Seconda-pagina1[ISSN 1825-0300]

 

N. 9 – 2010 – Tradizione-Romana

 

 

FuscoStefania Fusco

Università di Pavia

 

Edictum de adtemptata pudicitia

 

 

 

 

Sommario: 1. Il delitto di iniuria e gli editti speciali de iniuriis. – 2. La pudicitia. – 3. I soggetti offesi e l’importanza dell’abito. – 4. I comportamenti puniti dall’editto. – 5. I boni mores. – 6. L’edictum de adtemptata pudicitia e l’Ars amatoria di Ovidio. – 7. L’animus iniuriandi nell’adtemptata pudicitia.

 

 

1. – Il delitto di iniuria e gli editti speciali de iniuriis

 

I vari aspetti del delitto di iniuria[1], come è noto, hanno formato oggetto di numerose ricerche e discussioni da parte della storiografia moderna. E’ dibattuta l’interpretazione del testo delle XII Tavole[2], così come vi sono divergenze di opinioni intorno ai successivi sviluppi, che videro l’abbandono della pena del taglione[3], dapprima sostituita dalla composizione stragiudiziale - la pactio[4] - e poi da una pena pecuniaria, determinata caso per caso dal giudice[5], ed in connessione con ciò l’unificazione concettuale dei delitti contro la persona fisica diversi dall’omicidio e il definirsi di un concetto comprensivo di iniuria, con l’estensione della pena variabile, propria inizialmente del caso del membrum ruptum, a tutte le altre fattispecie.

Il superamento definitivo delle pene decemvirali si ebbe con la concessione, da parte del pretore, di un’actio iniuriarum formulare per ogni ipotesi di iniuria, volta ad ottenere dai recuperatores o dal iudex la fissazione di una condanna “in quantum bonum et aequum videbitur[6], una condanna commisurata alla lesione prodotta e alle eventuali conseguenze patrimoniali.

Infine, ed è forse questo l’aspetto più controverso, con il tempo l’ambito di applicazione della figura si modificò in una duplice direzione: da un lato il pretore fece rientrare nel concetto di iniuria le offese morali, arrecate all’onore e al decoro della persona, che divennero progressivamente il principale contenuto di questo delitto[7], accogliendo quella che doveva essere, molto probabilmente, una elaborazione giurisprudenziale[8]; dall’altro questa tendenza risultò accentuata dalla emanazione della lex Cornelia de iniuriis[9] dell’81 a.C., che sottopose a pena pubblica le ipotesi più gravi di lesioni fisiche (pulsare, verberare, domum vi introire).

La valutazione e la considerazione dei danni, nell’ambito del iudicium recuperatorium[10], diventò per la giurisprudenza occasione di studio delle ipotesi nelle quali si individuava ingiuria: si creò, così, un’unica categoria nella quale furono ricomprese tanto le lesioni corporali, quanto le offese morali. In tutti questi casi il pretore offrì tutela agli offesi, riconoscendo l’operatività dell’actio iniuriarum, cioè quella originariamente prevista per le offese fisiche.

L’estensione avvenne attraverso l’emanazione di specifici editti, differenti in ragione di questo dall’editto generale[11], che contemplavano singolarmente diverse offese morali ed erano accomunati dal medesimo rimedio processuale.

Secondo la ricostruzione di Otto Lenel, si trattava dell’editto de convicio, che puniva gli insulti o il vociferare proferito da varie persone unite in gruppo o assemblea davanti al domicilio della persona insultata o in un luogo da lei frequentato; l’editto de adtemptata pudicitia, che sanzionava gli attentati alla pudicizia delle donne perbene e dei giovani che indossavano la toga praetexta; l’editto ne quid infamandi causa fiat, che reprimeva qualunque attività, parole o atti, posta in essere con lo scopo di infamare un’altra persona; l’editto de iniuriis quae servis fiunt, che reprimeva l’offesa subita da un dominus attraverso l’iniuria inferta al servus; l’editto de noxali iniuriarum actione, operante nell’ipotesi in cui fosse stato un servus o un filius familias a commettere iniuria; l’editto si ei, qui in alterius potestate erit, iniuria facta esse dicetur, per i casi di offesa subita dal pater familias attraverso l’iniuria patita dal filius; l’editto de contrario iniuriarum iudicio[12], che offriva un’azione contraria per difendersi da un’actio iniuriarum temeraria.

Come si è detto, il tema dell’iniuria è stato ampiamente trattato in dottrina, ma ai singoli editti sopra elencati si è dedicata attenzione quasi esclusivamente nel quadro di trattazioni concernenti il tema generale[13]. Restano così aperti numerosi problemi, e primo fra tutti quello della loro datazione e, quindi, del loro rapporto con l’editto generale.

Per quest’ultimo la dottrina è orientata ad indicare la fine del III sec. a.C.[14], mentre per la datazione degli altri editti la dottrina concorda sul fatto che l’editto de convicio sarebbe stato emanato dal pretore attorno alla fine del II sec. a.C., poiché in alcuni frammenti della Rhetorica ad Herennium, la cui composizione - secondo una dottrina quasi unanime - risale all’88 a.C.[15], il convicium è espressamente indicato quale fattispecie di iniuria[16], accanto alle pulsationes, e che tutti gli altri sarebbero a questo successivi[17].

In particolare per l’editto de adtemptata pudicitia, secondo Dora de la Puerta Montoya[18], vi è un unico dato certo in proposito: tale editto doveva essere posteriore alla lex Scatinia, databile approssimativamente attorno al 220 a.C., giacché il comportamento punito dal pretore era meno grave di quello contemplato dalla lex.

Eva Cantarella[19], invece, lo colloca prima del 193 a.C. sulla base di Plaut., Curc. 35-38, in cui si parla di nuptae, viduae e virgines, in un modo che pare rimandare alla tripartizione dei soggetti protetti dall’editto de adtemptata pudicitia[20].

 

 

2. – La pudicitia

 

Nell’ambito del delitto di iniuria, così come esso fu ampliato dagli interventi del pretore cui abbiamo accennato, l’editto de adtemptata pudicitia tutela l’integrità morale della persona dal punto di vista della sua onorabilità sessuale; protegge, cioè, un valore fondamentale per la società romana, la pudicitia.

La pudicitia, sin dalla fase più antica della storia di Roma, rappresenta uno dei valori su cui si fonda il modello perfetto ed ideale di donna, ed emerge per la prima volta in àmbito religioso[21]. Le fonti ricordano il culto dedicato alla dea Pudicitia, ed un celebre racconto liviano descrive l'istituzione, nel 296 a.C., del culto della Pudicitia plebea, distinto da quello della Pudicitia patrizia[22]. Dal racconto risulta che il culto era pienamente integrato nei riti ufficiali della vita civica romana[23]: la narrazione, infatti, parte da un contesto di celebrazioni di rituali pubblici, in un momento in cui, essendo Roma in guerra con le città vicine, è richiesto dal popolo il soccorso degli dei.

Il fatto che la dea Pudicitia appartenesse alle divinità da invocare in momenti di particolare pericolo per la civitas, lascia intendere che tale virtù era così importante da coinvolgere aspetti della vita dei Romani non direttamente ed esclusivamente connessi con la sessualità. Ed in effetti la pudicitia non rimase mai relegata alla sfera etica individuale, ma la sua presenza o assenza presupponeva sempre un collegamento molto stretto tra morale sessuale soggettiva e vita pubblica.

E’ interessante riflettere sulle caratteristiche che le devote alla dea Pudicitia dovevano avere: si parla di matronae di spectata pudicitia. L’aggettivo spectata rinvia immediatamente al singolare aspetto di questa virtù che doveva essere visibile, ossia percepibile pubblicamente: “specchiata” pudicitia, non solo nel senso di notevole pudicitia, ma, andando al significato originario del verbo specto[24], da cui deriva l’aggettivo, vista, comprovata, attestata.

Un’altra fonte importante è Valerio Massimo, il quale antepone alla serie degli aneddoti illustrativi della virtù, a cui dedica il VI libro della sua opera[25], un’invocazione alla dea, sentita come una presenza forte e reale, attraverso il linguaggio formale della preghiera[26]. I vocaboli chiave del passo sono praesidium e custos[27]: la dea, dirigendo e condizionando le attività morali degli individui, pone sotto il suo presidio l’età puerile e custodisce la pudicitia delle matrone, e non solo, dato che qui la pudicitia appare un elemento non più limitato al mondo femminile: non si parla di sole matronae, come nel racconto liviano, ma anche di giovani e di bambini, e si inizia a parlare delle categorie protette dalla dea usando termini indicanti gli elementi dell’abbigliamento che le contraddistingue.

Alla luce di questo il discorso si definisce ancor meglio un ulteriore aspetto di Pudicitia: essa non funge solo da impulso all’inseguimento dell’eccellenza morale, ma inizia ad esprimere la necessità della protezione della pudicitia di determinate categorie di persone[28].

Altre fonti invece, ed in particolare Properzio e Giovenale, utilizzano il riferimento al culto per porre in evidenza il decadimento morale delle donne e la corruzione dei costumi sessuali del loro tempo, riagganciandosi in qualche modo all’originario collegamento tra il culto religioso e il comportamento personale.

Properzio rammenta questo culto nell’elegia 2.6.25, chiedendosi: templa Pudicitiae quid opus statuisse puellis, si cuivis nuptae quidlibet esse licet?

Nella domanda implicitamente si depreca lo stato morale delle donne del tempo: il che serve al poeta quale sfondo della descrizione di Cynthia, la donna amata, ritratta come una cortigiana dalla vita depravata, immersa nella promiscuità dell’epoca.

Giovenale, infine, apre la famosa VI Satira dicendo che la dea Pudicitia ha abbandonato da tempo il mondo reale, lasciandolo nella totale immoralità sessuale[29]. La denuncia di Giovenale è forte: non solo il tempio di Pudicitia è stato abbandonato, ma viene addirittura profanato. Si ripropone qui il consueto legame tra culto religioso e comportamento morale, spinto al limite nella descrizione di donne che pongono in essere sacrilegi nel tempio e contro la statua della dea, rappresentando, con il loro comportamento, il massimo della perversione.

Per quanto non numerose, le notizie sul culto della dea Pudicitia consentono di percepirne il rilievo nel corso dei secoli: lo statuto etico delle donne ne è stato profondamente influenzato. Una virtù come la pudicitia, da manifestare inderogabilmente anche in pubblico[30], meritava di essere, proprio per questo, tutelata, con specifici rimedi, sul piano giurisdizionale.

 

 

3. – I soggetti offesi e l’importanza dell’abito

 

Il testo dell’editto de adtemptata pudicitia non ci è pervenuto, ma - rifacendoci all’opera di Otto Lenel[31] - possiamo ricostruirne il contenuto grazie a Gai. 3.220 e I. 4.4.1, a Paul. D. 47.10.10 (55 ad ed.) e soprattutto al Commento all’Editto di Ulpiano, D. 47.10.15.15-24 (57 ad ed.), con altri significativi e importanti riferimenti in D. 47.10.1.2 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.9 pr. (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.11.1.2 (Ulp. 4 opin.)[32] e infine in Coll. 2.5.4.

Secondo la ricostruzione di Lenel, il testo sarebbe stato il seguente:

 

Si quis matrifamilias[33] aut praetextato[34] praetextataeve comitem[35] abduxisse[36] sive quis eum eamve adversus bonos mores[37] appellasse adsectatusve[38] esse dicetur.

 

E’ opinione di Lenel che le parole adtemptata pudicitia non figurassero in questo specifico editto, ma solamente nella sua rubrica[39], la cui citazione, nella trascrizione letterale dell’editto, così come l’ha trasmessa il passo di Ulpiano (tramandato in D. 47.10.15.15-24, 57 ad ed.) e fondamentale per il nostro lavoro, sarebbe stata omessa dai compilatori.

Passando ora ad esaminare il contenuto dell’editto, in primo luogo va posto in evidenza che la fattispecie del delitto di adtemptata pudicitia contemplava l’oltraggio alla pudicizia di determinate categorie di soggetti, attraverso il compimento di tre diverse azioni, che configuravano tre distinte fattispecie: la prima, secondo l’ordine proposto dal Lenel, qualificata dall’espressione comitem abducere, la seconda dal termine appellare, la terza, infine, dal verbo adsectari.

Nella ricostruzione del Lenel, quindi, il pretore avrebbe sanzionato in primo luogo l’ipotesi più grave, quella del comitem abducere, che configurava di per sé il delitto, e poi quelle in cui vi era delitto se il comportamento dell’agente risultava contrario ai boni mores. Il commento di Ulpiano segue tuttavia un ordine diverso, dato che il giurista tratta in primo luogo dell’appellare, poi del comitem abducere e infine dell'adsectari[40]. Si preferisce qui seguire l’ordine di Ulpiano poiché il giurista, trattando dell’appellare, affronta il tema dell’abito dei soggetti offesi, tema che, come si vedrà, risulta rilevante per ciascuna delle ipotesi di adtemptata pudicitia:

 

D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari veste vestitas, minus peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non matrumfamiliarum vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et quis eam appellavit, vel ei comitem abduxit, iniuriarum tenetur.

 

Nella prima parte del passo ulpianeo, prezioso per la ricostruzione dell’editto, si considera l’appellare rivolto alle virgines[41] vestite da schiave, sostenendo che chi avesse indirizzato loro parole di richiamo, avrebbe “peccato” di meno. Sembrerebbe che, con l’uso del comparativo minus, Ulpiano non inauguri un nuovo discorso, ma ne continui uno già iniziato in precedenza, il cui punto di partenza sarebbe stato, probabilmente, il caso di appellatio rivolta a virgines vestite in modo adeguato alla loro condizione.

Nella seconda parte si prende in esame il medesimo comportamento, ma nei confronti di una donna vestita da prostituta: in tal caso l’offensore avrebbe posto in essere un illecito ancor meno grave.

Nella terza parte, infine, il giurista sostiene che l’actio iniuriarum viene concessa anche contro chi ha fatto oggetto di appellatio una donna non vestita da matrona, oppure la ha allontanata dal suo accompagnatore.

Le problematiche che questo passo solleva hanno portato vari romanisti a confrontarsi tra loro: è fondamentale comprendere perché Ulpiano consideri la legittimazione passiva all’actio iniuriarum come conseguenza (tale è il significato di igitur) delle ipotesi in cui l’offensore delinque meno. Da una parte, egli pare offrirci una graduazione discendente del peccare, dall’altra propone lo stesso rimedio processuale per tutte le ipotesi.

In generale, la maggior parte degli studiosi propende per la non genuinità del frammento, cercando di ricomporlo in vario modo. Non mancano, tuttavia, anche quanti ne affermano la genuinità sulla base di una peculiare visione dell’editto speciale de adtemptata pudicitia e delle sue connessioni con il generale edictum.

Il Raber[42] ha compiuto un’accurata analisi del nostro passo, e delle tesi in proposito[43], considerandolo genuino nella sostanza, e semplicemente raccorciato.

Lo studioso traduce appellare con il termine unzuchtig ansprechen, che significa rivolgere la parola, abbordare in modo non costumato, cercando di capire, inoltre, su che cosa si fondi, in generale, la legittimazione passiva, per l’appellare, del presunto offensore.

La risposta a questa domanda, sostiene l'A., potrebbe desumersi dalla contestuale lettura di D. 47.10.15.20[44], secondo il quale appellare equivale ad attentare alla castità di un’altra persona con discorsi lusinghieri, e di D. 47.10.15.23[45] (ma in parallelo con D. 47.10.15.6 che affronta il tema del convicium[46]), nel quale si legge che sarebbe stata necessaria una violazione dei buoni costumi.

Lo studioso, partendo da questi due dati, delinea due presupposti per la punibilità dell’appellare: l’obiettivo ferimento della pudicitia e l’obiettiva infrazione al buon costume. Sulla base di questo presupposto egli si chiede, di conseguenza, se apostrofare in questo modo una donna onorabile, ma in abito da prostituta o da schiava, rientri o non nell’appellare, ritenendo fondamentale capire se l’abito che trae in inganno escluda l’illecito o lo diminuisca.

Dal momento che i giuristi attribuivano grande importanza all’abito, sembrerebbe che esso fosse un presupposto di fatto obiettivo per la punibilità dell’appellare, quale segno visibile di discriminazione tra appartenenti a differenti classi sociali.

Tuttavia, nota il Raber, procedendo dall’esame di un passo di Tertulliano[47], da un certo periodo in poi le differenze si sarebbero molto attenuate, sì che, per tal motivo, poteva accadere che una matrona indossasse abiti da meretrice. In conseguenza rivolgere le proprie attenzioni a chi fosse abbigliata da prostituta non garantiva più l’impunità. In ogni caso, tuttavia, la minor gravità di questo comportamento sarebbe stata presa in considerazione nell’aestimatio del giudice: si spiegherebbero così le espressioni minus e multo minus. Il Raber, inoltre, ritiene punibile l’offesa nei confronti della schiava, sebbene il suo onore fosse tutelato in misura minore rispetto a quello di una materfamilias o di una virgo.

L’A., in conseguenza, solleva l’ipotesi che tra il secondo e terzo paragrafo si siano perse alcune linee nelle quali Ulpiano parlava della non conformità al loro rango e alla loro dignità dell’abbigliamento di alcune donne[48].

Antonio Guarino[49] suppone che Ulpiano proseguisse un discorso già iniziato con un ait praetor a cui, probabilmente, seguiva il testo letterale dell’editto con il quale si prometteva l’actio iniuriarum contro chi avesse compiuto le azioni di appellare e adsectari contro i buoni costumi, e di comitem abducere. Tali azioni erano punite non in quanto lesive della moralità soggettiva dei soggetti offesi, ma in quanto eccedenti i limiti del comune senso del pudore.

Quel che rilevava, infatti, era la dignità sociale dei soggetti tutelati dall’editto, dignità immancabilmente manifestata del loro modo di vestirsi: secondo lo studioso colui che avesse “appellato” la passante ancillari veste vestita, facilmente distinguibile dalla matrona, avrebbe “peccato di meno” non perché fosse concessa maggior licenza con le schiave, ma perché, in tal caso, l’iniuria recata ad una familia, nella persona di una schiava, aveva un peso minore rispetto all’iniuria fatta a danno di un capofamiglia o di un altro componente libero.

Il Guarino ritiene che in tal caso avrebbe operato un altro editto speciale de iniuriis: il dominus offeso avrebbe chiamato in causa il “pappagallo di strada” con l’actio iniuriarum derivante dall’editto de iniuriis quae servis fiunt[50]. Tale actio era concessa, nei casi di iniuria servi non grave, solo previa causae cognitio del pretore: il minus peccat, di cui si parla nel passo, sarebbe, dunque, un elemento che il magistrato avrebbe preso in considerazione in quella sede.

Alla luce di tutto questo anche in difesa di una donna non matronali habitu vestita – presumibilmente, secondo il Guarino, la donna popolana, non vestita da matrona, né da schiava o da meretrice – si sarebbe potuta esercitare, seppure per una condanna più limitata, l’actio iniuriarum derivante dall’editto de adtemptata pudicitia, risolvendo così la tanto discussa questione sul termine igitur del frammento.

Secondo l’opinione dell’A. l’interpolazione concernerebbe l’ipotesi della meretrice; dato che è meretrice colei che eccita impudicamente i passanti e si veste in modo da attirare clienti per il suo lavoro, chi le rivolge attenzioni e richiami non la offende, ma sta semplicemente al suo gioco. E’ impensabile, a suo avviso, che le matrone, per quanto audaci e provocanti volessero apparire, andassero vestite come prostitute: perciò egli sostiene che Ulpiano non potrebbe aver scritto: multo minus si meretricia veste feminae non matrum familiarum vestitae fuissent.

In realtà, come apprendiamo dalla ricostruzione del senatoconsulto de matronarum lenocinio coercendo, non solo poteva accadere che le matrone indossassero abiti di una meretrice, ma le più impudiche potevano spingersi ben oltre[51].

Il contenuto normativo di questo senatoconsulto, emanato al tempo di Tiberio, ci è stato restituito da una tavola di bronzo rinvenuta a Larino[52], ma esso è ricordato anche nelle testimonianze di Tacito[53], Svetonio[54] e Papiniano[55]: il decreto senatorio, emanato nel 19 d.C., si proponeva l’obiettivo di reprimere alcune frodi alla normativa moralizzatrice di età augustea.

La lex Iulia de adulteriis coercendis elencava una serie di persone di cattiva reputazione nei cui confronti non si commetteva stupro, in quas stuprum non committitur, ed in primo luogo le donne che praticavano il meretricio[56]. Tale esenzione fu utilizzata come espediente da quelle donne che volessero intrattenere relazioni extramatrimoniali senza subire le pene previste dalla legge: bastava, infatti, che esse manifestassero pubblicamente l’intenzione di darsi al meretricio. Mediante quest’espressa dichiarazione compiuta innanzi agli edili curuli[57], esse si liberavano dai vincoli imposti loro dal matrimonio e dall’appartenenza al loro ceto.

Il senatoconsulto di Larino si collocava nel quadro di disposizioni normative volte a limitare questa fraus legis e a frenare la rilassatezza dei costumi femminili. Si ricorda, a tal riguardo, il proposito di Tiberio di correggere, restaurando l’austerità di un tempo, gli aspetti che in publicis moribus desidia aut mala consuetudine labarent[58].

Ritornando a D. 47.10.15.15, vi sono alcuni Autori, viceversa, che ne sostengono la genuinità: tra i più recenti[59], il Wittmann, il Santa Cruz, il D’Ors e la De la Puerta Montoya. Essi ricostruiscono il nostro testo guardando alla differente operatività dell’editto de adtemptata pudicitia rispetto a quello generale de iniuriis, e sostengono che il disturbatore di una passante vestita da schiava o da meretrice non sarebbe stato responsabile in forza del primo editto: tuttavia se la passante si fosse rivelata una matrona, costui sarebbe stato tenuto in base al generale edictum. In particolare, il Wittmann[60] distingue tra responsabilità in forza dell’editto de adtemptata pudicitia e responsabilità in forza dell’editto generale de iniuriis, sostenendo che il disturbatore di una passante vestita da schiava o da meretrice non era tenuto in base al primo editto, ma se poi la passante si fosse rivelata realmente una matrona, sarebbe stato considerato responsabile sulla base del generale edictum.

Lo studioso interpreta minus e multo minus peccare videtur come negazioni di un peccatum ai sensi dell’editto de adtemptata pudicitia, espresse da Ulpiano in comparativer Sprachweise, neganti, cioè, l’esistenza delle circostanze comprese nel nostro editto.

Secondo il Wittmann il vestito era un elemento importante, un presupposto oggettivo per l’applicazione dell’editto de adtemptata pudicitia: in conseguenza egli ritiene che, sebbene l’editto non stabilisse che la matrona dovesse vestire un certo abito, per Ulpiano il concetto di habitus matronalis fosse inerente alla materfamilias. In questo modo non solo l’igitur troverebbe una sua ragione logica, ma apparirebbe necessario, perché l’editto de adtemptata pudicitia non avrebbe avuto luogo in quel caso.

Anche José Santa Cruz e Alvaro D’Ors[61] ritengono che, per commettere il delitto di attentato alla pudicizia tramite appellatio, l’abito fosse elemento obiettivo della onorabilità della persona che lo indossava. Nel caso in cui, invece, la matrona non indossasse l’abito da donna onesta, veniva garantita una forma minore di tutela in forza dell’azione concessa per il delitto di iniuria generale, e non di iniuria speciale, quale era l’attentato alla pudicitia (ritenuto più grave).

Secondo questi studiosi le “proposte indecenti” rivolte a una meretrice non avrebbero costituito appellatio, ma venivano accettate più o meno volentieri al pari degli altri inconvenienti di questo triste lavoro. Non ponevano in essere, pertanto, alcun attentato alla alterius pudicitia.

Questi studiosi si rifanno, in particolare, ad un passo del Codex di Giustiniano in cui si parla, appunto, delle meretrici e della foedissima earum nequitia di coloro che pudorem suum alienis libidinibus prosternunt[62]. La meretrice fa guadagno del suo corpo, palam quaestum facere, non solo nei lupanari o nelle taverne, ma anche in ogni altro posto in cui pudori suo non parcit.

Non si può quindi parlare di appellare in riferimento a una meretrice poiché essa è, in principio, priva di pudicizia. Tuttavia colei che indossi l’abito proprio di una meretrice non concede, per ciò stesso, piena libertà, a chiunque la veda, di rivolgerle una appellatio. Infatti, se non è realmente una prostituta, ella è tutelata dall’actio iniuriarum, sebbene, in casi come questi, il giudice, nell’aestimatio, dovesse attenuare la pena.

Secondo questi studiosi per il discorso sulla schiava, rileva il riconoscimento di una certa sua dignità, che consente l’esercizio dell’actio iniuriarum nel caso di attentato alla sua pudicitia, in riferimento a D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.)[63].

Il Santa Cruz e il D’Ors credono che solamente ipotizzando un’actio iniuriarum speciale, derivante dall’editto de adtemptata pudicitia e distinta da un’actio iniuriarum generale derivante dall’editto generale (de iniuriis aestumandis), si risolva la contraddizione che emerge dal passo ulpianeo, nel quale si contemplano le ipotesi di una donna non vestita da donna onesta. Costei, non potendo essere tutelata in forza dell’azione di ingiuria per attentato alla pudicizia, che presuppone necessariamente una dignità di matrona esteriorizzata attraverso un abito adeguato al proprio rango, può tuttavia giovarsi dell’azione generale, che comportava, per l’offensore, una condanna inferiore a quella che sarebbe stata comminata per l’ipotesi più grave.

Dora De la Puerta Montoya, infine, che ha dedicato al nostro editto un’interessante monografia[64], riprende sostanzialmente la tesi di Santa Cruz e di D’Ors e sostiene che l’intenzione di Ulpiano in D. 47.10.15.15 era quella di supplire ad una lacuna dell’editto de adtemptata pudicitia, ricorrendo in via sussidiaria all’azione generale di ingiurie per una serie di casi nei quali non era possibile l’applicazione del nostro editto, rivolto a soggetti determinati, caratterizzati oggettivamente dal modo di vestire.

Questa conclusione sarebbe confermata dal fatto che, come si precisa in D. 47.10.15.21[65], chi usa un linguaggio turpe non offende la pudicitia, ma è tenuto con l’actio iniuriarum: secondo la studiosa è evidente la relazione tra l’azione speciale de adtemptata pudicitia e l’actio iniuriarum generale; ella sostiene che Ulpiano opta per una interpretazione restrittiva dell’editto, sulla base della quale se i soggetti protetti, matronae e praetextati, non avessero indossato l’habitus matronali e la toga praetexta, non avrebbe avuto luogo l’azione speciale, ma quella generale.

Cercando di cogliere i dati più rilevanti della discussione sul passo, emergono due punti chiave: il primo riguarda l’incidenza dell’abito matronale nella configurazione del delitto di attentata pudicizia; il secondo, invece, il rapporto tra editto generale ed editti speciali.

In forza di un’enorme quantità di fonti[66], appare indubitabile che l’abito fosse considerato nella società e nella cultura romana un segno distintivo di una certa identità sociale, un simbolo evidente di appartenenza a un ceto piuttosto che ad un altro[67].

Per le donne tutto ciò era ancora più vero: molto forte appariva la corrispondenza tra identità formale, data dall’abito, e identità sostanziale: esistevano, infatti, una serie di usi e costumi che imponevano o vietavano, a seconda del tipo di donna, l’uso di certi indumenti fortemente caratterizzanti.

Le fonti descrivono i differenti abbigliamenti di matrone, schiave o prostitute[68], secondo la tripartizione che emerge dal nostro editto: la tunica era il vestito base di uomini e donne. Quella femminile, tuttavia, era più ampia e più larga: in tempi più antichi essa non aveva maniche, ma successivamente si affermò l’uso delle maniche fino al gomito e, in seguito, fino alle mani. In alcune occasioni si indossavano due tuniche, sovrapposte.

La stola era l’indumento tipico delle matrone: di maggiore ampiezza e lunghezza rispetto alla tunica, essa arrivava fino a terra formando pieghe, e si bloccava sul fianco con una cintura. Quando uscivano, sulla stola le matrone ponevano il pallium, una mantellina quadrata che copriva il capo e le spalle[69].

In linea di massima possiamo dire che quando le matrone si mostravano in pubblico, cosa abbastanza rara, esse erano totalmente coperte: anche il loro viso, infatti, era nascosto dalla stessa stola o dal velo che scendeva dal capo.

L’abito della donna rispettabile tendeva, quindi, come anche gli scrittori satirici mettono in evidenza, ad avere una funzione protettiva e ad evitare di attirare l’attenzione altrui: era, evidentemente, un segno di onore e di riserbo sessuale[70].

Orazio ironizza sull’ansia di colui che avesse ricercato le donne per bene, il quale non solo sarebbe incorso nelle leggi di Augusto contro l’adulterio, ma anche nel possibile inganno sulla “mercanzia” che si nascondeva sotto il manto e le lunghe vesti di una donna coperta da capo a piedi; al contrario, le cortigiane non lasciavano spazio al dubbio, poiché mettevano in bella mostra le loro fattezze[71].

Le schiave indossavano vestiti quali sai, tuniche, soprabiti e pezze: sebbene andassero in pubblico coperte al pari delle matrone, il loro abbigliamento, di solito, era molto più dimesso.

Alcune testimonianze letterarie, inoltre, definiscono diverse categorie di donne adoperando un termine che indicava un tipico indumento del loro abbigliamento: le matrone erano chiamate stolatae[72]; per le prostitute, viceversa, almeno in certi casi si impiegava il termine togatae[73]. Esse, infatti, indossavano - sopra una corta tunica, di un colore caratteristico, il galbinus, di seta o tessuto trasparente - un indumento tipicamente maschile, la toga, solitamente di colore scuro. Portavano, inoltre, un manto di lino, detto amiculum[74], imposto, in séguito, anche alle donne colpevoli di adulterio.

In poesia, in modo metonimico, un indumento diviene talvolta il simbolo di una determinata categoria di donne: in alcuni passi la matrona è definita instita[75], dall’ornamento della stola, un volante o una frangia color porpora applicati sul suo orlo inferiore[76].

Ciò che si può dire, allo stato attuale delle fonti, è che l’idea che la prima manifestazione esterna della pudicitia fosse l’abbigliamento era radicata nel contesto sociale in cui l’editto operava, tuttavia non si può affermare che l’editto facesse espressa menzione dell’abito matronale: probabilmente nell’apprestare tutela alla pudicizia delle donne onorate, appartenenti alle classi sociali elevate, il concetto di un abbigliamento consono al proprio rango era ritenuto implicito.

Il fatto che l’editto assuma dal contesto sociale l’identificazione tra abito e appartenenza ad una classe sociale è confermato dal riferimento agli altri soggetti da esso tutelati: oltre alle matrone, i praetextati e le praetextatae.

Il praetextatus era colui che indossava la toga praetexta: praetexta appunto perché orlata di rosso[77]. Pare che questo capo di vestiario fosse stato adottato dai Romani a imitazione di usanze etrusche[78]. La toga praetexta era usata dai magistrati curuli, dai senatori, dai sacerdoti e dai giovani e dalle giovani appartenenti alle famiglie aristocratiche. I giovani dei ceti inferiori indossavano la semplice toga non orlata di rosso. Nel contesto del nostro editto i praetextati sono, appunto, i giovani appartenenti ad un determinato rango sociale, i quali indossavano la toga praetexta fino al momento dell’età adulta[79]. Le giovani la abbandonavano nel momento in cui contraevano matrimonio: i giovani quando indossavano la toga virile, ossia al compimento dei 17 anni durante la Repubblica e dei 14 anni in età imperiale[80].

Il riferimento ai praetextati non si legge in Ulpiano: tuttavia quando egli riassume la formula dicendo “si quis eorum quem appellavisset adsectatusve est”, lascia intendere che si possa riferirlo anche a persone di sesso maschile, cosa estremamente probabile considerando la diffusione, a Roma, della bisessualità[81]. Il riferimento esplicito a persone di sesso maschile è però riscontrabile in altre fonti, utili per la ricostruzione dell'editto: Gaio 3.220[82] parla espressamente di mater familias aut praetextatus; in I. 4.4.1[83] più dettagliatamente si adopera l’espressione mater familias aut praetextatus aut praetextata; Coll. 2.5.4[84] si riferisce, invece, a matronae vel praetextatae.

Dal momento che l’editto accoglieva solo implicitamente l’identificazione tra habitus e soggetto protetto, l’ipotesi più probabile, in relazione al nostro passo[85], è che il problema dell’abito sia stato sollevato da Ulpiano[86] sulla base di una casistica che prendeva forma in una realtà in cui le differenziazioni nel modo di vestire non erano sempre così nette, in cui la categoria delle matresfamilias risultava piuttosto ampia[87] e non necessariamente collegata all’elemento formale dell’abito, e che poneva una questione eminentemente giuridica, quella dell’animus iniuriandi, quale elemento soggettivo necessario per la punizione di ogni tipo di iniuria.

Nell’ipotesi, diciamo “pura”, di una materfamilias in abito matronale, o di una virgo adeguatamente vestita, l’offensore che avesse attentato alla sua pudicitia sarebbe incorso nel nostro editto senza alcun dubbio, dato che, in tal caso, la volontà di offendere, l’animus iniuriandi diretto al ferimento della pudicitia di una matrona, con un comportamento contrario ai boni mores nei casi in cui ciò era rilevante, era evidentemente presente, poiché l’offensore già a colpo d’occhio sapeva con chi avesse a che fare.

Se la nostra matrona non fosse stata vestita in modo adeguato al suo status, ma si fosse mostrata in pubblico meno coperta rispetto alle solite usanze, con un abbigliamento più vicino a quello di un schiava o di una meretrice, chiaramente sarebbe stato più difficile dimostrare l’esistenza della volontà di offendere una matrona, poiché l’abito poteva far pensare ad una donna di altro genere o rango.

In tal caso l’offensore, in ragione di un abito non conforme alla dignità e al decoro di una matrona, avrebbe potuto ignorare di aver rivolto le proprie attenzioni a una donna per bene, e il fatto di non sapere di offendere una matrona, ma una donna qualsiasi, limitava, comunque, l’animus iniuriandi necessario per l’applicazione del nostro editto destinato alla protezione delle matrone.

Laddove, in ragione di un modo di abbigliarsi meno consono al rango di matrona, l’offensore non sapesse chi avesse innanzi, l’intenzione offensiva era limitata anche se punita, poiché di fatto si traduceva, in ogni caso, in un obiettivo ferimento della pudicitia di una donna. Tutto questo è confermato da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.):

 

Si quis tam feminam, quam masculum, sive ingenuos, sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet.

 

In questo caso, cioè si igitur non matronali habitu femina fuerit, Ulpiano ritiene che avrebbe avuto luogo l’actio iniuriarum, ossia l’azione generale, che avrebbe portato ad una pena inferiore, dal momento che si parla di minus e multo minus peccare.

Questa soluzione apparirebbe coerente con la logica dello sviluppo del delitto di iniuria e la dialettica tra editto generale ed editti speciali: considerando, infatti, che il rimedio processuale del generale edictum e degli editti speciali era in ogni caso l’actio iniuriarum[88], l’igitur su cui si è tanto discusso ha ragione di esistere. L’igitur appare del tutto pertinente, qualora esclusivamente l’appellatio (e le altre due condotte che verranno analizzate più avanti) di un soggetto vestito in modo consono al suo rango, integrasse l’adtemptata pudicitia in modo pieno. Al contrario, il medesimo comportamento, rivolto ad una donna per bene non vestita da matrona, ma da schiava o da prostituta, comportava una semplice ingiuria, in conseguenza dell’errore indotto nell’offensore da un abbigliamento non consono al rango.

L’errore, in questo caso, escludeva l’animus di offendere la pudicitia di una matrona, ma non quello di attentare all’onorabilità di una donna, integrando, in conseguenza, come rileva Ulpiano, un’iniuria meno grave (minus peccare videtur e multo minus).

Di questo errore, e dunque del fatto di aver posto in essere un’ingiuria “semplice”, si sarebbe tenuto conto in sede di aestimatio, alla quale davano luogo sia l’actio iniuriarum predisposta dal generale edictum, sia quella derivante dall’editto analizzato.

Si deve, inoltre, tenere presente un’altra fonte, D. 47.10.3.2-4 (Ulp. 56 ad ed.)[89]. Essa, per quanto relativa all’iniuria in generale, svela i meccanismi di funzionamento di quello che potremmo definire l’error in personam nel contesto in esame, confermando la necessaria presenza dell’animus iniuriandi nel soggetto attivo[90].

Nel testo si esclude la responsabilità da iniuria per chi non sappia di compierla e ignori a chi la stia arrecando: infatti si propone l’esempio di chi per errore percuote un uomo libero credendolo un proprio servo[91]. In questo caso, dice Ulpiano, l’offensore non è tenuto in forza dell’actio iniuriarum. Il dato che a noi interessa è che l’error in personam esclude la responsabilità da iniuria nella misura in cui elimina completamente l’animus iniuriandi. L’error in personam, nel nostro caso, può certamente escludere l’animus di offendere una matrona, ma non quello di attentare alla pudicitia di altri individui, come emerge da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.).

Per avere un quadro più generale potremmo immaginare altri casi, procedendo dalla lettura dei passi ulpianei e della testimonianza tertullianea. Quest’ultima, però, mentre descrive i modi di vestire delle donne, enfatizza, così come in altri contesti dell’Apologeticum, le depravazioni del mondo pagano[92], amplificandole, in alcuni casi, oltre il verosimile.

Sarebbe potuto accadere, forse, che una meretrice, magari facoltosa, si abbigliasse come una matrona: ci si può chiedere come si sarebbe comportato, in tal caso, il pretore. E’ probabile che, in questa circostanza, per assenza di una pudicitia meritevole di essere difesa, la prostituta non avrebbe ottenuto tutela né attraverso l’editto de adtemptata pudicitia, né attraverso il generale edictum.

Un’ipotesi ulteriore è quella dell’attentato alla pudicitia di una schiava, di cui parla Ulpiano (57 ad ed.):

 

D. 47.10.9.4: Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet[93].

 

Questo caso appare più complesso, dal momento che solo in presenza di determinate condizioni, valutate dal pretore, era concessa tutela per offese arrecate agli schiavi. L’editto de iniuriis quae servis fiunt si applicava senz’altro per ipotesi di lesioni fisiche particolarmente gravi, mentre tutti gli altri casi di iniuria erano tutelati solo a seguito di causae cognitio pretoria: il pretore doveva tener conto sia delle caratteristiche dello schiavo offeso, sia dell’eventuale circostanza che l’offesa si fosse riverberata direttamente sul dominus, in base all’animus iniuriandi del soggetto attivo, oppure se essa lo coinvolgesse solo in via mediata[94]. Riteniamo che nel caso di attentata pudicizia di una schiava il dominus sarebbe stato tutelato attraverso l’editto de iniuriis quae servis fiunt, previa causae cognitio del pretore, in considerazione della possibile diminuzione del valore della schiava in questione, ed in considerazione anche della collocazione del passo di Ulpiano nel contesto di osservazioni di carattere generale sul delitto di iniuria[95].

 

 

4. – I comportamenti puniti dall’editto

 

La modalità di attentato alla pudicitia consistente nell’appellare è delineata dal frammento che abbiamo avuto già modo di analizzare in riferimento ai soggetti offesi dal delitto:

 

D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari veste vestitas, minus peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non matrum familiarum vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et quis eam appellavit, vel ei comitem abduxit, iniuriarum [non] tenetur.

 

Il comportamento punito, l’appellare appunto, consiste nell’indirizzare a qualcuno parole che lo incitino a compiere qualcosa di immorale, attentando in tal modo alla sua pudicitia. Il verbo appellare[96], in generale, significa rivolgersi a qualcuno, richiamare l’attenzione di una persona: in questo specifico contesto, tuttavia, esso indica una forma di corteggiamento, di richiamo insinuante e carezzevole. Infatti nel prosieguo del passo, D. 47.10.15.20-22 (57 ad ed.), lo stesso Ulpiano precisa che non si tratta di tentare di sedurre usando parole oscene o un linguaggio turpe, ma utilizzando discorsi lusinghieri:

 

Appellare est blanda oratione alterius pudicitiam adtemptare: hoc enim non est convicium facere, se adversus bonos mores adtemptare. Qui turpibus verbis utitur, non temptat pudicitiam, sed iniuriarum tenetur. (...) appellat enim, qui sermone pudicitiam adtemptat (...).

 

Ciò che è punito non è, dunque, l’abbordare in modo volgare, comportamento che configura, invece, l’ipotesi di convicium facere[97] o, se non ve ne sono gli elementi, di iniuria, ma l’uso di un linguaggio volto a lusingare ed allettare, e quindi ad attrarre e invitare[98], con lo scopo di corrompere[99] l’altrui pudicizia.

La seconda ipotesi di adtemptata pudicitia consiste nel comitem abducere, i cui elementi caratterizzanti sono ancora una volta indicati da Ulpiano:

 

D. 47.10.15.16-18 (Ulp. 57 ad ed.): Comitem accipere debemus eum, qui comitetur et sequatur, et, ut ait Labeo, sive liberum, sive servum, sive masculum, sive feminam. Et ita comitem Labeo definit, qui frequentandi cuiusque causa, ut sequeretur destinatus, in publico privatove abductus fuerit; inter comites utique et paedagogi erunt. Abduxisse videtur, ut Labeo ait, non qui abducere comitem coepit, sed qui perfecit, ut comes cum eo non esset. Abduxisse autem non tantum is videtur, qui per vim abduxit, verum is quoque, qui persuasit comiti, ut eam desereret.

 

Si delinea qui un altro modo con cui si offende la pudicitia: il comitem abducere. Queste parole, letteralmente, significano allontanare l’accompagnatore dalla donna o dal praetextatus/a.

E’ importante, per capire la natura dell’offesa di questo comportamento, ricordare come fosse costume degli esponenti dei ceti elevati che donne e giovani non uscissero per strada se non accompagnati da un servo o da un familiare: il comes per l’appunto, vero e proprio scudo protettivo del loro onore[100]. Pertanto colui il quale facesse sì che l’accompagnatore lasciasse la donna (o il giovane) da sola (o da solo), la esponeva (o lo esponeva), inevitabilmente, alla vergogna e al ridicolo, e, soprattutto, ad una cattiva reputazione, poiché in tal modo sussisteva il pericolo che la persona in questione venisse confusa con una prostituta o con un individuo di condizione servile. E, cosa ancora più probabile, come sostiene ad esempio il Raber[101], in tal modo, di fatto, si sarebbe consentito ai malintenzionati di corteggiare con maggiore libertà la matrona o il praetextatus/a.

La punibilità di questa condotta, in quanto oltraggiosa della pudicizia, è altresì confermata da Ulp. D. 47.10.9 pr. (57 ad ed.):

 

Sed est quaestionis, quod dicimus re iniuriam atrocem fieri, utrum, si corpori inferatur, atrox sit, an et si non corpori, ut puta vestimentis scissis, comite abducto vel convicio dicto.

 

e da Ulp D. 47.10.1.2 (56 ad ed.):

 

Omnemque iniuriam aut corpus inferri aut dignitatem aut ad infamiam pertinere: in corpus fit, cum quis pulsatur: ad dignitatem, cum comes matronae abducitur ad infamiam, cum pudicitia adtemptatur.

 

E’ un brano, quest’ultimo, di difficile comprensione, ma non necessariamente contraddittorio con quanto emerge da altre testimonianze immediatamente riferibili al commento al nostro editto: quest’ultimo, come è noto, prendeva in esame più ipotesi, ma il giurista, nel passo in questione, che appartiene ad un’altra parte del suo commentario, si pone in un’ottica diversa. Egli non analizza qui le diverse ipotesi di adtemptata pudicitia, ma tratta dell’iniuria in generale, sottolineando che, mentre l’allontanare il comes lede la dignitas della matrona (e della sua familia), altre e ulteriori azioni, colpendo la sua pudicitia, potrebbero intaccarne – noi diremmo – la buona reputazione (cui conseguirebbe l’infamia).

L’unico modo per superare l’incongruenza è quello di ritenere che in esso non venga qualificato il comportamento in relazione all’editto, ma si abbia in vista il bene tutelato: il corpus, la dignitas, il buon nome.

Il primo frammento, poi, è significativo anche sotto un altro profilo, perché lascia intendere la particolare gravità del comitem abducere, tanto da far discutere se fosse iniuria atrox. Essendo poi l’allontanamento unito in un unico editto speciale con le altre ipotesi di attentato alla pudicitia, consente di supporre che anche le altre due, pur non essendo probabilmente considerate atroci, erano tuttavia ipotesi di iniuria grave.

A proposito dell’allontanamento dell’accompagnatore, dobbiamo notare l’assenza nell’editto del limite dei boni mores, evidentemente perché di per sé tale comportamento integrava una violazione del buon costume. Il raffronto con testi letterari[102], ed in particolare con alcuni passi dell’Ars amatoria di Ovidio[103], consente però di ipotizzare che non solo le matrone andassero accompagnate dal comes, ma anche donne di altro genere.

Questo apre problematiche che si riagganciano alla questione legata all’abito: è ipotizzabile, infatti, che anche una prostituta facoltosa potesse uscire con un accompagnatore, atteggiandosi a donna per bene, e che una schiava, particolarmente apprezzata dal suo dominus, fosse protetta con un accompagnatore.

La prostituta non avrebbe naturalmente avuto tutela giacché si parla espressamente di matronae, praetextati e praetextatae, mentre la schiava l’avrebbe ‘ricevuta’, nell’ambito dell’editto de iniuriis quae servis fiunt, se, a seguito della valutazione dell’accaduto e delle varie condizioni, in sede di causae cognitio il pretore lo avesse ritenuto opportuno[104].

Alla luce di questa eventualità possiamo inoltre ipotizzare che una matrona, vestita con un abito non consono al suo rango, procedesse comunque per la via pubblica accompagnata dal suo comes: ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo è da considerare quanto avrebbe inciso la presenza del comes nel creare nell’offensore la consapevolezza di avere a che fare con una donna per bene, sebbene non vestita adeguatamente.

Probabilmente vale, anche in questo caso, il medesimo discorso che è già stato svolto a proposito dell’abito: infatti, non essendovi una chiara e completa manifestazione del rango proprio di una matrona, il dolo non poteva essere pieno, ma limitato, e quindi l’azione consentita sarebbe stata quella per l’iniuria semplice, e, di conseguenza, inferiore la pena eventualmente comminata. Non si sarebbe potuto in tal caso imputare all’offensore il dolo specifico necessario per l’esistenza del delitto di adtemptata pudicitia, cioè la volontà di corrompere la pudicitia di donne e fanciulli per bene.

Ritornando al nostro editto, il passo di Ulpiano (D. 47.10.15.22, 57 ad ed.) prosegue delineando la terza modalità di attentato alla pudicitia, l’adsectari, ipotesi attestata anche da Gaio[105] e dalle Istituzioni di Giustiniano[106].

 

D. 47.10.15.19 (Ulp. 57 ad ed.): Tenetur hoc edicto non tantum qui comitem abduxit, verum etiam si quis eorum quem appellavisset, adsectatusve est.

 

Il verbo adsectari in generale significa seguire qualcuno, essergli sempre accanto ad ogni passo[107]: in questo caso, quindi, l’inseguimento deve essere non solo silenzioso, ma anche frequente e insistente. Un unico inseguimento non apparirebbe sufficiente per integrare il comportamento punito dall’editto, poiché l’onore della persona può essere compromesso solamente se costei è seguita frequentemente e in modo indiscreto, come precisa la stesso Ulpiano:

 

D. 47.10.15.22 (Ulp. 57 ad ed.): Aliud est appellare, aliud adsectari; (...) adsectatur, qui tacitus frequenter sequitur: adsiduo[108] enim frequentia quasi praebet nonnullam infamiam.

 

Il passo appare di grande importanza poiché spiega il motivo per cui l’adsectari configura un illecito: il seguire assiduamente genera di per sé una qualche infamia poiché tale condotta, il seguire nella pubblica via una donna, in silenzio e insistentemente, si soleva tenere con donne di malaffare.

E’ da notare che, come nel caso dell’appellare, anche l’adsectari è punito solo se compiuto contra bonos mores, come risulta da D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.):

 

Meminisse autem oportebit, non omnem, qui adsectatus est, nec omnem, qui appellavit, hoc edicto conveniri posse; neque enim si quis colludendi, si quis officii honeste faciendi gratia id facit, statim in edictum incidit, sed qui contra bonos mores hoc facit.

 

 

5. – I boni mores

 

Emerge quindi dalla parte finale di D.47.10.15.23 che non basta, per quanto riguarda l’appellare, rivolgere parole dolci e insinuanti, ad una donna o a un fanciullo e, per quanto riguarda l’adsectari, seguirli con insistenza, ma è necessario che ciò avvenga contro i buoni costumi: … sed qui contra bonos mores hoc facit.

Sulla base del testo in esame non si comprende se l’espressione si riferisca alla peculiare sensibilità e moralità dei soggetti offesi. In tema di convicium facere, tuttavia, Ulpiano afferma:

 

D. 47.10.15.6 (Ulp. 57 ad ed.): Idem ait: “adversus bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores huius civitatis[109].

 

La natura dei boni mores rilevanti per l’editto de convicio assume quindi contorni più netti: quel che conta non è se l’autore del delitto contravvenga alla propria concezione di buoni costumi. Non si tratta di un concetto soggettivo, ma di una nozione che assume un valore oggettivo e concreto, rappresentato dai buoni costumi della civitas, nel loro significato obiettivo di norme sociali comunemente accettate.

Per le ipotesi dell’adsectare e dell’appellare il giurista non specifica in che modo vada inteso il riferimento ai boni mores, ma proprio il suo silenzio consente di ritenere, almeno sulla base delle fonti a noi pervenute, che anche nelle due ipotesi elencate di adtemptata pudicitia si debbano assumere tali parole nel loro significato obiettivo di norme sociali comunemente accettate.

Si pone tuttavia il problema di dare una sostanza ai boni mores ai quali fa riferimento l’editto, in modo che sia possibile verificare quando, contravvenendo ad essi, si realizza la condotta repressa dal pretore.

Mos è un termine antico, ma non sembra esprimere la realtà giuridica, bensì la conformità di un comportamento a una tradizione, e perciò ha riferimento a fatti più ampiamente sociali, quali i riti religiosi, e il costume morale del singolo. Notevole una definizione che si ritrova in Festo (46 L., s.v. mos):

 

mos est institutum patrium, id est memoria veterum pertinens maxime ad religiones caerimoniasque antiquorum.

 

Il riferimento al costume è invece evidente nella locuzione, e nel relativo istituto, della cura morum affidata ai censori. E’ infatti nell’istituto del regimen morum, annoverabile tra le competenze dei censori[110], che si precisa il concetto di mores, inteso come complesso di comportamenti cui il civis è tenuto sul piano morale e sociale, cioè il concetto di boni mores.

La grande importanza del costume sociale, nel suo conformarsi a valori permanenti di moralità e di giustizia, è bene avvertita dai Romani dell’età repubblicana che vedevano in esso uno dei pilastri della solidità della civitas. E’ significativo che, al chiudersi del regime repubblicano, Augusto, il restauratore dei valori tradizionali, ricordi nelle sue Res Gestae[111] la cura legum et morum offertagli come strumento essenziale per il rinnovamento della compagine sociale.

Un diretto riferimento ai boni mores è fatto da quelle norme che considerano invalido un negozio giuridico che persegua finalità antigiuridiche o immorali o non conformi alla convenienza sociale. Qui il valore dell’espressione è assai generico, talvolta sono contemplati atti delittuosi o giuridicamente illeciti: sicché al concetto si adegua di più l’espressione turpis con cui talvolta vengono qualificati il negozio o la sua causa[112].

Nella maggior parte dei passi del Digesto in cui si parla di boni mores, il termine rappresenta un limite all’autonomia privata[113], mentre il ricorso a questo termine nell’ambito dell’iniuria[114] ha una portata differente: in determinati casi una condotta comunemente accettata, come dice esplicitamente Ulpiano, realizza il delitto in quanto contraria ad essi[115].

Secondo Theo Mayer-Maly[116] il concetto di boni mores aveva un contenuto etico, e, in particolare, fu grazie alla disciplina del delitto di iniuria che esso entrò nel linguaggio edittale.

Lo studioso, dopo aver analizzato il contenuto etico dei boni mores nell’ambito della reverentia dovuta ai parentes e ai patroni[117], passando in rassegna le fonti giuridiche deduce che i boni mores erano in stretto rapporto con la pacifica convivenza del popolo.

L’A. ritiene che la loro considerazione, quale limite alla libertà di determinazione negoziale, sia più recente rispetto all’originario contenuto etico, dato che le prime testimonianze relative a contratti frequentemente utilizzati (mandatum e stipulatio) risalgono a Gaio[118].

Il Mayer-Maly osserva poi che fra i giuristi tardo-classici particolarmente frequente risulta il richiamo ai boni mores da parte di Papiniano[119], mentre una intensificazione dell’interesse verso i boni mores, quale criterio, di contenuto etico, cui commisurare non contratti, ma pacta e condiciones in termini generali e astratti, si riscontra nelle Pauli Sententiae[120] e in rescritti di Caracalla[121], Gordiano[122] e Diocleziano[123], dove i boni mores vengono citati accanto a fonti giuridiche come le leggi, i senatoconsulti e le costituzioni imperiali, e intesi quali regole sociali di comportamento.

In particolare, nell’ambito dell’iniuria, lo studioso sostiene che i boni mores rappresentavano, senza dubbio, un concetto ben definito, non vago: diversamente non avrebbero potuto essere assunti nel testo edittale[124]; in particolare secondo l’A. essi appaiono menzionati nei tre editti de convicio, de adtemptata pudicitia, de iniuriis quae servis fiunt con la funzione di delimitare l’ambito di applicazione dell’actio iniuriarum.

Secondo Elmer Polay[125], i boni mores sarebbero estremamente rilevanti per il delitto di iniuria perché essi rappresenterebbero, nell’ideologia dei ceti dominanti, un valore essenziale che rafforza la loro coesione interna, e, in conseguenza, la loro capacità di egemonizzare, anche dal punto di vista culturale e dei valori condivisi, le classi subalterne.

L’egemonia dei ceti dominanti sarebbe stata collegata anche alla circostanza che le classi subordinate partecipassero, condividendoli, dei valori che si identificavano con i boni mores, e quindi con l’ideologia della classe dominante stessa.

Secondo questo studioso, in particolare, il ricorso all’elemento dei boni mores farebbe del delitto di iniuria, con le varie fattispecie ad esso collegate, un mezzo di mantenimento dell’ordine pubblico, attraverso la funzione economico-sociale della sua repressione[126].

Un aspetto dei mores che pare essere importante per il nostro studio, anche se il collegamento non è immediato, è rappresentato dal processo di formazione e sviluppo di questo modello sociale e culturale[127], dal modo in cui i boni mores della civitas, a cui Ulpiano fa riferimento, si formavano e si affermavano.

Riprendendo la famosa definizione di Festo a cui si è già accennato[128], e affiancandola a quella, senza dubbio molto tarda, di Isidoro[129], si vede che gli elementi dei mores erano essenzialmente due: l’antichità e la consuetudine. Anche la spiegazione di mos di Varrone[130] segue tale direzione, tuttavia egli aggiunge un altro elemento: affinché il mos si potesse definire tale era necessario non solo che si fosse consolidato nel tempo, ma anche che fosse condiviso da una comunità di persone, le quali su questo mos consentivano. Al consensus si fa frequente ricorso per affermare il fondamento o la legittimità di un giudizio, di un atteggiamento, di un comportamento, e a questo elemento fondamentale del mos si collega una fonte riferita allo stesso Ulpiano quando in Tit. ex corp. Ulp. 1.4 si afferma: Mores sunt tacitus consensus populi longa consuetudine inveteratus.

I mores sono costituiti dal tacito consenso del popolo, che si è affermato nel tempo per lunga consuetudine.

Varrone continua dicendo che il mos è un iudicium animi[131], una disposizione interiore che si afferma come mos vero e proprio solo al momento in cui essa viene recepita come consuetudo e come tale si afferma. Il mos da solo è una disposizione che dipende da un iudicium animi: possiamo cogliere allora la necessità di Ulpiano, in D. 47.10.15.6[132], di precisare che i boni mores non sono i buoni costumi riferibili all’agente: perché il mos possa realizzarsi come prassi collettiva, occorre infatti l’accettazione sociale che lo renda consuetudo.

La distinzione, quindi, fra il mos inteso come disposizione interiore e la sua accettazione in forma di consuetudo, attraverso il consensus collettivo, è un passaggio importante: il mos presenta due dimensioni culturali molto diverse fra loro, quella personale e quella collettiva.

Da questa precisazione si configura il mos collettivo come una decisione presa da un gruppo, il quale raggiunge un consensus su un certo comportamento; dopo di ché il medesimo gruppo ha la capacità nel tempo di affermare questo comportamento, ma anche di mutarlo, e ciò spiega perché i mores non sono concepiti come qualcosa di assoluto.

Pur rappresentando un dato oggettivo della realtà, essi sono per natura fluidi e molteplici, fluidi perché non rappresentano un modello definito, bensì un nucleo generativo di comportamenti, molteplici perché la loro definizione avviene in realtà attraverso un gioco di contrapposizioni fra gruppi interni ad una stessa comunità.

In questa ottica è allora plausibile un collegamento che quasi nessuno degli studiosi che ha affrontato l’argomento ha tenuto in considerazione: nella Palingenesia di Otto Lenel[133] si considera riferito ai boni mores in tema di convicium il frammento di Ulpiano contenuto in D. 50.16.42, in cui leggiamo:

 

Probrum et obprobrium idem est. Probra quaedam natura turpia sunt, quaedam civiliter et quasi more civitatis. Ut puta furtum, adulterium natura turpe est.

 

Il legame tra i boni mores e il concetto di probrum[134], termine tecnico che designa l’illecito morale punito dai censori, ci fa pensare che comportamenti normalmente tollerati dal diritto, ma disapprovati dall’opinione pubblica e passibili di nota censoria, potessero, in presenza dei requisiti previsti, essere puniti anche dal pretore.

D’altra parte non dobbiamo trascurare un ulteriore legame attestato dalle fonti, che può risultare interessante per il nostro discorso: quello tra i boni mores e il ius publicum[135], e che nell’ambito dell’iniuria pare rafforzarsi[136]. In tal senso, dalla lettura di D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.)[137] e D. 47.10.33 (Paul. 10 ad Sab.)[138], appare un elemento, a contrario, per cui si considerano compiuti adversus bonos mores gli atti contrari al ius publicum.

Appare chiaro che anche di questi ulteriori aspetti dei boni mores si debba tener conto, allora, nel nostro tentativo di superare la difficoltà insita nella valutazione di un atto non illegale prima facie.

Raccogliendo quanto sino ad ora è emerso dalle fonti e dall’interpretazione che di esse hanno dato i diversi Autori che si sono occupati del tema, possiamo dire che per boni mores dobbiamo intendere non un sistema speculativo e astratto, ma l’insieme di quei valori, derivanti dall’esperienza e dalla tradizione etico-sociale della civitas, il cui rispetto garantiva la dignità, la buona reputazione e il decoro dei singoli cittadini.

Il requisito della contrarietà ai boni mores previsto nell’edictum de adtemptata pudicitia attesta quindi da un lato la rilevanza politica dei costumi privati, confermando, dall’altro, l’importanza fondamentale dell’animus: proprio come nel caso del delitto di iniuria punito dall’edictum generale, infatti, non è colpito dalle sanzioni previste dall’edictum de adtemptata pudicitia chi metta in atto tali comportamenti con l’intento di scherzare o di adempiere un proprio dovere, ma solo chi agisce con il preciso intento di offendere il soggetto passivo, lederne il buon nome e l’onorabilità.

Era quindi necessario che l’offesa alla pudicitia, perpetrata attraverso l’appellare o l’adsectari, fosse, oltre che voluta, oggettivamente contraria al comune senso del pudore[139].

Tutto ciò è confermato dal fatto che per l’ipotesi di allontanamento del comes non vi è il limite dei boni mores, giacché l’allontanamento dello “chaperon” dalla matrona, dalla fanciulla o dal ragazzo, integrava, di per sé, un atto illecito, contrario ai buoni costumi[140], per la regola sociale alla quale si è già accennato in sede di analisi dei comportamenti puniti.

In ogni caso, come già si è osservato, poiché si tratta dei boni mores della civitas[141], ci troviamo davanti all’impossibilità di rifarci ad un parametro assoluto, e quindi alla necessità di tenere conto della mutevolezza, nel tempo, della sensibilità sociale.

Va sottolineato, però, che pure nel variare delle convinzioni sociali e dei comportamenti comunemente tenuti, alcuni valori continuarono ad essere avvertiti, almeno dal punto di vista formale, come irrinunciabili. Come ricorda Francesco Grelle in un contributo sulla correctio morum nella legislazione flavia[142], «la rilevanza politica dei costumi privati, lo stretto nesso intercorrente fra atteggiamenti individuali e prosperità comune erano stati d’altra parte motivi ricorrenti già nella fase repubblicana, sin dall’età delle guerre puniche. Più tardi il moralismo augusteo aveva sottolineato gli elementi di stabilità e continuità che ad un assetto politico fondato sul predominio dei ceti abbienti romano-italici avrebbero dovuto offrire la famiglia, il matrimonio, la procreazione».

In modo altrettanto perspicuo Giunio Rizzelli[143] descrive il noto collegamento tra il mantenimento dell’assetto costituzionale della comunità romana e il controllo dei comportamenti sessuali (per esempio attraverso il ricorso ai tradizionali modelli di Lucrezia e Virginia) ed esplicita, inoltre, come spesso l’interesse dei giuristi romani a tale legame più che essere motivato soltanto da preoccupazioni di natura morale o dall’evoluzione dei costumi nel senso di una eccessiva rilassatezza, era giustificato da problemi di natura squisitamente patrimoniale (ad esempio la legge augustea contro gli adulteri prevedendo ingenti sanzioni patrimoniali a carico dei colpevoli implicava lo spostamento, attraverso un processo, di notevoli masse patrimoniali). Dobbiamo ritenere pertanto che, seppure da una parte risulta certo che le tre attività represse dall’editto - e a maggior ragione i due comportamenti la cui repressione era subordinata alla violazione dei boni mores - avevano in sé, e nelle loro modalità di attuazione qualcosa di equivoco, di incerto, di approssimativo, per cui non potevano essere identificate a colpo d’occhio e come sicuramente ingiuriose per il soggetto passivo, la pudicitia protetta dall’editto aveva sempre e comunque un senso oggettivo e va intesa come onorabilità.

 

 

6. – L’edictum de adtemptata pudicitia e l’Ars amatoria di Ovidio

 

A conclusione dell’esame dell’edictum de adtemptata pudicitia sarebbe certamente interessante confrontare i comportamenti puniti dal pretore con quelli che dovevano essere i modi usuali del corteggiamento: è punito l’appellare, che, come abbiamo detto, non consisteva nel rivolgere complimenti pesanti e volgari, poiché in questo caso si sarebbe usciti dall’ambito dell’editto speciale, per ricadere nell’iniuria generale; è punito l’atteggiamento di chi con insistenza silenziosa segue l’oggetto dei propri desideri, ma in ambedue i casi il delitto si perfeziona solo se il comportamento del “corteggiatore” è posto in essere in modo contrario ai boni mores, e, non va dimenticato, con la volontà e la consapevolezza di offendere la pudicitia di un soggetto tutelato. L’allontanamento dell’accompagnatore, poi, qualora sia compiuto con la volontà di offendere, è sempre considerato contra bonos mores. Evidentemente invaghirsi di qualcuno e tentare di comunicare i propri sentimenti e di suscitarne di equivalenti richiedeva degli autentici equilibrismi.

Si tenterà, pertanto, di contestualizzare i precetti normativi dell’editto facendo ricorso alla poesia amorosa latina, ed in particolare all’Ars amatoria di Ovidio che, per la sua specifica attinenza ai temi delle relazioni sessuali, consente di cogliere, per certi aspetti, la reale portata dell’editto.

Come è noto, da Catullo[144] in poi la poesia latina celebrò l’amore in tutti i suoi aspetti. Dopo l’elegia erotica[145] del I sec. a.C., Ovidio propose un’autentica precettistica della seduzione: la poesia elegiaca era una poesia di corteggiamento, che, per certi aspetti, celebra proprio alcuni comportamenti puniti dal nostro editto.

Ovidio vive in un’epoca in cui l’esaurirsi della lotta politica aveva creato un solco fra letteratura e realtà: alla cultura ufficiale, della cui organizzazione era ormai l’imperatore ad occuparsi, faceva riscontro l’esercizio letterario coltivato sovente all’ombra delle scuole di retorica[146]. Le opere ovidiane di argomento erotico, nelle quali si rispecchia la vita mondana della capitale, non apparivano conformi ai principi fondamentali del programma augusteo, spiritualmente lontane, com’erano, al di là di qualche riferimento d’occasione, dai progetti di restaurazione perseguiti dall’imperatore[147]. Stridevano fortemente con la linea politica augustea, volta a ripristinare gli antichi costumi, quelle parti dell’opera ovidiana che illustravano le tecniche della seduzione amorosa. E’ addirittura probabile che proprio l’Ars amatoria e la sua pubblicazione abbiano indotto Augusto a non recedere dalla decisione di infliggere a Ovidio l’esilio perpetuo[148].

L’Ars amatoria è un vero e proprio trattato in tre libri, nel quale vengono appunto esposte le tecniche della conquista amorosa alla maniera delle opere didascaliche[149].

Nel proemio Ovidio definisce subito la materia dell’opera, secondo le norme compositive proprie del poema didascalico: si rivolge al popolo romano che ancora ignora l’arte di amare, e per legittimare l’assunzione dell’amore come argomento di un “manuale” che ne sveli la tecnica, essa è paragonata ad attività materiali come la navigazione e la guida dei carri, mestieri dominati dalla ragione e dalla volontà dell’uomo, e regolati da un insieme di norme codificate che, pertanto, si possono apprendere[150].

Segue poi una chiara delimitazione dei suoi destinatari: l’Ars non si rivolge alle matronae dell’Urbe, ma alle etere[151], cui era concessa maggiore libertà e, in conseguenza, spregiudicatezza. A questa affermazione, in seguito, farà riferimento il poeta per respingere le accuse di immoralità, pur non riuscendo a riconquistare l’indulgenza di Augusto. In realtà, come il principe ben capì, l’Ars era un affresco minuzioso della vita galante di Roma e dei costumi dei ceti abbienti, che, proprio in quegli anni, Augusto aveva tentato di moralizzare, riconducendoli alla supposta antica semplicità e all'austerità delle origini della repubblica.

L’Ars è descrizione dei luoghi di incontro e degli ambienti del bel mondo dell’Urbe, in cui si possono utilizzare in modo proficuo le tecniche della seduzione. Le occasioni più favorevoli sono costituite dai momenti di aggregazione ufficiale della comunità, come le feste e le cerimonie sacre. Ovidio non basa la sua opera su una vicenda amorosa, ma su una serie di situazioni esemplari grazie alle quali può sviluppare un’efficace azione precettistica. Inoltre, la scelta di un punto di osservazione esterno da parte del poeta produce non più i complici ammiccamenti di chi si collocava all’interno del genere per scomporlo e definirlo in modo diverso, come i poeti elegiaci precedenti, ma la chiara enunciazione di modi di comportamento della vita mondana e del mondo galante.

Il primo libro si intrattiene sui modi per conquistare la donna: dove incontrarla, come sceglierla, quale tattica seguire per attirare la sua attenzione e carpirne la benevolenza, quali stratagemmi usare, infine, per far breccia nel suo cuore. Nel secondo si forniscono ammaestramenti sulla maniera migliore di mantenere viva la fiamma d’amore, mentre nel terzo ci si rivolge alle donne, indirizzando loro idonei precetti, proprio come il poeta aveva fatto, in precedenza, rivolgendosi ai giovani dell’altro sesso.

Dal momento che si tratta di un’opera letteraria, non si può certamente sperare che essa permetta davvero di cogliere la reale portata dell’edictum de adtemptata pudicitia: e tuttavia, consentendoci di comprendere quali concrete strategie si utilizzassero nel corteggiamento amoroso, l’Ars amatoria fornisce qualche indizio utile per mettere a fuoco i comportamenti contemplati dal pretore[152].

D’altra parte Ovidio sembra ben consapevole di addentrarsi in un campo minato, tanto che propone una serie di avvertenze, in primo luogo nella dichiarazione di intenti nell’esordio dell’opera, in cui si afferma che le donne a cui era riservato l’ornamento della stola, le matronae, e le ragazze per bene, non dovevano (este procul) accostarsi all’opera di Ovidio[153], e lo stesso avvertimento il poeta ripete nell’apertura dei libri II[154] e III[155].

Queste affermazioni – che pur intendendo fugare ogni sospetto di immoralità, non lo salvarono dall’esilio – contrastano non poco con le minuziose descrizioni sparse nell’opera che descrivono con precisione la vita galante dei ceti abbienti di Roma.

In ogni caso, al di là di quello che poteva essere il più sincero e recondito intento di Ovidio, quello che a noi interessa è il fatto di rinvenire, in un’opera programmaticamente indirizzata al corteggiamento, l’idea che, come si è visto, fa da sfondo del nostro editto: la pudicitia si manifesta esteriormente, in primo luogo attraverso l’abbigliamento.

Ulteriore corrispondenza si rinviene tra i comportamenti contemplati dall’editto e le tecniche insegnate da Ovidio per avvicinarsi con successo a feminae e puellae. In queste tattiche la dolce eloquenza s’impone in ogni corteggiamento vittorioso.

Per una scelta oculata dell’oggetto del corteggiamento il poeta consiglia la frequentazione di luoghi di incontro pubblici e di spettacoli, nei quali si potevano porre in essere le condotte punite dal nostro editto: infatti in esso si contemplano le ipotesi di donne e giovani che passeggiano al di fuori delle mura domestiche, in uno di quei luoghi che il poeta giudica pericolosi per la pudicitia[156].

Una volta individuata la donna da conquistare il poeta insegna che è importante impadronirsi dell’arte della parola convincente, la stessa che permette all’oratore di dominare assemblee e tribunali, e delle blanditiae, i complimenti che irretiscono la donna, in un modo molto delicato e mai volgare:

 

Ars Amatoria I.459-468: Disce bonas artes, moneo, Romana iuventus, / non tantum trepidos ut tueare reos; / quam populus iudexque gravis lectusque senatus, / tam dabit eloquio victa puella manus. / Sed lateant vires, nec sis in fronte disertus; / effugiant voces verba molesta tuae. / Quis, nisi mentis inops, tenerae declamat amicae? / Saepe valens odii littera causa fuit./ Sit tibi credibilis sermo consuetaque verba,/ blanda tamen, praesens ut videare loqui[157].

 

Con un movimento di impronta didascalica, esaltato dalla parola tematica iniziale e dal tono elevato, il maestro[158] fa un elogio, in ambito generale, degli studi che portano i giovani al possesso della parola e dell’eloquenza. Parla in generale di bonae artes, cioè del complesso delle discipline che concorrono a formare l’oratore, ma tra queste spicca, come massima e compiuta realizzazione, l’eloquenza. Il potere della parola è quindi immenso ed è, indiscutibilmente, il supremo strumento di seduzione, è per tale ragione devono essere ben chiare le caratteristiche delle parole del corteggiamento: queste non devono tradursi in verba molesta, cioè parole sgradevoli, ma devono essere blanda, dolci e seducenti[159].

In questa ottica, infatti, ogni volta in cui il poeta ricorre, soprattutto a proposito dei primi approcci con la donna, al mezzo della parola, si riferisce sempre alle blande parole o al blando discorso:

 

Ars Amatoria I.569-578: Hic tibi multa licet sermone latentia tecto / dicere, quae dici sentiat illa sibi: / blanditiasque leves tenui perscribere vino, / ut dominam in mensa se legat illa tuam: / atque oculos oculis spectare fatentibus ignem: / saepe tacens vocem verbaque vultus habet. / Fac primus rapias illius tacta labelli / pocula, quaque bibet parte puella, bibas: / et quemcumque cibum digitis libaverit illa, / tu pete, dumque petis, sit tibi tacta manus[160].

 

Questo passo riunisce tutti gli elementi della tradizione elegiaca: il linguaggio criptico delle parole, dei segni, dei gesti e degli sguardi sono tutti strumenti necessari ad istituire una forma di contatto con la donna[161].

Il necessario ricorso alla blanditia, in modo particolare nella prima fase del corteggiamento, è confermato da I.605-624, in cui è posto in evidenza come questa debba anche necessariamente essere nutrita di lodi e complimenti per la donna a cui ci si rivolge:

 

Ars Amatoria I.605-624: Insere te turbae, leviterque admotus eunti / velle latus digitis, et pede tange pedem. / Conloquii iam tempus adest; fuge rustice longe / hinc pudor; audentem Forsque Venusque iuvat. / Non tua sub nostras veniat facundia leges: / fac tantum cupias, sponte disertus eris. / Est tibi agendus amans, imitandaque vulnera verbis; / haec tibi quaeratur qualibet arte fides. / Nec credi labor est: sibi quaeque videtur amanda, / pessima sit, nulli non sua forma placet. / Saepe tamen vere coepit simulator amare, / saepe, quod incipiens finxerat esse, fuit. / Quo magis, o, faciles imitantibus este, puellae: / fiet amor verus, qui modo falsus erat. / Blanditiis animum furtim deprendere nunc sit, / ut pendens liquida ripa subestur aqua. / Nec faciem, nec te pigeat laudare capillos. / Et teretes digitos exiguumque pedem: / delectant etiam castas praeconia formae; / virginibus curae grataque forma sua est[162].

 

Gli approcci, preparati durante il banchetto e poi all’uscita, tra la folla dei convitati, si manifestano in forma più diretta con i primi scambi di battute disinibite e accattivanti: parole apparentemente spontanee e appassionate, piene di lusinghe e complimenti. In questo ritmo di approcci, il pudor, cioè l’aspetto soggettivo della pudicitia, la riservatezza e l’imbarazzo, è personificato e definito rusticus, campagnolo e rozzo, inadatto alle regole della mondanità cittadina[163].

Sempre in tale direzione ci ritroviamo leggendo I.663-664 e I.709-720:

 

Ars Amatoria I.662-663: Quis sapiens blandis non misceat oscula verbis? / Illa licet non det, non data sume tamen[164];

 

Ars Amatoria I.709-720: Vir prior accedat, vir verba precantia dicat: / excipiet blandas comiter illa preces. / Ut potiare, roga: tantum cupit illa rogari; / da causam voti principiumque tui. / Iuppiter ad veteres supplex heroidas ibat: / corrupit magnum nulla puella Iovem. / Si tamen a precibus tumidos accedere fastus / senseris, incepto parce referque pedem. / Quod refugit, multae cupiunt: odere quod instat; / lenius instando taedia tolle tui. / Nec semper veneris spes est profitenda roganti: / intret amicitiae nomine tectus amor[165].

 

E’ qui illustrato il gioco delle parti nel corteggiamento: l’iniziativa è presa normalmente dall’uomo, che non può pretendere avances dalle ragazze, ma in certi casi quando le reazioni della donna sono di orgoglio e di disdegno, meglio tirarsi indietro e farsi desiderare. In altri casi, per vincere forti resistenze psicologiche, l’iniziativa deve assumere forme di diplomatica cautela, per arrivare all’amore attraverso l’amicizia: da ciò noi apprendiamo che il pudore femminile è la norma[166].

Altri versi, tratti dal II libro dell’Ars, confermano la blanda natura della parola che caratterizza il sermo amoroso, non solo nella fase iniziale del corteggiamento, ma anche in quella successiva, allo scopo, però, di conservare l’amore della donna conquistata[167].

Le parole utilizzate per l’appellare represso dal nostro editto[168] hanno la stessa blanda natura del sermo ovidiano: in entrambi i casi si tratta, nella sostanza, di parole seducenti, di una serie di complimenti e dolcezze. Tuttavia, mentre nella blanda oratio punita dal nostro editto l’obiettivo è quello di corrompere la pudicizia, cioè una consapevole volontà di nuocere a un valore fondamentale[169], nelle blanditiae ovidiane quest’intenzione non è mai esplicitamente rilevabile.

Al contrario il poeta, sin dall’inizio dell’opera, afferma di non voler trattare della corte fatta a matrone o illibate fanciulle, ma a donne di stampo e fama diversa: se poi il lettore farà un uso diverso dei suoi consigli la responsabilità non sarà del poeta, per quanto, indubbiamente, Ovidio non appaia esente da ogni malizia.

Questo raffronto fa capire come il limite dei boni mores, oltrepassato il quale opera l’editto, fosse tenuto ben presente da Ovidio: egli incoraggia comportamenti che nella sostanza non si discostano da quelli puniti dall’editto, ma essendo privi della volontà di offendere la pudicitia, devono rimanere entro il confine segnato dai boni mores.

Altrettanto possiamo dire per il comitem abducere[170]: anche l’allontanamento dell’accompagnatore della donna figura come tappa fondamentale della tattica amorosa predisposta da Ovidio nell’Ars, per superare gli ostacoli che l’uomo avrebbe incontrato nel procedere alla sua “conquista”.

Il corteggiatore deve cercare, in qualche modo, di convincere il custos della donna a lasciargli campo libero, conquistando, eventualmente, la complicità dell’ancella[171].

L’ancella è il personaggio chiave nei rapporti fra il corteggiatore e la donna prescelta: la funzione dell’ancella è quella dell’aiutante, nel favorire l’approccio, nella scelta del momento adatto, nel suggerire alla padrona il nome del pretendente[172].

Si propone questo suggerimento anche in un’altra opera di Ovidio: gli Amores, una raccolta di poesie il cui nucleo centrale è rappresentato dal racconto dell’amore fra il poeta e una donna (Corinna) in cui, in nuce, si rinvengono spesso consigli che il poeta, in seguito, definirà più esaurientemente nell’Ars:

 

Amores II.2.1-10: Quem penes est dominam servandi cura, Bagoa, / dum perago tecum pauca, sed apta, vaca. / Hesterna vidi spatiantem luce puellam / illa, quae Danai porticus agmen habet. / Protinus, ut placuit, misi scriptoque rogavi. / Rescripsit trepida 'non licet!' illa manu; / et, cur non liceat, quaerenti reddita causa est, / quod nimium dominae cura molesta tua est. / Si sapis, o custos, odium, mihi crede, mereri / desine; quem metuit quisque, perisse cupi[173].

 

Come per gli altri comportamenti con cui si realizza il delitto di adtemptata pudicitia, non vi è un’eccezione per l’adsectari[174], che rientra anche esso nel novero delle strategie di seduzione illustrate da Ovidio, il quale consiglia di seguire l’amata, si sposti essa a piedi o in lettiga, di sedersi non lontano da lei a teatro, di guardarla con insistenza ed ammiccando, di imitare i suoi gesti:

 

Ars Amatoria I.485-504: Quod rogat illa, timet / quod non rogat, optat, ut instes; / insequere, et voti postmodo compos eris. / Interea, sive illa toro resupina feretur / lecticam dominae dissimulanter adi, / neve aliquis verbis odiosas offerat auris, / qua potes ambiguis callidus abde notis. / Seu pedibus vacuis illi spatiosa teretur / porticus, hic socias tu quoque iunge moras: / et modo praecedas facito, modo terga sequaris, / et modo festines, et modo lentus eas: / nec tibi de mediis aliquot transire columnas / sit pudor, aut lateri continuasse latus; / nec sine te curvo sedeat speciosa theatro: / quod spectes, umeris adferet illa suis. / Illam respicias, illam mirere licebit: / multa supercilio, multa loquare notis. / Et plaudas, aliquam mimo saltante puellam: / et faveas illi, quisquis agatur amans. / Cum surgit, surges; donec sedet illa, sedebis; / arbitrio dominae tempora perde tuae[175].

 

In questo passo il poeta illustra tre circostanze: il passaggio della donna in lettiga, l’ora del passeggio, l’incontro a teatro. Sono tutte opportunità di approccio diretto con la donna: avvicinarsi alla lettiga e intrattenere conversazione con la donna stesa sui cuscini, sfruttare l’abitudine del passeggio tra i colonnati del grande Portico di Pompeo e approfittare dello spettacolo teatrale, che consentiva un muto dialogo a distanza, poiché le donne occupavano a teatro le file più alte, trovandosi perciò dietro alle file riservate agli uomini[176].

La condotta repressa dall’editto, l’adsectari, sembra essere sostanzialmente incoraggiata da Ovidio, ma poiché anche in tal caso, come per l’appellare, l’operatività dell’editto è legata al superamento del limite dei boni mores, il poeta non giungeva sino al punto di consigliare un comportamento contrario ai boni mores: esso poteva al più risultare fastidioso se alla corteggiata il corteggiatore non fosse stato gradito.

L’Ars Amatoria conferma a gran voce quello che implicitamente l’editto presupponeva: nella società romana esistevano categorie umane e sociali incompatibili e inassociabili, la donne per bene da un lato, le libertine e le meretrici dall’altro; per questo motivo il poeta che si rivolgeva all’una non poteva rivolgersi anche all’altra, anzi, sentiva il bisogno di escludere espressamente l’altra dal raggio d’azione della sua voce poetica[177].

Questo rende chiaro un dato per noi decisivo: i comportamenti presi in considerazione dall’editto erano puniti nella misura in cui determinavano una possibile associazione tra queste categorie, tra queste sfere distinte[178].

L’Ars conferma che la pudicitia[179] protetta dal nostro editto va intesa in senso oggettivo come onorabilità di matrone e giovani appartenenti a famiglie aristocratiche, testimoniando come la tutela relativa ad un valore individuale sia anche strettamente funzionale al mantenimento dell’ordine sociale[180].

Alla luce di tutto questo, quindi, non possiamo ritenere che l’offesa alla persona derivante dall’adtemptata pudicitia fosse l’unico aspetto preso in considerazione dalla tutela edittale: il bene giuridico protetto dall’editto era il buon nome, la buona reputazione della donna o dei fanciulli: ma la violazione di questo bene giuridico avrebbe offeso non solo la persona colpita, ma anche la fama della sua familia[181].

Le condotte punite dall’editto, di per sé, non concretavano una violazione della castità o della pudicizia della persona colpita, e, come nel caso dell’appellare, erano molto spesso accompagnati da complimenti e parole di lode nei confronti della donna, tuttavia risultavano sconvenienti per l’immagine di donne e fanciulli onorati e rispettati, quali esponenti di famiglie di alto rango sociale[182], nell’ottica di quella netta divisione sociale che emerge dall’opera ovidiana[183].

 

 

7. – L’animus iniuriandi nell’adtemptata pudicitia

 

Una riflessione in più merita l’animus iniuriandi nel contesto di questo editto: ogni forma di iniuria implicava da parte dell’attore del delitto l’esistenza del dolo specifico, l’animus iniuriandi, detto talvolta anche affectus[184], consistente nella volontà di offendere[185] una determinata persona (anche se non precisamente identificata[186]), e l’adtemptata pudicita, quale forma di iniuria, rispondeva a questa regola generale, senza fare eccezione.

Rimane ora da chiarire se per l’applicazione di questo editto speciale bastasse nell’offensore la semplice volontà di offesa, il semplice animus iniuriandi, comune a tutte le forme di iniuria, oppure era necessaria una precisa volontà di adtemptare alla pudicitia.

Come abbiamo potuto rilevare dalle fonti, l’importanza dell’abito nella società romana ci ha portato a credere che anche l’abito delle persone tutelate dall’editto fosse un elemento rilevante. In particolare, si è avuto modo di verificare che un abito consono al proprio rango era necessario affinché l’autore del delitto potesse avere coscienza di offendere una persona la cui pudicizia andava protetta.

D’altra parte, il confronto con l’opera ovidiana, che lo stesso autore afferma non essere diretta alle matronae, la cui pudicizia andava salvaguardata, mette in luce come determinate attenzioni, molto vicine ai comportamenti puniti dall’editto, erano di per sé potenzialmente lesive della pudicizia della persona a cui venivano riservate.

Tutto ciò ci porta a pensare che il dolo richiesto in questo editto avesse un profilo meno generico del puro animus iniuriandi, della semplice volontà di offesa, ma che fosse invece necessaria la volontà di mettere in pericolo la pudicizia di una persona onorata. Ciò per altro è confermato da due affermazioni, l’una di Ulpiano e l’altra di Paolo, i quali anticipano, nell’ambito di frammenti che trattano dell’iniuria in generale, la concessione dell’actio iniuriarum nei casi di attentato alla pudicitia di una persona, precisando che nel concetto di attentato alla pudicitia rientrano tutti quei comportamenti, senza peraltro indicarne alcuno, volti a far diventare una persona impudica:

In D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.) si legge:

 

Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. Sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet.

 

In D.47.10.10 Paolo (55 ad ed.) afferma:

 

Adtemptari pudicitia dicitur, cum id agitur, ut ex pudico impudicus fiat.

 

 



 

[1] Il significato più risalente di iniuria indicava ogni atto contra ius, cioè non conforme al diritto, ed una delle prime testimonianze del termine è contenuta nel formulario, antichissimo, della legis actio sacramento in rem: Gai. 4.16. Per l’identificazione dell’iniuria con “ciò che è contrario al diritto” vedi Th. Mommsen, Römisches Strafrecht, Leipzig 1899, trad. fr. Le droit pénal romain, Paris 1907, seguito da D.V. Simon, Begriff und Tatbestand der iniuria im altrömischen Recht, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LII (1965) 132-187 e M. Kaser, Die Beziehung von lex und ius die XII Tafeln, in Studi in memoria di Guido Donatuti, Milano 1973, 523-546. Vedi anche: E. Polay, Iniuria dicitur quod non iure fit, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», LVIII (1985) 73-81.

 

[2] Tab. 8.2-4. Per l’iniuria nelle XII Tavole vedi: V.L. Da Nobrega, L’“iniuria” dans la loi des XII Tables, in «Romanitas», 8 (1967) 250-279; A. Watson, Personal injuries in the XII Tables, in «Revue d'histoire du droit», XLIII (1975) 213-221; R.H. Halpin, The Usage of “iniuria” in the Twelve Tables, in «Irish Jurist», 11 (1976); J. Plescia, The development of “iniuria”, in «LABEO», XXIII (1977) 279; A. Albanese, Una congettura sul significato di “iniuria” in XII tab. 8.4, in «IURA», XXXI (1980) 21-36; C. Gioffredi, In tema di iniuria, in Nuovi studi di diritto greco e romano, Roma 1980, 147-172; A. Di Francesco, Autodifesa privata e “iniuria” nelle XII Tavole, in Le XII Tavole. Dai decemviri agli umanisti, Pavia 2005. In particolare, per il senso di iniuria in Tab. 8.4 si vedano: G. Cornil, Ancien Droit Romain, Paris 1930, 80-81; B. Schmidlin, Das Rekuperatorenverfahren. Eine Studie zum römischen Prozess, Freiburg 1963, 29; U. Von Lübtow, Zum römischen Injurienrecht, in «LABEO», V (1969) 131-167; E. Polay, Iniuria types in Roman Law, Budapest 1986, 16-77; secondo questi studiosi l’iniuria comprenderebbe tutte le lesioni fisiche lievi, non rientranti nelle fattispecie di os fractum e membrum ruptum. Da ciò essi deducono un concetto unitario di iniuria derivante dalle XII Tavole, comprensivo delle tre figure. Tuttavia a tale opinione si contrappone G. Pugliese, Studi sull’“iniuria”, Milano 1941, 5, il quale sostiene che, dal momento che l’uso del termine iniuria compare solo in Tab. 8.4, le tre figure non davano luogo a tre diverse forme di iniuria, ma a tre figure indipendenti tra loro.

 

[3] L. Franchini, La desuetudine nelle XII Tavole, Milano 2005, 45-53.

 

[4] La letteratura sul tema è molto ampia: vedi da ultima B. Biscotti, Dal ‘pacere’ ai ‘pacta conventa’. Aspetti sostanziali e tutela del fenomeno pattizio dall’epoca arcaica all’editto giulianeo, Milano 2002, 17 ss. (lett. ivi), le cui tesi generalmente non hanno trovato pieno consenso: si veda la recensione di A. Burdese, in «Studia et documenta historiae et iuris», LXX (2004) 515 ss.

 

[5] L’evoluzione è descritta da Gellio, Noct. Att. 20.1.37-38: Quod edictum autem praetorum de aestimandis iniuriis probabilius esse existimas, nolo hoc ignores, hanc quoque ipsam talionem ad aestimationem iudicis redigi necessario solitam. Nam si reus qui depecisci noluerat iudici talionem imperanti non parebat, aestimata lite iudex hominem pecuniae damnabat, atque ita, si reo et pactio gravis at acerba talio visa fuerat, severitas legis ad pecuniae multam redibat.

 

[6] Vedi sul punto D. Mantovani, Le formule del processo privato romano, 2a ed., Padova 1999, 76: il giudizio davanti ad un iudex era quello a cui si arrivava con l’esperimento dell’actio iniuriarum noxalis, in tutti gli altri casi si aveva, invece, il giudizio davanti ad un collegio di recuperatores. Cfr. anche P.F. Girard, Les jurés de l’action d’injures, in Mélanges Gérardin, Paris 1907, 493; Schmidlin, Das Rekuperatorenverfahren. Eine Studie zum römischen Prozess, cit., 29-44; J. Paricio, Estudio sobre las “actiones in aequum conceptae”, Milano 1986.

 

[7] Secondo Pugliese, Studi sull’“iniuria”, cit., 63-65, l’unificazione dei delitti privati contro la persona si produsse nel corso dei secoli che precedettero la legalizzazione della procedura formulare, e fu un’unificazione concettuale, a cui seguì un’unificazione di disciplina. A.D. Manfredini, Contributi allo studio dell’“iniuria” in età Repubblicana, Milano 1977, 65-66, 73-75, sostiene, invece, che l’unificazione di disciplina, concretizzata con l’estensione della pena variabile a tutte le ipotesi di lesioni fisiche, sarebbe stata già opera dei pontefici: dal momento che sia l’os fractum, sia l’iniuria, ponevano una difficoltà di accertamento diagnostico, è probabile che i pontefici suggerissero la procedura estimatoria, nata nell’ambito del membrum ruptum.

 

[8] In particolare, secondo A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani: nova negotia e transactio da Labeone a Ulpiano, Napoli 1971, 93-102 e M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2a ed., Napoli 1982, 184, fu la nozione di contumelia, cioè di sprezzo o di non adeguato rispetto verso altri soggetti, introdotta da Labeone, a consentire l’ampliamento del delitto alle offese morali.

 

[9] Le fonti da cui ricaviamo l’esistenza di questa legge sono: D. 47.10.5. pr.-11 (Ulp. 56 ad ed.), I. 4.4.8 e Paul. Sent. 5.4.8. Questa lex, probabilmente dell’81 a.C., emanata da Silla stabilì un procedimento particolare per i casi di pulsare e verberare, ossia fattispecie punite dall’editto generale de iniuriis, e di domum vi introire, la violazione di domicilio. Relativamente alla lex Cornelia de iniuriis si vedano: G. Rotondi, Leges Publicae Populi Romani, Milano 1912, 359; Lavaggi, “Iniuria” e “obligatio ex delicto”, cit., 159; Schmidlin, Das Rekuperatorenverfahren. Eine Studie zum römischen Prozess, cit., 36; Cenderelli, Il carattere non patrimoniale dell’actio iniuriarum e D. 47.10.1.6-7, cit., 162; G. Crifò, s.v. Diffamazione e ingiuria, a) Diritto romano, in «Enciclopedia del Diritto», XII (1964) 472-473; O. Beherends, Des Assessor zur Zeit klassischen Rechts Wissenschaft, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LXXXVI (1969) 210-211; C. Gioffredi, I principi del Diritto Penale Romano, Torino 1970, 20; Plescia, The development of “iniuria”, cit., 280; Manfredini, Contributi allo studio dell’“iniuria” in età Repubblicana, cit., 230-252; ID., L’iniuria nelle XII Tavole. Intestabilis ex lege (Cornelia de iniuriis?) (recenti letture in materia di iniuria), in Derecho romano de Obligaciones. Homenaje al Profesor J.L. Murga Gener, cit., 801-817; B. Santalucia, Studi di diritto penale romano, Roma 1994; L. Minieri, Per la storia dell’iniuria (recensione a Manfredini), in «LABEO», XXVI (1980) 257-260; M. Balzarini, “De iniuria extra ordinem statui”. Contributo allo studio del diritto penale romano dell’età classica, Padova 1983, 61, 209-217; ID., Ancora sulla Lex Cornelia de iniuriis e sulla repressione di talune modalità di diffamazione, in Estudios Iglesias II, Madrid 1988, 586-590; G. Muciaccia, In tema di repressione di opere infamanti, in Studi Biscardi, V, Milano 1984, 71-78; A. Völk, Zum Verfahren der «actio legis Corneliae de iniuriis», in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, II, Napoli 1984, 584-608.

 

[10] In Gellio, Noct. Att. 20.1.13 leggiamo il famoso caso di L. Verazio. Sul tema, con punti di vista divergenti, vedi: G. Galeno, Verazio il cavaliere, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, IV, Napoli 1984, 1883-1887; A. Guarino, Labeone e gli schiaffi, in Pagine di diritto romano, V, Napoli 1994, 125-130. Si veda sul punto anche M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, cit., 185-186, per il quale, invece, il racconto di L. Verazio sarebbe poco più di una parabola: il nome Veratius avrebbe, per Labeone, un valore simbolico, prossimo a vecordia, è il nome proprio dell’uomo senza ragione. V. Scarano Ussani, Gli “scherzi” di Lucio Verazio, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», XC (1992) 127-135: lo Scarano Ussani, sulla base di accorta ricerca prosopografica, ha mostrato la verosimiglianza del racconto gelliano.

 

[11] Ulp. D. 47.10.15.26 (57 ad ed.). La maggior parte degli studiosi è d’accordo con O. Lenel, Edictum Perpetuum, Leipzig 1927, § 190, riguardo all’esistenza del generale edictum: P. De Francisci, “Iudicia bonae fidei”, Editti e ”formulae in factum”, in «Studi senesi», XXIV, Siena 1907, 366; D. Daube, “Ne quid infamandi causa fiat”, in Atti Congr. Internaz. Dir. Rom. e Stor. Dir., III, Verona 1948, 411-450; A. Watson, The law of obligations in the later roman Republic, Oxford 1962, 248; M. Bretone, Ricerche labeoniane. “Iniuria” e “hybris”, in «Rivista di filologia e di istruzione classica», CIII (1975) 414; M. Miglietta, Elaborazione di Ulpiano e di Paolo intorno al «certum dicere» nell’«edictum ‘generale’ de iniuriis», Lecce 2002; non lo sono, invece, altri autori quali: V. Arangio-Ruiz, Le formule con “demonstratio” e la loro origine, Cagliari 1912, 30-37; Pugliese, Studi sull’“iniuria”, cit.; Manfredini, Contributi allo studio dell’“iniuria” in età Repubblicana, cit., ID. Quod edictum autem praetorum de aestimandis iniuriia, in Illecito e pena privata in età repubblicana, Napoli 1992, 192.

 

[12] Vedi Lenel, EP, cit., §§ 191-197.

 

[13] Diversi autori hanno affrontato lo studio dello sviluppo storico-dogmatico dell’iniuria, trattando con particolare attenzione gli editti speciali de iniuriis: M. Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, in Synteleia Arangio-Ruiz, Napoli 1964, 475-485; T. Spagnuolo Vigorita, Actio iniuriarum noxalis, in «LABEO», XV (1969) 33-76; P.B.H. Birks, The early History of iniuria, in «Revue d'histoire du droit», XXXVII (1969) 163-208; S. Di Paola, La genesi storica del delitto di iniuria, in Annali Catania, Seminario giuridico, I, Catania 1947, 268; P. Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans le très ancien droit romain, Roma 1971, 93-107; Plescia, The development of “iniuria”, cit., 271-289; A.D. Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano, Milano 1979; J. Santa Cruz Teijeiro-A. D’Ors, A proposito de los edictos especiales “de iniuriis”, in «Anuario de Historia del Derecho Español», XLIX (1979) 653-659; Balzarini, “De iniuria extra ordinem statui”, cit., 61, 209-217; Polay, Iniuria types in Roman Law, cit., 94-115; M.S. Del Castillo Santana, Estudio sobre la casuistica de las lesiones en la jurisprudencia romana, Madrid 1994, 52-100; E. Ruiz Fernandez, Sancion de las “iniuriae” en el derecho romano clasico, in Derecho romano de obligacione. Homenaje al Profesor J.L. Murga Gener, Madrid 1994, 819-823; J. Santa Cruz Teijeiro, La iniuria en derecho romano, in Studi Sanfilippo, II, Milano 1982, 523-538; M. Guerrero Lebron, La injuria indirecta en derecho romano, Madrid 2005, 101-116.

 

[14] Collocano l’editto generale alla fine del III sec. a.C.: Birks, The early History of iniuria, cit., 195; R. Wittmann, Die Köperverletzung an frein im klassischen römischen Recht, München 1972, 26; A. Watson, The development of the Praetor’s edict, in «Journal of Roman Studies», LX (1970) 133. Sostengono, invece, una datazione intorno alla prima metà del II sec. a.C.: F. Schulz, Classical roman law, Oxford 1951, 567; Ruiz Fernandez, Sancion de las “iniuriae” en el derecho romano clasico, cit., 819-823.

 

[15] Rhet. ad Her. 1.15.25. Il problema della datazione della Rhet. ad Her. è stato riproposto da A.E. Douglas, Clausulae in the Rhetorica ad Herennium as Evidence of Its Date, in «Classical Quarterly», LIV (1960) 65 ss., il quale formula una soluzione diversa da quella tradizionale, indicando gli anni 50 come la data più probabile di composizione dell’opera.

 

[16] Rhet. ad Her. 2.26.41. Cfr. anche Rhet. ad Her. 1.14.24, 2.13.19.

 

[17] Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans le très ancien droit romain, cit., 32-35, Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano, cit., 76, R. Wittmann, Die Entwicklungslinien der klassischen Injurienklage, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», XCI (1974) 312; Watson, The development of the Praetor’s edict, cit., 38.

 

[18] D. de la Puerta Montoya, Estudio sobre el “Edictum de adtemptata pudicitia”, Madrid 1992, 52.

 

[19] E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 1995, 141-154.

 

[20] Plaut, Curc. 35-38: Nemo ire quemquam publica prohibet via; dum ne per fundum saeptum facias semitam, dum ted abstineas nupta, vidua, virgine, iuventute et pueris liberis, ama quid lubet.

 

[21] O. Kiefer, La vita sessuale nell’antica Roma, Milano 1988, 109-149; N. Boëls-Jansen, La vie religieuse des matrones dans la Rome archaïque, Roma 1993, 229-251; J. Scheid, Indispensabili «straniere», in Storia delle donne in occidente. L’antichità, Bari 1994, 438-440; R. Langlands, Sexual morality in Ancient Rome, Cambridge 2006, 37-77.

 

[22] Liv. 10.23.3-10.

 

[23] Cfr. Plin., Nat. Hist. 2.14.1: Quapropter effigiem dei formamque quaerer inbecillitatis humanae reor. Quisquis est deus, si modo est alius, et quacumque in parte, totus est sensus, totus visus, totus auditus, totus animae, totus animi, totus sui. Innumeros quidem credere atque etiam ex vitiis hominum, ut Pudicitiam, Concordiam, Mentem, Spem, Honorem, Clementiam, Fidem, aut, ut Democrito placuit, duos omnino, Poenam et Beneficium, maiorem ad socordiam accedit.

 

[24] A. Ernout–A. Meillet, s.v. Specto, -as, -avi, -atum, -are, da Specio, -is, -spexi, -spectum, -ĕre, in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, Paris 1979, 639-641.

 

[25] Dicta e facta memorabilia, Lib. VI, de pudicitia.

 

[26] Val. Max., Dicta e fact. 6.1.1: Unde te virorum pariter ac feminarum praecipuum firmamentum, Pudicitia, invocem? Tu enim prisca religione consecratos Vestae focos incolis, tu Capitolinae Iunonis pulvinaribus incubas, tu Palatii columen augustos penates sanctissimumque Iuliae genialem torum adsidua statione celebras, tuo praesidio puerilis aetatis insignia munita sunt, tui numinis respectu sincerus iuventae flos permanet, te custode matronalis stola censetur: ades igitur et <re>cognosce quae fieri ipsa voluisti.

 

[27] Anche in Plauto, Amph. 925-934, la dea Pudicitia è vista in termini di custode della pudicitia matronale: ALC. Ego istaec feci verba virtute irrita; nunc, quando factis me impudicis abstini, ab impudicis dictis avorti volo. Valeas, tibi habeas res tuas, reddas meas. Iuben mi ire comites? IVPP. Sanan es? ALC. Si non iubes, ibo egomet; comitem mihi Pudicitiam duxero. IVPP. Mane. Arbitratu tuo ius iurandum dabo, me meam pudicam esse uxorem arbitrarier. Id ego si fallo, tum te, summe Iuppiter, quaeso, Amphitruoni ut semper iratus sies.

 

[28] N. Loraux, Che cos’è una dea?, in Storia delle donne in Occidente, cit., 15-55.

 

[29] (vv. 1-8): I nunc et dubita qua sorbeat aera sanna / Tullia, quid dicat: notae collactea Maurae / Maura, / Pudicitiae veterem cum praeterit aram / noctibus hic ponunt lecticas, micturiunt hic / effigiemque deae longis siphonibus implent / inque vices equitant ac Luna teste moventur, / inde domos abeunt: tu calcas luce reversa / coniugis urinam magnos visurus amicos.

 

[30] E’ necessario tenere distinto il concetto di pudicizia da quello di pudore. In italiano i due termini hanno significati vicini, tanto che sovente, nel linguaggio comune, vengono sentiti come intercambiabili. E tuttavia una sfumatura di differenza esiste: nel Lessico Universale Italiano (vol. XVIII, Roma 1977, 101) la pudicizia viene definita come «La virtù di chi preserva coscientemente i suoi pensieri e le sue azioni da ogni impurità sessuale, ispirando la sua condotta a modestia e verecondia», mentre il pudore consiste nel «Senso di riserbo o d’avversione per quanto riguarda il sesso, che provoca istintive reazioni di disagio o di difesa». Questo è indicato come significato primo del termine, che per estensione assume anche il senso di «Ritegno, vergogna, anche in relazione a cose che non riguardano il sesso». Infine viene considerato sinonimo di pudicizia, in particolare «Con riferimento alle norme di pudicizia esteriore che devono essere osservate in pubblico: pubblico p.; offesa al p.». La differenza fra i due termini è più accentuata nella lingua latina, avendo la pudicitia riguardo all’atteggiamento esteriore, il pudor al sentimento interiore, e tale è la differenza che, come esiste una dea Pudicitia, così esiste un dio Pudor: su tutto ciò vedi G. Radke, in «Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft», XII (1980) coll. 1942-1947, s.v. Pudicitia, e dello stesso A., ibid., coll. 1947-1948, s.v. Pudor.

 

[31] Lenel, EP, cit., § 192.

 

[32] Uguale a Paul. Sent. 5.4.14.

 

[33] D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[34] Gai. 3.220; D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[35] D. 47.10.15.16 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[36] D. 47.10.15.17-18 (Ulp. 57 ad ed.); Coll. 2.5.4.

 

[37] D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[38] D. 47.10.15.19-22 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[39] Lenel, EP, cit., 400, sostiene questo sulla base di D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.) e D. 47.10.10 (Paul. 55 ad ed.). In senso contrario si veda A. Guarino, Le matrone e pappagalli, in Inezie di giureconsulti, Napoli 1978, 171-172, secondo il quale il fatto che i commentatori usassero, al fine di abbreviare, la dizione adtemptata puditicia come unificante le varie fattispecie previste dall’editto, non significa che questa fosse la rubrica edittale. Sul punto si veda, infine, Polay, Iniuria types in Roman Law, cit., 113-114, che, pur essendo in accordo con Lenel relativamente alla rubrica edittale, ritiene che il testo dell’editto fosse generico, e che furono i giuristi ad individuare le fattispecie illustrate da Ulpiano, fissando modi tipici di offesa alla buona reputazione delle persone protette dallo stesso editto.

 

[40] Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Liepzig 1889, 766-778. Va osservato che Gaio tratta solo dell’adsectari (Gai. 3.220: vedi infra nt. 82; nt. 105), e altrettanto avviene nelle Istituzioni di Giustiniano (I. 4.4.1: vedi infra nt. 83; nt. 106).

 

[41] Si intendono con questo termine le donne giovani. Virgo era una nozione molto ampia, come è confermato dal fatto che nelle frasi successive Ulpiano usa il termine feminae come sinonimo di virgines. Ciò è confermato anche dalla lettura di Ernout-Meillet, s.v. virgo- inis, in Dictionnaire ètymologique de la langue latine, cit., 739-740.

 

[42] F. Raber, Frauentracht und “iniuria” durch “appellare”, in Studi in onore di E. Volterra, III, Milano 1971, 633-646.

 

[43] C. Van Bynkershoek, Observationum iuris romani libri quattuor, lib. VI, cap. 25, Lugduni Batavorum 1710, 444; J. Voet, Commentarius ad Pandectas, sub. tit. de iniuriis et fam. libellis, § 13, Coloniae Allobrogorum 1778, 827; R.J. Pothier, Pandectae, III4, Parisiis 1821, 345. In particolare, il primo studioso propone alternativamente l’inserimento del non tra la parola iniuriarum e la parola tenetur, come sostenevano gli umanisti Haloander e H. Brenkmann, o l’eliminazione del non precedente alle parole matronali habitu. Sostiene, infine, che Ulpiano avesse semplicemente posto il discorso in forma interrogativa e che il punto di domanda fosse, poi, scomparso. Secondo Voet, invece, la ratio della legge suggerisce di leggere iniuriarum vix tenetur, poiché una donna in abiti da schiava o meretrice non avrebbe potuto vedere attentato il suo onore con l’appellare. Infine Pothier, rifacendosi alla ratio contextus, sostiene che la cosa più logica fosse negare l’actio iniuriarum, e quindi aggiunge un non che appunto la escludesse. Segue tale linea J.G. Fuchs, Stellung und Aufgabe des Richters im modernen Strafrecht, in «Schweizerische Zeitschrift für Strafrecht», LXXV (Mélanges A. German) 1959, 33, secondo cui senza l’inclusione del non l’argomentazione ulpianea sarebbe senza conclusione. A sostegno della ricostruzione di iniuriarum non tenetur si veda anche G. Beseler, Beiträge zur Kritik der römischen Rechtsquellen, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LXVI (1948) 346-347, secondo il quale va eliminata dal testo la parte iniziale, da si quis a fuissent, sulla base della irrilevanza giuridica del verbo peccare, usato esclusivamente in riferimento a comportamenti riprovevoli dal punto di vista morale. Secondo lo studioso il discorso di Ulpiano sarebbe stato: Si non matronali habitu femina fuerit, qui eam appellavit vel ei comitem abduxit iniuriarum non tenetur. L’inserimento del non trova, infine, d’accordo G.L. Falchi, Diritto penale romano (I singoli reati), Padova 1932, 62-96.

 

[44] Appellare est blanda oratione alterius pudicitiam adtemptare: hoc enim non est convicium, sed adversus bonos mores adtemptare.

 

[45] Meminisse autem oportebit, non omnem, qui assectatus est, nec omnem, qui appellavit, hoc edicto conveniri posse; neque enim si quis colludendi, si quis officii honeste faciendi gratia id facit, statim in edictum incidit, sed qui contra bonos mores hoc facit.

 

[46] Idem ait: “adversus bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores huius civitatis.

 

[47] Tert., Apolog. 6.3: Video et inter matronas atque prostibulas nullum de habitu discrimen relictum; De pallio 4.9: Converte et ad feminas. Habes spectare, quod Caecina Severus graviter senatui impressit, matronas sine stola in publico. Denique, Lentuli auguris consultis, quae ita sese exauctorasset, pro stupro erat poena; quoniam quidem indices custodesque dignitatis habitus, ut lenocinii factitandi impedimenta, sedulo quaedam desuefecerant. At nunc in semetipsas lenocinando, quo planius adeantur, et stolam et supparum et crepidulum et caliendrum, ipsas quoque iam lecticas et sellas, quis in publico quoque domestice ac secrete habebantur, eieravere. Sed alius extinguit sua lumina, alius non sua accendit. Aspice lupas, popularium libidinum nundinas, ipsas quoque frictrices, et si praestat oculos abducere ab eiusmodi propudiis occisae in publico castitatis, aspice tamen vel sublimis, iam matronas videbis.

 

[48] Sottolineano queste conclusioni di Raber: L. De Sarlo, Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, in «Studia et documenta historiae et iuris», XXXVI (1970) 486-491, 486; M. Marrone, Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, in «IURA», XXII (1971) 154-161, 156.

 

[49] Guarino, Le matrone e pappagalli, in Inezie di giureconsulti, cit., 165-188.

 

[50] Lenel, EP, cit., §194.

 

[51] S(enatus) c(onsultum) [...|...] in Palatio, in porticu quae est ad Apollinis. Scr(ibundo) adf(uerunt) C(aius) Ateius L(ucii) f(ilius) Ani(ensi tribu) Capito, Sex(tus) Pom[eius Sex(ti) f(ilius)? ...|...] Octavius C(aii) f(ilius) Ste(llatina tribu) Fronto, M(arcus) Asinius Curti f(ilius) Arn(ensi tribu) Mamilianus, C(aius) Gaius C(aii) f(ilius) Pob(lilia tribu) Macer q(uaestor), Aulus Did[ius...q(uaestor)? | Quod M(arcus) Silan]us, L(ucius) Norbanus Balbo cons(ules) v(erba) f(ecerunt) commentarium ipsos composuisse sic uti negotium iis [datum de rebus ad libidinem | femina]rum pertinentibus aut ad eos qui contra dignitatem ordinis sui in scaenam ludumu[e prodirent operasve suas loca|rent u(ti) s(ancitur) s(enatus) c(onsultis) quae d(e) e(a) r(e) facta essent superioribus annis adhibita fraude qua maiestatem senat[us minuerent q(uid) d(e) e(a) r(e) f(ieri) p(laceret), d(e) e(a) r(e) i(ta) c(ensuere) | pla]cere ne quis senatoris filium filiam nepotem neptem pronepotem proneptem neve que[m cuius parti aut avo |v]el paterno vel materno aut fratri neve quam cuius viro aut patri aut avo paterno v[el materno aut fratri ius] | fuisset unquam spectandi in equestribus locis in scaenam produceret auctoramentove ro[garet ut cum bestiis depugna] | ret aut ut pinnas gladiatorum raperet aut ut rudem tolleret aliove quod eius rei simile min[istraret; neve, si quis se] | praeberet, conduceret; neve quis eorum se locaret, idque ea de causa diligentius caveri dum[ne d(olo) m(alo) perseverent qui] | eludendae auctoritatis eius ordinis gratia quibus sedendi in equestribus locis ius erat aut p[ublicam ignominiam] | ut acciperent aut ut famoso iudicio condemnaretur dederant operam et postea quam ei des[civerant sua sponte ex | equ]estribus, auctoraverant se aut in scaenam prodierant; neve quis eorum de quibus [s(upra) s(criptum) e(st) si id contra dignitatem ordi|nis su]i faceret libitinam haberet, praeterquam si quis iam prodesset (sic) in scaenam operave [suas ad harenam locasset si|ve na]tus natave esset ex histrione aut gladiatore aut lanista aut lenone. | [Utique s(enatus)] c(onsulto) quod M(anio) Lepido, T(ito) Statilio Tauro co(n)s(ulibus) referentibus factum esset scriptum compen[.....: ne cui ingenuae quae | minor qua] m an(norum) XX neve cui ingenuo qui minor quam an(norum) XXV esse auctorare se operaesve suas ad harenam scaenamve spurcos|ve quaestu]s locare permitteretur, nisi qui eorum a divo Augusto aut ab Ti(berio) Caesare Aug(usto) in ludum scaenam spurcosve | quaestus co]niectus esset; <qui eorum> is qui ita coniecisset auctorare se operasve suas [locare, si eum divus Augustus aut Ti(berius) | Caesar Aug(ustus) ad l[arem redducendum esse statuissent, id servari placere praeterquam [.....]. M. Malavolta, A proposito del nuovo S.C. da Larino, in Sesta Miscellanea Greca e Romana, Studi pubblicati dall’Istituto Italiano per la Storia Antica, 27 (1978) 347-382; V. Giuffré, Un Senato senatoconsulto ritrovato: il “S.C. de matronarum lenocinio coercendo”, in Atti dell’accademia di scienze morali e politiche della Società nazionale di Scienze, Lettere ed Arti di Napoli, 91 (1980) 7-40; B. Biondo, “Tagliacarte”, in «LABEO», XXVI (1980) 277-278; B. Levick, Il senatus consultum di Larinum, in «Journal of Roman Studies», LXXIII (1983) 97-115; V. Giuffré, Altre notazioni esegetiche sul senatoconsulto c.d. di Larino, in «Studia et documenta historiae et iuris», LXI (1995) 795-801. Contro l’ipotesi della rubrica de lenocinio matronarum coercendo si veda: M.A. Levi, Un senatoconsulto del 19 d.C., in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, I, 1982, 69-74. Per una diversa ricostruzione del senatoconsulto della tavola di Larino vedi: T.A.J. Mc Ginn, Il senatus consultum di Larinum e la repressione dell’adulterio a Roma, in «Zeitschrift für Papyrologie und Epigraphik», XCIII (1992) 273-295. Vd. anche C. Ricci, Gladiatori e attori nella Roma giulio-claudia, Milano 2006.

 

[52] N. Stelluti, Il Senatus Consultum di Larino “La storia infinita”, in V Settimana Beni culturali, Tutela, Matrice 1989, 14.

 

[53] Tac., Ann. 2.85.1-3.

 

[54] Svet., Tib. 35.2.

 

[55] D. 48.5.11(10).2 (Pap. 2 de adult.).

 

[56] Per una discussione sulla categoria di persone in quas stuprum non committitur si veda: C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari, Roma 1994, 130-135; G. Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», XXIX (1987) 196-197; 235-237; R. Astolfi, Lex Iulia et Papia, Padova 1996, 49-57.

 

[57] E’ il testo di Tacito che riporta questa notizia, la quale concorda con il fatto che gli edili curuli esercitavano il controllo sui lupanaria.

 

[58] Svet., Tib. 35.2.

 

[59] La genuinità del passo è sostenuta, tra gli studiosi più risalenti, da: A.D. Weber, Über Injurien und Schmähschriften I, Schwerin-Wisma 1797, 86 ss.; A. Pernice, Labeo II, Halle 1895, 31.

 

[60] Die Entwicklungslinien der klassischen Injurienklage, cit., 258-302.

 

[61] Santa Cruz Teijeiro-D’Ors, A proposito de los edictos especiales “de iniuriis”, cit., 653-659; Santa Cruz Teijeiro, La iniuria en derecho romano, cit., 525-538.

 

[62] C. 9.9.20 (Impp. Diocletianus et Maximianus AA. Didymo): Foedissimam earum nequitiam, quae pudorem suum alienis libidinibus prosternunt, non etiam earum, quae per vim stupro comprehensae sunt, inreprehensam voluntatem leges ulciscuntur, quando etiam inviolatae existimationis esse nec nuptiis earum aliis interdici merito placuit.

 

[63] D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.): Si quis tam feminam quam masculum, sive ingenuos sive libertinos, impudicos facere adtemptavit, iniuriarum tenebitur. sed et si servi pudicitia adtemptata sit, iniuriarum locum habet.

 

[64] de la Puerta Montoya, Estudio sobre el “Edictum de adtemptata pudicitia”, cit., 77-111.

 

[65] Qui turpibus verbis utitur, non tentat pudicitia, sed iniuriarum tenetur.

 

[66] Hor., Sat. 1.2.29; 1.2.93-94; 1.2.99; 1.2.101-103; Mart., Epig. 1.35.8; 6.66; 3.93; Ter., Eun. 2.3.22; Apul., Met. 8.9; Tib., El. 1.6.68, solo per citarne alcune. Di Ovidio, i cui passi dell’Ars amatoria si vedranno più avanti, si veda anche: Am. 3.1.51; Ep. ex Pont. 3.3.52.

 

[67] Riferiscono dell’identità sociale rappresentata dall’habitus: R. Astolfi, Abiti maschili e femminili, in «Labeo», XVII (1971) 33-39; J. Marquardt, Das Privatleben der Römer, Darmstad 1980, 572-606; J. Anderson Black, M. Garland, Storia della moda, Novara 1988, 60-69; Kiefer, La vita sessuale nell’antica Roma, cit., 150-158; A. Rousselle, La politica dei corpi, in Storia delle donne in occidente, cit., 341; R. Pistolese, La moda nella storia del costume, Bologna 1991, 61-69.

 

[68] D. 34.2.23.2. (Ulp. 44 ad Sab.): Vestimenta omnia aut virilia sunt, aut puerilia, aut muliebria, aut communia, aut familiarica. Virilia sunt, quae ipsius patrisfamiliae causa parata sunt, veluti togae, tunicae, palliola, vestimenta, stragula, amphitapa, et saga, reliquaque similia. Puerilia sunt, quae ad nullum alium usum pertinent, nisi puerilem, veluti togae praetextae, aliculae, chlamydes, pallia, quae filiis nostris comparamus. Muliebria sunt, quae matrisfamiliae causa sunt comparata, quibus vir non facile uti potest sine vituperatione, veluti stolae, pallia, tunicae, capitia, zonae, mitrae, quae magis capitis tegendi, quam ornandi causa sunt comparata, plagulae, penulae. Communia sunt, quibus promiscue utitur mulier cum viro, veluti si eiusmodi penula palliumve est, et reliqua huiusmodi, quibus sine reprehensione vel vir, vel uxor utatur. Familiarica sunt, quae ad familiam vestiendam parata sunt, sicuti saga, tunicae, penulae, lintea, vestimenta stragula, et consimilia. Inoltre si veda Festo, 122 L., s.v. materfamiliae, appelabant eas fere, quibus stolas habendi ius erat.

 

[69] Ov., Am. III.13.26: et tegit auratos palla superba pedes; Tib. 3.4.35-36: Iam videbatur talis inludere palla: namque haec in nitido corpore vestis erat.

 

[70] Rousselle, La politica dei corpi, in Storia delle donne in occidente, cit., 340-341. La studiosa mette in evidenza (ricordando che in età repubblicana gli uomini potessero divorziare dalla moglie che fosse uscita a capo scoperto, in base a Plaut., Merc. 817 ss. e Val. Max., Dicta e fact. 6.3.10-12) la funzione di avvertimento adempiuta dal velo o dal mantello che copriva le matrone. Questo, infatti, le identificava come donne rispettabili alle quali non bisognava avvicinarsi: per tale ragione, secondo la studiosa, gli uomini avrebbero potuto, prestando attenzione all’abito che proteggeva le matrone, evitare di esporsi alle pene previste per l’adulterio e alle sanzioni previste dal nostro editto. Confermano la sostanziale funzione protettiva dell’abbigliamento matronale: E. Fantham, F.P. Holey, Women in the Classical World, New York-Oxford 1994, 122. Vedi ancora sul punto Ov., Epist. ex Pont. 3.3.51: Scripsimus heac illis quarum nec vitta pudicos contingit crines nec stola longa pedes; Mart., Epigr. 1.35.6-9: Quid si me iubeas thalassionem verbis dicere non thalassionis? Quis Floralia vestiti et stolatum permittit meretricibus pudorem.

 

[71] Hor., Sat. 1.2.80-81, 93, 131; 2.7.46-71. Si veda, inoltre: Kiefer, La vita sessuale nell’antica Roma, cit., 154; A. La Penna, Saggi e studi su Orazio, Firenze 1993, 65, 243.

 

[72] CIL X, N. 5918; Petr., Satyr. 44.23. Sul punto anche: L. Cicu, Donne petroniane: personaggi femminili e tecniche di racconto nel Satyricon di Petronio, Sassari 1992, 163-175; Id., Cynthia Properti, Sassari 2003, 21-35.

 

[73] In proposito si veda: T.A.J. McGinn, Prostitution, Sexuality, and the Law in Ancient Rome, New York-Oxford 1998, 165-171. In generale: Iuv., Sat. 4.121-125: Belua sic pugnas Cilicis laudabat et ictus et pegma et pueros inde ad velaria raptos. Non cedit Veiiento, sed ut fanaticus oestro percussus, Bellona, tuo divinat et ingens omen habes “inquit” magni clarique triumphi; Hor., Sat. 1.2.62-63: Quid inter est in matrona, ancilla, peccesne togata?; Tib. 4.10.3-4: Sed tibi cuta togae potior pressumque quasillo, Scortum quam Servi filia Suplicia; Iuv., Sat. 2.69-76: damnetur, si vis, etiam Carfinia: talem non sumet damnata togam. Sed Iulius ardet, aestuo. Nudus agas: minus et insania turpis. En habitum quo te leges ac iura ferentem vulneribus crudis populus modo victor et illud quid non proclames, in corpore iudicis ista si videas? Quaero an deceant multicia testem; Ov., Fast. IV.134-135: Rite deam colitis, Latiae matresque nurusque et vos, quis vittae longaque vestis abest; Sen. Phil., Nat. Quaest. 7.31: Quando ergo ista in notitiam nostram perducentur? Tarde magna proveniunt, utique si labor cessat. Id quod unum toto agimus animo, nondum perfecimus, ut pessimi essemus: adhuc in processu vitia sunt; invenit luxuria aliquid novi, in quod insaniat, invertit impudicitia novam contumeliam sibi, invertit deliciarum dissolutio et tabes aliquid adhuc tenerius molliusque, quo pereat. Nondum satis robur omne proiecimus: adhuc quicquid est boni moris extinguimus. Levitate et politura corporum muliebres munditias antecessimus, colores meretricios matronis quidem non induendos viri sumimus, tenero et molli ingressu suspendimus gradum (non ambulamus sed incedimus, exornamus anulis digitos, in omni articulo gemma disponitur, cotidie comminiscimur per quae virilitati fiat iniuria, ut traducatur, quia non potest exui: alius genitalia excidit, alius in obscenam ludi partem fugit et locatus ad mortem infame armaturae genus, in quo morbum suum exerceat, legit; Mart., Epigr. 1.96.4-9: Amator ille tristium lacernarum et baeticatus atque leucophaeatus, qui coccinatos non putata viros esse amethystinasque mulierum vocat vestes, nativa laudet, habeat et licet semper fuscos colores, galbinos habet mores; Hor., Sat. 1.2.101-103: Cois tibi paene videre est, ut nudam, ne crure malo, ne sit pede turpi; metiri posses oculos latus; Mart., Epigr. 1.35.8-9: quis Floralia vestit et stolatum permittit meretricibus pudorem?; Tib. 1.6.67-68: Quicquid agit, sanguis est tamen illa tuos. Sit modo casta, doce, quamvis non vitta ligatos impediat crines nec stola longa pedes.

 

[74] Isid., Etymol. 19.25.5: Amiculum est meretricum pallium lineum. Hunc apud veteres matronae in adulterio deprehensae induebantur, ut in tali amiculo potius quam in stola polluerunt pudicitiam.

 

[75] Vedi anche Ov., Trist. 2.248: quaeque tegis medios instita longa pedes!; Hor., Sat. 1.2.28-29: Nil medium est. Sunt qui nolint tetigisse nisi illas, quarum subsuta talos tegat instita veste.

 

[76] Ov., Ars Am. I.31-34: Este procul, vittae tenues, insigne pudoris, / quaeque tegis medios instita longa pedes: / non Venerem tutam concessaque furta canemus / inque meo nullum carmine crimen erit. In questi versi si parla espressamente di precisi elementi dell’abbigliamento, definiti dal poeta simboli della pudicizia: le bende che circondavano la fronte (vittae) e la balza (instita) che scendeva fino ai piedi, rifinendo la stola.

 

[77] R. Hunziker, s.v. Toga, in Dictionnaire des Antiquités Grecques et Romaines 5, 1875-1912, 352, A. Berger, s.v. toga, in Encyclopedic Dictionary of Roman Law, Philadelphia 1953, 738; Marquardt, Das Privatleben der Römer, cit., 124.

 

[78] Liv. 1.8.3; Plin., Nat. hist. 9.39.63; Macr., Saturn. 1.6.

 

[79] Liv. 34.7.2.

 

[80] Macr., Saturn. 1.6: Libertinis vero nullo iure uti praetextis licebat ac multo minus peregrinis, quibus nulla esset cum Romanis necessitudo. Sed postea libertinorum quoque filiis praetexta concessa est ex causa tali, quam M. Laelius augur refert; qui bello punico secundo duumviros dicit ex senatus consulto propter multa prodigia libros Sibyllinos adisse et inspectis his nuntiasse in Capitolio supplicandum lectisterniumque ex collata stipe faciendum, ita ut libertinae quoque, quae longa veste uterentur, in eam rem pecuniam subministrarent. Acta igitur obsecratio est pueris ingenuis itemque libertinis, sed et virginibus patrimis matrimisque pronuntiantibus carmen: ex quo concessum ut libertinorum quoque filii, qui ex iusta dumtaxat matre familias nati fuissent, togam praetextam et lorum in collo pro bullae decore gestarent; Liv. 22.57.9: Dilectu edicto iuniores ab annis septedecim et quosdam praetextatos scribunt; Tac., Ann. 12.41: Ti. Claudio quintum Servio Cornelio Orfito consulibus virilis toga Neroni maturata quo capessendae rei publicae habilis videretur; Britannicus in praetexta, Nero triumphali veste travecti sunt: spectare populus hunc decore imperatorio, illum puerili habitu; 13.15: Turbatus his Nero et propinquo die quo quartum decimum aetatis annum Britannicus explebat. Vedi anche: J. Guillen Cabanero, Vida y costumbres de los romanos I. Vida provada, Salamanca 1988, 275.

 

[81] In tal senso Iuv. 10.306-309: tanta in muneribus fiducia. Nullus ephebum deformem saeva castravit in arce tyrannus, nec praetextatum rapuit Nero loripedem nec strumosum atque utero pariter gibboque tumentem; Sen. Phil., Contr. 4.10: hoc exempto nemo erat scholasticis nec aptior nec similior, sed, dum nihil vult nisi culte, nisi splendide dicere, saepe incidebat in ea, quae derisum effugere non possent. Memini illum, cum libertinum reum defenderet, cui obiciebatur, quod patroni concubinus fuisset, dixisse: 'impudicitia in ingenuo crimen est, in servo necessitas, in liberto officium’. Res in iocos abiit: 'non facis mihi officium' et 'multum ille huic in officiis versatur'. Ex eo impudici et obsceni aliquamdiu officiosi vocitati sunt. E’, tuttavia, necessario precisare che la concezione e la visione dei rapporti omosessuali cambia a seconda del periodo storico a cui ci si riferisce, in particolare, nel periodo repubblicano antecedente alla conquista della Grecia i rapporti omosessuali erano visti con ostilità ed osteggiati, mentre, solo dopo la conquista della Grecia, anche i Romani iniziarono a praticare l’omosessualità solamente con gli schiavi e i liberti. In ogni caso, era deprecabile che un cittadino romano assumesse un ruolo passivo in un rapporto omosessuale, poiché sarebbe stato in conflitto con l’ideologia del dominio e della virilità caratterizzante la società romana. Si vedano: M. Foucault, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità, vol. 2, Milano 1984; D. Dalla, “Ubi venus mutatur”. Omosessualità e diritto nel mondo romano, Milano 1987; C. Williams: Roman Homosexuality, Ideologies of Masculinity in Classical Antiquity, Oxford 1999; T.K. Hubbard: Homosexuality in Greece and Rome, a Sourcebook of Basic Documents, Los Angeles, London 2003; E. Cantarella, Secondo natura. La bisessualità nel mondo antico, Milano 1995.

 

[82] Gai. 3.220: Iniuria autem committitur non solum, cum quis pugno puta aut fuste percussus vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive quis bona alicuius quasi debitoris sciens eum nihil sibi debere proscripserit sive quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripserit sive quis matrem familias aut praetextatum adsectatus fuerit et denique aliis pluribus modis.

 

[83] I. 4.4.1: Iniuria autem committitur non solum cum quis pugno puta aut fustibus caesus vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive cuius bona, quasi debitoris, possessa fuerint ab eo qui intellegebat nihil eum sibi debere, vel si quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripserit, composuerit, ediderit, dolove malo fecerit quo quid eorum fieret; sive quis matremfamilias aut praetextatum praetextatamve adsectatus fuerit, sive cuius pudicitia attentata esse dicetur: et denique aliis pluribus modis admitti iniuriam manifestum est.

 

[84] Coll. 2.5.4: Fit autem iniuria vel in corpore, dum caedimur, vel verbis, dum convicium patimur, vel cum dignitas laeditur, ut cum matronae vel praetextatae comites abducuntur. Iniuriarum actio aut legitima est aut honoraria.

 

[85] D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.), supra: Si quis virgines appellasset, si tamen ancillari veste vestitas, minus peccare videtur, multo minus si meretricia veste feminae, non matrumfamiliarum vestitae fuissent; si igitur non matronali habitu femina fuerit, et quis eam appellavit, vel ei comitem abduxit, iniuriarum tenetur.

 

[86] Dato che non si ha un riferimento esplicito alla formula derivante dal nostro editto e considerando che all’actio iniuriarum mancava l’intentio, Von Lübtow, Zum römischen Injurienrecht, cit., 154-155, ha ricostruito la prima parte della formula nell’ipotesi del comitem abducere, applicabile anche alle altre due fattispecie, in questo modo: Titius iudex esto, quod Ns. Ns. Aae. Aae. comitem abduxit, qua de re agitur, quantum pecunia iudici bonum aequum videbitur ob eam rem Nm. Nm. Ao. Ao. condemnari, dumtaxat sestertium tot. Questa ricostruzione, pur lasciando qualche perplessità a causa del richiamo al iudex invece che ai recuperatores, giustificato peraltro dallo studioso sulla base dell’esistenza di un significato generico di iudex comprensivo anche della figura del collegio dei recuperatores, pone in evidenza - sia pure in via ipotetica - il fatto che la demonstratio era qui limitata alla descrizione dei verba edicti, rafforzando l’idea che nel testo edittale non vi fossero i riferimenti all’abbigliamento, ma che queste riflessioni appartenessero ad Ulpiano.

 

[87] Come si vede in D. 50.16.46.1 (Ulp. 59 ad ed.: Matremfamilias accipere debemus eam, quae non inhoneste vixit; matrem enim familias a ceteris feminis mores discernunt, atque separant; proinde nihil intererit, nupta sit, an vidua, ingenua sit, an libertina; nam neque nuptiae, neque natales faciunt matremfamilias, sed boni mores) e in altri testi non giuridici (Naev., Danae Fragm. 6; Sen. Rhet., Contr. 2.7.3), la categoria comprendeva non solo le donne non sottomesse alla patria potestas, ma anche le figlie di famiglia unite in matrimonio. Quello che rileva è, in effetti, il significato consuetudinario del “vivere onestamente” come caratteristica della donna modello. A proposito dell’ampiezza della nozione di materfamilias si veda. R. Fiori, Materfamilias, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», XCVI-XCVII (1993-1994) 455-498, il quale individua diverse accezioni del termine: donna in manu, donna sui iuris, donna che vive non inhoneste, ossia secondo i boni mores, uxor. Questi diversi significati secondo la dottrina più risalente sono spiegabili nel senso di una evoluzione storica del concetto. W. Kunkel, s.v. Mater familias, in «Realencyclopädie der Classischen Altertumswissenschaft», XIV/2 (1930) coll. 2183-2184, vede il passaggio dal primo al secondo significato in età classica, mentre il terzo e il quarto avrebbero attraversato l’intera storia di Roma, trovandosi tanto nelle commedie di Terenzio quanto negli editti di Adriano. A. Carcaterra, Mater familias, in «Archivio giuridico “Filippo Serafini”», CXXIII (1940) 3-54, ritiene il concetto di donna sui iuris post classico, mentre fino al IV sec. avrebbe conservato il senso di uxor in manu. W. WoŁodkiewicz, Attorno al significato della nozione di materfamilias, in Studi in onore di C. Sanfilippo, III, Milano 1983, 734-756, parla di donna sui iuris per il periodo classico, quando scompare la conventio in manu e si afferma l’idea della mater familias come donna honesta, estesa a tutte le donne. Il significato che il termine ha nel nostro editto coincide molto probabilmente con il significato più ampio di vivere honeste, esteso a tutte le donne, indicando più un modo di essere che uno preciso status giuridico. Questo perché, come sostiene Fiori, donna onesta ha nell’accezione latina un significato ben più pregnante di quello che diamo nella lingua italiana all’aggettivo onesta: la donna onesta è colei che ha honos e che deve comportarsi in maniera conforme a quest’honos. L’honos di un soggetto definisce, in senso assoluto, ciò che la sua maiestas definisce in senso relativo, cioè la sua posizione nella società. Alla materfamilias spettava una particolare maiestas rispetto alle altre donne, e ad essa corrisponde un honos che la qualifica e la distingue nella società, ma che richiede da parte della donna un comportamento conforme alla sua condizione. Ella dovrà essere honesta e, poiché virtù somma della donna romana è la pudicitia, la sua honestas sarà commisurata al rispetto dei boni mores: l’honestas è per la donna quello che per l’uomo è la gravitas, ossia il vivere in conformità della propria maiestas. E tuttavia - anche se la donna incarna l’ideale della mulier romana, così come il pater del vir - poiché la necessità del vivere secondo pudicitia non è esclusiva della materfamilias, ma di tutte le matronae, questa caratterizzazione, da un lato, rende meno netti i confini che la separano dalle altre uxores, dall’altra ne disegna di diversi che separano la donna honesta dalla inhonesta. In accordo con questa concezione di materfamilias in conformità con il ruolo sociale vi sono S. Dixon, The Roman Mother, London, New York 1990, 71 e A. Castresana Herrero, Catálogo de virtudes femeninas, Madrid 1993, 44. Al contrario, Y. Thomas, La divisione dei sessi nel diritto romano, in Storia delle donne in occidente, cit., 142-174, offre una nozione più ristretta del termine: questo indicherebbe la donna sposata, sottolineando che lo status di materfamilias di una donna si realizzava solo per il fatto di essere unita ad un pater familias.

 

[88] Confermato questo da D. 47.10.9.4 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[89] Itaque pati quis iniuriam, etiam si non sentiat, potest, facere nemo, nisi qui scit, se iniuriam facere, etiamsi nesciat, cui faciat. Quare si quis per iocum, aut dum certam, iniuriarum non tenetrur. Si quis homine liberum caeci derit, dum putat servum suum, in ea causa est, ne iniuriarum tenetur.

 

[90] A. Wacke, Accidentes en deporte y juego segun el derecho romano y el vigente derecho aleman, in «Anuario de Historia del Derecho Español», LIX (1989) 569-570; F. Raber, Grundlagen Klassischer Injurienansprüchen, Wien-Köln-Graz 1969, 10-22; Wittmann, Die Koerperverletzung an freien im Klassischen Roemischen Recht, cit., 231; A. Wacke, Incidenti nello sport e nel gioco in diritto romano e moderno, in «INDEX», XIX (1991) 378; A. Rodger, Introducing iniuria, in «The Legal History Review», LIX (1991) 5-8; E. Hoebenreich, Ueberlegungen Verfolgung unbeabsichtigter Toetungen von Sulla bis Hadrian, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», CXX (1990) 274-278.

 

[91] M. Talamanca, Estudios en homenaje al Profesor Juan Iglesias con motivo de sus bodas de oro con la ensenanza, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», XCI (1988) 807; Marrone, Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, cit., 231; M. Morabito, Les esclaves privilegies à travers le Digeste temoins et acteurs d’une société en crise, in «Index», 13 (1985) 489-490; Plescia, The development of iniuria, cit., 272; Rodger, Introducing iniuria, cit., 5-8; A. Wacke, Notwehr und Notstand bei der Aquilischen Haftung, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», CXIX (1989) 483-484.

 

[92] A proposito dell’etica sessuale del primo periodo cristiano si veda: P. Brown, Il corpo e la società. Uomini, donne e astinenza sessuale nel primo cristianesimo, Torino 1988, 371-388.

 

[93] Vi sono riferimenti alla pudicitia della schiava, oltre che in Sen. Rhet., Controv. 4.10, anche in Hor., Sat. 1.2.114-119: Num, tibi cum fauces urit sitis, aurea quadri, pocula? Num esuriens fastidis omnia praeter, pavonem rhombumque? Tumen tibi cum inguina, num, si, ancilla aut verna est praesto puer, impetus in quem, continuo fiat, malis tentigine rumpi? Non ego, namque parabilem amo venerem facilemque; Mart., Epig. 14.205: Sit nobis aetate puer, non pumice levis, propter quem placeat nulla puella mihi.

 

[94] Vedi: Lenel, EP, cit., §§ 194; Dalla, “Ubi Venus mutatur”, omosessualità e diritto nel mondo romano, cit., 44-46; F. Reduzzi Merola, “Servi ordinarii” e schiavi vicari nei “responsa” di Servio, in «INDEX», XVII (1989) 185-189; EAD., Servus parere. Studi sulla condizione giuridica degli schiavi vicari e dei sottoposti a schiavi nelle esperienze greca e romana, Napoli 1990; F. Botta, ECL. 17.21: alle origini dell’obbligo giuridico di fedeltà reciproca tra coniugi, in Studi per G. Nicosia, Vol. II, 2007, 78-85; M. Miglietta, “Actio de iniuriis quae servis fiunt”, in Handworterbuch der antiken Sklaverei, vol. 5, a cura di H. HEINEN, Stuttgart 2007.

 

[95] Così Guarino, Le matrone e i pappagalli, cit., 175. Sulla stessa linea anche Santa Cruz Teijeiro, La iniuria en Derecho Romano, cit., 535. Diversamente Raber, il quale ritiene che l’applicabilità dell’editto de adtemptata pudicitia agli schiavi si desumerebbe dal passo di Ulpiano sopra citato. Lo stesso passo viene ritenuto non genuino da Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, cit., 480, il quale sostiene che i servi non potessero essere tutelati dall’editto de adtemptata pudicitia, dato l’uso dei proprietari di prostituire i propri schiavi.

 

[96] Ernout-Meillet, s.v. Appello, -as, -avi, -atum, -are, in Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 40; H. Heumann-E. Seckel, Handlexikon zu den Quellen des römischen Rechts, Jena 1958, s.v. Appellare.

 

[97] Lenel, EP, cit., § 191.

 

[98] Ernout-Meillet, s.v. Blandus, -a, -um, in Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 71.

 

[99] Ernout-Meillet, s.v. Adtempto, -as, -avi, -atum, -are, composto di Tempto, -as, -avi, -atum, -are, in Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 681. Evidenziando il fine del corrompere l’altrui pudicitia, E. Polay, Der Schutz der Ehre und des Guten Rufes im Roemischen Recht, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», CXIX (1989) 502-534.

 

[100] S.F. Bonner, Educations in Ancien Rome, London 1977, 46-74; E. Cantarella, La vita delle donne, in Storia di Roma, 4. Caratteri e morfologie, Roma 1989, 557-608; Dixon, The Roman Mother, cit., 142; K.R. Bradley, Child care at Rome: the role of men, in Historical reflections/Reflexions historiques 12 (1985) 485-523. Testimonianze importanti sono: Quint., Instit. 1.1.12: A sermone Graeco puerum incipere malo, quia Latinum, qui pluribus in usu est, vel nobis nolentibus perbibet, simul quia disciplinis quoque Graecis prius instituendus est, unde et nostrae fluxerunt; Cic., de amic. 74: Omnino amicitiae corroboratis iam confirmatisque et ingeniis et aetatibus iudicandae sunt, nec si qui ineunte aetate venandi aut pilae studiosi fuerunt, eos habere necessarios quos tum eodem studio praeditos dilexerunt. Isto enim modo nutrices et paedagogi iure vetustatis plurimum benevolentiae postulabunt; qui neglegendi quidem non sunt sed alio quodam modo aestimandi. Aliter amicitiae stabiles permanere non possunt. Dispares enim mores disparia studia sequuntur, quorum dissimilitudo dissociat amicitias; nec ob aliam causam ullam boni improbis, improbi bonis amici esse non possunt, nisi quod tanta est inter eos, quanta maxima potest esse, morum studiorumque distantia; Svet., Aug. 44: Spectandi confusissimum ac solutissimum morem correxit ordinavitque, motus iniuria senatoris, quem Puteolis per celeberrimos ludos consessu frequenti nemo receperat. Facto igitur decreto patrum ut, quotiens quid spectaculi usquam publice ederetur, primus subselliorum ordo vacaret senatoribus, Romae legatos liberarum sociarumque gentium vetuit in orchestra sedere, cum quosdam etiam libertini generis mitti deprendisset. Militem secrevit a polpulo. Maritis e plebe proprios ordines assignavit, praetextatis cuneum suum, et proximum paedagogis, sanxitque ne quis pullatorum media cavea sederet. Feminis ne gladiatores quidem, quos promiscue spectari sollemne olim erat, nisi ex superiore loco spectare concessit. Solis virginibus Vestalibus locum in theatro separatim et contra praetoris tribunal dedit. Athletarum vero spectaculo muliebre secus omne adeo summovit, ut pontificalibus ludis pugilum par postulatum distulerit in insequentis diei matutinum tempus edixeritque mulieres ante horam quintam venire in theatrum non placere; Svet., Claud. 2: Claudius natus est Iulo Antonio Fabio Africano conss. Kal. Aug. Luguduni eo ipso die quo primum ara ibi Augusto dedicata est, appellatusque Tiberius Claudius Drusus. Mox fratre maiore in Iuliam familiam adoptato Germanici cognomen assumpsit. Infans autem relictus a patre ac per omne fere pueritiae atque adulescentiae tempus variis et tenacibus morbis conflictatus est, adeo ut animo simul et corpore hebetato ne progressa quidem aetate ulli publico privatoque muneri habilis existimaretur. Diu atque etiam post tutelam receptam alieni arbitrii et sub paedagogo fuit; quem barbarum et olim superiumentarium ex industria sibi appositum, ut se quibuscumque de causis quam saevissime coerceret, ipse quodam libello conqueritur. Ob hanc eandem valitudinem et gladiatorio munere, quod simul cum fratre memoriae patris edebat, palliolatus novo more praesedit; et togae virilis die circa mediam noctem sine sollemni officio lectica in Capitolium latus est.

 

[101] Raber, Frauentracht und “iniuria” durch “appellare”, cit., 365-366.

 

[102] Petr., Satyr. 9; 12.

 

[103] Ars Amatoria I.385.

 

[104] Lenel, EP, cit., §194; D. 47.10.15.38-44 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[105] Gai. 3.220: Iniuriam autem committitur non solum, cum quis pugno aut puta aut fuste percussus vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive quis bona alicuis quasi debitoris sciens eum nihil sibi debere proscripserit, sive quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripserit, sive quis matrem familias aut praetextatum adsectatus fuerit, et denique aliis pluribus modis.

 

[106] I. 4.4.1: Iniuria autem committitur non solum, cum quis pugno puta aut fustibus caesus vel etiam verberatus erit, sed etiam si cui convicium factum fuerit, sive cuius bona quasi debitoris possessa fuerint ab eo, qui intellegebat nihil eum sibi debere, vel si quis ad infamiam alicuius libellum aut carmen scripseri, composuerit, ediderit, dolove malo fecerit, quo quid eorum fieret, sive quis matremfamilias aut praetextatum praetextatamve assectatus fuerit, sive cuius pudicitia attentata esse dicetur; et denique aliis pluribus modis admitti iniuriam, manifestum est.

 

[107] Ernout-Meillet, s.v. Adsequor, -eris, -adsecutus sum, adsequi, composto di Sequor, -eris, -secutus sum, -sequi, in Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., 616.

 

[108] Nell’edizione del Mommsen-Krueger, Digesta Justiniani, II, Berlin 1870, 778, è riportato l’avverbio adsiduo, mentre in nota si propone adsidua. Nel contesto la differenza non sarebbe rilevante, tuttavia è possibile notare come, a differenza dell’avverbio adsiduo, l’aggettivo adsidua consentirebbe di cogliere anche una sfumatura spaziale, oltre che temporale.

 

[109] Secondo H.R. Mezger, Stipulation und letztwillige Verügung “contra bonos mores”, in Klassischen-römischen und nachklassischen Recht, Göttingen 1930, 18-25, la parte da non eius a generaliter accipiendum sarebbe da espungere dal testo, poiché, rappresentando una ripetizione, la sua eliminazione renderebbe il testo maggiormente comprensibile. In realtà, come la maggior parte degli studiosi sostiene al riguardo, il testo risulta perfettamente comprensibile senza ricorrere ad alcuna ipotesi di interpolazione. Si vedano sul punto: Daube, Ne quid infamandi causa fiat. The law of defamation, cit., 415; Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, cit., 479; Huvelin, La notion de “l’iniuria” dans les très ancien droit romain, cit., 99; Raber, Grundlagen klassischer Injurienansprüchen, cit., 26; Manfredini, La diffamazione verbale nel diritto romano, cit., 80.

 

[110] E. De Ruggiero, s.v. censor, in Dizionario epigrafico di antichità romane, Roma 1961, 164; E. Baltrusch, Regimen morum: Die Reglementierung des Privatlebens der Senatoren und Ritter in der römischen Republik und frühen Kaiserzeit, in Vestigia 41, München 1989; M. Humm, Appius Claudius Caecus: la République accomplie, Rome 2005.

 

[111] Res Gest. I.6. Ma Augusto volle precisare che, rifiutata la cura morum et legum, in quest’ambito portò a compimento il compito affidatogli sulla base della sua tribunicia potestas.

 

[112] E’ in testi giustinianei che si trova la enunciazione di carattere generale della invalidità di quei negozi. Da testi classici o anche rimaneggiati risultano numerosi casi particolari: o il negozio persegue direttamente un fine giuridicamente illecito o immorale. La sanzione è l’invalidità, che nelle enunciazioni giustinianee sembra apparire decisamente come nullità. Sul piano pratico il pretore negava l’azione o concedeva contro la pretesa l’exceptio doli. Vedi sul tema Plescia, The development of the Doctrine of Boni Mores in Roman Law, cit., 300-310; R. Zimmerman, The Law of obligations: Roman foundation of the civilian tradition, Oxford 1996, 707-712.

 

[113] Si vedano in questo senso i passi in tema di deposito, mandato e stipulatio: D. 16.3.1.7 (Ulp. 30 ad ed.), Illud non probabis, dolum non esse praestandum si convenerit: nam haec conventio contra bonam fidem contraque bonos mores est et ideo nec sequenda est; D. 17.1.7 (Pap. 3 resp.), Salarium procuratori constitutum si extra ordinem peti coeperit, considerandum erit, laborem dominus remunerare voluerit atque ideo fidem adhiberi placitis oporteat an eventum litium maioris pecuniae praemio contra bonos mores procurator redemerit; D. 45.1.61 (Iul. 2 ad Urs. Ferocem.), Stipulatio hoc modo concepta: "si heredem me non feceris, tantum dare spondes?” inutilis est, quia contra bonos mores est haec stipulatio; D. 45.1.134 pr. (Paul. 15 resp.), Titia, quae ex alio filium habebat, in matrimonium coit Gaio Seio habente familiam: et tempore matrimonii consenserunt, ut filia Gaii Seii filio Titiae desponderetur, et interpositum est instrumentum et adiecta poena, si quis eorum nuptiis impedimento fuisset: postea Gaius Seius constante matrimonio diem suum obiit et filia eius noluit nubere: quaero, an Gaii Seii heredes teneantur ex stipulatione. Respondit ex stipulatione, quae proponeretur, cum non secundum bonos mores interposita sit, agenti exceptionem doli mali obstaturam, quia inhonestum visum est vinculo poenae matrimonia obstringi sive futura sive iam contracta. Riguardano, invece, l’usufrutto, lo scioglimento del matrimonio e la cura furiosi, i boni mores contemplati in: D. 22.1.5 (Pap. 28 quaest.), D. 24.3.14 (Ulp. 34 ad Sab.), D. 27.10.1 pr. (Ulp. 1 ad Sab.). Notevole è la rilevanza in materia di testamento e donazioni: D. 28.7.9 (Paul. 45 ad ed.), D. 28.7.14 (Marc. 4 inst.), D. 28.7.15 (Pap. 16 quaest.), D. 30.112.3 (Marc. 6 inst.), D. 39.5.29.2 (Pap. 10 resp.). Infine in D. 43.16.1.28 (Ulp. 69 ad ed.) i boni mores vengono in considerazione in tema di interdetti a tutela del possesso.

 

[114] D. 47.10.15.20 (Ulp. 57 ad ed.), D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.), D. 47.10.15.34 (Ulp. 57 ad ed.), D. 47.10.15.38-39 (Ulp. 57 ad ed.), D.47.10.33 (Paul. 10 ad Sab.).

 

[115] D. 47.10.15.23 (Ulp. 57 ad ed.).

 

[116] T. Mayer-Maly, Contra bonos mores, in Iuris professio, Festgabe für Max Kaser zum 80. Geburtsag, Wien, Köln, Graz 1986, 151-167.

 

[117] D. 44.4.4.16 (Ulp. 76 ad ed.); D. 28.7.9 (Paul. ad ed.).; Paul. Sent. 3.4b.2; C. 2.2.1 (Sev. Alex.).

 

[118] Gai. 3.157.

 

[119] D. 28.7.15.

 

[120] Paul. Sent 1.1.4: Neque contra leges neque contra bonos mores pacisci possumus; Cons. 4.7: Item eodem liber et titulus: Neque contra leges neque contra bonos mores pacisci possumus. De criminibus propter infamiam nemo cum adversario pacisci potest; Cons. 4.8: Idem liber III titulus De institu. hered.: Pacta vel condiciones contra leges vel decreta principum vel bonos mores nullius sunt momenti; Paul. Sent. 3.4b.2: Condiciones contra leges et decreta principum vel bonos mores adscriptae nullius sunt momenti: veluti si uxorem non duxeris, si filios non susceperis, si homicidium feceris, si larvali habituprocesseris et his similia.

 

[121] C. 2.3.6 (Imp. Antoninus A. Iuliae Basiliae): Pacta, quae contra leges constitutionesque vel contra bonos mores fiunt, nullam vim habere indubitati iuris est.

 

[122] Cons. 9.10: Pacta, quae contra bonos mores interponuntur, iuris ratio non tuetur.

 

[123] Cons. 4.9: Neque ex nudo nascitur pacto actio, neque si contra bonos mores verborum intercessit obligatio, ex his actionem dari convenit et reliqua; Cons. 4.10: Inter cetera et ad locum: pactum neque contra bonos mores neque contra leges emissum valet ei reliqua.

 

[124] Coll. 2.5.2: Commune omnibus iniuriis est, quod semper adversus bonos mores fit idque non fieri alicuius interest; Paul. Sent. 5.4.13: Fit iniuria contra bonos mores, veluti si quis fimo corrupto aliquem, coeno, luto oblinierit, aquas spurcaverit, fustulas, lacus, quidue aliud in iniuriam publicam contaminaverit, in quos graviter animadverti solet.

 

[125] Polay, Iniuria types in Roman Law, cit., 94-115.

 

[126] A tal proposito, tuttavia, Talamanca invita a non dimenticare che l’essenza del delitto di iniuria e delle sue varie fattispecie, sta nell’offesa personale, anche quando la sua tutela appare mediata da altri aspetti, come nel caso dell’iniuria servi in cui viene in rilevanza la dignità del proprietario: M. Talamanca, Recensione a E. Polay, Iniuria Types in Roman Law, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», LXXXIX (1986) 562-568.

 

[127] M. Bettini, Le orecchie di Hermes, Torino 2000, 242-292. Lo studio è una raccolta di saggi di antropologia del mondo antico che si articola in tre sezioni: l’obiettivo è ricostruire i luoghi e i simboli della comunicazione nel mondo antico. In questo percorso lo studioso analizza il meccanismo antropologico secondo cui la cultura romana utilizza termini come mos e mores e grazie al quale si avrebbe la trasformazione dei mores maiorum da modello di comportamento a funzione pragmatica della comunicazione.

 

[128] Supra.

 

[129] Isid., Etymol. 5.3.2: Mos est vetustate probata consuetudo, sive lex non scripta. Nam lex a legendo vocata, quia scripta est. Mos autem longa consuetudo est de moribus tracta tantundem.

 

[130] Varr., De ling. lat. 9.2: Alia enim consuetudo populi universi, alia singulorum, et de ieis non eadem oratoris et poetae, quod eorum non idem ius. Itaque populus universus debet in omnibus verbis uti analogia et, si perperam est consuetus, corrigere se ipsum, cum orator non debeat in omnibus uti, quod sine offensione non potest facere, cum poeta transilire lineas impune possit. Populus enim in sua potestate, singuli in illius: itaque ut suam quisque consuetudinem, si mala est, corrigere debet, sic populus suam. Ego populi consuetudinis non sum ut dominus, at ille meae est.

 

[131] Varr., Logist. fr. 74, ed. Bolisani: Morem esse in iudicio animi, quem sequi debeat consuetudo.

 

[132] D. 47.10.15.6 (Ulp. 57 ad ed.): Idem ait: “adversus bonos mores” sic accipiendum, non eius, qui fecit, sed generaliter accipiendum adversus bonos mores huius civitatis.

 

[133] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 777 n. 2.

 

[134] R. Astolfi, Femina probosa, concubina, mater solitaria, in «Studia et documenta historiae et iuris», XXXI (1965) 24; A.D. Manfredini, Qui commutant cum feminis vestem, in «Revue internationale des droits de l'Antiquité», XXXII (1985) 266.

 

[135] Come evidenzia P. Leuregans, Testamenti factio non privati sed publici iuris est, in «Revue d'histoire du droit», LIII (1975) 249, a proposito di D. 30.112.3 (Marc. 6 inst.), in cui si legge: Quod contra ius est vel bonos mores, a cui l’A. collega D. 2.14.27.4 (Paul. 3 ad ed.); D. 44.4.4.16 (Ulp. 76 ad ed).

 

[136] Un più intenso legame tra mores e diritto appare confermato da Quint., Instit. 12.3.6-7: Namque omne ius, quod est certum, aut scripto aut moribus constat, dubium aequitatis regula examinandum est; quae scripta sunt aut posita in more civitatis, nullam habent difficultatem, cognitionis sunt enim, non inventionis: at quae consultorum responsis explicantur, aut in verborum interpretatione sunt posita aut in recti pravi que discrimine. Vim cuiusque vocis intellegere aut commune prudentium est aut proprium oratoris, aequitas optimo cuique notissima.

 

[137] D. 47.10.13.1 (Ulp. 57 ad ed.): Is, qui, iure publico utitur non videtur iniuriae faciendae causa hoc facere: iuris enim executio non habet iniuriam.

 

[138] D. 47.10.33 (Paul. 10 ad Sab.): Quod rei publicae venerandae causa secundum bonos mores fit, etiamsi ad contumeliam alicuius pertinet, quia tamen non ea mente magistratus facit, ut iniuriam faciat, sed ad vindictam maiestatis publicae respiciat, actione iniuriarum non tenetur.

 

[139] La contrarietà ai boni mores, intesa quale contraddizione al comune senso del pudore diffuso nella civitas, è ribadita da M. Kaser, Rechtswidrigkeit und Sittenwidrigkeit in klassischen römischen Recht, in «Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte», LX (1940) 131; ID., Das Römische Privatrecht, I. Das altrömische, das vorklassische Recht, II, Die nachklassische Entwicklungen, München 1971-1975, 195-196.

 

[140] Ulp. D. 47.10.9 pr. (57 ad ed.): Sed est quaestionis, quod dicimus re iniuriam atrocem fieri, utrum, si corpori inferatur, atrox sit, an et si non corpori, ut puta vestimentis scissis, comite abduco vel convicio dicto; Ulp D. 47.10.1.2 (56 ad ed.): Omnemque iniuriam aut corpus inferri aut dignitatem aut ad infamiam pertinere: in corpus fit, cum quis pulsatur: ad dignitatem, cum comes matronae abducitur. Ad infamiam, cum pudicitia adtemptatur.

 

[141] Come sottolinea Marrone, Considerazioni in tema di iniuria, cit., 480; ID., Recensione a F. Raber, Grundlagen klassischer Injurienanspruche, cit., 155.

 

[142] F. Grelle, La “correctio morum” nella legislazione flavia, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», Principat II, 340-365.

 

[143] G. Rizzelli, Le donne nell’esperienza giuridica romana. Il controllo dei comportamenti sessuali, Lecce 1997, 22-39, 52-55, 60-62.

 

[144] Con questo poeta, esponente della poesia neoterica, all’eros non è più riservato lo spazio marginale che gli accordava la morale tradizionale, ma diventa centro dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana. Sulla figura di Catullo vedi da ultimo P. Fedeli, Donne e amore nella poesia di Catullo, in Atti del convegno su “La donna romana nel mondo antico”, Torino 1986; V. Ciaffi, Il mondo di Gaio Valerio Catullo e la sua poesia, Bologna 1987; P. Fedeli, Introduzione a Catullo, Bari 1998; W. Menichelli, Catullo: eros e amore, Milano 1995; A. Ghiselli, Catullo, il Passer di Lesbia e altri scritti catulliani, Bologna 2005.

 

[145] Nella poesia elegiaca, in particolare in Properzio, l’amore è l’esperienza unica e assoluta, ed è esso stesso un mezzo di corteggiamento, che deve cooperare a sedurre l’amata. Questo modo di concepire l’esistenza costituisce un consapevole sovvertimento dei valori morali del civis romano: ai valori positivi su cui si fondava la vita civilmente impegnata, il poeta d’amore sostituisce, facendone la propria aspirazione, una serie di disvalori: dalla desidia all’ignavia, dall’inerzia all’infamia, alla nequitia. Su questi temi vedi P. Veyne, La poesia, l’amore, l’occidente. L’elegia erotica romana, Bologna 1985, 113-145; S. Alfonso, Il poeta elegiaco e il viaggio d’amore: dall’innamoramento alla crisi, Bari 1990; G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina, Lo spazio letterario di Roma antica, Roma-Bari 1991; P. Pinotti, L’elegia latina storia di una forma poetica, Roma 2002; D. Corvino, Nuove proposte letterarie latine, Napoli 2004.

 

[146] Si veda a tal proposito: E. Migliario, Contesti cronologici e riflessioni storiche nelle suasoriae senecane, in La cultura storica nei primi due secoli dell’Impero romano, a cura di L. TROIANI, G. ZECCHINI, Roma 2005, 99-110; ID., Cultura politica e scuole di retorica a Roma in età augustea, in Retorica ed educazione delle élites nell'antica Roma, a cura di F. GASTI, E. ROMANO, Como-Pavia 2008.

 

[147] Sul punto vd.: M. Trozzi, Ovidio e i suoi tempi amori fasti e scandali di Roma imperiale, Catania 1930; R. Abbot, Ovid- Poet of Immorality and Non-Conformity, in «Pegasus», 5 (1966) 3-9; M. Labate, Poetica ovidiana dell’elegia: la retorica della città, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», III (1979) 9-67; A. Barchiesi, Il poeta e il principe. Ovidio e il discorso augusteo, Bari 1994; E.M. Ariemma, Gli dei garanti dell’impunità. Ovidio e il giuramento d’amore in Ars I, 361-646, in Ovidio: da Roma all’Europa, a cura di I. GAllo e P. Esposito, Napoli 1998, 131-158; P.J. Davis, Ovid and Augustus: a political reading of Ovid’s erotic poems, London 2008.

 

[148] Nell’8 d.C. il poeta venne colpito inaspettatamente da Augusto con la relegatio a Tomi (l’odierna Costanza), sulle coste del Mar Nero. I motivi restano ignoti: il poeta stesso accenna in modo volutamente vago ad un carmen e ad un error. Poiché l’Ars amatoria venne ritirata dalle biblioteche pubbliche, non si sarà lontani dal vero nel ritenere questo il carmen a cui allude Ovidio. A tal proposito vedi: L. Desiato, Sulle rive del mar nero, Milano 1992; A. Luisi, N.F. Berrino, Culpa silenda: le elegie dell’error ovidiano, Bari 2002; G.M. Masselli, Il rancore dell’esule: Ovidio, l’ibis e i modi di un’invettiva, Bari 2002; I. Ciccarelli, Commento al II libro dei Tristia di Ovidio, Bari 2003. D’altra parte, va ricordato che la data della legislazione augustea è ancora un tema molto dibattuto, ed anche per tale ragione non possiamo affermare con certezza che sia stata l’opera in questione il motivo di scontro tra il poeta e il princeps. In particolare sul tema vd.: V. Arangio-Ruiz, La legislazione, in Augustus. Studi in occasione del Bimillenario, Roma 1938 (= Studi di diritto romano, III, 1977), 264; F. Della Corte, Le leges Iuliae e l’elegia romana, in «Aufstieg und Niedergang der römischen Welt», II, 30.1, 1982, 539-558.

 

[149] Ars Amatoria I.1-4: Si quis in hoc artem populo non novit amandi/ hoc legat et lecto carmine doctus amet/ Arte citae veloque rates remoque moventur/ arte leves currus: arte regendus Amor; 1.265-270: Nunc tibi/ quae placuit/ quas sit capienda per artes/ Dicere praecipuae molior artis opus/ Quisquis ubique, viri, dociles advertite mentes/ Pollicitisque favens, vulgus, adeste meis.

 

[150] B. Otis, Ovid as an epic poet, Cambridge 1970; A.S. Hollis, The Ars Amatoria and Remedia Amoris, in Ovid, ed. by J.W. Binns, London 1973, 86-115; G. Rosati, L’esistenza letteraria. Ovidio e l’autocoscienza della poesia, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», II (1979) 101-136; E. Romano, Amores 1,8: l’elegia didattica e il genere dell’Ars Amatoria, in «Orpheus», n.s. 1 (1980) 269-292; R. Dimundo, L’arte della seduzione e il doctus amator ovidiano (Ov. Ars 1, 1-34), in «Bollettino di studi latini», 30 (2000) 19-36; G. Sissa, Eros tiranno. Sessualità e sensualità nel mondo antico, Roma-Bari 2003, 173-212.

 

[151] Sebbene la figura dell’etera sia tipica del mondo greco, anche a Roma si fa ad essa riferimento, sin dalle commedie di Plauto. Si veda sul punto: M. Johnson, T. Ryan, Sexuality in Greek and Roman literature and society, New York-London 2004; J.M. Nieto Ibanez, Estudios sobre la mujer en la cultura grieca y latina, XIII Jornadas de filologia clasica, Leon 2005; E. D’Ambra, Roman Women, Cambridge 2007.

 

[152] Per un’analisi dello sfondo sociale su cui si staglia l’Ars Amatoria di Ovidio vedi: I. Gallo, L. Nicastri, Cultura, poesia e ideologia nell’opera di Ovidio, Napoli 1991, 41-99; 287-293; G. Leto, Publio Ovidio Nasone, versi e precetti d’amore, Torino 1998.

 

[153] Nell’Ars Amatoria (I.31-34), vedi retro, nt. 76.

 

[154] Ars amatoria vv. 599-600: En iterum testor: nihil hic nisi lege remissum / luditur; in nostris instita nulla iocis.

 

[155] Ars amatoria vv. 485-488: Sed quoniam, quamvis vittae careatis honore, / est vobis vestros fallere cura viros, / ancillae puerique manu perarate tabellas,/ pignora nec iuveni credite vestra novo.

 

[156] Ars Amatoria I.41-44: Dum licet et loris passim potes ire solutis, elige cui dicas «tu mihi sola places» / Haec tibi non tenues veniet delapsa per auras / querenda est oculis apta puella tuis. 1.97-100: Sic ruit ad celebres cultissima femina ludos / copia iudicium saepe morata meum est. / Spectatum veniunt spectentur ut ipsa / ille locus casti damna pudoris habet.

 

[157] Tr. G. Leto, Publio Ovidio Nasone. Versi e precetti d’amore, cit., 234-237: Nobili arti impara, romana gioventù, e non soltanto affinché tu difenda trepidanti imputati: come il popolo, il giudice, benché severo, e il senato eletto, si arrenderà la donna, vinta alla tua parola. Ma nascondi i tuoi mezzi, non esibire l’eloquenza, ogni tuo accento da parole eccessive rifugga. Chi, se non uno sciocco, fa un’arringa alla sua tenera amica? Forte avversione nacque da una lettera spesso. Usa invece una lingua vera e parole usuali, seducenti, tuttavia, quasi stando presso di lei parlassi.

 

[158] S. Mariotti, La carriera poetica di Ovidio, in «Belfagor», XII (1957) 609-635; G. Sommariva, La parodia di Lucrezio nell’Ars e nei Remedia amoris, in «Atene e Roma: rassegna trimestrale dell'Associazione Italiana di Cultura classica», XXV (1980) 123-148; M. Labate; L’arte di farsi amare. Modelli culturali e progetto didascalico nell’elegia ovidiana, Pisa 1984, 135; P.J. Davis, Praeceptor amoris: Ovid’s Ars Amatoria and the Augustan idea of Rome, in «Ramus», 24 (1995) 181-195; E. Pianezzola, Ovidio modelli retorici e forma narrativa, Bologna 1999; V. Rimel, Ovid's lovers desire, difference and the poetic imagination, Cambridge 2006.

 

[159] R. Dimundo, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, Bari 2003, 15-23-27-29.

 

[160] Tr. cit., 242-243: Allora potrai dire cose nascoste in criptico linguaggio che lei avverta come a se stessa rivolte lievi dolcezze scrivere in poco vino di modo che quella sulla tavola legga di possederti ormai e guardala negli occhi, con occhi rivelanti passione: un volto silenzioso spesso ha voce e parole. Cerca poi di afferrare per primo quel bicchiere dove ha bevuto e qualunque pietanza abbia sfiorato lei con le sue mani tu prendila, e nel prenderla tocca anche la sua mano.

 

[161] Dimundo, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 55; G. Giangrande, Topoi ellenistici nell’Ars Amatoria, in Cultura poesia ideologia nell’opera di Ovidio, cit., 61-98.

 

[162] Tr. cit., 244-245: Inserisciti, e leggermente accostato a lei, toccale il piede col piede di parlarle è ora. Fuggi via, rozzo Pudore, Venere e la fortuna aiutano chi osa. Ma non sarà soggetta alle mie leggi l’eloquenza tua: bramandola soltanto diventerai facondo. Fingiti innamorato, le ferite a parole simulando: convincila di questo, con qualsiasi arte. Per essere creduti non serve sforzo: di ispirare amore ognuna crede, e pur se brutta a se stessa piace. Ma accade che il simulatore poi s’innamori per davvero e ciò che aveva finto di essere, egli sia. Voi, pertanto, ragazze disponibili siate con chi finge: ciò che or ora è falso diverrà vero amore. Tempo di impadronirsi delle lusinghe di lei, furtivamente, come una riva incline limpida acqua erode, e non essere pigro nell’ammirare il suo volto, i capelli le sue dita bel fatte e il suo piccolo piede. Piace altresì alle oneste che la bellezza riceva elogi le vergini hanno a cuore quella loro bellezza.

 

[163] Dimundo, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 66-83; C.M.C. Green, Terms of Venery: Ars Amatoria I, in «TaPha», CXXVI (1996) 221-263.

 

[164] Tr. cit., 248-249: Baci e dolci parole insieme metterebbe un uomo esperto. Se lei darli non vuole, prenditeli ugualmente.

 

[165] Tr. cit., 250-253: L’uomo si faccia avanti, e pronunci parole di preghiera, imploranti richieste che lei con grazia accetti. Per conquistarla, chiede, che tu la preghi è quello che lei vuole: dai al tuo desiderio un inizio e uno scopo. Giove si rivolgeva alle antiche eroine supplicando; ma donna alcuna, mai corruppe il grande Giove. Se avvertirai che l’alto tuo prestigio rifiuta le preghiere abbandona l’impresa e inverti il tuo cammino. Sono in molte a bramare ciò che fugge e ciò che le incalza a odiare, sii cauto nell’insistere e non sarai tedioso. Non sempre il seduttore dichiari l’intenzione del possesso, l’amore entri coperto dal nome di amicizia.

 

[166] Dimundo, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 123-128; J.F. Miller, Apostrophe, aside and the didactic adressee. Poetic strategies in Ars Amatoria, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», XXXI (1994) 231-242.

 

[167] Ars Amatoria II.152: Dulcibus est verbis mollis alendus amor; II.159-160: Blanditias molles auremque iuvantia verba / adfer ut adventu laeta sit illa tuo; II.333-334: Nec tamen officiis odium quaeratur ab aegra / sit suus in blanda sedulitate modus.

 

[168] D. 47.10.15.15 (Ulp. 57 ad ed.); D. 47.10.15.20-22 (57 ad ed.).

 

[169] Vedi nt. 99.

 

[170] Supra.

 

[171] Ars Amatoria I.351-366: Sed prius ancillam captandae nosse puellae / cura sit: accessus molliet illa tuos. / Proxima consiliis dominae sit ut illa, videto / neve parum tacitis conscia fida iocis. / Hanc tu pollicitis, hanc tu corrumpe rogando: / quod petis, ex facili, si volet illa, feres. / Illa leget tempus (medici quoque tempora servant) / quo facilis dominae mens sit et apta capi; II.251-252: Nec pudor ancillas, ut quaeque erit ordine prima / nec tibi sit servos demeruisse pudor.

 

[172] Dimundo, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 46-50.

 

[173] Tr. L. Canali, Ovidio. Amori, Milano 2000, 132-135: Tu che devi fare la guardia alla tua padrona, Bagoo, ascoltami mentre ti dico poche parole, ma opportune. Ieri vidi la fanciulla a passeggio nel portico che contiene le statue di tutta la prole di Danao. Subito, poiché mi piacque, le inviai un messo, e la invitai con un biglietto. Con trepida mano mi rispose: “Non è possibile”. E a me che ne chiedevo il perché, fu addotta questa ragione: la tua custodia della padrona è troppo serrata. Se sei saggio, custode, credimi, smetti di meritare odio; chi ti teme, finisce col desiderare la tua morte.

 

[174] Supra.

 

[175] Tr. cit., 236-239: Ma ciò che chiede, teme, ciò che vuole, non chiede: che tu insista. Inseguila, ben presto avrai quello che brami. Frattanto se sdraiata sui cuscini verrà condotta in giro, noncurante avvicinati alla sua lettiga e così che nessuno porga alle tue parole odiose orecchie queste se puoi confondi accorto a cenni ambigui. E se poi va a piedi per l’ampio portico, indolentemente, unisciti a lei nel suo passo svagato e ora di precederla cerca, oppure seguila da presso, ora affrettati e ora cammina a passo lento. E non ti vergognare di spostarti dalla corsia centrale di non poche colonne per metterti al suo fianco. Senza di te non sieda splendida nella curva del teatro: reggerà lo spettacolo per te sulle sue spalle. Tu voltati a guardarla, avrai modo di contemplarla a lungo, di dirle molte cose coi sopraccigli, o a cenni. Applaudi quando il mimo saltella nella parte di una donna e sostieni chiunque sia nel ruolo di amante. Se si alza, ti alzerai, finché è seduta resterai seduto: perdi tempo, al capriccio di colei che ti piace.

 

[176] U. Paoli, Vita romana, Firenze 1968; W. Beare, I Romani a teatro, trad. a cura di M. De Nonno, Bari 1986; Dimundo, Ovidio lezioni di amore. Saggio di commento al I Libro dell'Ars amatoria, cit., 232-235.

 

[177] E.J. Kenney, Chassez la femme, in «Classical Quarterly», XLII (1992) 551-552; R. Mayer, La femme retrouvée?, in «Classical Quarterly», XLIII (1993) 503; M. Labate, Passato remoto. Età mitiche e identità augustea in Ovidio, Pisa 2010, 214-231.

 

[178] A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Torino 1979, 181-205; A.R. Sharrock, Ovid and the politics of reading, in «Materiali e discussioni per l'analisi dei testi classici», XXXII (1994) 97-122.

 

[179] T. Habinek, The invention of sexuality in the world-city of Rome, in The Roman Cultural Revolution, Cambridge 1997, 23-43; R. Gibson, S. Green, A. Sharrock, The Art of Love: Bimillenial essays on Ovid’s Ars amatoria and Remedia amoris, Oxford 2006.

 

[180] Per l’importanza del controllo dei comportamenti sessuali nell’ottica della protezione della familia e dell’ordine sociale vd. G. Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche, Napoli 1983, 23-53; Rizzelli, Lex Iulia de adulteriis, Studi sulla disciplina di adulterium, lenocinium, stuprum, cit., 9.

 

[181] A proposito del riflesso delle vicende relative alle donne sulla familia di appartenenza si veda Fayer, La familia romana, Aspetti giuridici ed antiquari, cit., 154-155; 159; 164-165; 278-279.

 

[182] Polay, Iniuria types in Roman Law, cit., 158-159.

 

[183] E. Pianezzola, Conformismo e anticonformismo politico nell’Ars amatoria di Ovidio, in «Quaderni dell’Istituto di Filologia Latina», 2 (1972) 37-58.

 

[184] Per l’uso di affectus come sinonimo di animus iniuriandi vedi anche: D. 44.7.34 pr. (Paul. l. s. de concurr. action.), D.47.10.18.4 (Paul. 55 ad ed.). Sulla tematica più generale del dolo nei delitti privati: S. Perozzi, Istituzioni di diritto romano, II vol. Roma 1928, rist. 1963, 338; Schulz, Classical roman law, cit., 571; C. Sanfilippo, Gli atti illeciti, Catania 1959, 19 ss.; M. Kaser, Typisierter “dolus” im altrömischen Recht, in «Bullettino dell'Istituto di Diritto romano», LXV (1962) 79-104; J. Garcia-Camiñas, La problemática del dolo en el Derecho Romano Clásico, in Derecho de Obligaciones. Homenaje al Profesor J.L. Murga Gener, cit., 971-973.

 

[185] D. 47.10.3 pr.-3 (Ulp. 56 ad ed.): Illud relatum peraquae est, eos, qui iniuriam pati possunt, et facere posse. Sane sunt quidam, qui facere non possunt, ut puta furiosus et impubes, qui doli capax non est: namque hi pati iniuriam solent, non facere. Cum enim iniuria ex affectu facientis consistat, consequens erit dicere hos, sive pulsent sive convicium dicant, iniuriam fecisse non videri. Itaque pati quis iniuriam, etiamsi non sentiat, potest, facere nemo, nisi qui scit se iniuriam facere, etiamsi nesciat cui faciat. Quare si quis per iocum percutiat aut dum certat, iniuriarum non tenetur. Per il dolo nel delitto di iniuria vedi supra, nt. 99.

 

[186] D. 47.10.18.3 (Paul. 55 ad ed.): Si iniuria mihi fiat ab eo, cui sim ignotus, aut si qui putet, me Lucium Titium esse, cum sim Caius Seius, praevalet quod principale est, iniuriam eum mihi facere velle, nam certus ego sum, licet ille putat me alium esse quam sum, ed ideo iniuriarum habeo.