portare via, ma anche quello di “annehmen, erhalten, erlangen”; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 124. Per quest'ultimo significato di auferre si veda anche H. Heumann – E. Seckel, Handlexikon zu den Quellen des römischen Rechts, 11a ed., Graz, 1974, 44, che indica come terzo significato: «annehmen, in Empfang nehmen, erhalten, erlangen», sebbene si debba aver presente che ad auferre è stato anche attribuito, nello stesso contesto, l'altro significato, di portare via, sottrarre. A questo proposito, si veda Thesaurus linguae latinae, vol. II, Lipsiae, 1977, coll. 1327 e 1328, in cui, relativamente al significato di auferre si legge «saepe dicitur de eis, quae amoventur vi rapiendo furto, ut in his potissimum» e si cita Cicerone, In Verrem 2.3.65.152, sebbene più avanti venga pure riportato l'altro significato di auferre, sopra ricordato e accolto dal Kupisch per il testo di Cicerone in cui viene riportata la formula Octaviana. Si veda, infatti, col. 1331, «secum auferre, inde (etiam sine secum) de eis, qui aliquid accipiunt, sibi comparant, quod ab aliis auferunt».

 

[17] Questa interpretazione dell'espressione vi et metu auferre è stata considerata più adatta alle fattispecie trattate da Cicerone nei testi in esame e, più in generale, alle ipotesi che si verificavano nelle province anche da U. Ebert, Die Geschichte des Edikts de hominibus armatis coactisve, Heidelberg, 1968, 109; F. Schulz, Classical Roman Law, cit., 600, secondo i quali la formula Octaviana si sarebbe potuta esercitare rispetto ad ipotesi di vis compulsiva. Ammettono entrambi i significati di vi auferre anche per la formula Octaviana: F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 218 e ss.; M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 149, si veda anche nt. 188 (il quale riconosce che questo significato fosse più consono all'esercizio della vis nelle province); A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 249 e ss.

 

[18] Come ho spiegato nella nt. 6 questa è la tesi, tra gli altri, di B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 164 e ss.

 

[19] In Verrem 2.2.26.63 “Fecerat hoc egregie primo adventu Metellus, ut omnis istius iniurias, quas modo posset, rescinderet et inritas faceret. Quod Heraclium restitui iusserat ac non restituebatur, quisquis erat eductus senator Syracusanus ab Heraclio, duci iubeat; itaque permulti ducti sunt. Epicrates quidem continuo est restitutus. Alia iudicia Lilybaei, alia Agrigenti, alia Panhormi restituta sunt. Census, qui isto praetore sunt habiti, non servanturum se Metellus ostenderat; decumas, quas iste contra legem Hieronicam vendiderat, sese venditurum Hieronica lege edixerat. Omnia erant Metelli eius modi ut non tam suam praeturam gerere quam istius praeturam retexere videretur. Simul atque ego in Siciliam veni, mutatus est”. La supposizione della presenza delle parole “ratum non habebo” già nella clausola edittale conosciuta da Cicerone potrebbe trovare un fondamento nelle parole delle Verrine appena riportate, nelle quali si parla di restituere, rescindere e inritas facere. Ancora più in particolare, come vedremo nelle pagine successive, le espressioni utilizzate da Cicerone sono simili a quelle utilizzate da Seneca il Vecchio in riferimento alla clausola edittale “Quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo”.

In dottrina, però, questo brano delle Verrine è stato interpretato in diversi modi: J. Duquesne, Cicéron Pro Flacco, chap. 30-32 et l'In Integrum Restitutio, cit., 25 e 30, ritiene che Cicerone, In Verrem 2.2.26.63 si sarebbe riferito ad applicazioni di i.i.r. ob metum. F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 222 e 223, ha ipotizzato che già al tempo di Cicerone la clausola “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” appartenesse all'editto, sebbene non da molto tempo, come proverebbe il fatto che Cicerone in de off. 3.24.92 e in de off. 1.10.32 menzionava ipotesi di timore nell'ambito della clausola edittale de pactis, che poi sarebbero state eliminate proprio in conseguenza dell'introduzione della clausola in questione sotto il titolo De in integrum restitutionibus. Nello stesso senso del Duquesne G. Cervenca, Per lo studio della restitutio in integrum (Problematica e prospettive), in Studi in onore di B. Biondi, I, Milano, 1965, 603 nt. 6; M. Sargenti, Ricerche sulla «restitutio in integrum», in BIDR 69 (1966), 261 e ss., ritiene sì che il testo delle Verrine testimoni un'applicazione di restitutio in integrum, ma non necessariamente ob metum. L'Autore, infatti, precisa: «Noi non sappiamo, però, se nel momento in cui Metello assumeva il governo della Sicilia, un editto sulla restitutio ob metum fosse stato già emanato dal pretore e fosse stato adottato da Metello in provincia. Dovremmo, anzi, pensare di no, perché lo stesso Cicerone parla altrove della formula Octaviana, che Metello aveva promesso nell'editto urbano contro gli atti di violenza e che aveva riprodotta nell'editto provinciale per la Sicilia (In Verrem 2,3,65,152), ma nulla dice di una restitutio in integrum ob metum». F. Fabbrini, Per la storia della «restitutio in integrum», in Labeo 13 (1967), 209 e 211, ritiene che le restitutiones alle quali si allude nella seconda orazione contro Verre e tra queste In Verrem 2.2.26.63 siano comunemente interpretate restitutiones ob metum, «anche se riesce difficile inquadrare queste testimonianze nell'uno o nell'altro dei casi previsti dall'editto»; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 266 e ss., ritiene che In Verrem 2.2.26.63 sia un'altra prova dell'esistenza della i.i.r. a causa del metus già nel I sec. a.C.; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 159 e ss., sembra ritenere che in Cicerone (In Verrem 2.2.26.63) vi sia un riferimento ad una restituzione non necessariamente pretoria, ma piuttosto giudiziale. Per quanto riguarda la presenza delle parole ratum non habebo nell'editto di Ottavio, l'Autore precisa: «Ob im Edikt des Octavius (und in dem des Metellus) ratum non habebo enthalten war, könnte dahingestellt werden, wenn der Sinn dieser Rechtsfolge nicht, wie es heute gemeinhin geschieht, auf prätorische Restitution eingeengt würde; dann lieβe sich ein iudicium dabo des oktavianischen Edikts als im Metusedikt unter gleichgebliebenen Voraussetzungen aufgegangen denken». M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, Milano, 1973, 346, secondo il quale non è possibile stabilire se nelle ipotesi trattate da Cicerone, In Verrem 2.2.25.62-26.63, si tratti di un'anticipazione o di un'applicazione della i.i.r. ob metum edittale.

 

[20] Si pensi a D.4.2.14.6; D.4.2.14.9 in cui viene riferita la posizioni di Labeone in relazione all'a.q.m.c.

 

[21] Contr. 4.8 e Contr. 9.3.9.

 

[22] Altri riferimenti alla vis e al metus, nelle opere di Cicerone, oltre a quelli che si vedranno pure nelle successive, si trovano in: In L. Calpurnium Pisonem 35.86 (... Si quidem potest vi et metu extortum honorarium nominari! ...); In Verrem 2.2.59.145 (... Quid? si hoc voluntate sua nulla civitas fecit, si omnes imperio, metu, vi, malo adductae tibi pecuniam statuarum nomine contulerunt, per deos immortalis ...); In Verrem 2.2.61.150 (... Sin autem metu coacti dederunt, confiteare necesse est te in provincia pecunias statuarum nomine per vim ac metum coegisse ...); In Verrem 2.3.29.70 (... Virgarum metu Agrynenses quod imperatum esset facturos se esse dixerunt); In Verrem 2.3.62.143 (... quid? is possitne de istius improbitate dubitare, cum tanta lucra facta, tam iniquas pactiones vi atquae imperio, virgarum ac mortis metu, non modo Apronio atquae eius similibus verum etiam Veneriis servis dare coactas?); In Verrem 2.4.63.140 (... tum eos hortatus sum ut causae communi salutique ne deessent, ut illam laudationem, quam se vi ac metu coactos paucis illis diebus decresse dicebant, tollerent); in Pro A. Caecina 14.41 (... Dici in hac causa potest, ubi arma fuerint, ubi coacta hominum multitudo, ubi instructi et certis locis cum ferro homines conlocati, ubi minae, pericula terroresque mortis, ibi vim non fuisse? «Nemo» inquit «occisus est neque saucis (factus)» Quid asis? Cum de possessionis controversia et de privatorum hominum contentione iuris loquamur, tu vim negabis factam, si caedes et occisio facta erit? Ego exercitus maximos saepe pulsos et fugatos esse dico terrore ipso impetuque hostium sine cuiusquam non modo morte, verum etiam vulnere) e in Pro A. Caecina 14.41 (Etenim, reciperatores non ea sola vis est quae ad corpus nostrum vitamque pervenit, sed etiam multo maior ea quae, periculo mortis iniecto, formidine animum perterritum loco saepe et certo de statu demovet. Itaque saucii saepe homines, cum corpore debilitantur, animo tamen non cedunt neque eum relinquunt locum quem statuerunt defendere; at alii pelluntur integri; ut non dubium sit quin maior adhibita vis ei sit cuius animus sit perterritus, quam illi cuius corpus vulneratum sit) sebbene in un contesto de vi armata, Cicerone propone un'interessante distinzione tra la violenza fisica e la violenza morale; De domo 20.53 (... aut quicquam iure gestum videri potest quod per vim gestum esse constat ...); Partitiones oratoriae 14.50 (... metu supplicii aut mortis ...); Partitiones oratoriae 32.111 (... si illud malorum metu fecisse dicetur ...); Tusculanarum disputationum IV.6.11 (... ex malis metum et aegritudinem nasci censet, metum futuris, aegritudinem praesentibus; quae enim venientia metuuntur, eadem adficiunt aegritudine instantia ...); Tusculanarum disputationum IV.6.13 (... quae autem sine ratione et cum exanimatione humili atque fracta, nominetur metus; est igitur metus a ratione aversa cautio); Tusculanarum disputationum IV.7.14 (... metus opinio impendentis mali quod intolerabile esse videtur); Tusculanarum disputationum IV.7.15 (Sed quae iudicia quasque opiniones perturbationum esse dixi, non in iis perturbationes solum positas esse dicunt, verum illa etiam quae efficiuntur perturbationibus, ut ..., metus recessum quendam animi et fugam ...); Tusculanarum disputationum IV.7.16 (... Sub metum autem subiecta sunt pigritia, pudor, terror, timor, pavor, exanimatio, conturbatio, formido. ...); Tusculanarum disputationum IV.8.18-19 (... Quae autem subiecta sunt sub metum, ea sic definiunt: pigritiam metum consequentis laboris, <pudorem metum dedecoris sanguinem diffundentem>, terrorem metum concutientem (ex quo fit ut pudorem rubor, terrorem pallor et tremor et dentium crepitus consequatur), timorem metum mali adpropinquantis, pavorem metum mentem loco moventem (ex quo illud Ennius: tum pavor sapientiam omnem mi examinato expectorat), exanimationem metum subsequentem et quasi comitem pavoris, conturbationem metum excutientem cogitata, formidinem metum permanentem); Tusculanarum disputationum IV.9.22; IV.15.35; IV.30.64 (Sed aegritudini, de qua satis est disputatum, finitimus est metus, de quo pauca dicenda sunt. Est enim metus, ut aegritudo praesentis, sic ille futuri mali. Itaque non nulli aegritudinis partem quandam metum esse dicebant, alii autem metum praemolestiam appellabant, quod esset quasi dux consequentis molestiae. Quibus igiutur rationibus instantia feruntur, iisdem contemnuntur sequentia. Nam videndum est in utrisque ne quid ne quid humile summissum molle ecfeminatum fractum abiectumque faciamus. Sed quamquam de ipsius metus incostantia inbecillitate levitate dicendum est, tamen multum prodest ea quae metuuntur, de morte et de dolore, primo et proxumo die disputatum est: quae si probata sunt, metu magna ex parte liberati sumus); Tusculanarum disputationum IV.37.80 (... metus quoque est diffidentia exspectati et impedentis mali (et si spes est exspectatio boni, mali exspectationem esse necesse est metum); ut igitur metus, sic reliquae perturbationes sunt in malo: ergo ut constantia scientiae, sic perturbatio erroris est. …).

 

[23] Anche altre clausole edittali hanno subito una rielaborazione, si veda, ad esempio quella de pactis conventis, oppure quella de dolo. Proprio in relazione alla rielaborazione di queste ultime due clausole edittali e di quella sul metus si è detto che «È assai probabile che questo comune destino sia da attribuirsi a quell'opera di raffinamento di concetti, alla quale l'ultima giurisprudenza repubblicana e quella immediatamente seguente sottopose le creazioni innovatrici della iurisdictio pretoria». In questo senso G.G. Archi, Ait Praetor: 'Pacta conventa servabo'. Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell'Edictum Perpetuum, in De iustitia et iure, Festgabe für von Lübtow zum 80.Geburtstag, Berlin, 1980, 390, il quale ritiene che «La lettura delle fonti extragiuridiche più o meno coeve è a questo proposito veramente illuminante per afferrare il significato delle innovazioni pretorie».

 

[24] E. Costa, Cicerone giureconsulto, I, cit., 152, nt. 3, sembra ricondurre il pensiero espresso da Cicerone in de Officiis I.10.32 all'editto emanato dal pretore Ottavio.

 

[25] L'esame dell'evoluzione della clausola edittale de pactis richiederebbe e meriterebbe uno studio tale che in questa sede non può trovare luogo.

 

[26] In questo senso F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 222 e ss. (si veda supra, nt. 19), il quale, però, riteneva che la clausola edittale “Quod vi metusve causa gestum erit, ratum non habebo” avesse introdotto la i.i.r., quindi sarebbe stata non un'evoluzione rispetto alla clausola proposta dal pretore Ottavio, ma un'aggiunta ad essa. In particolare lo Schulz riteneva «Möglich ist es, wie schon gesagt, daβ bereits vor der Aufnahme der i.i.r. verheiβenden Ediktsklausel die Prätoren ohne ediktale Verheiβung eine i.i.r. propter metum gewährten, aber weit über die Zeit Ciceros zurück wird diese Praxis schwerlich liegen, sie hätte sonst früher zu einer Formulierung im Edikt geführt; Belege für eine solche alte Praxis der Prätoren fehlen denn auch gänzlich: Cic. pro Flacco 21,49 spricht von der Rescission eines iudicium, bei dem die Richter zu einem Fehlurteil gezwungen worden sind, ob man bei einem erzwungenen Rechtsgeschäft ebenso verfuhr, ist noch immer die Frage».

Di diverso avviso sembra essere Z. Végh, Ex pacto ius. Studien zum Vertrag als Rechtsquelle bei den Rhetoren, in ZSS 110 (1993), 226, il quale non ammette l'ipotesi di una successiva eliminazione del riferimento alla vis nella clausola edittale de pactis: «Gerade weil der Digestentext so ausführlich alle möglichen Gründe für die Entkräftung der pacta anführt, ist es eher unwahrscheinlich, daβ aus einer ursprünglichen Fassung die Bezüge auf vis und metus gestrichen worden sind. Dies insbesondere auch deshalb, da sogar der Hinweis auf den dolus trotz des daneben selbständig bestehenden edictum de dolo weitergeführt wird. Somit müssen wir annehmen, daβ Cicero hier um der verkürzten literarischen Darstellung willen zwei Edikte miteinander verwoben hat».

Non essendoci motivi per dubitare dell'esattezza del testo ciceroniano (in questo senso anche G.G. Archi, Ait Praetor: 'Pacta conventa servabo'. Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell'Edictum Perpetuum, cit., 389), si potrebbe pensare che Cicerone avesse riportato testualmente la clausola edittale de pactis, oppure, ma mi sembra meno probabile, che l'avesse parafrasata tenendo presente la normale interpretazione della stessa, che escludeva dalla tutela pretoria l'estorsione del patto ottenuto con dolo, nel quale era da ricomprendere la violenza.

 

[27] Cic. de Officiis III.25.96. Si veda W. Heilmann, Ethische Reflexion und römische Lebenswirklichkeit in Ciceros Schrift de Officiis. Ein literatursoziologischer Versuch, Wiesbaden, 1982, 65 e ss.

 

[28] Ciò, spiega Cicerone in de Officiis III.31.111, in quanto “... Nullum enim vinculum ad astringendam fidem iure iurando maiores artius esse voluerunt: id indicant leges in duodecim tabulis, indicant sacratae, indicant notiones animadversionesque censorum, qui nulla de re diligentius quam de iure iurando iudicabant”. A questo proposito Cicerone subito di seguito (de Officiis III.31.112) riporta l'esempio del tribuno della plebe M. Pomponio che dopo aver agito nei confronti di L. Manlio fu costretto a desistere dall'accusa, in seguito alla minaccia posta in essere dal figlio di quest'ultimo (Iuravit hoc terrore coactus Pomponius; rem ad popolum detulit, docuit cur sibi causa desistere necesse esset, Manlium missum fecit. Tantum temporibus illis ius iurandum valebat).

 

[29] L'osservazione non è certamente di poco conto (più avanti, infra 2 e ss., mi occuperò del significato del verbo gerere nella clausola edittale riportata da Ulpiano). Relativamente all'uso di agere da parte di Cicerone, si può supporre che egli non stesse riportando fedelmente la clausola edittale, oppure che considerasse tale verbo più adatto alla fattispecie del giuramento. In relazione anche a questi testi, si veda A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 264, nt. 85, il quale osserva: «Obwohl in all diesen Stellen nicht von den privatrechtlichen Rechtsmitteln gegen metus gesprochen wird, kann man sich nicht des Eindrucks erwehren, dass ihre Entwicklung schon zur Zeit Ciceros in vollem Gange war und Cicero, sicher in vorgerücktem Alter, die i.i.r. und die exceptio gekannt haben muss».

 

[30] Le date della nascita e della morte di Seneca non sono note con certezza. T.S. Simonds, The Themes Treated By The Elder Seneca, Baltimore, 1899, ristampa anast., Breiningsville, 2009, 39-42, ritiene che Seneca sia nato tra il 60 e il 53 a.C. e sia morto tra il 34 e il 41 d.C.; M. Winterbottom, Introduction, in Seneca, Controversiae, I, London, 1974 (Loeb Classical Library), IX e XXII, ipotizza che il retore sia vissuto dal 55 a.C. al 40 d.C.; J. Fairweather, The Elder Seneca and Declamation, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 32.1, Berlin, 1984, 516-517, ritiene che Seneca sarebbe nato qualche anno prima del 43 a.C. e morto prima del 41 d.C.

 

[31] Le Controversiae di Seneca il retore, composte da dieci libri, ci sono pervenute attraverso due diverse tradizioni manoscritte. La prima comprende il testo completo delle Controversiae dei libri 1, 2, 7, 9 e 10 con una prefazione di Seneca ai libri 7, 9 e 10. La seconda comprende tutti e dieci i libri ed è l'unica fonte dei titoli delle diverse Controversiae, «but gives only excerpts under each declamation theme» (M. Winterbottom, Introduction, cit., XIX). Come punto di partenza per ulteriori approfondimenti su Seneca il Vecchio e le declamationes si indica L.A. Sussmann, The Elder Seneca and Declamation Since 1900: A Bibliograph, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 32.1, Berlin, 1984, 557 e ss.

 

[32] Sulla data di composizione delle Controversiae si veda T.S. Simonds, The Themes Treated By The Elder Seneca, cit., 45, il quale, anche sulla base di Contr. 1, praef., 2, osserva: «In regard to the date of composition of the writings we know that Seneca produced them in extreme old age»; M. Winterbottom, Introduction, cit., XX, secondo il quale Seneca difficilmente avrebbe iniziato a scrivere le Controversiae prima del 37 d.C.

 

[33] T.S. Simonds, The Themes Treated By The Elder Seneca, cit., 82 e ss.

 

[34] Si veda M. Winterbottom, Introduction, cit., XVI, che osserva: «Seneca first gives the law (if any) on which the theme depends (so, e.g., C.1.1), then the theme itself. Then come epigrams from the declamations of a number of speakers, first on one side of the case, then on the other». Cfr. anche J. Fairweather, The Elder Seneca and Declamation, cit., 552, secondo la quale «we may deduce from the elder Seneca's criticisms that a controversia normally consisted of a proemium or principium (e.g. Contr. I,1,24f.), a narratio (e.g. Contr. I,1,21), argumenta or argumentatio (e.g. Contr. I,6,9; II,2,12) and an epilogus (e.g. Contr. IV pr. 8). Sometimes the narratio was curtailed or omitted for various reasons, and so was formal argumentatio occasionally».

 

[35] Per i diversi punti di vista su questo aspetto si vedano: T.S. Simonds, The Themes Treated By The Elder Seneca, cit., 82 e ss.; H. Bornecque, Les declamations et les déclamateurs d'après Sénèque le père, Lille, 1902, 59 e ss.; 78 anche nt. 1; S.F. Bonner, Roman Declamation in the Late Republic and the Early Empire, Liverpool, 1949, 34 e ss.; 84 e ss. e 114 (con ulteriori indicazioni bibliografiche); F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano, Milano, 1938, 463; R. Düll, Bruchstücke verschollener römischer Gesetze und Rechtssätze, in Studi in onore di Edoardo Volterra, I, Milano, 1971, 116 e ss. Su ciò, sebbene con una prospettiva diversa, si veda anche Y. Thomas, Paura dei padri e violenza dei figli: immagini retoriche e norme di diritto, in La paura dei padri nella società antica e medievale, Bari, 1983, 115 e ss.; G. Calboli, Seneca il retore tra oratoria e retorica, in Gli Annei. Una famiglia nella storia e nella cultura di Roma imperiale, Atti del convegno internazionale di Milano-Pavia 2-6 maggio 2000, a cura di I. Gualandri-G. Mazzoli, Como, 2003, 74 e 77. Di recente è stato affermato che l'interesse delle declamationes non risiederebbe solo nelle norme sulle quali sarebbero impostate le controversiae «(e nella connessa, riduttiva domanda se corrispondano o meno al diritto vigente a Roma), bensì negli argomenti cui si ricorre nella parte dimostrativa, che costituiscono il termine prossimo di paragone dei ragionamenti dei giuristi (a prescindere, si può dire, dalla corrispondenza al diritto vigente della premessa normativa)». In questi termini: D. Mantovani, I giuristi, il retore e le api. Ius controversum e natura nella Declamatio maior XIII, in Testi e problemi del giusnaturalismo romano, Pavia, 2007, 327.

 

[36] Contr. 4.8

Patronus operas remissas repetens

Per vim metumque gesta irrita sint

Bello civili patronus victus et proscriptus ad libertum confugit. Receptus est ab eo et rogatus ut operas remitteret. Remisit consignatione facta. Restitutus indicit operas. Contradicit.

Patronus a liberto restitutionem peto. Si pacisci tunc a me voluisses operas, spopondissem. Bona bello perdidi, ad restitutionem nudus veni; nunc libertorum operas desidero. Profer tabellas illa proscriptionis tabula crudeliores: persequebatur illa quos vicerat, hae persecutae sunt quos receperant; in illa ultio fuit, in his perfidia; denique illa iam desiit, hae perseverant. Non mea, inquit, sed aliena vis fuit. Aeque dignus est poena qui ipse vim adhibet et qui ab alio admota ad lucrum suum utitur. In hunc primum incidi et, dum timeo ne offenderem, secutus sum hoc exigentem. Non recepit me, sed inclusit. Nihil est venali misericordia turpius.

 

[37] Contr. 9.3

Expositum repetens ex duobus

Per vim metumque gesta ne sint rata

Pacta conventa legibus facta rata sint

Expositum qui agnoverit solutis alimentis recipiat.

Contr. 9.3.9 An si in re vis et necessitas est, ita tantum rescindantur quae per vim et necessitatem gesta sunt, si vis et necessitas a paciscente adhibita est. Nihil, inquit, mea an tu cogaris, si non a me cogeris; meam culpam esse oportet, ut mea poena sit. Non, inquit, neque enim lex adhibenti vim irascitur, sed passo succurrit et iniquum illi videtur id ratum esse quod aliquis non quia voluit pactus est, sed quia coactus est. Nihil autem refert, inquam, per quem illi necesse fuerit; iniquum enim quod rescinditur facit fortuna eius qui passus est, non persona facientis.

F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano, cit., 167, ritiene che dalla frase “neque enim lex adhibenti vim irascitur ... non persona facientis” sembra «che i retori abbiano presente che in inizio il legislatore, ragionando severamente in riguardo a chi era stato costretto a compiere un determinato atto giuridico, offriva non un mezzo diretto contro al vim adhibens, ma uno soltanto volto ad ovviare le conseguenze del negozio viziato. ... Quale poi sia stato l'agente diretto di questa coactazione, non importa, perché in ogni caso l'accusato ha tratto vantaggio da uno stato di fatto preesistente e perché, essi ripetono, la legge ha presente non tanto la persona del vim adhibens quanto la situazione obbiettiva».

 

[38] Si deve precisare che questi due passi di Seneca sono normalmente riferiti dagli studiosi alla i.i.r. e non all'a.q.m.c., in quanto il retore avrebbe avuto presente l'editto generale sul metus, come si ricaverebbe dalle parole “Per vim metumque gesta ne sint rata”. Così F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 225, anche nt. 2, secondo il quale, tra l'altro, qui Seneca avrebbe utilizzato il termine “poena” da incompetente; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 216; F. Lanfranchi, Il diritto nei retori romani. Contributo alla storia dello sviluppo del diritto romano, cit., 157 e ss.; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 263 nt. 79. In termini diversi B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 230, il quale cita il passo come una delle prove della esperibilità dell'a.q.m.c. contro il terzo nel caso B (terzo estraneo alla violenza, ma parte del negozio estorto) e come prova della discussione dell'allargamento per il caso C (terzo estraneo alla violenza e subacquirente del bene estorto).

Si veda anche B. Kupisch, Cicero, Pro Flacco 21,49 f. und die in integrum restitutio gegen Urteile, in ZSS 91 (1974), 143, il quale, criticando la posizione dello Schulz riguardo all'utilizzo da parte di Seneca del termine “poena”: «da beleuchtet poena bei Seneca schlaglichtartig die Möglichkeit einer ganz anderen Wirklichkeit des Metusedikts und des ihm zuzuordnenden Rechtsbehelfs. Wie ihre Existenz ist auch der Strafcharakter der Metusklage einwandfrei belegt».

Come vedremo in seguito (infra, 2), questi brani di Seneca ci offrono un ulteriore argomento per ritenere che già prima della redazione dell'editto perpetuo in tema di metus vi fosse una sola clausola edittale, l'unica che ci è stata tramandata, e che, appunto, è nota anche a Seneca, con la quale veniva promessa anche l'a.q.m.c.

Anche B. Albanese, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, Palermo, 1982, 183, nt. 488 e 184, nt. 490, ritiene che i brani del retore siano da riferire all'a.q.m.c. ed in particolare ritiene che dall'opinione di Seneca possa trarsi un indizio della discussione ancora viva sulla posizione del terzo di buona fede.

 

[39] S.F. Bonner, Roman Declamation, cit., 114.

 

[40] S.F. Bonner, Roman Declamation, cit., 85 sottolinea come «The declaimers put the gist of the law in an adapted or simplified form for the purposes of their exercise, but this does not mean that they may not represent genuine legislation, or even that they do not contain some genuine phraseology». Th. Mayer-Maly, voce Vis”, col. 330, ritiene che Seneca in Contr. 9.3, così come Cicerone in ad Quintum fratrem 1.1.21, avesse avuto davanti agli occhi la formulazione meno recente della clausola edittale. Rispetto a questa considerazione si osserva che non il Cicerone del ad Quintum fratrem, ma piuttosto quello del de officiis avrebbe potuto avere davanti agli occhi la stessa formulazione della clausola edittale che era nota a Seneca.

 

[41] A.F. Rudorff, De iuris dictione edictum. Edicti perpetui quae reliqua sunt, Lipsiae, 1869, 55 e ss., ricomprendeva sotto la rubrica Quod metus causa gestum erit due editti, il primo, Edictum Gai Cassi Longini Vari a. u. 678, del quale avremmo le tracce in D.4.2.1 e contenente la formula rescissoria, e il secondo, Edictum Gnaei Octavi a. u. 680, del quale avremmo le tracce in D.4.2.14.1; D.4.2.19 e in C.2.19.4 e contenente la formula Octaviana in personam. Pertanto, secondo l’Autore tedesco sarebbe sorto prima l’editto concernente la i.i.r. ad opera di Gaio Cassio Longino (lo stesso pretore che non avrebbe introdotto, come ricorda Ulpiano in D.44.4.4.33, l’exceptio metus) e subito dopo, a distanza di appena due anni, l’editto di Gneo Ottavio che avrebbe introdotto la formula Octaviana. Le fonti riportate dal Rudorff a 56, nt. 2 per provare l’attribuzione a Gaio Cassio Longino dell’editto “Quod metus causa gestum erit” in realtà non sembrano così forti, perché nessuna di queste si riferisce alla i.i.r. propter metum.

Invece, O. Lenel, Das Edictum Perpetuum, cit., 110 e 111, riteneva che nell’Editto Perpetuo, sotto la rubrica “Quod metus causa gestum erit”, vi fossero tre parti: «das allgemeine Edikt», riportato in D.4.2.1; «das spezielle Edikt» sull’a.q.m.c. e la proposta della formula dell’a.q.m.c. In particolare, per quanto riguarda l’editto speciale che non ci è pervenuto, il Lenel ritiene che iniziasse con le parole “Quod metus causa factum erit (oder dicetur)”, in modo simile all’editto riguardante l’actio de dolo.

Hanno ipotizzato una seconda clausola edittale anche: E. Betti, Studii sulla litis aestimatio del processo civile romano, II, Città di Castello, 1915, 13, nt. 1, il quale riteneva che la seconda clausola edittale sul metus recitasse “quod metus causa factum erit, neque (=nisi) ea res arbitrio iudicis restituetur, in eum ad quem ea res pervenit iudicium dabo”; F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 221 e in particolare 231 e ss.; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 221 e ss. e successivamente Idem, Die Aufgaben des römischen Prätors auf dem Gebiet der Zivilrechtspflege, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano, 1983, 395 e ss.; G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 91 e ss.; M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 142, nt. 163; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 196; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 113-114; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 231 e ss.; H. Ankum, Eine neue Interpretation von Ulpian Dig. 4.2.9.5-6 über die Abhilfen gegen metus, in Festschrift für H. Hübner zum 70. Geburtstag am 7. November 1984, Berlin, 1984, 3, anche nt. 3. Nelle pagine successive cercherò di spiegare perché questa tesi mi sembra meno condivisibile.

 

[42] F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 221 e in particolare 231 e ss.; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 221 e ss.

 

[43] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Leipzig, 1889, ristampa Graz, 1960, col. 462, nt. 2; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 287.

 

[44] Si veda supra, § I.

 

[45] In dottrina si ritiene generalmente che la clausola edittale contenuta in D.4.2.1 avesse applicazione nei casi di metus causa gestum, cioè nei negozi posti in essere in presenza di metus e che successivamente a questa clausola edittale se ne fosse affiancata un’altra che avrebbe trovato applicazione nei casi di metus causa factum, cioè ad ogni attività esercitata sotto la pressione del metus. In questo senso si veda F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 218; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “quod metus causa gestum erit, cit., 81 e ss., i quali precisavano pure che la clausola edittale introducente la i.i.r. sarebbe stata la più antica e che solo successivamente a questa se ne sarebbe aggiunta un'altra avente ad oggetto il metus causa facere e derivata dalla formula Octaviana. Diversamente G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 94 e ss., ha sostenuto che quello appena descritto non può essere il carattere differenziale dei due editti, perché, nella visione secondo la quale metus causa si riferisce al soggetto attivo della violenza, il metus è il mezzo con cui chi esercita violenza riesce ad ottenere quella condotta, quel negozio giuridico, che altrimenti non avrebbe ottenuto. Pertanto, se l'espressione metus causa gerere/facere ha un significato finale e non causale non ha rilevanza la distinzione tra gerere e facere. Tenuto ciò presente, il Maier ha sostenuto che il carattere differenziale dei due editti sia il mezzo processuale in essi proposto per porre rimedio alla medesima fattispecie. Infatti, mentre l’editto generale promette una i.i.r. in tutti i casi in cui ciò fosse possibile, l’editto speciale prometteva un’azione penale nel quadruplo. Ancora e in modo diverso B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 125 e ss., secondo il quale sarebbe esistita solamente la clausola edittale riportata in D.4.2.1, che avrebbe avuto questo significato: «Was aufgrund von Zwang vorgenommen worden ist» (176).

 

[46] Perplessità in proposito erano state già avanzate da B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 125, il quale, diversamente, riteneva che la clausola edittale conservata fosse, in realtà, l’unica esistita.

 

[47] Tuttavia, è stato pure ritenuto che non può essere dato troppo peso a questa contraddizione, in quanto i compilatori, nel loro lavoro di fusione, accorpamento, non avrebbero seguito un criterio fisso. In questo senso si vd. A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 233, nt. 27.

Certamente, si potrebbe pensare che la clausola edittale che i compilatori hanno conservato fosse più adatta al “loro” modo di considerare l'a.q.m.c. Come vedremo nel corso della ricerca, questa spiegazione mi sembra poco probabile.

 

[48] In questo senso A.W. Von ScHröter, Ueber Wesen und Umfang der in integrum restitutio, in Zeitschrift für Civilrecht und Prozeβ 6 (1833), 116 e 119; K. Czyhlarz, Der Einfluß des Zwanges auf die Giltigkeit der Rechtsgeschäfte, in Jahrbücher für die Dogmatik des heutigen römischen und deutschen Privatrechts XIII (1874), 30 e ss., nt. 62, il quale, in particolare, contesta l'ipotesi di un secondo editto formulata da Rudorff (si veda supra nt. 41): «Denn erstens ist gar kein Grund vorhanden, ein besonderes Edict eines Cassius über metus anzunehmen; … Zweitens: ebenso grundlos ist es aber überhaupt, zwei Edicte über metus anzunehmen; der Titel quod metus 4,2 spricht stets nur von einem Edict (hoc edictum) ...»; C.F. Savigny, System des heutigen römischen Rechts, VII, cit., 193, il quale riteneva che il passo dell’editto riportato, proprio perché concepito in modo generale, si sarebbe potuto applicare ad entrambi i mezzi di difesa. Secondo il Savigny anche i giuristi classici lo avrebbero interpretato in questo modo; pertanto, il testo riportato in D.4.2.1 poteva esser stato inserito nell’originaria clausola edittale concernente la restitutio in integrum, senza, però, che ci fosse necessità di una qualche modifica per aggiungervi i rimedi introdotti in seguito; U. Schliemann, Die Lehre vom Zwange, cit., 4 e ss.; S. Schlossmann, Zur Lehre vom Zwange. Eine civilistische Abhandlung, Leipzig, 1874, 92 e ss.; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 123 e ss.; W. Selb, Das prätorische Edikt: Vom rechtspolitischen Programm zur Norm, in Iuris professio, Festgabe für Max Kaser zum 80.Geburtstag, Wien, 1986, 264, secondo il quale «Wahrscheinlicher ist jedoch auch hier, daβ die actio [cioè l'a.q.m.c.] eine der speziellen Konkretisierungen des ratum non habebo aus der juristischen Praxis ist, selbst also eine untechnisch verstandene in integrum restitutio darstellt».

 

[49] Si veda Seneca, Controversiae 9.3 “Per vim metumque gesta ne sint rata. Pacta conventa legibus facta rata sint …”; 9.3.9 “An, si in re vis et necessitas est, ita tantum rescindantur quae per vim et necessitatem gesta sunt si vis et necessitas a paciscente adibita est. Nihil, inquit, mea an tu cogaris si non a me cogeris; meam culpam esse oportet ut mea poena sit. Non, inquit …”. Sembra che qui il retore si stia riferendo all'a.q.m.c. e la prova di questo si può riscontrare non solo nella menzione di pena, che male si spiegherebbe se Seneca stesse parlando della i.i.r., ma anche nella ratio che porterebbe a giustificare la estensione della legittimazione passiva ad ogni terzo, cioè la tutela della vittima della violenza e la necessità di ripristinare la situazione nello stato precedente. Eloquente è, a questo proposito, il confronto tra le posizioni e le rispettive argomentazioni dei partecipanti alla controversia con le opinioni ricordateci da Ulpiano in D.4.2.14.15, in cui i quidam avevano negato l'esercizio dell'a.q.m.c. contro un subacquirente, mentre Viviano, Pedio e Ulpiano lo ammettevano. Questo parallelismo, anche se nel caso discusso nelle Controversiae non è certo che si stesse trattando di un terzo subacquirente, prova la problematicità legata alla ampia sfera dei soggetti passivamente legittimati in un rimedio che prevedeva, anche se solo come eventualità, la conseguenza di una pena e, dunque, non può non parlare a favore della tesi che vede l'a.q.m.c. come oggetto della controversia riportata da Seneca.

 

[50] Anche B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 160, osserva il modo di esprimersi di Seneca, il quale parla di una poena subito dopo aver detto inritum facere, e pertanto sembra lasciar desumere «eine Verknüpfung von Metusedikt und Metusklagen».

 

[51] In particolare, si veda: Gaio, nel libro quarto All’editto provinciale; Paolo, nel libro undicesimo All’editto; Ulpiano, nel libro undicesimo All’editto.

 

[52] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 462; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 247 e 287.

 

[53] Nel testo si legge: “... libro primo praetoris urbani ...” senza menzionare la parola editto. Secondo alcuni studiosi questa sarebbe un'integrazione da fare nel testo (così, ad esempio J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, in Aus nachgelassenen und kleineren verstreuten Schriften, Berlin, 1931, 9; A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani, Napoli, 1971, 37; A. Guarino, Diritto privato romano, 12a ed., Napoli, 2001, 774 nt. 63.5.1); secondo altri, invece, l'integrazione non sarebbe necessaria, come risulterebbe tra l'altro da un confronto con D.4.3.9.4 (in questo senso O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 501, nt. 2; B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, in SDHI 38 (1972), 192 e nt. 2; R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA 37 (1983), 53). F. von Velsen, Das edictum provinciale des Gaius, in ZSS 21 (1900), 114, aveva ritenuto che questo era un metodo di citazione dell'opera ad edictum di Labeone.

 

[54] Mi sembra sia da accogliere l'opinione di F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, Corso di diritto romano I, Torino, 1992, 105 e ss., secondo il quale D.50.16.19 «apriva verosimilmente la disamina da lui [Ulpiano] dedicata a “gestum erit” nella clausola in tema di metus». Inoltre, l'Autore osserva che Ulpiano, come per l'analisi del termine “metus” aveva iniziato con una citazione di Labeone, così aveva fatto lo stesso nell'iniziare il commento dei verbagestum erit”. Anche B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 194 e ss., aveva, attraverso una nuova indagine, confermato la ricostruzione palingenetica proposta dal Lenel.

 

[55] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 502, nt. 3, secondo il quale il testo tramandato in D.50.16.19 «Tractatur apud Ulpianum 11 ad edict. edicti clausula 'quod metus causa gestum erit'. sed incertum est, an Labeonis definitio ad idem edictum sit referenda». Nello stesso senso anche B. Albanese, Agere “gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 190, il quale, però, ipotizza (207 e ss.) che il discorso labeoniano riportato da Ulpiano in D.50.16.19 sia da collegare alla materia dello ius domum revocandi; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 62, dubita della relazione tra la definizione di Labeone e il “Metusedikt”.

A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani, cit., 50, pone un'alternativa: o un errore dell'amanuense che avrebbe scritto “primo” invece di “quarto” o “quinto”; oppure pensare che l'editto al tempo di Labeone avesse una struttura diversa rispetto a quella dell'editto che commentava Ulpiano. Lo stesso studioso, però, in un contributo successivo (A. Schiavone, Giuristi e nobili nella Roma repubblicana. Il secolo della rivoluzione scientifica nel pensiero giuridico antico, Bari, 1987, 163) afferma che potendo solo avanzare congetture sia meglio lasciare la domanda senza risposte «limitandoci a supporre che il passo esaminato da Labeone dovesse comunque contenere almeno una delle tre forme verbali, e fosse collocato agli inizi del testo pretorio, in modo da consentire al giurista di proporre la definizione fin dal primo libro del suo commento». A. Fernandez Barreiro, La previa información del adversario en el proceso privado romano, Pamplona, 1969, 157 e ss., ipotizza un collegamento tra D.2.13.6.3 e D.50.16.19, perché in entrambi «se hace referencia al contrato como ultro citroque obligatio, de modo expreso en un caso y presuntamente en el otro». Sulla base di queste premesse, l'Autore ipotizza che la definizione di Labeone, riportata da Ulpiano in D.50.16.19, «pudiera referirse precisamente al comentario del concepto de ratio argentaria que hace Labeón en D.2,13,6,3». In questo senso anche A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 247, nt. 54.

R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, cit., 284 e ss., dopo aver sottoposto a critica le tesi precedentemente formulate, ritiene che la definizione del giurista augusteo riportata in D.50.16.19, nell'opera di Labeone, dovesse essere collocata nell'ambito del commento all'edictum de pactis conventis.

F. Bona, Intervento, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell'esperienza tardo-repubblicana, in Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, Napoli, 1990, 365 e ss., ha ipotizzato che Labeone, nell'opera ricordata da Ulpiano nel testo in esame, «potrebbe aver “premesso” un elenco di definizioni dei termini più “significativi” ricorrenti nel testo dell'editto del pretore urbano in uso ai suoi tempi, recuperabili dal lettore ogni qual volta se ne dava l'occasione». Nello stesso senso F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, in SDHI 55 (1989), 140; Idem, Synallagma e conventio nel contratto, cit., 126. In parte diversamente A. Burdese, Recenti prospettive in tema di contratti, in Labeo 38 (1992), 205, secondo il quale non si può escludere che Labeone avesse voluto «distinguere l'uno dall'altro significati rigorosi, più ristretti di quelli correnti, dei verba edicti considerati».

 

[56] Come avvertiva B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 191, la bibliografia di questo testo «è sterminata, e di differentissimo valore».

 

[57] In realtà, come vedremo nelle pagine seguenti, la classicità della definizione di gestum riportata nel testo in esame è stata sospettata, anche perché eccessivamente restrittiva rispetto al significato che il verbo gerere assume nelle clausole edittali. Tuttavia, credo sia utile considerare questo testo, perché esso potrebbe aver costituito la base sulla quale Ulpiano ha costruito il proprio commento della parola gestum nell'editto “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”.

 

[58] F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 137, il quale, a conferma della propria affermazione indica D.4.2.9.2 (per la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit”) e D.42.8.3.1-2 (per la clausola edittale “Quae fraudationis causa gesta erunt”). Questo aspetto sarà meglio precisato nelle pagine seguenti.

 

[59] Così P. de Francisci, Synallagma. Storia e dottrina dei cosiddetti contratti innominati, II, Pavia, 1916, 332 e ss.; J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, cit., 9 e ss.; G. Beseler, Miszellen. (Einzelne Stellen), in ZSS 52 (1932), 293 e ss.; P. Voci, La dottrina romana del contratto, Milano, 1946, 55 e ss., ha ritenuto che i compilatori siano intervenuti sulle definizioni di Labeone, con la conseguenza che «per diritto giustinianeo, è da distinguere tra il senso proprio e il senso improprio di actum, contractum, gestum»; M. Kaser, Gaius und die Klassiker, in ZSS 70 (1953), 160, nt. 124, secondo il quale le parole “sive verbis sive re quid agatur” si devono attribuire ad Ulpiano e non a Labeone e, comunque, vi sarebbero diversi sospetti di interpolazioni; B. Biondi, Contratto e stipulatio. Corso di lezioni, Milano, 1953, 207 e ss.; D. Behrens, Miszellen (Begriff und Definition in den Quellen), in ZSS 74 (1957), 358; F. Schulz, Classical Roman Law, cit., 466; G. Grosso, Il sistema romano dei contratti, 3a ed., Torino, 1963, 48, il quale suggerisce delle integrazioni nel testo (sive litteris tra sive verbis e sive re nella definizione di actum e mandatum subito dopo societatem negli esempi di contractum), ma precisa pure di non ritenere giustificata «l'induzione di interpolazioni, in vario senso sospettate» (49, nt. 3); A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo mezzi e fini, Napoli, 1966, 216; F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 124 e ss.; Idem, Synallagma e conventio nel contratto, Corso di diritto romano I, cit., 99 e ss.; 138 e ss.

Tuttavia, è stata anche affermata la sostanziale genuinità del testo in esame. Così: H.P. Benöhr, Das sogenannte Synallagma in den Konsensualkontrakten des klassischen römischen Rechts, Hamburg, 1965, 10 e ss.; B. Albanese, Agere” gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 229 e ss.; R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, cit., 48 e ss.; A. Guarino, Diritto privato romano, cit., 774 e 775, nt. 63.5.1, secondo il quale, anche se è stato sostenuto da molti studiosi e in modo vario, che il testo abbia subito interpolazioni, ritiene ciò poco verosimile, in quanto non si capirebbe quale interesse avrebbe spinto un intervento compilatorio.

In dottrina ci si è anche chiesto se la parte iniziale del testo sia riferibile ad Ulpiano o a Labeone. La maggior parte degli studiosi che si sono occupati di questo testo hanno ritenuto che anche la prima parte di esso (quod quaedam ‘agantur’ quaedam ‘gerantur’ quaedam ‘contrahantur’) sia da attribuire a Labeone. Diversamente, si era espresso S.E. Wunner, Contractus. Sein Wortgebrauch und Willensgehalt im klassischen römischen Recht, Köln, 1964, 33 e ss., secondo il quale Ulpiano avrebbe voluto precisare il significato dei verbi (per questo la prima parte del testo sarebbe da attribuire a lui), mentre il testo di Labeone conteneva il significato dei sostantivi actus, contractus, gestus.

 

[60] Da un punto di vista contenutistico è stato sottolineato come le definizioni attribuite da Ulpiano a Labeone in D.50.16.19 non corrispondano ad altre definizioni dei medesimi verbi contenute nelle fonti (in questo senso si veda J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, cit., 10; P. Voci, La dottrina romana del contratto, cit., 53 e ss.) e in particolare, per quanto riguarda il verbo gerere, è stato osservato come la definizione contenuta nel testo in esame sia piuttosto ristretta rispetto all'uso che di questo verbo si riscontra nelle fonti, specie se si osserva che «Gestum è il termine più generico che ci sia, tanto che è proprio dell'Editto pretorio per indicare qualsiasi attività» (P. Voci, La dottrina romana del contratto, cit., 54). Di opinione analoga era già J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, cit., 10, nt. 21, il quale riteneva che gestum «ist anscheinend ein weiterer Begriff, in dem die Kontrakte mitbegriffen sind. Das ist schon für das ältere Edicktsrecht klar, wo das gerere sowohl auf Grund des Kontrakts wie auf Grund der Tutel vorliegen kann». F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 132 e ss., nonché Idem, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 96, ha osservato che con la definizione di gerere riportata nel testo si attribuisce a tale verbo un significato che contrasta con l'uso che di esso si fa nell'editto e nel linguaggio sia giuridico che comune; ancora Idem, Contratto e atto secondo Labeone: una dottrina da riconsiderare, in Roma e America. Diritto romano comune 7 (1999), 20 e ss.

 

[61] Da un punto di vista formale è stata notata da un lato la mancata corrispondenza tra l'ordine dell'elenco dei verbi che è contenuto nella prima parte del testo e l'ordine di spiegazione degli stessi: infatti, mentre nella parte iniziale l'ordine è agere, gerere, contrahere, nella seconda si definiscono nell'ordine actum, contractum e gestum. Per questa asimmetria si veda J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht , cit., 10; H.P. Benöhr, Das sogenannte Synallagma in den Konsensualkontrakten des klassischen römischen Rechts, cit., 10 e ss.; B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 230; A. Guarino, Diritto privato romano, cit., 774 e 775, nt. 63.5.1. Il Guarino ritiene che l'asimmetria sia da ricondurre ad Ulpiano, mentre l'Albanese afferma che il non rispetto dell'ordine espositivo della prima parte si possa spiegare con il fatto che Labeone avesse anticipato la definizione di contractum, perché in questo modo sarebbe seguita a quella di actum tra i quali vi è un'affinità sostanziale che non c'è tra actum e gestum.

Sempre dal punto di vista formale, poi, è stato osservato che Labeone avrebbe cambiato «nicht nur die Reihenfolge der benhandelten Wörter, sondern auch die Art der jeweilingen Erläuterung ...» (in questi termini H.P. Benöhr, Das sogenannte Synallagma in den Konsensualkontrakten des klassischen römischen Rechts, cit., 10 e 11); B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 231, il quale osserva che «Per actum, infatti, il discorso si incentra francamente sul piano lessicale (verbum generale); per contractum, il discorso si colloca sul piano degli effetti del contrahere (ultro citroque obligatio); per gestum, infine, l'attenzione del giurista è rivolta al piano dell'attività (res...facta)», ma questo dato è stato spiegato dall'Autore stesso con l'ipotesi che «il discorso labeoniano aveva proprio l'ambizione di distinguere rigorosamente i tre termini considerati».

Inoltre, si veda F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 132, nt. 21 e Idem, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 100 e ss., il quale sottolinea che mentre le definizioni di actum e contractum sono aperte rispettivamente da quidem e da autem ciò non vale per il significato di gestum. Ciò, secondo l'Autore, lascerebbe pensare che la definizione di gestum non sia inclusa nella sequenza e che quindi essa sia estranea all'operazione diairetico-definitoria posta in essere da Labeone.

 

[62] In questo senso: J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, cit., 10; P. Voci, La dottrina romana del contratto, cit., 53 e ss.; B. Biondi, Contratto e stipulatio. Corso di lezioni, cit., 207; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 62, il quale afferma «... dass gestum in D.4,2,1 eine so enge Bedeutung wie in der Definition von Labeo gehabt hätte, wird durch die Stellen widerlegt, in denen die i.i.r. auch im Falle der ezwungenen stipulatio oder acceptilatio gewährt wird». F. Gallo, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 128; Idem, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 96. Diversamente, non sembra ritenere sospetta la definizione di gestum contenuta nel testo in esame B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 244, secondo il quale il giurista augusteo «identifica evidentemente nel gestum la connotazione specifica delle “attività di fatto”. È una connotazione che, anche sul piano non giuridico, si rivela nella lingua latina in locuzioni del tipo res gestae, come equivalente di “impresa”; ma che, sul piano tipicamente giuridico, emerge ottimamente nelle locuzioni tecniche: gerere tutelam, rem gerere, gerere negotium, pro herede gerere». Infatti, quest'ultimo Autore ritiene che il contrasto che vi è tra il significato assunto da gerere nel testo in esame e i diversi significati che di questo verbo si trovano nelle fonti, si spieghi con il fatto che il giurista augusteo nel contesto dal quale la definizione è stata tratta avesse precisato che i valori da lui definiti «non erano quelli edittali (e comunque quelli tecnico-giuridici), bensì valori rigorosamente esatti da un teorico punto di vista lessicale. ... In quest'ordine di idee si spiega bene come, pur genuino, D.50,16,19 costituisce oggi una testimonianza urtante e quasi paradossale, che mette -sembra- Labeone in contraddizione con la giurisprudenza in genere, e perfino con se stesso» (226).

A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 248, ha sostenuto, a proposito del significato ristretto che la parola gestum verrebbe ad assumere in D.50.16.19: «Así, pues, Ulpiano empezaría por aclarar que la palabra gestum excluía la aplicacíon de edicto del metus a la rescisión de los contractos, pues para éstos eran ya suficientes las acciones de buena fe nacidas del mismo contractos». Questa interpretazione della parola gestum, però, mi sembra sia contraddetta da tutte quelle fonti che trattano dell'applicazione dell'a.q.m.c. o della i.i.r., ad esempio, per ipotesi di estorta compravendita (ad esempio: D.4.2.14.5; C.4.44.1; C.2.19.3; C.2.19.4).

 

[63] Si consideri, infatti, che Labeone, citato da Ulpiano in D.44.4.4.13 utilizza il verbo gerere per indicare l'attività negoziale viziata da dolo, espressa nella clausola edittale con il verbo facere. In questo senso B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 218 (il quale riporta una rapida rassegna delle testimonianze labeoniane in tema di gerere); F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 118. Interessante, su questo punto, anche l'ipotesi avanzata da M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, cit., 434, nt. 131, secondo il quale si può supporre che «la definizione di Labeone fosse enunciata all'interno di un discorso critico nei confronti degli impieghi consueti e indiscriminati del termine gerere, quindi tra l'altro nei confronti delle formulazioni edittali: è questo un atteggiamento espresso anche in qualche altro luogo dell'opera labeoniana, nella quale mi sembra più volte in primo piano il problema di stabilire le condizioni per un corretto uso degli schemi di qualificazione pretori». In questo modo l'Autore spiega la contraddizione che emerge dalla definizione di gestum in D.50.16.19 e il fatto che anche acta e contracta rientrassero nella previsione delle clausole costruite con il verbo gerere.

 

[64] Oltre alla clausola edittale sul metus, si pensi alla clausola edittale “Quod cum minore quam viginti quinque annis natu gestum esse dicetur, uti quaeque res erit, animadvertam” (D.4.4.1.1) in relazione alla quale Ulpiano precisa: “... gestum sic accipimus qualiterqualiter, sive contractus sit, sive quid aliud contigit” (D.4.4.7pr.); alla clausola dell'editto De curatore bonis dando in relazione alla quale Ulpiano affermava “Quaeque per eum eosve, qui ita creatus creative essent, acta facta gestaque sunt, rata habebuntur ...” (D.42.7.2.1) e Gaio precisava “Licet inter 'gesta' et 'facta' videtur quaedam esse suptilis differentia, attamen katacrhstikîς nihil inter factum et gestum interest” (D.50.16.58pr.); alla clausola edittale “Quae fraudationis causa gesta erunt cum eo, qui fraudem non ignoraverit, de his curatori bonorum vel ei, cui de ea re actionem dare oportebit, intra annum, quo experiundi potestas fuerit, actionem dabo” (D.42.8.1pr.) in relazione alla quale Ulpiano precisa: “... haec verba generalia sunt et continent in se omnem omnino in fraudem factam vel alienationem vel quemcumque contractum. quodcumque igitur fraudis causa factum est, videtur his verbis revocari, qualecumque fuerit: nam late ista verba patent. sive ergo rem alienavit sive acceptilatione vel pacto aliquem liberavit” (D.42.8.1.2) e precisa ancora “vel ei praebuit exceptionem sive se obligavit fraudandorum creditorum caiusa sive numeravit pecuniam vel quodcumque aliud fecit in fraudem creditorum, palam est edictum locum habere. 1. Gesta fraudationis causa accipere debemus non solum ea, quae contrahens gesserit aliquis, verum etiam si forte data opera ad iudicium non adfuit vel litem mori patiatur vel ea debitore non petit, ut tempore liberetur, aut usum fructum vel servitutem amittit. 2. Et qui aliquid fecit, ut desinat habere quod habet, ad hoc edictum pertinet” (D.42.8.3pr.-1-2). In relazione al significato di gerere in quest'ultima clausola edittale si veda anche Paolo: “In fraudem facere videri etiam eum, qui non facit quod debet facere, intellegendum est, id est si non utatur servitutibus” (D.42.8.4). Relativamente al significato ampio, attribuito da Ulpiano al verbo gerere presente nella clausola edittale sulla restitutio minorum, è interessante anche D.4.4.7.4 (Sed et in iudiciis subvenitur, sive dum agit sive dum convenitur captus sit), dal quale -come osserva M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, cit., 433, nt. 131- emerge che il verbo gerere è riferito anche a comportamenti processuali.

Inoltre è interessante notare (in questo senso già F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 118) che in D.44.4.4.13 Ulpiano riporta un'opinione di Labeone, nella quale il giurista augusteo, utilizza il verbo gerere per descrivere l'attività negoziale viziata da dolo, attività che nella clausola edittale De dolo è indicata con il verbo facere. Secondo l'Autore l'uso di gerere al posto di facere non sarebbe stato causale, ma piuttosto avrebbe costituito la prova che il giurista augusteo si sarebbe avvalso «del verbo gerere, e non di facere o agere, per rappresentare l'attività da lui ripartita nell'agere o nel contrahere». Sulle ricorrenze del verbo gerere nelle clausole edittali si veda anche P. Voci, La dottrina romana del contratto, cit., 15, in particolare nt. 1.

Relativamente al significato del verbo gerere nella clausola edittale riportata in D.4.2.1 e al confronto con il significato del verbo facere, invece presente nella clausola edittale in materia di dolo, si veda: Bartoli a Saxoferrato, Commentaria ad D.4.3.15.3, De dolo malo l. Sed et, § In hac actione, Venetiis, 1575, I, f. 130 r., il quale pone a confronto il gerere della clausola edittale sul metus con il facere contenuto in quella sul dolus e, come osserva S. Martens, Durch Dritte verursachte Willensmängel, cit., 100, propone: «daβ “gestum” (beim metus-Edikt) weit und “factum” (beim dolus-Edikt) eng zu verstehen sein könnte, fand die Lösung letzlich aber darin, daβ das dolus-Edikt weitere Teile enthalten haben müβte, die nicht überliefert worden waren und aus denen sich die in personam Formulierung der Rechtsbehelfe eindeutig ergeben hätte». La ricorrenza dei due diversi verbi, rispettivamente nella clausola edittale sul metus e sul dolus, è stata interpretata diversamente da H. Donelli Opera omnia. Commentarium de iure civili, IV, Maceratae, 1830, De iure civili lib. XV, cap. XLI, col. 394.V, che nel commento alla clausola edittale de dolo precisa: «Non exigit praetor gestum, ut edicto de eo quod metus caussa, L.1 D. quod met. sed sat habet si quid factum sit verbo generaliore. Non sane quod non omnia quae per metum ablata sunt, aeque restitui debeant, atque ea quae sunt ablata dolo malo: cum in dolo insit delictum, in vi et metu etiam facinus. L. item. § quid si homo, D. quod met. cau. Et quidem tale, quod comprobare putetur contra bonos mores, ut supra dixi. L. nihil consensui, D. de reg. jur. sed quia metu illato nihil extorquetur alii, nisi quod ab eo volente quanvis prius coacto accipitur; ac proinde ita, ut cum eo negotium gestum sit. At dolo malo possunt pleraque alii detrahi etiam eo ignorante, et invito, proinde sine gestu, quae nihilominus aequum sit restitui, quaeque etiam praetor velit pertinere ad restitutionem hujus edicti. Quae quia non poterant verbo gesti comprehendi, ideo dolo facta generaliter dici oportuit, ut esset verbum, quo omnia contineretur, quae dolo malo cum alio gesta sunt, et a decepto expressa, non secus quam edicto de metu ea, quae per vim et metum alicui extorta sunt: puta si quis deceptus alienarit quid de suo, aut debitorem liberarit, aut susceperit in se aliquam obligationem: sed non minus contineri etiam ea, quae cum alio gesta non sunt ex consensu, sed quovis modo facta, quae alteri rem aliquam suam, aut jus suum auferunt. Veluti, si animal a dominus promissum alius occiderit; quo facto creditori actio sua et ignoranti et invito amittitur. [...]». Su questo, si veda: M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., 66 e ss., secondo il quale Donellus, «sottolineando il fatto che può esservi dolo anche dove non vi sia incontro di volontà, mostra di designare con il termine gerere proprio l'ambito dei comportamenti negoziali»; M.F. Cursi, L'eredità dell'actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., 169-170, secondo la quale dalla distinzione di Donellus si ricava che: «La maggiore ampiezza del facere rispetto al gerere, confinato invece in ambito negoziale, consente di ricomprendere condotte che integrano anche ipotesi di maleficia».

Accostando alla distinzione di Donellus tra il verbo gerere e il verbo facere rispettivamente relativi alla clausola edittale sul metus e sul dolus, il commento alla prima parte della clausola edittale Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo, (H. Donelli Opera omnia. Commentarium de iure civili, IV, Maceratae, 1830, De iure civili lib. XV, cap. XXXIX, col. 358.IV: «Ergo in haec caussa duo spectanda, quibus in summa illa continetur; gestum et gerendi modus. Gestum hoc edicto coercetur. Gestum alias proprie significat rem sine verbis factam, ut traditur in L. Labeo libro, D. de verb. signific. Hoc edicto generaliter quidquid geritur cum alio ex consensu. Cujus tres sunt species, alienatio, liberatio, promissio. Id est si quis quid tradendo de suo in alium transfert, si debitorem, si quo modo se alteri obligat. Notae hae species in L. metum, 9. §. sed quod praetor, D. quod met. caus. Ubi et ad hujus edicti restitutionem pertinere omnes dicuntur, si quis quid earum rerum coactus fecerit. Ex quo intellegimus gesti verbo in hoc edicto haec omnia contineri») sembrerebbe cogliersi la limitazione del significato del verbo gerere all'attività negoziale, in particolare nelle tres species dell'alienatio, della liberatio e della promissio.

Non credo che il significato, limitato alle attività negoziali, del verbo gerere che propone l'umanista francese, possa essere accolto con riferimento a Labeone o ad Ulpiano.

Si veda, inoltre, B. Brissonii De verborum quae ad ius civile pertinent significatione, Lipsiae, 1721, voce gerere, 388 e ss., secondo il quale: «Gerere, facere significat. Inter Gestum tamen & Factum, subtilis differentia statuitur, l. 19 in fi. ff. de verbor. significat. (= D.50,16,19) l. 2 ff. de curat. bon. dand. (= D. 42,7,2) qua neglecta, Gestum & Factum, pro eodem ponimus, l. 58 ff. de verb.signif. (= D.50,16,58). Et ita latissime accipitur in l. 2 § Gestum. ff. ad municipal. (= D. 50,1,2,1 e ss.) In Edicto autem de Minorib. Quo cum minore quam 25. Annorum Gestum erit, Ulpian. Sic interpretatur, ut Gestum accipitur qualiter qualiter, sive contractus sit, sive quid aliud contigit. Proinde, sive emit, sive vendidit, sive societatem coiit, sive soluta ei pecunia, et eam perdidit, inde ei succurretur, l. 7. ff. de minorib. (= D.4,3,7pr.-1) […]. Sed & hac parte Edicti, Quae Fraudationis causa Gesta erunt [...] Gestaque accipimus non solum ea, quae contrahens gesserit, verum etiam si forte, data opera, a judicium non adfuit, vel litem mori passus est, vel a debitore, ut tempore liberaretur, non petiit vel usumfructum aut servitutem amisit: et omnimo qui aliquid fecit, ut desinat habere quo habet, ad Edictum pertinet, l.3. ff. quae in fraud. Cred. (= D.42,8,3,2) [...]». Dall'analisi del verbo gerere proposta dallo studioso, emerge come esso nelle fonti venisse utilizzato con diverse accezioni, non necessariamente negoziali.

 

[65] Così B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 226 e 242. Mi sembra che anche R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, cit., 39 e ss., sia orientato a non considerare le definizioni di agere e gerere come termini edittali.

A questo proposito si veda anche M. Talamanca, Intervento, in Contractus e pactum. Tipicità e libertà negoziale nell'esperienza tardo-repubblicana, in Atti del convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della littera Florentina, Copanello 1-4 giugno 1988, Napoli, 1990, 368, che afferma «Io sono convinto che la triade labeoniana e, soprattutto, la caratterizzazione che se ne dà del contratto sia “situationsgebunden”, il che avviene puntualmente anche per il contractus gaiano».

 

[66] F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 142 e ss., secondo il quale «Ulpiano, nel determinare il significato di quod gestum erit nella clausola relativa al metus, aveva richiamato la diairesi-definizione labeoniana in merito al verbo gerere, sottoponendola quindi a critica». Pertanto secondo Gallo il verbo gerere costituirebbe il definiendum dell'operazione diairetico-definitoria di Labeone. L'Autore ricostruisce nel modo seguente il testo in esame: “Labeo libro primo praetoris urbani gerere (oppure gestum) definit, quod 'agantur' quaedam 'contrahantur': et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci sunall£gma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem”. Idem, Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, cit., 143 e ss.; Idem, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 138 e ss., ritiene che l'intervento dei compilatori sul testo in esame avrebbe trovato la propria spiegazione nel fatto che essi avrebbero voluto eliminare lo ius controversum (e quindi la diversa opinione di Ulpiano) e nel fatto che la definizione labeoniana contrastava con il significato di gerere prevalso nell'età classica e comunque accolto dai compilatori. La definizione di gestus come res sine verbis facta, invece, sarebbe stata utile per enucleare un secondo e diverso significato di gerere, più ristretto, ma adatto ad integrare i significati di actus e contractus nella definizione labeoniana. Il testo, così modificato, però avrebbe trovato la giusta collocazione non nel commento del termine edittale gestum, ma piuttosto nel titolo De verborum significatione. In parte diversa la ricostruzione del testo di Ulpiano che l'Autore propone in Contratto e atto secondo Labeone: una dottrina da riconsiderare, cit., 21, perché in quest'ultima stesura il riferimento a gerere sarebbe implicito.

Già J. Partsch, Das Dogma des Synallagma im römischen und byzantinischen Recht, cit., 10, nt. 21, aveva rilevato come gestum per i classici non potesse essere un concetto (Begriff) tale da poter stare accanto agli acta e al contractum, ma fosse più ampio e tale da ricomprendere anche i contratti.

 

[67] Questa tesi di Gallo (cfr. supra, nt. 66), dal punto di vista della logica definitoria, sembra essere persuasiva. Inoltre essa spiegherebbe anche il richiamo di Ulpiano, in questo preciso punto, del brano di Labeone. Se nel testo originale del giurista augusteo, infatti, il verbo gerere avesse avuto il ruolo di definiendum a maggior ragione sarebbe stato utilizzato da Ulpiano nel commento della clausola edittale in tema di metus. Tuttavia, non ritengo che la definizione di gestum contenuta in D.50.16.19 (i.f.) sia da attribuire ai compilatori, piuttosto mi sembra che con questa si voglia far risaltare il significato più ampio di gerere, il quale, oltre a comprendere actum e contractum, include anche attività in questi non comprese. A. Burdese, Rec. a F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di diritto romano. I, Giappichelli ed., Torino 1992, pp. IV-262, in SDHI 59 (1993), 358, propone un'interpretazione del testo in esame per la quale non sarebbe necessaria l'indicazione da parte di Labeone del verbo gerere come definiendum unitario e precisa: «pur permanendo i dubbi formali che potrebbero far pensare ad una aggiunta dell'elemento del gerere alla originaria definitio labeoniana: sostanzialmente tuttavia già sarebbe potuta risalire a Labeone la individuazione di una nozione più ristretta di gerere o gestum o gestus, comprensiva di atti materiali (e di contegni omissivi), rientranti anch'essi nel gerere edittale. In D.4,2,9pr. infatti, a proposito dell'editto quod metus causa gestum erit, Labeone, richiamato da Pomponio, negava che esso si applicasse al caso in cui taluno avesse abbandonato il fondo solo sul sentito dire … con riferimento quindi a un comportamento materiale (l'abbandono del fondo, cui sarebbe applicabile l'editto relativo a gestum, almeno nell'ultima ipotesi contemplata nel testo), non dissimile dalla depositio aedifici di cui al successivo D.4,2,9,2, ove pure è menzionato Pomponio, da parte di Ulpiano».

M. Talamanca, Lo schema 'genus-species' nelle sistematiche dei giuristi romani, in Accademia Nazionale dei Lincei, 374/1977, Quaderno n. 221, Atti del colloquio italo-francese: La filosofia greca e il diritto romano [Roma, 14-17 aprile 1973], Roma, 1977, 253, nt. 711, riteneva che si dovesse escludere la possibilità di vedere nell'agere, inteso come verbum generale, un'espressione tale da potersi estendere al contrahere e al gerere, così che si sarebbe avuta «una tricotomia, ricondotta ad un genus mentre una species della tricotomia sarebbe omonima al genus stesso». Piuttosto, secondo Talamanca, è possibile riconoscere nell'agere, dal punto di vista diairetico, un genus, al di sotto del quale si sarebbero potute trovare le species, cioè l'agere re o verbis ed eventualmente litteris; diversamente, continua l'Autore, contrahere e gerere potrebbero aver costituito, dal punto di vista di Labeone, delle categorie unitarie.

 

[68] Si veda, ad esempio, B. Albanese, Agere” gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 226.

 

[69] Come era stato sostenuto da F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 115 e ss.

 

[70] Si veda la Glossa a “Facta”, nella quale si dice che tra facta e gesta non vi è una grande differenza e si rinvia a D.50.16.58 e a D.4.4.7. E. Betti, Sul valore dogmatico della categoria “contrahere in giuristi proculiani e sabiniani, in BIDR 28 (1915), 13, il quale dopo aver ricordato il significato di actum in Labeone, precisa che per il giurista augusteo gestum significa ogni negozio che non ha bisogno di essere espresso per “verba”, «in cui cioè la volontà può esprimersi anche per atti concludenti, a prescindere da dichiarazioni formali. ... Che del resto il “gestum” de' due edicta accennati [i.e. l'editto sul metus e quello sui minori di venticinque anni] comprendesse anche gli “acta (p. es. la mancipatio) e i “contracta” non avrà Lab. stesso disconosciuto nelle sue decisioni pratiche».

A. Burdese, Recenti prospettive in tema di contratti, cit., 205, ritiene che gestum già nel pensiero di Labeone avrebbe indicato «un comportamento di mero fatto, non dichiarativo di un regolamento di interessi, come la depositio edificii di D.4,2,9,2 o i comportamenti omissivi di cui in D.42,8,3,1. Potrebbe essersi trattato di definitiones relative a nozioni rientranti in un factum indeterminato (ma pur sempre riferito ad attività umana, secondo l'impiego del termine in talune clausole edittali) piuttostoché di partes di un totum necessariamente esauriente in esse».

Pur ammettendo la riconducibilità a Labeone-Ulpiano della definitio di gestum, non credo sia da accogliere il rilievo del d'Ors (A. d'Ors, Creditum und contractus, in ZSS 74 (1957), 93 e ss., in particolare nt. 52), secondo il quale la definizione in esame sarebbe particolarmente adatta per la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit”, perché secondo la definizione riportata in D.50.16.19 la stipulatio non sarebbe ricompresa nel gestum come sarebbe confermato dal fatto che per una estorta stipulatio non si sarebbe potuta concedere una i.i.r. propter metum, come risulterebbe anche da D.4.2.9.3. Non credo, infatti, che con res sine verbis facta si volesse escludere la stipulatio dall'ambito del gestum, ma piuttosto si volesse estendere l'applicazione della clausola edittale anche alle fattispecie sine verbis facta.

 

[71] A. Burdese, Rec. a F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, cit., 359, osserva: «Così non si può escludere che Labeone in D.50,16,19 abbia potuto contemporaneamente individuare l'actum sive re sive verbis da un lato, e dall'altro il gestum come res sine verbis facta, senza che il secondo, riferito a meri comportamenti materiali (od omissivi), si intendesse ricompreso nel primo: altro sarebbe invero l'agere re, altro la res facta, nel suo pensiero». Diversamente, F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 102, secondo il quale, nella versione del testo in esame che ci è pervenuta, mancherebbe la disomogeneità di gestus rispetto ad actus. Più in particolare, l'Autore ritiene: «Anzi la res sine verbis facta è ricompresa nell'agere sive verbis sive re, come emerge dalla duplice circostanza che, come agere, anche il verbo facere, è circoscritto, nel contesto, all'area del comportamento umano e che sine verbis evoca in chiave negativa gli stessi comportamenti indicati in chiave positiva da sive re».

 

[72] Si consideri che, all'inverso, in D.44.4.4.13 Labeone utilizza il termine gestum per descrivere l'attività viziata da dolo che però nella clausola edittale Quae dolo malo facta esse dicentur, si de his rebus alia actio ...” (D.4.3.1.1) è descritta con il verbo facere.

 

[73] Questo mi sembra il significato da attribuire al testo, anche se in esso, più letteralmente, si legge che la manomissione di un servo o la demolizione di un edificio siano da estendere alla restitutio. Dubbi sulla genuinità dell'espressione “ad restitutionem huius edicti porrigendam esse” sono stati già espressi da F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 188 e, più in particolare, da C. Longo, Note critiche in tema di violenza morale, in BIDR 42 (1932), 96 e ss., nt. 3, secondo il quale la locuzione in esame sarebbe logicamente scorretta, perché si sarebbe dovuto dire che la restitutio era da estendere alle due ipotesi e non viceversa. Nello stesso senso A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 245 e ss., secondo il quale è quindi possibile che i compilatori avessero riassunto in modo deformato una citazione di Pomponio che Ulpiano aveva effettivamente riportato nella parte in cui commentava i casi nei quali si sarebbe applicata l'azione penale.

 

[74] Sull'ipotesi di una seconda clausola edittale formulata con il verbo facere e relativa all'a.q.m.c., si veda supra nt. 41. In dottrina è stato sostenuto che la fattispecie della demolizione di un edificio e dunque l'espressione “vel adificii depositionem” debba essere ricondotta ai compilatori giustinianei. In questo senso G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, I, Tübingen, 1910, 72, secondo il quale «Die depositio aedificii ist weder ein ziviles noch überhaupt ein Rechtsgeschäft und folglich der prätorischen Nichtratihabierung unfähig»; F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 188 e ss. e 234 e ss., secondo il quale all'ipotesi della demolizione di un edificio non si sarebbe potuta applicare la i.i.r. e pertanto non sarebbe potuta rientrare nel commento al termine edittale gestum (presente nella clausola edittale che avrebbe promesso la i.i.r.) e piuttosto sarebbe stata collocata nell'attuale testo dai compilatori nel tentativo di fondere l'i.i.r. e l'a.q.m.c. Critici rispetto alla genuinità del richiamo a questa fattispecie, anche: U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 32; 116 e 216; C. Longo, Note critiche in tema di violenza morale, cit., 96 e ss.; G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 109, nt. 5; C. Sanfilippo, Il metus nei negozi giuridici, cit., 81 e ss. Meno chiara mi sembra la posizione di A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 61 e ss. e 136 e ss., il quale da un lato sostiene che le parole vel aedificii depositionem possano essere interpolate per i motivi spiegati dallo Schulz, però poi aggiunge che relativamente a questo testo non si deve seguire la posizione dello Schulz e che il richiamo alla aedificii depositio si possa spiegare con il fatto che Ulpiano avesse messo a confronto gerere e facere e come esempio di quest'ultimo verbo avesse riportato la fattispecie della aedificii depositio. Infine, poi, l'Autore a 136 ritiene possibile (anche se ipotizza diverse soluzioni) che l'ipotesi “vel aedificii depositionem sia stata introdotta dai giustinianei e che ciò si lasci spiegare con il fatto che questi abbiano eliminato l'i.i.r. e abbiano esteso l'intero titolo all'a.q.m.c.

Non credono che sia da accogliere l'ipotesi interpolazionistica delle parole “vel aedificii depositionem”: H. Kreller, Rec. a Georg H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 577, nt. 3, il quale ipotizza un confronto di Ulpiano tra i verbi gerere e facere; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 152 e ss., il quale mette in evidenza come nell'ipotesi nell'estorta manomissione e in quella della demolizione dell'edificio fosse possibile ravvisare una perdita per la vittima della violenza e un vantaggio per l'altra parte. Infatti, da un lato il manumissus avrebbe acquistato la libertà e la persona che aveva estorto la demolizione dell'edificio, con il venir meno di quest'ultimo, avrebbe raggiunto il suo scopo materiale o immateriale; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 111, nt. 33.

I tentativi di ritenere interpolate le parole “vel aedificii depositionem” non mi sembrano convincenti, perché essi partono dal presupposto dell'esistenza di una seconda clausola edittale, non pervenutaci, e non si accorgono, invece, dell'affinità che vi è tra la definizione labeoniana del termine gestum e la fattispecie della demolizione di un edificio. L'affinità era stata colta da Ulpiano, ma i compilatori giustinianei, per le esigenze della compilazione, separano D.50.16.19 da D.4.2.9.2.

Si sono pronunciati per la genuinità del testo in esame anche B. Albanese, Agere” gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 197 e 198, il quale riferisce sicuramente il testo contenuto in D.4.2.9.2 al “gestum” della clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” e afferma: «È evidente che Ulpiano espone qui l'opinione di Pomponio relativa alla possibilità di considerare gestum, ai fini dell'editto in questione -e cioè, di considerare attività suscettibile di restitutio, se determinata dall'altrui minaccia-, tanto la manomissione di un servo, quanto la demolizione di una costruzione. (197) ... è interessante notare che in D.50,16,19 la nozione di gestum fornita da Labeone è tale da attagliarsi a meraviglia proprio alla aedificii depositio: res sine verbis facta; cioè, pura e semplice attività di fatto. Naturalissimo è allora pensare che Ulpiano, proprio per confortare il giudizio favorevole di Pomponio rispetto all'opinione dei quidam di cui è parola in D.4,2,9,2 (quosdam bene putare), possa aver citato quella definitio labeoniana nella quale, per l'appunto, il gestum è inteso in maniera adattissima ad un riferimento alla fattispecie discussa»; F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, Corso di diritto romano I, cit., 132, il quale, riconoscendo il carattere “bifronte” del caso della depositio aedificii («Non è dubbio che essa individua un comportamento umano volontario a cui è ricollegata la produzione di effetti giuridici; non si tratta tuttavia di un'operazione di per se stessa giuridica, come lo è invece, ad esempio, la compravendita. La quale configura un istituto giuridico, mentre non è considerata tale la demolizione di un edificio»), lo giustifica con il fatto che il gerere nelle clausole edittali con il senso di facere riferito all'uomo è comprensivo come tale del contrahere e di ogni altro comportamento produttivo di conseguenze giuridiche.

 

[75] Così, F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235; G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 109, nt. 5; C. Longo, Note critiche in tema di violenza morale, cit., 98, secondo il quale i compilatori avrebbero aggiunto l'ipotesi della demolizione di un edificio, perché «in entrambe le fattispecie si riscontrava la medesima situazione giuridica», che secondo l'Autore sarebbe stata la perdita definitiva della proprietà; M.G. Zoz, 'Restitutio in integrum' e manomissioni coatte, in SDHI 39 (1973), 119; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 137, nt. 47.

 

[76] In questa sede non è possibile approfondire la questione, inerente anche la politica legislativa, della concessione di una i.i.r. rispetto ad una manomissione, controversa nel diritto romano (oltre a D.4.2.9.2 si veda, ad esempio, D.4.3.7pr.; D.4.4.9.6; D.4.4.11.1; D.4.4.48.1=P.S.1.9.5a; D.40.4.29; C.7.11.3) e interpretata in modo diverso nei moderni studi romanistici: F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 185 e ss. e 234 e ss.; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 32; 116 e 216; C. Longo, Note critiche in tema di violenza morale, cit., 96 e ss.; C. Sanfilippo, Il metus nei negozi giuridici, cit., 81 e ss.; C. Ferrini, Manuale di Pandette, cit., 165, nt. 1; B. Albanese, La sussidiarietà dell'actio de dolo, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 28 (1961), 190 e ss. e nt. 24, secondo il quale «la non concedibilità di una restitutio in integrum adversus libertatem è un punto del tutto pacifico nel diritto dell'età classica» (come sarebbe provato da D.4.3.7pr.; D.4.4.9.6; D.4.4.48.1=P.S.1.9.5a; C.2.30.1; C.2.30.2; C.2.30.3; C.2.30.4); A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 61 e 136 e ss.; M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, I, cit., 20 e ss.; M.G. Zoz, 'Restitutio in integrum' e manomissioni coatte, cit., 115 e ss.; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 245 e ss.; E. Stolfi, Studi sui «Libri Ad Edictum» di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, Napoli, 2002, 359 e ss.; M.F. Cursi, L'eredità dell'actio de dolo e il problema del danno meramente patrimoniale, cit., 71 e ss.

 

[77] B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 200, nt. 14, ha ipotizzato che la divergenza di opinioni tra i giuristi da un lato si sarebbe potuta fondare sul contrasto tra un'interpretazione ristretta di gestum limitata alle attività negoziali tra il coactus e l'autore della coazione ingiusta e una, invece, più estesa; oppure, come l'Autore ritiene più verosimile, «sulla ripugnanza che un giureconsulto romano doveva probabilmente -come si vedrà più avanti- provare davanti all'ipotesi di una eventuale ricomprensione della manumissio tra i gesta, che sembrano esser propriamente atti di amministrazione di fatto». F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto. Corso di diritto romano I, cit., 132, nt. 148, aveva osservato come l'ipotesi della manomissione del servo presentasse minori difficoltà ad essere annoverata nel gestum, in quanto, a differenza della demolizione di un edificio, «è essa stessa un'operazione di natura giuridica».

 

[78] In questo senso recentemente E. Stolfi, Studi sui «Libri Ad Edictum» di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, cit., 361, secondo il quale: «Neppure però possiamo escludere che Ulpiano – passato a commentare il termine edittale gestum, e non più metus (causa) – in esso ricomprendesse, sulla scia di Pomponio, la semplice attività materiale, e anch'essa valutasse suscettibile di restitutio».

 

[79] In questo senso anche B. Albanese, Agere gerere e contrahere” in D.50,16,19, cit., 200, secondo il quale era possibile che altri giuristi avessero negato un'interpretazione ampia del gestum edittale, tale da ricomprendere anche la demolizione di un edificio.

 

[80] Grazie alla clausola restitutoria presente nella formula dell'a.q.m.c., infatti, sarebbe stato possibile, per la vittima di violenza, ottenere la restitutio del suo immobile.

Non mi sembra probabile, infatti, che l'accostamento delle due ipotesi fosse stato compiuto dai compilatori giustinianei, i quali, per entrambe, avrebbero ritenuto applicabile l'.a.q.m.c. In questo senso, C. Longo, Note critiche in tema di violenza morale, cit., 98; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 136 e ss. Il Longo ritiene che per il caso della demolizione l'a.q.m.c. non sia concepibile se non come azione di indennizzo, perché l'edificio non sarebbe più restituibile in natura; pertanto i compilatori, che non avrebbero ammesso la i.i.r. per le ipotesi della manomissione di un servo, avrebbero esteso, anche a quest'ultimo caso, l'a.q.m.c. come azione di indennizzo. La tesi del Longo, però, non tiene conto del fatto che già i giuristi classici avrebbero potuto ritenere applicabile l'a.q.m.c. alle ipotesi della estorta manomissione.

B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 129 e 152 e ss., ritiene possibile che per entrambe le ipotesi si applicasse una restituzione giudiziale: l'a.q.m.c.; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 245 e ss., ritiene, d'accordo con il Kupisch, che il testo riguardasse ipotesi di applicazione dell'a.q.m.c., però non è d'accordo con lo studioso tedesco relativamente all'esistenza di un'unica clausola edittale e all'identità tra a.q.m.c. e i.i.r. Piuttosto il d'Ors attribuisce l'attuale collocazione del testo ai compilatori giustinianei.

 

[81] Si vedano Albanese e Gallo, relativamente alla posizione dei quali, si veda supra, nt. 74.

 

[82] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., coll. 461-462.

 

[83] Mi sembra che sia della stessa opinione F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, Corso di diritto romano I, cit., 105, secondo il quale D.50.16.19 probabilmente apriva l'esame dedicato da Ulpiano all'espressione “gestum erit”, mentre D.4.2.9.2 contiene una precisazione di tipo casistico.

 

[84] Per questa ipotesi discussa in D.4.2.9pr. si veda anche A. Burdese, Rec. a F. Gallo, Synallagma e conventio nel contratto, cit., 358.

 

[85] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 461; A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 287.

Anche l'ipotesi discussa nella parte iniziale del principium non rientra, verosimilmente, in un'attività negoziale, in quanto si tratta dell'abbandono un dì di un fondo, determinato dalla paura che qualcuno starebbe arrivando con le armi. Certamente si può supporre (come era stato sostenuto da G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 109, anche nt. 4 e da A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 61. Cfr. infra, nt. 90) che Ulpiano avesse commentato una sola volta le parole metus causa, relativamente ad entrambe le clausole edittali, e per questo motivo troviamo le ipotesi relative alla clausola edittale che avrebbe introdotto l'azione nell'ambito del commento alla clausola “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”. Tuttavia, questa ipotesi non mi sembra convincente.

 

[86] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., coll. 505 e 506.

 

[87] Con questa espressione Labeone vuole precisare come la valutazione se il timore sia fondato o meno debba essere effettuata sulla base di indizi obiettivi, come risulta pure dall’esame congiunto del nostro par. con D.19.2.13.7. In questo senso si veda R. Cardilli, L’obbligazione di “praestare e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. a.C.-II sec. d.C.), Milano, 1995, 353.

 

[88] Quanto alla genuinità del passo, la critica del testo ha segnalato diverse imperfezioni: F. Eisele, Beiträge zur Erkenntiss der Digesteninterpolationem, in ZSS 13 (1892), 133, ha ritenuto tribonianea l’espressione id-aliquo, in quanto Ulpiano non avrebbe utilizzato le parole timor illatus per chiarire l’espressione metus illatus; G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, I, cit., 55, invece, ha considerato come interpolato il verbo audito (lo ha considerato come una glossa). Ancora P.E. Huschke, Weitere Beiträge zur Pandektenkritik aus Ed. Huschekes Nachlass, in ZSS 9 (1888), 353, ha considerato che Ulpiano al posto di tunc discessi: huic enim edicto avesse scritto discessi: tunc enim huic <me> edicto. Il Krüger (si veda la nt. 14 della Mo.-Kr.), per la medesima espressione, ha proposto discessi: tunc enim vim huic. U. von Lübtow, Der Ediktstitel Quod metus causa gestum erit, cit., 130 e ss., ha ipotizzato che il testo nell'opera ulpianea fosse dedicato al commento dell'a.q.m.c. e spostato dai compilatori nella posizione che ora occupa nel Digesto (in questo senso anche F. Schulz, Die Lehre vom erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235). Il von Lübtow ha poi scorto un segnale dell'intervento postclassico nel fatto che Pomponio si chiedeva se si applicasse il rimedio a tutela del metus senza menzionare l'interdictum unde vi e riportando Labeone precisa che secondo quest'ultimo non si applicava né la tutela prevista per il metus, né l'interdictum unde vi. Ulteriori indizi sarebbero il verbo tractare; la costruzione del verbo audire con il quod; la frase che inizia con il quoniam, con la quale si sarebbe passati al discorso diretto. Inoltre il von Lübtow ha ritenuto che nel testo originale ci fosse cum armatis al posto di cum armis e ha rilevato come a deici manchi il soggetto. Malgrado tutti questi rilievi, l'Autore tedesco ha affermato: «Immerhin dürfte an der Echtheit des Falles und seiner Entscheidung festzuhalten sein». La paura di un male imminente (suspicio metus inferendi) secondo Ulpiano-Pomponio non avrebbe dato luogo ad alcun tipo di tutela. Però il von Lübtow sostiene che la frase “id est si illatus est timor ab aliquo” sia una glossa postclassica o giustinianea. Questa critica formale appare eccessiva, inoltre mi sembra che non sia motivata da alcun cambiamento sostanziale. M. Balzarini, Ricerche in tema di danno violento e rapina nel diritto romano, cit., 121 e ss., accoglie il suggerimento del von Lübtow di leggere cum armatis al posto di cum armis e ritiene eccessiva l'ulteriore critica del testo (si veda 120, nt. 95 e 121, nt. 98). B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 129 e ss., considera il testo sostanzialmente genuino e ritiene che potrebbe provare che la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo si estendesse anche all'ipotesi di una restituzione giudiziale. A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 241, dopo aver ricordato che secondo la ricostruzione palingenetica del Lenel (O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 461) questo testo è seguito da D.43.16.15, ritiene che Ulpiano avesse voluto distinguere, nel caso di abbandono di un fondo, la concorrenza tra l'editto sul metus e l'interdetto unde vi, specificando che se il fondo fosse stato abbandonato prima dell'ingresso degli armati nel fondo, si sarebbe applicato né l'editto sul metus, né l'interdetto unde vi; mentre, se fosse stato abbandonato «por la coacción del invasor, no procede el interdicto (pues tampoco hay propia deiectio), pero sí procede el edicto rescisorio, pues hubo enajenación metus causa» (243). Il d'Ors ritiene che in D.43.16.15 al posto di possessionem tradidero ci fosse mancipavero e per questo si sarebbe applicato l'editto rescissorio e non l'interdetto unde vi, proprio perché non si sarebbe configurata una deiectio. Non credo che un simile cambiamento del testo debba essere accolto, perché dal contesto che fa da sfondo al possessionem tradere (l'ingresso degli armati nel fondo), sembra più probabile che si sia abbandonato-consegnato il fondo in modo non formale, piuttosto che sia stata posta in essere una mancipatio. Inoltre, conseguentemente a questa precisazione, credo che il rimedio a tutela della vittima di metus relativamente al quale il giurista si stava interrogando era l'a.q.m.c. e non la i.i.r.

 

[89] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 506, non sembra ricondurre questa affermazione a Labeone, ma piuttosto a Pomponio, si veda Idem, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 20.

 

[90] F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235, ha ritenuto che Ulpiano avesse scritto questo commento in un altro contesto: «Die klassische i.i.r. kann aber in solchen Fällen nicht in Frage kommen, und so hat man denn auch im gemeinen Recht die Stelle auf die actio metus causa bezogen. Für uns ist aber damit erwiesen, daß Ulpian die Stelle nicht im überlieferten Zusammenhang geschrieben haben kann, daß sie vielmehr ein Stück aus seinem Kommentar zum zweiten Edikt (über die Klage) ist, das die Kompilatoren verstellt haben: 'metus causa factum' und 'metus causa gestum' sollten eben in ihren Digesten immer nebeneinander behandelt werden». Nello stesso senso U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 131 e ss. Diversamente G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 109, anche nt. 4, secondo il quale il principium della lex 9 apparterrebbe alla «Erörterung des Grundbegriffs metus», che Ulpiano avrebbe riportato nell'ambito del commento della prima clausola edittale e non avrebbe ripetuto per la seconda clausola edittale; ugualmente, A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 61: «Wie in § 3 dargelegt, behandelt diese Stelle das Erfordernis, dass der metus praesens sein muss, und zwar illatus, d.h. erregt durch eine Drohung von einem anderen. Dieses Erfordernis wird anschliessend (denique tractat) anhand der im Text gegebenen Beispiele illustriert […]. Auch der am Schluss genannte Fall einer erzwungenen Besitzübertragung gehört in diesen Zusammenhang. […]. Freilich war auf die im Text genannten Beispiele nur die actio q.m.c. und nicht die i.i.r. anwendbar, und Ulpian (bzw. Pomponius) wird nicht versäumt haben, darauf hinzuweisen. Die Behandlung an dieser Stelle bot Ulpian jedoch den Vorteil, seinen Kommentar zum Begriff metus abrunden zu können, so dass er in seinem Kommentar zum besonderen Edikt darauf nicht zurückzukommen brauchte». A. d’Ors, El comentario de Ulpiano a los edictos del «metus», cit., 241 e ss., invece, sulle orme di Schulz e von Lübtow, non ritiene possibile che Ulpiano si stesse riferendo all'a.q.m.c.; le sue considerazioni, infatti, sarebbe contenute in un contesto relativo all'«edicto rescisorio». Per questo egli considera compilatoria la frase “et hoc edictum locum habere, scilicet quoniam metu patitor id te facere”.

 

[91] In questo senso S. Schlossmann, Zur Lehre vom Zwange. Eine civilistische Abhandlung, cit., 77, anche nt. 104; F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 235; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 60 e 61; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 129.

 

[92] D.4.2.21.1 e ss.

 

[93] D.4.2.1 e D.4.2.9.3 e ss.

 

[94] Per questa tesi, relativamente al commento di Ulpiano all'editto sul metus, si veda supra, § II.1.

 

[95] Si veda supra, § II.2.A. Ai testi già visti, si possono aggiungere anche D.4.2.9.6 e D.4.2.9.3.

 

[96] R.J. Pothier, Pandectae Justinianeae, in novum ordinem Digestae, cum legibus codicis, et novellis, quae jus pandectarum confirmant, explicant aut abrogant, Parisiis, 1818, 187, utilizza questo testo per precisare che l'a.q.m.c. poteva essere concessa anche post annum, sebbene in simplum.

 

[97] Sull’interpretazione dell’espressione “ratum non habebo”, mi sembra utile riportare l’opinione di B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 151: «Man darf der traditionell Lehre unterstellen, daβ sie ratum habere hier einen technischen Sinn unterlegen möchte: genehmigen, gelten (gültig sein) lassen. Dann paβte ratum non habebo nur zum erzwungenen Rechtsgeschäft. Aber die allgemeinere, auch für tatsächliche Handlungen taugliche Bedeutung von ratum habere, die sich etwa im Interdiktenrecht findet, kann für das Metusedikt nicht zwingend ausgeschlossen werden: ratum habere im Sinne von “billigen” (comprobare. (Lo spaziato è mio).

 

[98] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, cit., col. 983.

 

[99] T. Schwalbach, Ueber ungültige Urtheile und die consumirende Wirkung der Litiscontestation, in ZSS 7, I, (1886), 123; H. Erman, Beiträge zur Publiciana, in ZSS 13 (1892), 200-201; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 130.

 

[100] In questo senso: F. Schulz, Die Lehre von erzwungenen Rechtsgeschäft im antiken römischen Recht, cit., 239, secondo il quale «Die Kompilatoren bezogen die §§ 1-4 in gewohnter Weise auf die actio metus causa, was sie am Schluß des § 4 durch die Worte “et ideo praetoria actio nascitur deutlich machten»; U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 179, secondo il quale originariamente il testo si sarebbe trovato nella parte del commento dedicata all'azione nel quadruplo, «die auch gegen erzwungene faktische Handlungen Platz greift»; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 62 e ss., il quale ritiene, a proposito di D.4.2.21.2, che «Der Text muss daher von einem anderen Teil des paulinischen Ediktskommentars hierher umgestellt worden sein», e lo spostamento proverebbe che i compilatori avessero interpretato in modo ampio il termine edittale gestum fino ad arrivare a farvi rientrare le fattispecie tutelate con l'a.q.m.c. e quindi a riferire all'a.q.m.c. la clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo”.

 

[101] U. von Lübtow, Der Ediktstitel “Quod metus causa gestum erit, cit., 179, secondo il quale D.4.2.21 sarebbe un frammento nel quale i vari testi non sarebbero ordinati, ma piuttosto messi insieme a caso. Anche B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 130, ritiene che Paolo nel frammento 21 trattasse Einzelnfragen, chiaramente riconducibili all'editto sul metus.

 

[102] B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 130.

 

[103] G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, I, cit., 76; B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 130.

 

[104] B. Kupisch, In integrum restitutio und vindicatio utilis bei Eigentumsübertragungen im klassischen römischen Recht, cit., 130; R. Zimmermann, The Law of Obligations. Roman Foundations of the Civil Tradition, Cape Town, 1990, 654, nt. 26, ricomprende nel gestum «Legal transactions and factual acts; for examples of the latter cf. Pomp./Ulp. D.4,2,9,2; Paul. D.4,2,21,2».

 

[105] La clausola edittale, così come si è ricostruita, presuppone una continuazione rispetto a quella riportata in D.4.2.1. Potremmo ipotizzare che Ulpiano in quel testo ne avesse riportato solo una parte, perché gli era più funzionale al modo di procedere del commento.

Io. Gottl. Heineccii Opuscula postuma, in quibus historia edictorum edictique perpetui, ipsiusque edicti perpetui, ordini et integritati suae restituti, partes II. Vita Ludovici Germanici Imp. Aliaque continentur. Omnia ex schedis paternis edita a Io. Christ. Gottl. Heineccio, cit., 400 e ss., continua la clausola edittale riportata in D.4.2.1 in questo modo: “Sed si quid per metum ablatum esse dicetur, neque ea res arbitrio iudicis restituetur, intra annum, quo primum experiundi potestas erit, in quadruplum, post annum in simplum iudicium dabo. In heredem quoque, quatenus ad eum pervenit, actionem dabo”.

Duarenus (F. Duareni Opera omnia, I, Lucae, 1765, Tit. de eo quod metus causa & c., 138) riteneva che l'editto sul metus contenesse duo capita «unum generale, quo praetor ait se ratum non habiturum quod metu gestum est. Alterum est specialius de actione, quae ex hoc edicto nascitur. Primi capitis verba sunt haec: Ait Praetor, Quod metus causa gestum erit ratum non habebo in l. 1. hic (= D.4,2,1)», tuttavia dalla sua trattazione emerge come il secondo caput fosse dipendente dal primo, generale. Infatti, a proposito dell'a.q.m.c. e in particolare della caratteristica di essere un'actio in rem scripta, osservava (141): «... Datur etiam haec actio contra eum, qui rem metu extortam possidet, tametsi metum non intulit. l. Metum. §. ult. (= D.4,2,9,8). Unus mihi metum intulit: ex eo metu nihil forte ad eum pervenit, sed ad alium, qui metum non intulerat. Contra utrumque datur actio, quia haec actio in rem scripta est, id est, concepta in rem, non in personam, ut ex his verbis colligere licet: Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo. Videtis enim, non fieri ullius personae mentionem in edicti verbis … Cum igitur animadverteret Jurisconsultus, hoc edictum esse conceptum in rem, nec expressam esse personam metum inferentis, interpretatus est facile actionem dari contra eum, ad quem aliquid ex eo metu pervenit». Da queste parole di Duarenus si percepisce bene che secondo il giurista francese vi era una dipendenza dell'a.q.m.c. dalla clausola edittale riportata in D.4.2.1.

Donellus (H. Donelli Opera omnia. Commentariorum de iure civili, IV, Maceratae, 1830, De iure civili lib. XV, cap. XXXIX, col. 357.III), ipotizza l'esistenza di un'unica clausola edittale: «Id edictum fuisse videtur in haec verba: Quod metus caussa gestum erit, ratum non habebo. Hoc amplius si quod eo nomine aberit, ei qui metum passus est, heredive ejus arbitrio judicis non restituetur, de eo quanti ea res erit, intra annum quo experiundi potestas est, in quadruplum: post annum in simplum caussa cognita judicio dabo. In hederem de eo quod ad eum pervenit, judicio dabo». Inoltre, anche più avanti nel commento, l'umanista francese precisa (col. 373.XXIII): «Atque haec vetus actio est restituta hoc edicto: via illa prior, quam hoc edicto constitutam esse diximus, ejus quod per metum amissum est, recuperandi caussa. Altera via est, ut proposui, eodem edicto comparata et eodem pertinens; actio scilicet nova propria hujus edicti; quae dicitur quod metus caussa». In entrambi questi passi del commento di Donellus si dà per presupposta l'esistenza di un'unica clausola edittale in tema di metus. Sebbene, come si è visto supra, nt. 64, egli proponesse un significato alquanto ristretto del verbo gerere.

Ci si potrebbe chiedere che differenza vi sia tra l'ipotizzare una sola clausola, come quella che si è proposta, e il supporre l'esistenza di due clausole edittali. La differenza è notevole, perché nel primo caso, la seconda parte della clausola dipenderebbe, comunque, dal ratum non habebo, mentre, nella seconda ipotesi ricostruttiva, quest'ultima dipendenza viene cancellata e si presume la presenza di un diverso verbo per descrivere la fattispecie tutelata: “Quod metus causa factum erit”.

 

[106] C.2.19.

 

[107] Si veda, ad esempio, D.4.2.9.3-6 e D.4.2.21.1.

 

[108] Si veda, ad esempio, D.4.2.9.8; D.13.7.22.1.

 

[109] Si veda, ad esempio, I.4.6.27; I.1.4.6.31.

 

[110] D.4.2.9.2.

 

[111] B. Albanese, Gli atti negoziali nel diritto privato romano, cit., 176 e 177, ritiene che il gestum erit relativo alla clausola edittale sul metus si riferisca ad ogni tipo di atto lecito giuridicamente rilevante, per questo nei commenti giurisprudenziali vi sarebbe l'uso del generico verbo facere per indicare gli atti metus causa e ricorda che nelle fonti vi sono esempi di atti non negoziali estorti con l'uso della violenza, fonte di metus (l'abbandono del possesso di un fondo; la demolizione di un edificio).

 

[112] Relativamente al significato dei verbi gerere/facere, si veda anche G.H. Maier, Prätorische Bereicherungsklagen, cit., 95. Sebbene lo studioso affermi l'esistenza di due diverse clausole edittali, che si distinguerebbero per il rimedio giuridico promesso (si veda supra, nt. 45), ritiene «Ganz allgemein aber ist zu bezweifeln, ob überhaupt ein Bedeutungsunterschied zwischen beiden Ausdrücken bestand. In der nicht-juristischen Literatur werden sie fast synonym begraucht, und die Juristen betonen mehrfach die Ausdehnung des gerere, die über den Bereich des Rechtsgeschäfts weit hinausgeht. Gaius sagt geradezu, daß beiden Termini mißbräuchlich promiscue verwandt würden. Es ist vielleicht eine vorgefaßte Meinung, daß das gestum im Metusedikt nur Rechtsgeschäfte erfasse».

 

[113] R.J. Pothier, Pandectae Justinianeae, in novum ordinem Digestae, cum legibus codicis, et novellis, quae jus pandectarum confirmant, explicant aut abrogant, cit., 180, a proposito della clausola edittale “Quod metus causa gestum erit, ratum non habebo” precisava, probabilmente alla luce dei commenti dei giuristi classici alla clausola edittale: «Gesti autem appellatione in hoc Edicto continetur, non solum quod quis contraxit, aut quasi contraxit, sed omne quodcumque fecit coactus, unde aliquid ei absit».

Inoltre, si deve sottolineare come anche nei testi che si riferiscono sicuramente alla clausola edittale contenuta in D.4.2.1 si utilizza a volte il verbo facere: si veda D.4.2.3 “Continet igitur haec clausula et vim et metum, et si quis vi compulsus aliquid fecit …”, oppure si veda D.4.2.7pr. “… per hoc edictum non restituitur, quoniam neque vi neque metus causa factum est …”. Non solo, infatti mi sembrano un indizio della presenza di una sola clausola edittale anche D.4.2.9.3 dove Ulpiano scrive “sed quod praetor ait ratum se non habiturum, quatenus accipiendum est videamus. et quidem aut imperfecta res est, licet metus intervenerit … et Pomponius scribit in negotiis quidam perfectis et exceptionem interdum et actionem competere …, poiché nel commento al ratum non habebo parla sia dell’azione che dell’eccezione, nonché D.4.2.21.1-2 dove Paolo scrive “Quod metus causa gestum erit, nullo tempore praetor ratum habebit. 2. Qui possessionem non sui fundi tradidit, non quanti fundus, sed quanti possessio est, eius quadruplum vel simplum cum fructibus consequetur …”. Anche Paolo dunque, in questo testo, commentando l’editto quod metus causa gestum erit, ratum non habebo fa sicuramente riferimento all’azione.

 

[114] Diversamente O. Lenel, Zur Lehre von den actiones arbitrariae, in Gesammelte Schriften, III (1902-1914), Napoli, 1991, 511, nt. 2, ricostruisce la parte mancante dell'editto “Quod metus causa factum erit neque restituetur, de eo in quadruplum, post annum causa cognita in simplum iudicium dabo”; A.S. Hartkamp, Der Zwang im römischen Privatrecht, cit., 196, aveva proposto la seguente ricostruzione dell’editto mancante: Quod metus causa factum erit neque restituetur, de eo in quadruplum, post annum causa cognita in simplum iudicium dabo, la quale si sarebbe dovuta trovare sotto il paragrafo D.4.2.9.7; M. Kaser, Zur in integrum restitutio, besonders wegen metus und dolus, cit., 113-114, secondo il quale questi frammenti di Ulpiano si adatterebbero bene ad un commento di queste parole edittali: “Quod metus causa factum erit, de eo, nisi arbitrio iudicis restituetur, in quadruplum, post annum causa cognita in simplum iudicium dabo”. Riguardo alla sorte che questa seconda clausola edittale avrebbe avuto, il Kaser ritiene che i compilatori giustinianei non l'avessero trovata necessaria e che, proprio per questo motivo, avessero cercato di riferire alla prima clausola il commento della seconda anche attraverso il collegamento delle parole iniziali “Ex hoc edicto restitutio talis facienda est”, contenute in D.4.2.9.7, all'espressione “id est in integrum”.