N° 1 - Maggio 2002 - Cronache

 

 

Convegno di studio

Processo civile e processo penale nell’esperienza giuridica del Mondo Antico *

(Siena, 13-15 dicembre 2001)

 

* La cronaca è già apparsa in Studi Senesi, 113 (2001), III.

 

 

Il convegno, svoltosi nella Certosa di Pontignano nei giorni 13, 14 e 15 dicembre 2001, si è aperto con una breve introduzione del prof. Martini, che ha ricordato come l’incontro di studio sia stato voluto ed organizzato dal Circolo Toscano del Diritto Romano e Storia del Diritto “Ugo Coli”, in collaborazione col Dipartimento di Scienze Giuridiche Privatistiche dell’Università degli Studi di Siena. Egli, ringraziando per il finanziamento ricevuto il Magnifico Rettore prof. Tosi e la Banca Monte dei Paschi di Siena, ha inoltre sottolineato come l’iniziativa sia stata dedicata alla memoria del prof. Arnaldo BISCARDI, su suggerimento del prof. Bernardo Santalucia dell’Università di Firenze.

All’incontro hanno partecipato molti romanisti italiani, non pochi dei quali hanno preso le mosse dalle posizioni dottrinali del Maestro, pur talvolta distaccandosene, nonché due studiosi stranieri, uno dei quali (Paricio) si considera a tutti gli effetti allievo del prof. Biscardi. Mentre si sono dovute constatare alcune assenze forzate, si è peraltro preso atto con piacere di un’ampia presenza di giovani studiosi della materia (con ospitalità da parte dell’organizzazione per i non strutturati), alcuni dei quali sono intervenuti con proprie brillanti relazioni. Infine, va segnalato come un adeguato spazio sia stato riservato al tema del processo nel mondo greco, materia particolarmente approfondita da Biscardi.

Nel dare conto delle relazioni nell’ordine in cui sono state presentate, si formula l’avvertenza che, a seguito e cagione delle già lamentate assenze, l’ordine stesso si distacca da quanto originariamente previsto in maniera sistematica dal programma.  

Il professor NICOSIA (Cicerone e la Lex Aebutia) ha aperto i lavori della prima giornata, sviluppando la sua riflessione sulla presunta ignoranza di Cicerone riguardo la Lex Aebutia (egli, infatti, non la cita mai). Dopo aver riassunto le controversie dottrinali circa la datazione della legge, il Relatore ha aderito alla tesi che la colloca negli ultimi decenni del II secolo d.C., grazie al riferimento ai due soli testi (Gaio e Gellio) che ce ne parlano. Nicosia ha altresì preso in esame un brano di Cicerone (De lege agr. 2, 8, 21), in cui un’espressione equivoca (altera Aebutia) è suscettibile di assumere un significato rivelatore, facendo ipotizzare che Cicerone non ignorasse la Lex Aebutia, ma anzi la sottintendesse in quanto estremamente nota.

Il professor BIANCHI (Le actiones quae ad legis actionem exprimuntur in Gaio. Una nuova ipotesi sulla catégorie d’actions négligée par les romanistes) si é soffermato sull’esame di Gaio 4,33, ove è affermato che non esistono azioni fittizie basate sulla legis actio per condictionem. Contrariamente a quanto affermato dalla gran parte della dottrina, che cioè esistessero finzioni basate su tutti gli altri tipi di legis actiones (anche se direttamente non ne siamo a conoscenza, causa una lacuna immediatamente precedente il paragrafo 4,33), Bianchi ha argomentato, sulla base del confronto con altri brani gaiani, che vi sarebbe stata azione fittizia solo sul modello della pignoris capio (id est, l’unica di cui abbiamo traccia, perché sopravvissuta alla lacuna). Secondo il Relatore, dunque, l’azione fittizia esemplata sulla legis actio per pignoris capionem, nelle sue varie applicazioni, avrebbe esaurito la categoria delle actiones quae ad legis actionem exprimuntur.

L’intervento della dott.ssa GIACHI (Storia dell’editto in età pre-adrianea. Un’ipotesi di lavoro) nasce dallo studio del commento all’editto (pre-giulianeo) di Sesto Pedio (dalla giovane studiosa collocato nella seconda metà del I secolo d.C.), che presenta un singolare andamento. Dal confronto fra la ricostruzione palingenetica dell’opera di Pedio e quella del commento ulpianeo si deduce che in due sezioni – quella tra i libri IX e XV e l’altra tra i libri XV e XXV – la proporzione tra i due commenti salta completamente: in una sezione, infatti, il commento di Pedio pare singolarmente ristretto, mentre nell’altra segnatamente dilatato. Spiegazione di questa anomalia potrebbe essere lo spostamento di alcune rubriche contenenti formule senza editto, tratte dal titolo edittale XV, nella numerazione del Lenel, che al tempo di Pedio non avrebbero occupato questa posizione, ma si sarebbero trovate in corrispondenza della sezione dell’editto il cui commento ad opera di Pedio ci appare – confrontato con quello di Ulpiano – particolarmente esteso.

Il prof. PARICIO (Genesi e natura dei bonae fidei iudicia), dopo aver ricordato le più importanti tesi sull’origine dei iudicia bonae fidei di Broggini, Luigi Lombardi Vallauri e Franz Wieacker, ha negato il fondamento pretorio di tali azioni sottolineandone l’origine civile. Sulla base anche dell’esegesi di Gai 4,10 e 4,33, lo studioso ha sostenuto che l’espressione oportere ex fide bona sarebbe stata inserita nelle relative formule solo tardivamente dai giuristi del II secolo d.C.. Studiando l’actio fiduciae, la più antica di tali azioni (ed estendendo, seppure ipoteticamente, le relative osservazioni anche all’actio rei uxoriae), risulterebbe evidente che essa (priva della clausola dell’oportere ex fide bona) non può aver avuto fondamento nell’imperium del magistrato: nata in ambito cittadino, si fonda sul mos maiorum e sulla fides ancestrale, solo in seguito si sarebbe estesa agli stranieri; in altri termini i giudizi di buona fede non possono che essere stati ‘civili’ nella loro nascita, mentre il ruolo del pretore nel recepirle, fu solo successivo.

Il professor CANNATA (Omnia iudicia absolutoria esse) ha tenuto una comunicazione suggestiva e volutamente provocatoria, avente ad oggetto il problema dello scopo del processo romano. Egli ha sostenuto che l’espressione gaiana, che ha dato il titolo all’intervento, non si riferirebbe ad un caso marginale, ma assumerebbe pregnanza e portata generale. Il Relatore ha affermato che Sabino e Cassio avrebbero inteso dire che tutti i processi erano teleologicamente indirizzati all’assoluzione del convenuto. Questi, nel caso in cui avesse torto, doveva soddisfare la pretesa dell’attore: o l’attore affermava l’avvenuto soddisfacimento, od era il pretore ad accertarlo. Cannata ha, quindi, concluso che, nei casi in cui si giungeva ad una condanna, questa sarebbe stata una “pezza”, ed il processo non avrebbe raggiunto il suo obiettivo. 

La relazione del prof. SANTALUCIA (Osservazioni sulle quaestiones presillane) ha concluso i lavori della prima giornata del convegno. Lo studioso propone di discutere, per più ragioni, la tesi che oggi gode di maggior credito in dottrina, secondo cui le corti pre-sillane, quando si introdusse l’accusatio publica, sarebbero state presiedute dal pretore. Nel 197 d.C. vennero aggiunti due pretori a quelli già esistenti e così il loro numero salì a sei non venendo più aumentato fino all’età di Silla. Allo stesso tempo, però, il numero degli incarichi che competevano ai pretori si moltiplicarono, tanto che si rese ad un certo punto necessario ricorrere a degli espedienti quale quello della prorogatio, per consentire il corretto svolgimento dei compiti che gravavano su quei magistrati. Ebbene, che in tale situazione si sia pensato, come crede tra gli altri Mommsen, di risolvere il problema dell’affidamento della presidenza delle nuove quaestiones che venivano via via create ai pretori parrebbe davvero poco convincente. Le corti permanenti che avevano già visto la luce prima di Silla furono, secondo Santalucia, presiedute dagli iudices quaestionis, come si può desumere dallo studio di varie testimonianze pre-sillane, solitamente trascurate dagli studiosi, e da alcune peculiarità che ancora in età sillana caratterizzano tali magistrati. 

Il professor MARRONE (Danno temuto, danno già verificato ed officium iudicis) è stato il primo studioso a parlare nella seconda giornata del convegno. Egli  ha dedicato il suo intervento alle incombenze del giudice in relazione a situazioni in cui occorreva rimuovere danni già verificati, o si temeva il loro verificarsi da parte del proprietario di un fondo. Egli ha riportato numerosi testi dal Digesto e da Gaio, da cui emerge che il diritto di ottenere la rimozione dei danni spettava solo ove fosse stata prestata un idonea cautio (de damno praeteritum o futuro). In assenza di essa, il meccanismo processuale per far valere il suddetto diritto è stato individuato dal Relatore nell’actio ad exhibendum, come si ricava dal continuo riferimento ad essa nei vari testi considerati.

Il professor RANDAZZO (Doppio grado di giurisdizione e potere politico nel primo secolo dell’impero) ha, nella sua relazione, scorso i primi decenni del principato alla ricerca di una connessione tra l’evolversi del potere politico verso l’accentramento, e l’esercizio della funzione giudiziaria di secondo grado. Il Relatore ha evidenziato la natura formale dell’attribuzione al princeps del potere di giudicare in appello, attribuzione di carattere naturalmente processuale, ma strettamente connessa alla sua posizione costituzionale. A ciò va riconnessa, secondo Randazzo, anche la rottura che l’introduzione di un secondo grado di giudizio ha causato nell’ambito del sistema processuale romano, creando i presupposti, con la creazione di un tale potere in capo all’imperatore, per il trasferimento della funzione giudiziaria ai funzionari pubblici. La conclusione è che Augusto abbia utilizzato l’appello come strumento di indirizzo politico.

La professoressa BASSANELLI SOMMARIVA (Il problema dell’origine della cognitio extra ordinem trent’anni dopo) ha affrontato un discorso generale sulle problematiche che avvolgono la cognitio extra ordinem, in particolare sulle dispute riguardanti la sua origine. La Relatrice ha ricordato ampiamente le tesi succedutesi in dottrina, soffermandosi su quelle di Kaser e di Luzzatto: il primo schierato a favore di una sorta di continuità con il precedente processo formulare, l’altro a favore di una nascita autonoma del nuovo sistema. Basandosi su Gaio, la studiosa ha, dal canto suo, ricostruito l’esistenza di alcuni elementi di somiglianza con il processo formulare, ritenendo probabile la continuità, soprattutto con riferimento all’ambiente provinciale.

La relazione del prof. ZUCCOTTI (Legittimazione attiva e passiva nelle actiones de servitutibus) è partita dall’esame delle posizioni dei giuristi classici riguardo al tema della legittimazione attiva e passiva alle azioni de usu fructu e de servitutibus: posizioni nettamente restrittive. Il Relatore ha poi contestato la genuinità di alcune supposte aperture, verso la possibilità di far valere erga omnes la servitù costituite tramite usus, contenute in testi di Giuliano (D. 8, 5, 10, pr.-1 e D. 39, 3, 1, 23), negandone la risalenza classica. Egli ha peraltro fatto riferimento alla linea interpretativa che collega tali aperture alle servitù costituite pactionibus et stipulationibus, individuando un nesso tra queste ultime e le clausole riguardanti le modalità di esercizio delle servitù, con particolare riferimento alle cautiones stabilite dalla decisione in terdittale. Zuccotti ha concluso affermando la bastevolezza della normale tutela interdettale (unita all’actio ex stipulatu) per le servitù costituite iure pretorio. 

Nell’intervento della prof.ssa GIOMARO (La scelta del mezzo giudiziale in ipotesi di temerarietà della lite ex parte actoris) è stato analizzato il fenomeno che Gaio (4,171-182), nell’ambito di un più ampio discorso sulla temerarietà della lite, indica come calumnia actoris, e per il quale il giurista adrianeo propone quattro rimedi che si collocano in alternativa l’un l’altro: le ragioni di tale alternatività, che Gaio sembra individuare con la struttura logica del sillogismo (ma nel caso di Gai. 4,179 si tratta di un falso sillogismo, e in 4,176 di un ragionamento analogo al sillogismo) potrebbero riposare, in realtà, sull’unico criterio sanzionatorio (l’infamia) che per ragioni diverse è comune a tutti e che potrebbe anche essere il trait d’union tra la calumnia come fenomeno civile e la calumnia come crimen.

La dottoressa PIETRINI (La lunga fortuna di un decreto di Graziano) ha concluso la mattinata, dedicando il suo intervento ad un Decreto dell’imperatore Graziano (dell’anno 378/379 d.C.), il quale prevedeva l’intervento della forza pubblica a garanzia dell’esecuzione di alcune decisioni sinodali. Contro le opinioni dottrinali che vorrebbero attribuire alla norma una portata limitata, la Relatrice ha affermato la sua validità generale, trovando conforto in un’Epistola (la XIV) di papa Leone I ed in una posteriore Costituzione (Nov. 17) di Valentiniano III. Pietrini ha concluso evidenziando come la norma possa essere considerata esempio della ripartizione dei poteri fra le autorità delle due partes imperii.

I lavori del convegno sono ripresi nel pomeriggio con a relazione del professor CERAMI (Quaesitores e iudices ex lege Manilia), il quale ha effettuato una comunicazione riguardante la Lex Manilia (109 a.C.) come strumento di reazione ad una pratica di quaestiones pilotate dal ceto senatorio, tale da non garantire un processo iustum. Il relatore ha ricordato il carattere essenziale della quaestio introdotta con la Lex Manilia: la netta distinzione tra quaesitores e iudices, id est tra funzione inquirente e funzione giudicante. Questo meccanismo, secondo Cerami, non ebbe quel risultato garantistico che ci si aspettava, dovendo altresì ricondursi la tutela del “giusto processo”, più che alla differenziazione tra accusatore e giudice, a quella che il Relatore ha definito “parità d’armi” tra accusa e difesa.

Ha poi preso la parola la professoressa BIANCHINI (Cognitiones e accusatio, per una rimeditazione del problema), che ha trattato il tema dell’importanza dell’accusatio nell’ambito del processo cognizionale. Ella, portando ad esempio testi di Gaio, come di Plinio e Marciano, ha ribadito come l’impulso esterno al processo fosse considerato irrinunciabile, quale garanzia aggiuntiva per l’efficienza dell’azione giudiziaria. La Relatrice ha, fra l’altro, rimarcato come l’occasionale presenza di un’iniziativa da parte di alcuni magistrati non configurasse l’esistenza di una procedura d’ufficio, ma si risolvesse in un mezzo per garantire una migliore realizzazione della giustizia.

Il professor MAININO (Confessio e indefensio nella Lex Rubria de Gallia Cisalpina) ha concentrato l’attenzione, nel suo intervento, sulle problematiche processuali inerenti la Lex Rubria, a partire da quella riguardante la datazione, che egli individua nel 42 o 41 a.C.,  anche sulla base di riferimenti al contesto storico, in cui la lex si inseriva. Successivamente il Relatore si è addentrato nello specifico esame dei capitoli 21 e 22 della legge, di contenuto processuale, concludendo col considerare il sistema di giudizio da essa delineato come una forma atipica, non strettamente coincidente con il meccanismo formulare, ma permeata di elementi dell’agere per condictionem.

 La dottoressa FARGNOLI (Cervidio Scevola e il problema di una repetitio quasi indebiti soluti) ha effettuato una comunicazione avente ad oggetto la possibile esistenza di una repetitio quasi indebiti soluti. Ella è partita da D. 12, 6, 61 (di Cervidio Scevola), dal quale sembra emergere un anomalo obbligo di restituito, senza che sia chiaro con quale azione esso possa essere fatto valere. Dal confronto con altri testi, fra cui D. 42, 5, 6, 2 di Paolo (ad ed.), in cui si parla di quasi indebiti soluti, la Relatrice ha ricavato che per il testo di Scevola si potrebbe configurare l’esistenza di un rimedio da azionare in via utile per ottenere la restituzione di quanto dovuto, appunto la repetitio quasi indebiti soluti.

L’ultima comunicazione della serata è stata tenuta dalla dottoressa BUZZACCHI (Sanzioni processuali nelle Istituzioni di Gaio). La giovane studiosa ha considerato il problema delle sanzioni processuali quali emergono dai paragrafi 171-182 del libro IV delle Istituzioni di Gaio, ed in particolare il tema della loro collocazione sistematica nell’ambito del libro stesso. Dopo un esame analitico della struttura dell’esposizione gaiana in materia, la Relatrice ha messo in evidenza come grande spazio fosse dato alle azioni da sponsio, ed ha ricollegato tale particolarità alla menzione della sponsio in principio del IV libro, ipotizzando un intento per così dire ciclico nella costruzione del testo.

Il professor PERGAMI (Sulla competenza d’appello del senato in età tardoantica) ha aperto la seduta nella terza ed ultima giornata di lavori. Egli, nel suo approfondimento, ha preso in esame il quesito circa la sussistenza di una residua competenza giudiziaria d’appello in capo all’organo senatorio nell’età tardoimperiale, mettendo fortemente in dubbio questa possibilità. Il Relatore ha utilizzato a tal fine la Novella 5 di Marciano, in cui è descritto un caso interamente esaminato (probabilmente in secondo grado) e risolto dal solo imperatore, senza l’intervento del senato. Pergami ha poi continuato nell’esame e confutazione di prove a favore di una residua giurisdizione senatoria, portando altri esempi testuali, che confermano le perplessità circa un’attività giudiziaria del senato in epoca tardoantica.

 Il professor WACKE (Bonam sive malam causam habere. Prospettive di successo nella procedura civile romana) nel suo lungo intervento, si è dedicato all’argomento processuale dal punto di vista dell’esito del processo, ovvero dell’eventuale risultato di successo o di sconfitta a seguito del giudizio, considerando altresì l’obbligo (o meno) al pagamento delle spese processuali. Egli ha scorso una molteplicità di testi, riferiti a casi giuridici differenti, in cui ricorrono le espressioni bona causa e mala causa, che il Relatore ha tradotto rispettivamente con i concetti di “fondatezza” ed “infondatezza” dell’azione: ed appunto al fatto che l’azione fosse fondata o meno Wacke ha collegato l’obbligo di pagare le spese giudiziarie.

Il professor MARTINI (Una riforma processuale nelle Leggi di Platone) ha trattato il tema dell’ordinamento processuale delineato da Platone nelle Leggi. Il filosofo ateniese teorizzava un sistema ideale basato su un triplice grado di giudizio, nell’ambito del quale la terza istanza avrebbe dovuto essere rappresentata di una “alta corte” composta di quindici giudici eletti in seno alle varie magistrature. Martini ha ricordato come Platone attribuisse una funzione concretamente operativa in sede istruttoria a tali giudici; di qui il collegamento per antitesi con il processo ateniese e, in particolare, con il modello della anakrisiv, nel corso della quale il giudice non sarebbe stato dotato di specifici poteri istruttori. In tale testo platonico, il Relatore ha pertanto riconosciuto, sulla scia di Gernet, una ulteriore prova della visione che attribuisce alla anakrisiv natura di semplice interrogatorio.

La professoressa CAVALLINI (Atene: i processi contro le donne) ha affrontato il tema dello svolgersi delle dinamiche processuali in occasione di giudizi contro imputati di sesso femminile. Cavallini ha ricordato i tre grandi processi di cui abbiamo notizia, ovvero quello contro Aspasia, quello contro Frine e quello contro Neera, evidenziando la natura di etere delle accusate. La Relatrice ha cercato le motivazioni di ciò nella particolare condizione di emancipazione, di cui le cortigiane godevano; infine ha ricostruito le ragioni e le modalità di tali giudizi, con ampi riferimenti sociologici, rileggendo attraverso la lente dei resoconti processuali l’evoluzione dello status muliebre nell’Atene del V e IV secolo a.C..

Il professor MAFFI (Diritto e processo nella Grecia classica) ha tenuto l’intervento conclusivo del convegno, individuando percorsi di studio per il diritto processuale dell’antica Grecia, ricordando come sia necessario parlare di più diritti greci, e di relativi processi, anziché di un solo sistema giuridico. Maffi è partito dalla disamina del giuramento che i membri dell’Eliea dovevano prestare al momento di entrare in carica. Allargando la visuale, il Relatore ha tracciato un collegamento con frammenti del Codice di Gortina, ove si fa riferimento ad un giuramento delle parti come mezzo di risoluzione della controversia; in relazione ad esso, Maffi ha esposto le problematiche emerse in dottrina riguardo l’interpretazione del testo, evidenziando la molteplicità degli interrogativi cui si fatica a dare risposta.

Al termine di ciascuna seduta, si è riusciti a dedicare sufficiente spazio alla discussione delle relazioni, con molti spunti di dibattito sollevati da parte degli ascoltatori.

In conclusione, piace ricordare come tutti i partecipanti abbiano in vario modo manifestato il loro apprezzamento per l’ottima organizzazione del convegno e per la squisita accoglienza ricevuta nelle tre fredde giornate invernali, durante le quali la clemenza del tempo – mentre le zone circostanti si ammantavano di neve – ha comunque fatto sì che gli ospiti della Certosa non fossero costretti a rivivere le sorti degli originari abitanti del luogo.

 

 

Giovanni Cossa
(Università di Siena)