N° 2 – Marzo 2003 – In Memoriam – De Martino

 

Tullio Spagnuolo Vigorita

Università di Napoli “Federico II”

 

 

Francesco De Martino.

Il fascino della storia

 

 

Signore, signori, autorità, permettete che mi rivolga direttamente al professor De Martino; e perdonate, perdoni lei, mio caro e venerato maestro, il tono dimesso, frammentario delle mie parole[1]. Le quali, per quanto povere, scaturiscono tuttavia dall’affetto filiale che a lei mi lega; da decenni di consuetudine; dall’ammirazione profonda per la sua figura e il suo impegno di uomo, di studioso, di politico, per la sua opera di storico, al cui dispiegarsi ho potuto in parte assistere, per cosí dire, dall’interno.

Ma non del mio affetto parlerò; né tenterò di ritrarre la sua figura umana e scientifica: non potrei che ripetere ciò che è stato detto e scritto da suoi allievi e recensori, dagli studiosi che si sono confrontati con lei, da uomini politici e giornalisti. Tra l’altro resterei sempre indietro, da un lato, al rinnovato manifestarsi della sua passione civile – ricordo solo la recente intervista a Sergio Zavoli –; dall’altro, all’inesausta curiosità che continua e continuerà ad arricchire la ricerca storico-giuridica. Preferisco piuttosto dichiararle la mia gratitudine per il fascino delle sue opere. Gratitudine mia, ma che condivido con schiere di studiosi, di studenti, di lettori: giovani, meno giovani, futuri.

 

Sono passati quarant’anni, eppure l’entusiasmo è impresso con vigore nella memoria. Per un giovane studente la lettura della sua Storia della costituzione, ravvivata, per chi ha avuto la fortuna di ascoltarle, dalle sue lezioni, era, ed è, un’esperienza avvincente. In primo luogo per la passione che talora prorompe, quasi a forzare la sobrietà che è dote comune al suo costume di vita e al suo stile letterario.

Ricordo la pagina conclusiva del capitolo sui Gracchi: «dopo aver annientato nel sangue e nella repressione crudele il movimento graccano», l’aristocrazia «ha influenzato tutta la tradizione posteriore, anche se non è riuscita a soffocare i gravi problemi venuti alla luce per opera dei due infelici fratelli, che la fantasia popolare non considerò mai come tiranni assetati di potere personale, ma come nobili campioni della libertà. Si racconta anzi che il popolo continuò ad onorarne la memoria, compiendo sacrifici sui luoghi dove erano caduti ed offrendo, come a divinità tutelari, le primizie dei frutti in ciascuna stagione»[2].

Ha ragione Federico D’Ippolito[3]: la riproposizione del celebre brano plutarcheo[4], cosí piena di “passione rattenuta”, si staglia nel ricordo. Altrettanto fremente il racconto sulla fine di Spartaco e la crocefissione di seimila suoi seguaci, contro i quali i proprietari di schiavi si avvalsero «delle norme legali, senza pietà ... Nonostante il castigo spietato, la storiografia antica non riesce a nascondere i tratti nobili ed impressionanti della figura di Spartaco ... Le fonti riferiscono vari episodi, dai quali Spartaco appare nella luce di alti sentimenti, eroe generoso, appassionato e giusto. La sua morte in battaglia è degna di questo grande combattente per la libertà degli schiavi. Egli lascia il cavallo e preferisce di battersi a piedi per morire o per vincere assieme ai suoi, colpisce due centurioni e cerca di abbattere Crasso; quando cade, sopraffatto dalla forza del numero, il suo corpo scompare e non viene piú ritrovato. Cosí la sua fine viene circondata di colori mitici, il che prova quanto profondamente questo capo di schiavi avesse colpito la fantasia degli antichi e come indistintamente molti avessero avvertito che le basi della società potevano anche crollare»[5].

 

Una prosa scarna e vibrante[6], di cui potrei addurre qualche altro esempio. Ma sono rari i luoghi in cui la passione dello storico affiora cosí esplicita. Piuttosto, essa anima l’intera opera, si compone sapientemente con il rigore dell’analisi, in cui storia politica, sociale, economica, giuridica si intrecciano. Prendiamo ancora il lungo capitolo sui Gracchi. Nel paragrafo introduttivo, dopo aver riassunto i problemi che quell’età convulsa pone agli storici della politica, dell’economia, del diritto, De Martino traccia le linee della sua indagine: «L’indole delle nostre ricerche non ci consente di esaminare tutti insieme questi problemi. Convinti peraltro che la storia non si può mai dividere in settori e che non può configurarsi una storia del diritto se non come un momento della storia della società, ... ci sforzeremo di fissare i fattori fondamentali del movimento ed in ispecie la sua natura e composizione, i termini della riforma agraria ed infine la vera e propria disputa costituzionale»[7]. Poi le varie questioni sono scrupolosamente esaminate, discusse, collegate per ottanta pagine.

Il lettore è immerso nei dati delle fonti, nei dibattiti dei moderni, è stimolato a parteciparvi, sente di poter concorrere a formare la propria opinione, si appassiona. La mano dell’autore lo guida, s’addentra nei particolari piú minuti, si solleva al giudizio, con un argomentare pacato e deciso, in cui, di tanto in tanto, trapela, rapida ed efficace, l’insofferenza dello storico e del cittadino. Per esempio, dopo aver ricordato la tradizione oligarchica -raccolta soprattutto da Cicerone- che tendeva a banalizzare i motivi che spinsero Tiberio all’azione, De Martino s’inalbera: «Come se i fatti storici dell’entità di quelli dell’epoca graccana si possano ridurre ai personali risentimenti di un uomo!». E poco dopo, a proposito della reazione degli oligarchici: «Essi organizzarono una resistenza ad oltranza e la lotta non si poté svolgere secondo le norme legali consuete ed alla fine si chiuse con l’uccisione di Tiberio e dei suoi seguaci. Come esempio di sistemi legalitari, per difendere l’ordine costituito, non c’è male!”»[8].

E qua e là emerge in piú rapidi lampi l’emozione che abbiamo visto animare le pagine conclusive del capitolo. Per esempio, a proposito del voltafaccia di Caio Papirio Carbone, un tempo amico e partigiano di Caio Gracco: «Era evidente che Papirio aveva tradito il partito democratico e si era posto al servizio dell’oligarchia, non disdegnando di usare la calunnia e la menzogna, come è costume dei traditori». O, poco dopo, a proposito dell’azione del console Lucio Opimio contro i seguaci di Caio e di Marco Fulvio Flacco: «Spietata e crudele fu la reazione, lo stesso giovinetto figlio di Flacco, che era stato inviato come parlamentare, venne ucciso e 3000 prigionieri fatti strangolare nelle carceri; le case dei capi plebei rase al suolo, confiscati i loro beni e la stessa dote della moglie di Caio. Non ci risultano perdite dalla parte di Opimio!»[9]

 

Leggi, rogazioni, assemblee, senato, magistrati, giudizi, comunità, province si intrecciano alla terra, all’industria, ai traffici, alle correnti di pensiero, alla religione: una rete complessa di influssi reciproci, in cui sono protagonisti gli uomini e i loro legami, famiglie, amicizie, clientele, alleanze, fazioni, classi. Il diritto dismette l’arcigna maschera dell’astrazione. Norme, poteri, istituzioni non si sorreggono soltanto vicendevolmente, quali elementi di mirabili ma raggelanti sistemi architettonici, non traggono soltanto dall’interno di questi gli impulsi e i modelli evolutivi.

Il giovane lettore è incantato da questo racconto che intesse il fenomeno giuridico alla storia sociale, economica, politica, culturale. Il lettore piú anziano o avveduto non lo è di meno: ma io vorrei ancora rifarmi alla mia esperienza giovanile. Per merito suo, caro professore, il diritto mi apparve subito con il volto crudele o benevolo, esultante o piegato, mai indifferente, degli uomini che lo creavano o lo subivano, dell’incontro di interessi, del loro collidere, degli equilibri raggiunti o delle lacerazioni, di vittorie e di oppressioni, di repressioni e rivalse. Mi apparve, insomma, parte della storia; di quella storia – lei ha scritto – che, anche per merito delle «categorie della conoscenza» fornite dal marxismo, le quali sono «esattamente l’opposto di una filosofia della storia», è divenuta «storia nei suoi molteplici aspetti, storia degli eroi, ma anche delle masse, delle classi inferiori, degli uomini oscuri, delle grandi creazioni del pensiero e dell’arte ma anche della cultura materiale»[10].

Non intendo fermarmi sul suo marxismo, benché esso, un «marxismo non schematico o dogmatico, ma sempre impegnato nella ricerca della verità storica»[11], contribuisca in maniera determinante al vigore delle sue opere: lei stesso ne ha trattato e frequentemente esso è stato al centro delle discussioni su di lei. Insisto, piuttosto, sui «metodi della storia, vale a dire i suoi mezzi e procedimenti», i quali, lascio ancora a lei la parola, «non possono essere di ordine ideologico, proprio perché appartengono alla tecnica. Consistono nella filologia, nella critica del testo, nello studio di tutte le fonti disponibili e nella loro ricerca e quindi nel concorso delle varie discipline un tempo chiamate impropriamente ausiliarie, dall’archeologia ed epigrafia alla papirologia e numismatica, ma che formano tutte insieme parti indispensabili della ricerca storica dell’antichità, non meno delle fonti giuridiche, essenziali per la conoscenza delle varie forme economico-sociali»[12].

Negli ultimi decenni simili dichiarazioni sono tanto frequenti quanto inattuate. Nelle sue opere, e in particolare nelle due grandi Storie, è l’inverso, anche perché lei – lo ha giustamente osservato Franco Casavola – è «alieno dall’intervenire in discussioni metodologiche e questioni teoriche»[13].

Le sue Storie, appunto: opere di sintesi, certo, ma in cui – cito ancora Casavola – «capitoli e paragrafi ... sono spesso piccole monografie»[14]. Il suo rigore di storico è universalmente riconosciuto e non sta a me parlarne. Io voglio solo testimoniare, col mio ricordo, come proprio il rigore e l’approfondimento monografico conquistino il lettore delle sue Storie. Certo, solo lo studioso piú accorto saprà giovarsi della miniera di fonti e di letteratura che gli offrono. Ma anche il principiante gode del dialogo con gli antichi e i moderni, s’incuriosisce alle indagini piú minute, impara a ricondurre ad esse le valutazioni che concludono e talora squarciano il racconto, a ripercorrere i sentieri dell’autore, ma anche, magari timidamente, a distaccarsene. Le sue Storie, insomma, non tollerano la passività, stimolano a quel “giudizio storico” che – lei ha scritto – «non può essere disgiunto da quello morale e politico, perché non vi è storia che non implichi giudizi di valore»[15]. Non solo l’ampiezza dell’orizzonte, l’esposizione problematica, la sapienza letteraria, la passione storico-politica, ma perfino -direi anzi: soprattutto- la ricchezza dei dati e il rigore dell’analisi liberano la fantasia, le porgono i primi sostegni per esercitarsi criticamente.

La fantasia: lo storico ne ha gran bisogno, lei mi disse, piú o meno, quando, appena laureato, le dichiarai la mia attrazione per gli studi storico-giuridici. Non so se capii, ma certo la sua frase mi colpí molto. Rifletteva, sia pur condensandola in un motto sorridente, un’opinione radicata e ancor da ultimo ripetuta: per esempio, a proposito di un libro di storia numismatico-politica, sul quale, dopo essersi addentrato nell’analisi di ardue indagini statistiche computerizzate ed averne apprezzato l’utilità e auspicato la prosecuzione, lei osserva: «I miei dubbi ... riguardano il rapporto tra la storia e l’analisi matematica o statistica in genere. Nascono dal timore che si perda di vista la sostanziale diversità tra i fatti storici ed il calcolo delle probabilità affidato a serie matematiche, cioè massime astrazioni logiche. La storia umana è molto capricciosa e non obbedisce a nessuna logica. Anche nel campo della moneta non vi sono leggi naturali o logiche, vi sono solo fatti storici»; e, poco oltre: «L’oggetto della storia è la vicenda umana nel suo insieme, complessa e con molte facce. Scrutare nel profondo questa vicenda spesso misteriosa è il compito affascinante dell’intelligenza e se si vuole della fantasia dello storico e nessun computer può sostituirsi a questo»[16].

 

Solo per antichi invaghimenti giovanili mi sono soffermato soprattutto sulla sua Storia costituzionale e sul capitolo relativo ai Gracchi, certo uno dei piú avvincenti. Ma l’impianto, le tecniche d’indagine e di esposizione, che fondano non dico il valore -sul quale, lo ripeto, non ardisco pronunciarmi- ma l’attrattiva -di quel capitolo, pervadono tutta la Storia. Dappertutto la costituzione romana appare al lettore «non già come un complesso di norme formali e statiche, ma come una vivente realtà»[17]: dappertutto lo coinvolgono le valutazioni piú generali e le indagini piú ardue: dall’ordinamento gentilizio ai trascinanti capitoli sul principato augusteo -un tema a lei caro da tempo-, dalla costituzione di Caracalla alla mirabile discussione sulla caduta dell’impero d’Occidente e le sue cause, «il piú suggestivo e misterioso problema della storiografia antica»[18], che introduce e conchiude il quinto volume. Le parole finali[19] trascendono quel problema, trasmettono al lettore -scarne, incisive, benevole- l’ansia inappagata dello storico, la fiducia negli altri e nel futuro: «Naturalmente il quadro è molto complesso ed il processo storico non si può ridurre ad uno schema elementare. La transizione dal mondo antico al medio evo ha qualcosa di grandioso e di drammatico, che riempie di sé alcuni secoli. Lo storico non può che essere cosciente di questa infinita varietà dei problemi e non essere pago della sua opera ... Anche se ci pare di intravedere quali siano state queste cause, comprendiamo che bisognerebbe cominciare da capo. Nessun’opera storica è fine a sé stessa, ma incessantemente qualsiasi ricerca ne sollecita altre ed altre ancora e questo rimane il piú affascinante tratto della scienza storica»[20].

 

Per conto suo, lei aveva già cominciato da capo: qualche anno dopo uscí la Storia economica, nella quale i fenomeni economici e sociali, già ampiamente considerati nella Storia della costituzione, diventano protagonisti. Leggo dalla prefazione: «L’idea di scrivere una Storia economica di Roma antica è affiorata in me fin dal tempo nel quale ho lavorato intorno alla Storia della Costituzione romana nello spazio di una ventina di anni. Nel corso di quelle ricerche diveniva sempre piú chiaro che le istituzioni politiche non erano piovute dal cielo, ma erano il prodotto di fattori economici e sociali ed i loro sviluppi, i loro mutamenti, le loro crisi non erano comprensibili senza la conoscenza di tali fattori ... Nella mia concezione storiografica l’obbligo dell’obbiettività nella ricostruzione dei fatti è fuori discussione, come anche il rifiuto di qualsiasi modernizzazione della storia ed il trasferire in altre epoche le idee nostre e far pensare gli antichi come noi pensiamo. Ma uno storico è pur sempre uomo dei suoi tempi e lo è anche piú fortemente allorché egli ha vissuto con intensa partecipazione le vicende politiche e sociali della propria epoca, come è accaduto a chi scrive”. E piú giú: “Infine a giustificazione dell’impresa compiuta vorrei rivendicare l’unità del pensiero storico, anche se naturalmente non intendo negare le specializzazioni. Ma sono sempre piú convinto che non è possibile dividere la storia, cioè la ricostruzione della vita degli uomini di altre epoche, in vari compartimenti spesso incomunicabili tra di loro. Storia politica, storia del pensiero, storia economica e storia del diritto e delle istituzioni sono semplicemente gli aspetti diversi di una sola realtà»[21]. Muta l’oggetto precipuo della ricerca, non il metodo, l’impianto interdisciplinare, il vigore, cha ancora una volta conquistano chi legge, anche quando gli chiedono di addentrarsi in indagini faticose, come quelle sulla popolazione di Roma, o i rapporti tra le monete, o la produttività dei vigneti.

Dalla Storia economica sono trascorsi vent’anni: ma la sua curiosità di storico non si è placata. Basta guardare i volumi dei suoi scritti: gli articoli apparsi dal 1979 occupano quasi tutto il terzo (Economia e società) e circa metà del secondo (Diritto pubblico): e molti altri, già pubblicati o in stampa o in preparazione, saranno raccolti nei prossimi volumi. Anche se non mancano saggi piú generali, come quelli inseriti nella Storia di Roma edita da Einaudi, si tratta per lo piú di studi specifici, talora assai complessi. Molti si collegano, piú o meno visibilmente, a temi trattati già nelle due opere maggiori ed ora riesaminati, approfonditi, precisati: a testimonianza della sua fertile insoddisfazione, dell’apertura ai contributi altrui, della disponibilità a ridiscutere e correggere opinioni e risultati. In altri la sua curiosità storiografica si addentra in sentieri decisamente inconsueti. Io credo che da questi studi possano trarre godimento anche i lettori non specialisti, benché la mente sia sollecitata a maggior attenzione, o forse proprio per questo. Scelgo come solo esempio l’articolo del 1994 sul faro di Alessandria[22]: per valutarne portata e funzione, De Martino calcola la probabile misura dello stadio in Giuseppe Flavio, si serve della formula di visibiltà in rapporto alla sfericità della terra, su cui ha interrogato un professore di elettronica della Facoltà di Ingegneria, discute le notizie di viaggiatori bizantini e arabi, di geografi persiani, raffigurazioni di monete, bassorilievi, vasi, mosaici. Come non divertirsi?

 

È difficile, caro professore, non essere contagiati dal suo gusto per la ricerca, che non s’arresta dinanzi alle indagini piú ardue, alle fonti piú insolite; anzi se ne compiace, nello sforzo continuo di disvelare i nessi tra norme, istituzioni, prassi giuridica, fatti economici, sociali, militari, politici, culturali. Nessi e connessioni, senza i quali, ha scritto, «i fatti del diritto perdono concretezza e si riducono a storia delle forme, come è stato in generale nel campo degli storici del diritto». «Forme vane,» – sono ancora parole sue – «ombre che si aggiravano in una sorta di empireo fuori della realtà, se in esse non si riusciva a porre gli uomini vivi, con i loro interessi e i loro pensieri»[23].

Come pochissimi, forse nessuno in questo secolo, almeno per ampiezza di orizzonti, padronanza delle varie discipline antichistiche, intreccio di ricerche minute e sintesi possenti, lei ha contribuito a restituire queste ombre alla corposità del loro tempo; ha dimostrato, non a parole, ma con la profondità ed il fascino delle sue opere, che non c’è comprensione critica dei fenomeni giuridici se li si estrae dalla dimensione cronologica. «La temporalità» – è stato scritto – «è inerente all’essere del diritto e ... solo per il suo tramite il fenomeno giuridico diventa realmente accessibile»[24]. Una verità che pochi contestano, ma che in concreto sembra spaventare studiosi e interpreti del diritto vigente; e -stranamente- perfino molti storici del diritto: i quali, indulgendo forse a nobili ma inattuali nostalgie pandettistiche, preferiscono ricercare nella storia improbabili, quando non distorcenti, prefigurazioni del diritto vigente o di quello da fondare; e finiscono con l’occuparsi di «un passato fittizio per influenzare un futuro incerto»[25], senza percepire il crescente distacco con cui i loro sforzi, per quanto generosi e raffinati, sono accolti dai giuristi positivi.

Da decenni lei pratica tutt’altra via, l’immersione totale nel tempo. Con l’esempio ed il fascino della sua opera richiama storici e giuristi alla visione unitaria della storia, allo «assioma» – per dirlo con parole un po’ desuete – «che il diritto può essere compreso solo con la storia e la storia solo con il diritto». Non sono parole mie. Piú di cento anni fa le rivolsero a Mommsen tre studiosi destinati ad eccellere nella storia antica, Paul Jörs, Eduard Schwartz e Richard Reitzenstein: “due filologi e un giurista”, come essi stessi dicono, «uniti dall’eros che incontestabilmente pervade la scienza dell’antico»[26].

Il nome di Mommsen, del «grande Mommsen», come lei piú volte lo chiama[27], è stato spesso, e quasi naturalmente, accostato al suo, soprattutto per rilevare la distanza che separa la sua Storia della costituzione dalle aspirazioni sistematiche dello Staatsrecht. E giustamente. Ma vi sono piú profonde affinità. Perché, se è vero che la «maestria sistematrice di Mommsen»[28] è talora d’ostacolo alla comprensione delle dinamiche storiche, è tanto piú vero che lo straordinario e quasi sovrumano dominio dei dati e delle tecniche delle varie discipline antichistiche incrina spesso la rigidità degli schemi o consente a chi sappia leggere di superarli. Proprio lei, professore, ha scritto di recente che se da un lato appare criticabile «la concezione ispiratrice dello Staatsrecht di Mommsen, dall’altro lato questo rimane come un riferimento insostituibile per gli storici, compresi quelli del diritto»; ha anzi sottolineato «l’utilità pratica di un’esposizione sistematica, che rende possibile ed agevole di conoscere anche in minuti dettagli argomenti determinati e la documentazione testuale»[29].

Mi sembra perciò che, al di là delle indubbie differenze d’impostazione, perfino ovvie data la distanza cronologica, tratti piú solidi e duraturi colleghino De Martino a Mommsen: la visione unitaria della scienza antichistica, praticata, senza proclami, nell’approfondimento delle sue varie discipline; la consapevolezza della necessaria compenetrazione della storia giuridica con quella politica, economica, sociale, culturale; il rifiuto – purtroppo cosí poco ascoltato – di rinserrarla in un geloso e sterile isolamento, di asservirla al diritto vigente o futuro; infine l’apertura mentale, la fiducia negli altri, nei piú giovani, lo spirito di tolleranza e libertà, la passione che anima le loro opere. Perché anche Mommsen – sono parole di De Martino – «non era un freddo professore fuori della vita reale e solo intento a costruire schemi formali giuridici, ma era un politico pieno di passione»[30].

 

Quarant’anni fa, caro professore, lei mi ha incantato con la sua Storia: come pena ha dovuto subire questo mio elogio. Ma lei sa, al di là delle parole, che la mia gratitudine e la mia ammirazione sono vere e profonde, e ancor piú il mio affetto. So di esprimere sentimenti comuni: la sua figura umana, la sua statura morale, la sua opera di studioso, il suo impegno civile li hanno ispirati a molti.

Come suo allievo posso forse aggiungere un’ulteriore testimonianza: collaborare con lei non è stato solo un’esperienza scientifica ineguagliabile; ha anche significato respirare uno spirito particolare. Lo ha detto lei stesso nell’ultimo volume della sua Storia: «Caratteristica principale di questa feconda collaborazione è stata che essa non implicava l’adesione a metodi e principi, ma era fondata sulla piena libertà di ciascuno e perciò non era una scuola nel senso comune del termine. La varietà degli interessi e delle idee è sempre, a me pare, piú utile per la scienza che vincoli piú o meno dogmatici»[31]. Anche per questo desidero ringraziarla: almeno nello spirito di libertà e tolleranza i suoi allievi sentono di appartenere ad una scuola e ne sono fieri, per quanto inadeguati siano all’insegnamento del loro maestro.

Ma anche in questo siamo tutt’altro che soli: l’intera sua vita di uomo, di politico, di studioso si è ispirata a quei valori e ne ha trasmesso il fascino, guadagnandole «l’amore e la venerazione di tutti coloro che hanno avvertito anche un solo alito del suo spirito». Uso ancora parole rivolte a Mommsen. Come Mommsen lei ha ricevuto, caro professore, il raro dono della “giovinezza nella vecchiaia”: io le auguro di guidarci ancora a lungo con il suo esempio e con la sua opera scientifica; anzi lo auguro a noi, ai suoi familiari, ai suoi allievi, alla comunità scientifica, al mondo politico, ai giovani. Grazie!

 

 

 

 



 

[1] [Pubblicato in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, II, Varsovie 2000, pp. 967-977]

Aggiungo poche note all’elogio che il 12 ottobre 1998 rivolsi a Francesco De Martino, quando l’Università degli studi di Napoli “Federico II” gli conferí il premio internazionale intitolato al suo fondatore. Lo offro con animo fraterno a Witold Wolodkiewicz, napoletano.

 

[2] F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana (in seguito SCR.) II (Napoli 19732) 540 sg.

 

[3] Nella Nota di lettura premessa al primo volume della raccolta di scritti di De Martino (Diritto economia e società nel mondo romano, finora 3 volumi [Antiqua 72-74], Napoli 1995-97, in seguito DESMR.), p. XIII.

 

[4] Plut. C. Gr. 18.3.

 

[5] SCR. III (Napoli 19732) 125 sg. Possente anche l’immagine che precede: dopo che Marco Licinio Crasso ebbe infine sconfitto Spartaco, «il governo volle dare un esempio memorabile. Cosí seimila schiavi caduti prigionieri furono crocefissi sulla strada da Capua a Roma ed esposti per lunghi giorni. La classe dei proprietari di schiavi si avvaleva delle norme legali, senza pietà, e quelle norme prescrivevano appunto l’estremo supplizio per mezzo della croce contro gli schiavi ribelli».

 

[6] Tanto piú efficace in quanto all’uno e all’altro movimento, ai Gracchi come a Spartaco, De Martino nega sia intenzioni che risultati rivoluzionari; i primi -si legge nella Storia economica animarono «il piú generoso tentativo riformatore e forse la sola genuina manifestazione di una concezione democratica dello stato»; il secondo scatenò «una guerra, che può essere definita di liberazione» (Storia economica di Roma antica [2 volumi, Firenze 1979, in seguito SERA.] 79 e 108 su Spartaco, 113 sgg. sui Gracchi). Ma in entrambi i casi gli esiti furono piuttosto di segno autoritario, come gli storici faticano ad ammettere: «è stato un romanziere, non uno storico» -osserva De Martino in un suo articolo- «a porre in evidenza lo sgomento delle classi elevate romane di fronte all’insorgere della guerra servile di Spartaco»; e commenta: «Ma quanta verità in questa intuizione! La storia dell’Europa tra le due guerre offre esempi non contestabili di quanto la paura delle classi alte di fronte alle sollevazioni delle masse ed il disordine sociale influisca nei rapidi mutamenti di regime verso forme autoritarie, capaci di ‘ristabilire l’ordine’» (Una rivoluzione mancata? [1980], in DESMR. II, 319).

 

[7] SCR. II, 461 sg.

 

[8] SCR. II, 463 e 467.

 

[9] SCR. II, 533 e 534 sg. Pari emozione si ritrova talora anche nel luogo che sembrerebbe meno adatto, le note. Per esempio in quella ove sono discussi i particolari, «drammatici ed appassionati», che le fonti ci tramandano sulla fine di Caio: come il commiato dalla moglie “scena tenerissima”, o «l’episodio ignominioso di L. Septumuleius, il quale riempie di piombo la testa di Caio per guadagnare un peso maggiore di oro dal console, che aveva cosí promesso», 535 sg. nt. 214.

 

[10] F. DE MARTINO, Marx e la storiografia sul mondo antico (1983), in DESMR. II, 325 e 389.

 

[11] Ivi, 352.

 

[12] Ivi, 325 sg.

 

[13] F. CASAVOLA, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24 (1978) 10.

 

[14] Ivi, 14: il giudizio concerneva, ovviamente, solo la Storia della costituzione.

 

[15] DE MARTINO, Marx, cit., in DESMR. II, 386.

 

[16] F. DE MARTINO, Monete, tesori e metodo storico, in Index 24 (1996) 136 sg. e 141 (discussione di R. Duncan-Jones, Money and Government in the Roman Empire[1994]); vd. anche Nota sui fondamenti del sistema fiscale del tardo impero, in Nozione formazione e interpretazione del diritto ..., Ricerche dedicate al prof. F. Gallo (Napoli 1997) 187, a proposito di uno studioso (J. M. Carrié) che De Martino dice di ammirare «grandemente, per il suo forte spirito critico, la sua rara competenza in vari campi e la sua fantasia interpretativa, indispensabile nello studio dei papiri».

 

[17] SCR. I (Napoli 19722), 489.

 

[18] SCR. V (Napoli 19752), 575.

 

[19] Le ha in parte richiamate già CASAVOLA, L’opera storica, cit., 19.

 

[20] SCR. V, 601 sg.

 

[21] Prefazione a SERA., cit.

 

[22] F. DE MARTINO, Il faro di Alessandria e Giuseppe Flavio (bell. Iud. IV.613) (1994), in DESMR. III, 651 sgg.

 

[23] F. DE MARTINO, Prefazione a Diritto e società nell’antica Roma: Scritti di diritto romano I (Roma 1979), p. XIV e XIII.

 

[24] P. CARONI, Storia del diritto: esperienze transalpine, in L’insegnamento della storia del diritto medievale e moderno. Atti Incontro Firenze 1992 (Milano 1993) 321 sgg., part. 329; vd. anche, dello stesso, Die andere Evidenz der Rechtsgeschichte, in G. ARZT, P. CARONI, W. KÄLIN (edd.), Juristenausbildung als Denkmalpflege? (Bern 1993) 27 sgg.; Der Schiffbruch der Geschichtlichkeit. Anmerkungen zum Neo-Pandektismus, in ZNR. 16 (1994) 85 sgg.; un’ampia veduta delle diverse tendenze si può ricavare dai contributi raccolti in P. CARONI, G. DILCHER (edd.), Norm und Tradition. Welche Geschichtlichkeit für die Rechtsgeschichte? Fra norma e tradizione. Quale storicità per la storia giuridica? (Köln – Weimar – Wien 1998).

 

[25] CARONI, Der Schiffbruch, cit., 99.

 

[26] P. JÖRS, E. SCHWARTZ, R. REITZENSTEIN, dedica premessa ai loro scritti raccolti nella Festschrift Th. Mommsen zum fünfzigjährigen Doctorjubiläum (Marburg 1893); ristampata in P. JÖRS, Iuliae rogationes (Napoli 1985 = Antiqua 36).

 

[27] F. DE MARTINO, Considerazioni su alcuni temi di storia costituzionale romana, in Mélanges de droit romain et d’histoire ancienne. Hommage à la mémoire de A. Magdelain (Paris 1998) 133.

 

[28] Da ultimo F. DE MARTINO, Intorno al Senatusconsulto de Pisone patre (1996), in DESMR. II, 609.

 

[29] F. DE MARTINO, Considerazioni, cit., 133 e 137.

 

[30] Ivi, 137.

 

[31] F. DE MARTINO, SCR. VI (Napoli 19902), prefazione.