ds_gen Università di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7

 

Bellum-1Francesco Sini

 

Bellum Nefandum. Virgilio e il problema

del “diritto internazionale antico”

 

Sassari, Libreria Dessì Editrice, 1991

 

pp. 304

 

 

 

Digesta Iustiniani 1, 8, 6, 5

(Marcian. l. III inst.) ... sicut

testis in ea re est Vergilius.

 

 

 

 

Capitolo Quarto

 

Bellum Nefandum

 

sommario: 1. Virgilio e la guerra. – 2. Origine e significato del termine bellum. – 3. Tipologie di bellum iustum. – 4. Bellum e nefas nell’ideologia virgiliana. – 5. Impieghi virgiliani di bellum. – 6. Bellum e religio: alcuni rituali romani della guerra. – 7. Guerra e natura: ius naturale in Virgilio e nel pensiero giuridico romano.

 

 

[p. 187]

1. – Virgilio e la guerra

 

L’atteggiamento culturale e poetico di Virgilio nei confronti della guerra, mi pare colto con rara efficacia dalla rapida notazione di Gaston Boissier, il quale in una pagina della sua religion romaine scriveva: «Il a horreur de la guerre quoiqu’il l’ait beaucoup chantée, et condamne sévèrement la criminelle folie des combats»[1].

L’epica virgiliana appare caratterizzata dall’evidente connotazione negativa della guerra. Nulla salus bello esclama un personaggio in Aen. 11.362, (espressione che va ben oltre il contingente discorso di Drance); altrove si parla di crimina belli[2]; mentre è severamente condannata dal poeta la scelerata insania belli[3]. Se poi osserviamo la qualificazione della guerra, il bellum può essere horridum[4], asperum[5], crudele[6],

[p. 188]

cruentum[7], dirum[8], triste[9].

Sul piano religioso la guerra per Virgilio appartiene alla sfera del nefas[10], il che giustifica in riferimento a bellum l’uso degli aggettivi nefandum e infandum[11] e spiega la ripugnanza del poeta per un riferimento a bellum di aggettivi tipici del lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix, che, infatti, non compaiono mai negli impieghi virgiliani di bellum[12]. Infine, quando Virgilio ci presenta la personificazione della guerra, abbiamo allora il Bellum mortiferum di Aen. 6.279, annoverato significativamente tra i più terribili mali che affliggono il genere umano: Luctus, ultrices Curae, Morbus, Letum, Labos, mala mentis Gaudia e Discordia demens[13].

Pur connotate negativamente, le quasi 200 occorrenze di

[p. 189]

bellum[14] si prestano assai bene ad un’indagine finalizzata alla ricostruzione delle peculiarità della religione e del diritto legate alla concezione romana della guerra. Emergono, inoltre, dai versi virgiliani riti e cerimonie della guerra modellati, seppure con qualche anacronismo evidente, in perfetta adesione alla teologia e alla giurisprudenza dei sacerdoti romani.

 

 

2. ‑ Origine e significato del termine bellum

 

Nell’uso linguistico corrente dell’età virgiliana, avvenuto ormai da tempo il passaggio dell’antico du- iniziale a b-[15], dell’originaria forma duellum[16] restava memoria solo nelle opere di eruditi e antiquari, testimoni e ricercatori curiosi delle forme arcaiche della lingua latina. In questo caso la nostra fonte più autorevole è costituita da Varrone:

 

Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona[17].

 

[p. 190]

Naturalmente l’arcaico duellum continua ad essere utilizzato nelle formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale: così ancora in epoca imperiale, negli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto e in quelli dei Ludi celebrati da Settimio Severo[18], i concetti di guerra e pace vengono espressi dai sacerdoti con i termini duellum e domus[19].

Riguardo poi all’origine della parola bellum, contradditorie e poco convincenti si presentano le opinioni degli antichi, di cui costituiscono esempi una glossa festina (o meglio verriana) riferitaci da Paolo Diacono:

 

Bellum a beluis dicitur, quia beluarum sit pernitiosa dissensio[20];

 

e un passo del commento all’Eneide del grammatico Servio:

 

Et dictae sunt parcae kata ¢nt…frasin, quod nulli

[p. 191]

parcant, sicut lucus a non lucendo, bellum a nulla re bella[21].

 

Nell’accezione corrente del I secolo a.C., bellum sta a significare sia un conflitto armato tra hostes (definito quindi da precise regole religiose e giuridiche):

 

Bellum est contra hostes exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio nuncupatur[22];

 

sia l’intero periodo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi quindi al tempo di pace:

 

Qui sese in bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, ‘proelium’ autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam[23].

 

Da questo ultimo passo si ricava, inoltre, la distinzione tra bellum, pugna e proelium. La sottile distinzione di Servio non pare, tuttavia, rigorosamente osservata, se è vero che il termine bellum si trova usato di frequente dagli autori antichi, tra cui lo

[p. 192]

stesso Virgilio, per indicare anche l’ “atto di guerra”, il “lottare in guerra”, insomma il combattimento[24].

 

 

3. ‑ Tipologie di bellum iustum

 

La guerra fu sempre concepita dai Romani come una rottura traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli: «essa quindi ‑ scrive F. De Martino ‑ abbisognava di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque, cioè avere una giusta causa»[25]. La consapevolezza che l’esecizio della guerra poneva il miles a contatto con qualcosa di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato della violenza rischiava di provocare l’ira degli dèi[26], spinse il popolo romano, il quale significativamente considerava sé stesso il più religioso del genere umano[27], a preoccuparsi fin da epoca

[p. 193]

risalente di attrarre anche la guerra nella sfera del fas[28]; avvalendosi degli strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e giuridica dei suoi sacerdotes[29].

[p. 194]

Formule e riti dello ius fetiale e dello ius pontificium furono perciò elaborati con la funzione precipua di liberare i cittadini-soldati dalla paura del sangue versato, di aiutarli con la religione a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un possesso che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore di impegnarsi in azioni sgradite dagli dèi[30].

Anche la scansione del tempo fu impostata seguendo quello che J. Bayet chiamava «le rythme sacral de la guerre»[31]. In tal senso sono, infatti, da intendere le feste e le cerimonie religiose legate all’inizio e alla fine delle attività guerriere, veri e propri «rites saisonniers de sacralisation et

[p. 195]

désacralisation militaires», dei mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico[32].

Le considerazioni fin qui esposte paiono suffìcienti a spiegare le ragioni dell’estrema cautela, religiosa e giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli cittadini, ai quali era consentito combattere, come ammoniva Catone, solo in quanto milites:

 

Cato ad Popilium scripsit ut, si eum patitur in exercitu remanere, secundo eum obliget militiae sacramento, quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat[33].

 

Allo stesso modo si giustifica la rigorosa casistica con cui i sacerdotes Fetiales[34] e i teorici del diritto e della politica

[p. 196]

determinavano quali generi di guerre si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le caratteristiche del bellum iustum[35].

Le testimonianze antiche per quanto riguarda la definizione di bellum iustum non sembrano informate a principi di astratta morale, attengono piuttosto, come nel caso di Varrone, a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale:

 

Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum, ut f<o>edere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam conciperetur, qui res

[p. 197]

repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum[36].

 

Ancora alla rerum repetitto si richiama la definizione proposta da Isidoro di Siviglia:

 

Iustum bellum est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa[37];

 

mentre assai significativamente appare fondato sulla necessitas, fonte di ius per i giuristi romani[38], il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio, seppure riferito ad ambiente non romano:

 

Iustum est bellum, Samnites, quibus necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in armis relinquitur spes[39].

 

Tra gli autori antichi, quello che ha manifestato maggiore interesse per il concetto è senza dubbio Cicerone, di cui tuttavia non si può procedere qui ad un puntuale ed esaustivo esame dei riferimenti testuali[40]. Sarà pertanto sufficiente riportare due

[p. 198]

importanti passi, tratti dal de re publica, che descrivono alcune tipologie di bellum iustum, per quanto modellate in negativo, mediante la precisazione della guerra ingiusta ed empia:

 

[Tullo Ostilio] constituitque ius, quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum, quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque impium indicaretur[41].

 

Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta. Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest[42].

 

[p. 199]

          Secondo Cicerone il bellum per poter essere considerato iustum abbisognava, dunque, di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale; il precetto attribuito al re Tullo Ostilio può tradursi in positivo come segue: ut omne bellum denuntiatum indictumque esset. I requisiti sostanziali dovevano consistere in motivazioni validamente determinabili, e quindi, riconoscibili come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli dèi, sia di fronte agli uomini. In ultima analisi, il principio illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta, mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del popolo romano, ne assicura al tempo stesso la legittimazione religiosa dell’imperium universale[43].

 

[p. 200]

 

4. ‑ Bellum e nefas nell’ideologia virgiliana

 

Per Virgilio l’esercizio della guerra, con i suoi effetti devastanti di morte e contaminazione, si colloca nella sfera del nefas, come il poeta fa rilevare allo stesso Enea:

 

Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis;

me, bello e tanto digressum et caede recenti,

attrectare nefas, donec me flumine vivo

abluero[44].

 

[p. 201]

Nessun biasimo può addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia, anzi il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla comunità, ma addirittura onorevole[45]; tuttavia per la religione il miles viene a trovarsi nella condizione di impiatus[46], con la conseguente necessità di purificazione. Si spiegano in tal modo le ragioni per cui i soldati, reduci dalla battaglia, entravano in città portando rami d’alloro:

 

Laureati milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana intrarent Urbem[47].

 

Uguali motivazioni stavano alla base della cerimonia

[p. 202]

dell’armilustrium[48] che si celebrava il 19 ottobre, come generale purificazione dell’esercito alla fine della stagione della guerra[49].

Peraltro nei versi appena citati, forse per dare maggiore solennità al contesto, o per sottolineare il ruolo sacerdotale di Enea[50], il poeta non sembra riferirsi ad una generica

[p. 203]

purificazione, bensì alle abluzioni dei sacerdoti[51], come evidenzia l’uso del verbo attrectare, «di carattere rigorosamente sacrale»[52]; con significato positivo solo se riferito ai sacerdotes populi Romani[53], mentre usato per il resto della collettività assumeva il valore negativo di "contaminare"[54].

          Anche in un altro passo dell’Eneide nefas si presenta connesso all’esercizio della guerra:

 

Hostis amare, quid increpitas morternque minaris?

[p. 204]

nullum in caede nefas, nec sic ad proelia veni,

nec tecum meus haec pepigit mihi foedera Lausus[55].

 

Giustamente già i commentatori antichi ridimensionavano la portata della categorica asserzione di Mezenzio (non rileva scegliere tra l’opinione di Servio «mori viro forti nefas non est» e quella del Servio Danielino «aut nihil nefandum Aeneas commissurum, si se volentem interfecerit» [56] che altrimenti poteva essere intesa come teorizzazione della mancanza di qualsiasi divieto per il combattente, perfino nella sfera religiosa del nefas[57]. In rapporto all’ideologia virgiliana una tale

[p. 205]

impressione sarebbe del tutto falsa, poiché in altri versi il poeta mostra chiaramente di non ignorare l’esistenza nel sistema giuridico-religioso romano di iura comuni anche agli hostes[58] e non esita a porre con vigore l’accento sul dovere di umanità verso i nemici[59].

Ancora alla sfera del nefas rimandano gli aggettivi nefandum e infandum, utilizzati da Virgilio per qualifìcare il bellum nei seguenti versi dell’Eneide:

 

Ilicet infandum cuncti contra omina bellum,

contra fata deum perverso numine poscunt;

certatim regis circumstant tecta Latini[60].

 

Hoc caput, o cives, haec belli summa nefandi:

ferte faces propere foedusque reposcite flammis[61].

 

Ventum ad supremum est; terris agitare vel undis

Troianos potuisti, infandum accendere bellum,

deformare domum et luctu miscere hymenaeos:

ulterius temptare veto[62].

 

A proposito di questi versi, mette conto evidenziare, nel complesso, il contenuto altamente significativo, per la chiara intenzione del poeta di dare al contesto del bellum connotazioni

[p. 206]

di forte valenza negativa sul piano religioso. Nei primi vv. infandum viene utilizzato per qualificare un bellum che i Latini chiedono di intraprendere, non solo contra omina, ma addirittura contra fata deum[63]; in Aen. 12.572-573 è lo stesso Enea che parla e definisce nefandum il bellum che Turno e i Latini hanno scatenato contro i Troiani, in aperta violazione del foedus stipulato in precedenza[64]; infine abbiamo un discorso di Iuppiter, il quale rimprovera la dea Giunone per il bellum suscitato contro Enea e compagni nelle contrade d’Italia, nonostante fosse ben conosciuto dalla dea l’ineludibile fatum dell’eroe troiano: da cui infandum accendere bellum[65].

 

 

5. ‑ Impieghi virgiliani di bellum

 

Veniamo ora ad alcune brevi considerazioni sugli impieghi del termine bellum in Virgilio, muovendo anzi tutto dalle

[p. 207]

occorrenze in cui la parola viene utilizzata nella sua accezione più propria[66].

          In tali casi bellum indica un conflitto armato tra hostes, oppure il periodo di svolgimento delle ostilità, comunque sempre concettualmente contrapposto alle nozioni di pax e di indutiae[67]. è questo, ad esempio, il senso con cui bellum ricorre in alcuni versi dell’Eneide per indicare la guerra di Troia[68]; nello stesso senso in altri luoghi del poema il termine designa il conflitto che opponeva i Troiani e i loro alleati alla coalizione di popoli capeggiata dal re Latino e guidata militarmente da Turno[69].

Sempre nella sua accezione più propria Virgilio usa bellum a proposito della guerra, pressoché ininterrotta, esistente fra gli Arcadi e i Latini[70]; per indicare la guerra successiva al ratto delle Sabine tra Romolo e Tito Tazio[71]; infine per le azioni militari condotte dagli eserciti del popolo romano contro le diverse popolazioni che vivevano al di fuori dell’impero[72].

A parte l’impiego appena illustrato, è presente nel lessico virgiliano, peraltro in maniera assai ampia, un uso generico e

[p. 208]

indefinito del termine bellum[73]: in sentenze[74]; al genitivo in nessi specificanti[75]; all’ablativo o al dativo in nessi di marca epica[76]; in locuzioni verbali[77]. Si tratta, dunque, di un’utilizzazione non solo molto ampia, ma anche molto varia, per cui non è possibile discuterne qui con la dovuta compiutezza. Basterà comunque notare, in relazione al discorso sviluppato finora, come in tutte queste accezioni lo spettro semantico di bellum conservi uno sfondo variamente negativo, che rende assai bene il senso di repulsione verso la guerra che animava Virgilio.

Nella relativa voce del Thesaurus Linguae Latinae, B.A. Müller[78] segnala un impiego di bellum da intendere nel senso di pugna o proelium, adducendo fra gli altri esempi probanti anche un buon numero di versi virgiliani. Per quanto riguarda Virgilio mi pare, tuttavia, fondata l’obiezione del Lotito[79], secondo il quale «alcune occorrenze indicate dal Th. l. L. non sembrano richiedere necessariamente questa interpretazione»[80].

In altri passi, contesto e costruzione sintattica inducono esegeti e traduttori ad attribuire a bellum il significato di

[p. 209]

“battaglia”, “combattimento”, “lotta”[81]. è stato però sostenuto che in tali passi sarebbe da vedere «più che una effettiva dislocazione semantica un allargamento delle potenzialità contenute in b(ellum), sottoposto da Virgilio a tensioni sintattiche e contestuali di varia intensità»[82]; tale allargamento di potenzialità deriverebbe da due ordini di processi stilistico-letterari relativamente frequenti in Virgilio: la lšxij epica del modello omerico[83] e l’impiego del plurale generalizzante[84].

 

 

6. ‑ Bellum e religio: alcuni rituali romani della guerra

 

Dal punto di vista religioso a Roma due diverse cerimonie segnavano l’inizio della guerra: la indictio belli e l’apertura del tempio di Giano; entrambe peraltro oggetto delle attenzioni di Augusto, nell’ambito della restaurazione degli antichi culti da lui promossa[85].

[p. 210]

Nel poema virgiliano non abbiamo esplicita menzione di una indictio belli ad opera dei feziali, anche se mi pare convincente l’opinione del Lersch[86], il quale ritiene alcuni passi dell’Eneide ispirati proprio a questo rito[87].

[p. 211]

          Ampia e dettagliata testimonianza Virgilio offre invece della cerimonia di apertura del tempio di Giano in Aen. 7.601-615:

 

Mos erat Hesperio in Latio, quem protinus urbes

Albanae coluere sacrum, nunc maxima rerum

Roma colit, cum prima movent in proelia Martem,

sive Getis inferre manu lacrimabile bellum

Hyrcanisve Arabisve parant seu tendere ad Indos

Auroramque sequi Parthosque reposcere signa.

Sunt geminae Belli portae (sic nomine dicunt)

religione sacrae et saevi formidine Martis;

centum aurei claudunt vectes aeternaque ferri

robora, nec custos absistit limine Ianus:

has, ubi certa sedet patribus sententia pugnae,

ipse Quirinali trabea cinctuque Gabino

insignis reserat stridentia limina consul,

ipse vocat pugnas: sequitur tum cetera pubes

aereaque adsensu conspirant cornua rauco[88].

 

Il riferimento al rito romano è chiaramente affermato, poco rileva sottolineare, come fa il grammatico Servio nel suo

[p. 212]

commento al verso 601, l’anacronismo di attribuirne l’origine alla città di Latino:

 

Hesperio in Latio hoc est in antiquo: nam, ut in primo diximus, duo Latia fuerunt, unde non frustra ‘Hesperio’ addidit. Quod autem dicit hanc consuetudinem antiquam fuisse, falsum est; nam a Numa Pompilio primum instituta est. Sed carmini suo, ut solet, miscet historiam[89].

 

Nel ristabilire la realtà storica tradizionale riguardo al culto di Giano[90] sfugge al commentatore la funzione della diversa variante virgiliana (91)[91]: come in molti altri anacronismi

[p. 213]

del poema[92], utili per riaffermare la continuità fra il passato eroico e il presente augusteo, anche in questo caso si trattava di ribadire il «perdurare di un rituale dal tempo di Enea a quello di Virgilio»[93].

A ben vedere la minuziosa descrizione del rito, che prescrive allo stesso console, Quirinali trabea cinctuque Gabino

[p. 214]

insignis, di aprire le “stridenti porte” del tempio di Giano, ubi certa sedet patribus sententia pugnae, risponde ad una precisa funzione narrativa nel racconto virgiliano: il poeta vuole in tal modo evidenziare che il bellum contro Enea, anche di fronte alla religione, non ha il carattere del bellum iustum, poiché il re Latino si astiene dal compiere la sua funzione rituale:

 

Hoc et tum Aeneadis indicere bella Latinus

more iubebatur tristisque recludere portas.

Abstinuit tactu pater aversusque refugit

foeda ministeria et caecis se condidit umbris[94].

 

Forte caratterizzazione religiosa presentano anche i vv. 228-229 del libro decimo, dove Virgilio mette in bocca alle navi troiane ormai divinizzate questa esortazione:

 

tum sic ignarum adloquitur: “Vigilasne, deum gens,

Aenea? vigila et velis immitte rudentis”[95].

 

[p. 215]

Nel suo commento Servio annota: verba sunt sacrorum[96]; spiegando poi che si trattava di un ricalco sulla cerimonia, di data incerta nel calendario romano, nel corso della quale le Vestali indirizzavano la stessa esortazione al rex sacrorum[97]. Il contesto suggerisce, invero, una notevole simiglianza col rituale di Marte e con la preghiera Mars vigila!, che il magistrato romano, incaricato di condurre la guerra, rivolgeva al dio dopo aver agitato gli scudi sacri dei salii e la lancia di Marte [98]. Dal

[p. 216]

passo emerge con chiarezza il carattere religioso della regalità che il poeta attribuisce ad Enea[99]; mentre mi pare più improbabile l’interpretazione proposta da P. Grimal[100], per il quale, al momento dell’inizio della guerra, l’eroe troiano «devient Mars lui-même, il incarne le dieu, et, comme celui-ci, il sera possédé par le furor».

 

 

7. ‑ Guerra e natura: ius naturale in Virgilio e nel pensiero giuridico romano

 

Sulla base dei testi si può sostenere, non senza ragione, che il poeta provasse quasi ripugnanza ad accostare bellum a ius: sorprendentemente nell’opera virgiliana non esiste un’occorrenza di bellum qualificato iustum, né per il termine è mai utilizzato l’aggettivo pium, così come sono evitati anche i contrari iniustum e impium[101].

[p. 217]

Assai significativo per questo discorso si presenta il passo dell'Eneide in cui bellum e ius si ritrovano insieme:

 

                    Macte nova virtute; puer: sic itur ad astra,

dis genite et geniture deos. Iure omnia bella

gente sub Assaraci fato ventura resident

nec te Troia capit[102].

 

Evidentemente ispirati all’ideologia augustea della pace[103], questi versi costituiscono la parte più significativa della profezia, indirizzata a Iulo dal dio Apollo, riguardante l’avvento di un’età senza guerre per i futuri discendenti del giovane troiano. A ben vedere, quindi, non siamo in presenza di un accostamento tra bellum e ius, ma piuttosto tra ius e la fine degli omnia bella ventura[104]. Non sembra perciò azzardato supporre

[p. 218]

che nel poeta operasse la consapevolezza dell’estraneità della guerra, e di molti altri istituti giuridici, allo stato di natura: identificato da Virgilio come supremo ideale di giustizia[105].

Del resto, la non rispondenza della guerra alla iustitia[106] doveva essere un tema usuale di parte consistente della

[p. 219]

speculazione filosofica greca e romana tra II e I secolo a. C.: Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[107], improntato

[p. 220]

com’è noto alle idee di Carneade[108], ricorre all’esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:

[p. 221]

 

          Cur enim per omnes populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod una quaeque gens id sibi sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem ab iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit[109].

 

          Anche per la giurisprudenza classica, seppure in un contesto di comparazione per niente negativo, il riferimento all’aequitas

[p. 222]

e alla utilitas sembra costituire il vero criterio distintivo tra ius naturale e ius civile. Mi riferisco al notissimo frammento del giurista Paolo (Libr. XIV ad Sabin.):

 

          Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. Altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est ius civile. Nec minus ius recte appellatur in civitate nostra ius honorarium[110];

 

a proposito del quale è stato autorevolmente notato che portando «a compimento una concezione generale immanente nel pensiero romano e già formulata da Celso, vengono resi espliciti la genesi e lo scopo del diritto»; con un risultato che «trascende il momento storico e assume carattere di validità

[p. 223]

perdurante nell’ambito della teoria generale»[111]. Appare evidente dalla lettura del frammento come proprio il richiamo all’utilitas caratterizzi lo ius civile rispetto allo ius naturale[112].

[p. 224]

          Peraltro. l’idea di un diritto valido universalmente nel tempo e nello spazio, sovraordinato quindi a tutte le populares leges in quanto fondato sulla rerum natura e sulla ratio della suprema divinità, si era già affermata nell’età di Virgilio. Anche in questo caso ne abbiamo l’enunciazione in un celebre passo del De legibus ciceroniano:

 

Erat enim ratio profecta a rerum natura et ad recte faciendum inpellens et a delicto avocans, quae non tum denique incipit lex esse, quom scripta est, sed tum, cum orta est; orta autem est simul cum mente divina. Quam ob rem lex vera atque princeps apta ad iubendum et ad vetandum ratio est recta summi Iovis[113].

 

[p. 225]

          Non deve quindi meravigliare se Virgilio considera la natura e la guerra come termini inconciliabili. Nella sua poesia, infatti, solo con la fine degli aurea saecula e delle leges di Saturno appaiono fra gli uomini la guerra e la proprietà privata:

 

                    Aurea quae perhibent illo sub rege fuere

saecula: sic placida populos in pace regebat,

deterior donec paulatim ac decolor aetas

et belli rabies et amor successit habendi[114].

 

[p. 226]

          Dalla lettura di questi versi dell’Eneide emerge, in primo luogo, l’affermazione della coincidenza tra pace e stato di natura[115]; si manifesta anche, al tempo stesso, da parte del poeta la consapevolezza che violenza della guerra ed egoismo della proprietà privata, prodotti della deterior ac decolor aetas, sono storicamente datati, estranei per ciò stesso all’essenza originaria della natura umana. Per Virgilio anzi la rabies belli produce veri e propri crimina[116] e costituisce una violazione, seppure legalizzata, di precetti più generali che vietano l’omicidio e altri atti lesivi dell’integrità della persona umana; precetti a cui i giuristi dell’età imperiale avrebbero dato forma di principi del diritto, basandoli appunto sulla natura e attribuendoli alla sfera del nefas:

 

ut vim atque iniuriam propulsemus: nam iure hoc evenit, ut quod quisque ob tutelam corporis sui fecerit, iure fecisse existimetur, et cum inter nos cognationem

[p. 227]

quondam natura constituit, consequens est hominem homini insidiari nefas esse[117].

 

[p. 228]

A proposito della cognatio, la cui violazione in quanto contra fas causa nell’epica virgiliana horrida bella (118)[118], troviamo affermata la superiorità dei naturalia iura rispetto alla civilis ratio in un passo assai noto delle Institutiones di Gaio:

 

Sed agnationis quidem ius capitis deminutione perimitur, cognationis vero ius eo modo non commutatur, quia civilis ratio civilia quidem iura corrumpere potest, naturalia vero non potest[119].

 

[p. 229]

Riguardo alla nozione di ius naturale e alla conoscenza di essa da parte di Virgilio, mi pare convincente quanto da altri già rilevato [120], cioè che il poeta, quando nel libro quarto delle Georgiche attribuisce alle api, fra le altre caratteristiche comunitarie anche magnae leges:

 

Solae communis natos, consortia tecta

urbis habent magnisque agitant sub legibus aevom

et patriam solae et certos novere penatis

venturaeque hiemis memores aestate laborem

experiuntur et in medium quaesita reponunt[121];

 

sembra utilizzare una nozione di ius naturale simile per molti versi alla celebre formulazione di Ulpiano, di un diritto comune a tutti gli esseri viventi:

 

Ius naturale est, quod natura omnia animalia docuit: nam ius istud non humani generis proprium, sed omnium animalium, quae in terra, quae in mari nascuntur, avium quoque commune est[122].

 

[p. 230]

          Tale formulazione sarà, per altro, ripresa dai compilatori giustinianei, i quali la ripeteranno nelle Institutiones (1.2 pr.) con la significativa variante che vede nello ius naturale un’espressione della divina providentia:

 

Sed naturalia quidem iura, quae apud omnes gentes

[p. 231]

peraeque servantur, divina quadam providenda constituta semper firma atque immutabilia permanent[123].

 

Il riferimento a divina quadam providentia del testo giustinianeo offre lo spunto per ulteriori suggestioni. Sebbene inquadrato nella concezione giuridica cristiana dell’imperatore[124], questo riferimento sembra però derivare da un autore pagano, forse Marciano[125]; poiché ‑ osserva al riguardo C. Castello[126] ‑ «un autore cristiano non avrebbe scritto mai quadam se avesse voluto esprimersi in modo teologicamente corretto». A ben vedere, una simile concezione dello ius naturale può riscontrarsi anche in Virgilio. Per il nostro poeta, infatti, la

[p. 232]

conformità del diritto alla natura è assicurata dal dare iura divino, quasi sempre collegato nell’opera virgiliana all’età aurea, vuoi passata vuoi futura[127], di una umanità ignara dei conflitti o liberata dalle guerre.

 

 



 

[1] G. Boissier, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, 3a ed., Paris 1884, 1, p. 255.

 

[2] Aen. 7.339: dissice compositam pacem, sere crimina belli.

 

[3] Aen. 7.461: saevit amor ferri et scelerata insania belli; cfr. Servio, ad l.: nihil enim tam insanum, quam desiderare id per quod possis perire.

 

[4] Aen. 6.86-87: Bella, horrida bella / et Thybrim multo spumantem sanguine cerno; 7.41; 11.96 (horrida belli / fata).

 

[5] Aen. 1.14.

 

[6] Aen. 8.146; 11.535.

 

[7] Aen. 11.474 (bello dat signum rauca cruentum / bucina).

 

[8] Aen. 11.217.

 

[9] Ecl. 6.7; Aen. 7.325.545; 8.29.

 

[10] Aen. 2.217-220; 10.900-902.

 

[11] Aen. 12.572; 7.583; 12.804.

 

[12] Per una rapida enumerazione dei passi virgiliani riguardanti il termine bellum e le diverse, ma sempre negative, qualificazioni di esso, vedi H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Lipsiae 1912 (rist. an. Hildesheim-New York 1969), pp. 88 ss.

 

[13] Aen. 6.273-281: Vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci Luctus et ultrices posuere cubilia Curae; / pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus / et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas, / terribiles visu formae, Letunique Labosque; / tum consanguineus Leti Sopor et mala mentis / Gaudia mortiferumque adverso in limine Bellum / ferreique Eumenidum thalami et Discordia demens, / vipereum crinem vittis innexa cruentis. Cfr. anche Terenzio, Eun. 61; Cicerone, Catil. 2.14; 3.19; De nat. deor. 1.42; Phil. 1.13; 13, 1; Orazio, Carm. 1.1.24; Valerio Massimo 4.3 pr.; Seneca, Dial. 4.35.5; 6.20.5; Nat. quaest. 2.59.3; Plinio, Nat. hist. 2.117.

 

[14] Le più importanti sono state puntualmente analizzate da G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 478 ss.; per una visione più generale cfr., invece, B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, 1906, coll. 1822 ss.

 

[15] Su tale «fatto fonetico» vedi G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940 (rist. an. 1969), p. 107;  M. Leumann, Lateinische Laut-und Formenlebre = LeumannHoffmanSzantir, Lateinische Grammatik, 1 (Handbuch der Altertumswissenschaft, II.2.1), nuova ed., München 1977, pp. 131 s.

 

[16] B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, cit., col. 1822.

 

[17] Varrone, De ling. Lat. 7.49; cfr. Cicerone, Orat. 153; Quintiliano, Inst. orat. 1.4.15. Sull’antica forma del nome della dea vedi anche C.I.L. X, 104.2; più in generale E. Aust, v. Bellona, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 3.1, Stuttgart 1897, coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912, pp. 151 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, pp. 394 ss. (= trad. it., La religione romana arcaica, Milano 1977, pp. 341 s.); D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, Milano 1988, pp. 192 ss.

 

[18] Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI, 32323.94 (G.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani Quiritium, Milano 1941, p. 114); Act. lud. saec. Sept. Sev. 4.11 = C.I.L. VI, 32329.11 (G.B. Pighi, Op. cit., p. 157): imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit.

 

[19] Così ancora in Plauto, Asin. 558-559: Edepol qui virtutes tuas non possis conlaudare, / sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete iudices iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.

 

[20] Paolo, Fest. ep., p. 30 L.

 

[21] Ad Aen. 1.22. Sulle altre «veterum de origine verbi sententiae», cfr. B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Lingua Latinae, II, cit, col. 1822.

 

[22] Isidoro, Diff. 1.563.

 

[23] Servio, Ad Aen. 8.547; cfr. anche Servio Dan., Ad Aen. 1.456; 2.397; Nonio, p. 703 L.

 

[24] Cfr. G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 437.

 

[25] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, 2ª ed., Napoli 1973, p. 53.

 

[26] Cfr. nello stesso senso J.-P. Brisson, Introduction, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, Paris-La Haye 1969, p. 17: «Rome a toujours su que la guerre avait quelque chose de sacrilège et qu'un usage immodéré de la violence risquait de provoquer la colère des dieux, c'est-à-dire que l'effusion de sang laisse toujours plus ou moins mauvaise conscience».

 

[27] Così suona l'orgogliosa affermazione di Cicerone, De nat. deor. 2.8: Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores; cfr. C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932 (rist. Westport, Conn. 1972), pp. 274 s.

Anche Virgilio si mostra sensibile a questa ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter i versi che seguono: Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores (Aen. 12.838-840). Giustamente W.W. Fowler, The Death of Turnus, Oxford 1919, pp. 145 ss., osserva come il contesto del passo richiami i celebri versi 847-853 del libro VI (su cui vedi, da ultimo, P. Grimal, Virgile ou la seconde naissance de Rome, Paris 1985, p. 213 = trad. it.: Virgilio. La seconda nascita di Roma, Milano 1986, pp. 239 s.); non sfugge, infatti, all’illustre studioso la profonda ispirazione religiosa e pacifica della motivazione virgiliana del predominio universale dei Romani, assente peraltro nel contemporaneo Tito Livio, il quale adduce ben altre motivazioni nella ‘profezia’ che mette in bocca allo spirito di Romolo: Abi, nuntia ‑ inquit ‑ Romanis caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit, proinde rem militarem colant sciantque, et ita posteris tradant, nullas opes humanas armis Romanis resistere posse (1.16.7). Sulla diversa ispirazione di Virgilio rispetto a Livio e sulle implicazioni religiose di essa vedi, ora, I. Lana, Rapporto sullo stato degli studi intorno all'idea della pace a Roma e proposta di alcune linee di ricerca, in Concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma». Relazioni e Comunicazioni, 1 (offset), Roma 1988, pp. 22 s.= Id., Studi sull'idea della pace nel mondo antico, in Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino, ser. V, vol. 13, 1989, pp. 6 s. (estr.).

 

[28] Da condividere quanto scrive M. Meslin, L'uomo romano, trad. it., Milano 1981, p. 39, a proposito del ritus belli indicendi: «Come dice Tito Livio (1.32) attribuendo sempre al re Numa Pompilio l’istituzione di questi feciali, “fare la guerra non bastava, bisognava anche dichiararla secondo le regole”. Il rituale è certamente d’origine italiota [sic!] e mira, con adeguate procedure, non solo ad affermare il buon diritto di Roma, ma a collocare l'impresa nel fas, vale a dire a conferirle le massime possibilità di riuscita».

 

[29] Tale è il caso, ad esempio, delle formule e procedure elaborate dai feziali per l’indictio belli: cfr. Livio 1.32.5-14. Per la ricostruzione metrica dei carmina contenuti nel testo liviano, vedi C.M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890, p. 32; C.O. Thulin, Italiscke sakrale Poesie und Prosa. Eine metriscke Untersuckung, Berlin 1906, pp. 63 s.; G. Appel, De Romanorum precationibus (Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten, VII. 2), Gissae 1909 (rist. an. New York 1975), pp. 12 s.; G.B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, pp. 38 ss.; A. Carcaterra, Dea Fides e 'fides': storia d'una laicizzazione, in Studia et documenta historiae et iuris 50, 1984, pp. 214 ss. Che l’insieme di queste formule presenti un aspetto estremamente risalente, al di là della pur inevitabile moderizzazione linguistica, è sostenuto senza esitazioni da R. Bloch, Réflexions sur le plus ancien droit romain, in Studi in onore di G. Grosso, I, Torino 1968, pp. 236 ss.; nello stesso senso, da ultimo, A. Magdelain, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium), in Mélanges de l’ècole française de Rome 96, 1984, pp. 213 ss.; Le lus archaïque, ibid. 98, 1986, p. 303. Sugli aspetti giuridici vedi, per tutti, F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 50 ss. (ivi letteratura precedente). Sull’insieme del rito, infine, si vedano i rilievi carichi di suggestione di D. Sabbatucci, Il mito, il rito e la storia, Roma 1978, pp. 424 ss.

 

[30] Cfr., nello stesso senso, le rapide notazioni di M. Meslin, L'uomo romano, cit., p. 118.

 

[31] Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris 1957 (trad. it. di G. Pasquinelli: La religione romana. Storia politica e psicologica, Torino 1959); qui si cita la 2ª ed. del 1969, ristampata col titolo: La religion romaine, histoire politique et psychologique, Paris 1976, pp. 86 s. = trad. it. pp. 93 s.

 

[32] H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 101. Sulle feste di carattere militare di questi due mesi, vedi per tutti W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, rist. London 1925, pp. 33 ss.; 236 ss.; da ultimo, il recentissimo lavoro di D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 87 ss., 317 ss.

 

[33] Cicerone, De off. 1.36. Sul sacramentum militiae, vedi supra, p. 147 e n. 5.

 

[34] L’attività teologica e giuridica della sodalità si esplicitava, oltre che nelle formule solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i feziali davano su richiesta del senato o dei magistrati. Importanti testimonianze, con riferimenti testuali, in Tito Livio: 31.8.3: Consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum, quod indiceretur regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset, in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset, recte facturum. 36.3.9: Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur.

 

[35] Per una completa rassegna delle fonti in cui ricorre questa espressione (e sui valori concettualmente opposti: bellum iniustum, impium) vedi B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, cit., col. 1831. Sul tema, ampiamente studiato dalla dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni significativi lavori degli autori più recenti: M. Kaser, Das altrömische ius, Göttingen 1949, pp. 22 ss.; H. Drexler, Iustum bellum, in Rheinisches Museum für Philologie 102, 1959, pp. 97 ss.; H. Hausmaninger, ‘Bellum iustum' und 'Iusta causa belli' in älteren römischen Recht, in österreichsche Zeitschrift für öffentliches Recht, N. F. 11, 1961, pp. 335 ss.; E. Poľay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom, Budapest 1964, pp. 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, 1. 2, Berlin-New York 1972, pp. 102 ss.; W.V. Harris, War and imperialism in Republican Rome, 327-70 B. C., Oxford 1979, pp. 161 ss. (del tutto inaccettabile la posizione fortemente negativa); S. Albert, Bellum iustum. Die Theorie des «gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz 1980, pp. 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann, ‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’, Zürich 1985, pp. 139 ss.; F. D'Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988, pp. 22 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989, pp. 118 ss.

 

[36] Varrone, De ling. Lat. 5.86; cfr. De vita populi Rom., fragm. 75 ed. Riposati = Nonio, p. 850 L.; sui due testi varroniani vedi P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., p. 19 n. 31.

 

[37] Orig. 18.1.2.

 

[38] Cfr. Modestino, Libr. I reg. = D. 1.3.40: Ergo autem omne ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit consuetudo. Più in generale vedi Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, IV, coll. 74 ss.

 

[39] Livio 9.1.10. Sull'organizzazione militare dei Sanniti, con approfondimenti archeologici e giuridico-religiosi, vedi ora Chr. Saulnier, L'armée et la guerre chez les peuples Samnites (VIIe - IVe s.), Paris 1983.

 

[40] Cfr. Div. in Caec. 62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7.14.3; 9.19.1; Pro rege Deiot. 13; De off. 1.36; Phil. 11.37; 13.35. Al «Aufkommen des Begriffs bei Cicero» sono dedicate alcune interessanti pagine da S. Albert, Bellum iustum, cit., pp. 20 ss.; cfr. anche W.C. Korfmacher, Cicero and the bellum iustum, in The Classical Bulletin 48, 1972, pp. 49 ss.

 

[41] De re publ. 2.31. Per maggiori ragguagli sul passo cfr. K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, Heidelberg 1984, p. 200. Anche Livio (1.24), come Cicerone, ascrive a Tullo Ostillo l'istituzionalizzazione dello ius fetiale: non così Dionigi di Alicarnasso (2.72), che ritiene Numa Pompilio fondatore di tale ius; né Servio (Ad Aen. 10.14), il quale indica Anco Marzio. Nel complesso dello ius fetiale, con l'esempio anche del testo ciceroniano, D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, p. 59, vede una delle manifestazioni della «römische Gerechtigkeitsideologie».

 

[42] De re publ. 3.35 (= Isidoro, Orig. 18.1.3); commento in K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., p. 325. Sulle cause del bellum iustum esemplificate nel testo di Cicerone vedi, fra gli altri, M. Gelzer, Römische Politik bei Fabius Pictor, in Hermes 68, 1933, pp. 165 s.; H. Haffter, Geistige Grundlagen der romischen Kriegsführung und Aussenpolitik (1942), ora in Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, p. 24; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am Main 1955, p. 483; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr., München 1968, p. 179; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, 2ª ed., Ithaca, New York 1968, p. 11 (= trad. tedesca di G. Wirth: Römischer Imperialismus in der späten Republik, Stuttgart 1980, p. 28).

 

[43] Cfr. anche De re publ. 3.34 (= Agostino, De civ. dei 22.6): Nullum bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute; su cui vedi la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de l'impérialisme romain dans la philosophie de Ciceron, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 174: «Ainsi s'esquisse une justification de l'imperium romain, qui s'est constitué peu à peu pour répondre soit aux exigences de la légitime défense (une défense assez offensive), soit aux appels d'alliés que leurs propres ennemis menagaient ou lésaient». Agli stessi valori si richiamava, prima di Cicerone, il grande Catone in un frammento delle Origines, trattando della ripresa delle ostilità tra Roma e Cartagine nel 218 a. C.: Nonio, p. 142 L.: Deinde duoetvicesimo anno post dimissum bellum, quod quattuor et viginti annos fuit, Carthaginienses sextum de foedere decessere (fragm. 84 Peter = IV, 9 Chassignet). Giustamente nell'analisi del passo sottolinea il riferimento alla fides dei trattati M. Chassignet, Caton et l`impérialisme romain au IIe siècle av. J.-C. d'après les Origines, in Latomus 46, 1987, pp. 293-294: «On retrouve ici la tradition romaine de la "guerre juste" qui a pris très tôt une valeur juridique, pour ne pas dire morale, en ce sens qu'elle suppose une injustice commise contre Rome».

Quanto poi al rapporto esistente per i Romani tra imperium e religione, cfr. H. Haffter, Geistige Grundlagen der romischen Kriegsführung und Aussenpolitik, cit., pp. 11 ss.; A. Zwaenepoel, L'inspiration religieuse de l'impérialisme romain, in L'antiquité classique 18, 1949, pp. 5 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 22 ss.; approfondiscono il tema specificatamente in rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, rist. an. dell'edizione 1935, Darmstatd 1963; J.M. Serrano Serrano, Justificación de los regímenes sociales en los clásicos, in Helmantica 19, 1968, pp. 351 ss.; K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus, Wiesbaden 1983, pp. 156 ss.

Sulle questioni più generali relative all’ «imperialismo» romano sono da vedere, invece, R. Werner, Das Problem des Imperialismus und die römische Ostpolitik in zweiten Jahrhundert v. Chr., in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, 1. 1, Berlin-New York 1972, pp. 501 ss. (ivi bibliografia precedente); P. Veyne, Y a-t-il eu un imperialisme romain?, in Mélanges de l'école française de Rome 87, 1975, pp. 793 ss.; Ed. Frézouls, Sur l’historiographie de l'impérialisme romain, in Ktéma 8, 1983, pp. 141 ss.; e infine gli atti del convegno The Imperialism of Mid-Republican Rome, a cura di W.V. Harris (con saggi, oltre che dello stesso Harris, di D. Musti, E.S. Gruen, E. Gabba, J. Linderski, G. Clemente), Roma 1984.

 

[44] Aen. 2.717-720. Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si vedano, fra gli altri, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in Rivista italiana per le scienze giuridiche 10 (n. s.), 1935, p. 228; R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di diritto romano 46, 1939, p. 225 e n. 70; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, p. 54 n. 37 (= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, p. 230 n. 37). In diversa prospettiva, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L'idéologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968, p. 401.

 

[45] A maggior ragione era ritenuta sommamente onorevole per il cittadino la morte in battaglia: così Virgilio, Aen. 2.314-317: Arma amens capio; nec sat rationis in armis, / sed glomerare manum bello et concurrere in arcem / cum sociis ardent animi; furor iraque mentem / praecipitat pulchrumque mori succurrit in armis; nello stesso senso il commento di Servio Danielino, Ad Aen. 2.317: (Pulchrumque mori) succurrit (in armis) ratio viri fortis; quid enim aliud a bono cive et forti amissae patriae posset inpendi. Et 'succurrit' in animum venit.

 

[46] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, cit., pp. 227 s.; per l'analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose, vedi H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 334 ss.

 

[47] Paolo, Fest. ep., p. 104 L.

 

[48] Per la definizione vedi Varrone, De ling. Lat 6.22: Armilustrium ab eo quod in Armilustrio armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius, id ab lu<d>endo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus armati. Cfr. Paolo, Fest. ep., p. 17 L.: Armilustrium festum erat apud Romanos, quo res divinas armati faciebant, ac, dum sacrificarent, tubis canebant.

 

[49] Cfr. per tutti G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 19, pp. 144, 557; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, cit., pp. 250 s.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, p. 100; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 120; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 216 (= La religione romana arcaica, cit., p. 190); D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 331 s.

 

[50] Per i commentatori antichi non v’era il minimo dubbio che Virgilio avesse voluto caratterizzare principalmente come sacerdote il personaggio di Enea (cfr. Servio Dan., Ad Aen. 1.706). Servio e Macrobio trattano dell'eroe troiano come di un pontifex (Ad Aen. 1.373; Sat. 3.2.17) e si ingegnano a dimostrare che tutte le sue azioni più significative sono sempre conformi alle prescrizioni del rituale romano: Ad Ecl. 8.82; Ad Aen. 2.133; 3.21; 4.517; 5.745; 9.298; Sat. 3.5.6. Nello stesso senso, fra gli studiosi moderni, si orientava nel secolo scorso L. Lersch, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonnae 1843, pp. 8-9, il quale nel paragr. intitolato De pontificia dignitate scrive: «Tanta enim rei sacrae religio in Aenea regnat, ut Gellius, Macrobius ac Servius eum interdum pontificem maximum appellaverint. Neque immerito, opinor». In tempi più recenti questa tesi è stata ripresa da H.J. Rose, Aeneas pontifex, London 1948 (= Vergilian essays, 2); ma «dans les détaíls ... le scholar écossaís ne produit aucun argument probable»: così G. Dumézil, Mythe et épopée, 1, cit., p. 391. Seppure con posizioni più sfumate, non sfugge alla maggior parte della dottrina moderna il fatto che nella figura di Enea «Le poète veut nous montrer un prétre»: N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique, rist. Paris 1927, p. 164 (= trad. ít. di G. Perrotta: La città antica, Firenze 1924, rist. 1972, p. 170); cfr. G. Boissier, La religion romaine, I, cit., p. 233; P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, pp. 72 s.; G. Dumézil, Op. loc. cit., il quale pensa alla funzione del rex sacrorum («En revanche le poète a certainement voulu installer son héros dans un rituel de l'antique royauté sacrée de Rome, dont, à l'époque historique, le bénéfice restait attaché au rex sacrorum ou sacrificulus, premier prêtre de l’état républicain»); P. Grimal, Virgile ou la seconde naissance de Rome, cit., pp. 227 s. (= Virgilio. La seconda nascita di Roma, cit., pp. 256 s.); da ultimo J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, Bruxelles 1987, p. 180: «Quant à énée, prêtre avant tout, son pouvoir sera de nature religieuse»; cfr. anche pp. 187 ss.

 

[51] Sulla funzione purificatrice dell'acqua, cfr. Aen. 3.279; 6.636; 9.919; 11.190. La differenza tra abluzioni e aspersioni, e per quali riti fossero necessarie, risulta ben spiegata in Macrobio, Sat. 3.1.5-6; per altre fonti, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 55 n. 45 (= Id., Studi di diritto romano, I, cit., p. 231 n. 45).

 

[52] L'espressione è di E. Paratore, Virgilio, Eneide, I, cit., p. 360.

 

[53] Cfr. Livio 5.22.5; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber secundus, Oxford 1964, p. 264.

[54] In tal senso vedi E. Paratore, Op. loc. cit. in n. 52.

 

[55] Aen. 10.900-902; per questi versi, cfr. K. Büchner, Virgilio, trad. it. 1962, 2ª ed., Brescia 1986, p. 512; J. Glenn, The fall of Mezentius, in Vergillus 18, 1972, pp. 10 ss.; G. Thome, Gestalt und Funktion des Mezentius bei Vergil, - mit einem Ausblick auf die Schlussszene der Aeneis, Frankfurt a. M.-Bern-Las Vegas 1979, p. 163; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., p. 209.

Quanto poi al carattere del personaggio virgiliano vedi, per tutti, P.F. Burke, The role of Mezentius in the Aeneid, in Classical Journal 69, 1974, pp. 203 ss.; A. La Penna, Mezenzio: una tragedia della tirannia e del titanismo antico, in Maia 32, 1980, pp. 23 ss.; W.P. Basson, Vergil's Mezentius. A pivotal personality, in Acta Classica 27, 1984, pp. 57 ss.

 

[56] Servio, Ad Aen. 10.901: Nullum in caede nefas mori viro forti nefas non est, nec ego sic ut vincerem veni, hoc est cum voluntate procumbo. Servio Dan., ibid.: Ergo autem nihil acerbi in morte se passurum ait; aut nihil nefandum Aenean commissurum, si se volentem interfecerit, qui mori decreverit, si mortem filii non potuisset ulcisci. Per l'interpretazione del Danielino propende E. Paratore, Virgilio, Eneide, V (Libri IX-X), Milano 1982, pp. 307 s.

 

[57] Non pare, dunque, per niente convincente la tesi del Fustel de Coulanges, La cité antique, cit., pp. 242-243: «Pas de merci pour l'ennemi; la guerre est implacable; la religion préside à la lutte et excite les combattants. Il ne peut y avoir aucune règle supérieure qui tempère le désir de tuer; il est permis d'égorger les prisonniers, d'achever les blessés. [...] Le vainqueur pouvait user de sa victoire comme il lui plaisait. Aucune loi divine ni humaine n'arrêtait sa vengeance ou sa cupidité» (= La città antica, cit., p. 248).

 

[58] Aen. 8.499-501; 2.540-543.

 

[59] Aen. 10.903-906.

 

[60] Aen. 7.583-585.

 

[61] Aen. 12.572-573.

 

[62] Aen. 12.803-806.

 

[63] Riguardo ai fata deum mi pare riduttiva l'interpretazione di Servio, Ad Aen. 7.584: Fata deum propter oraculum Fauni; cfr. E. Paratore, Virgilio, Eneide, IV (Libri VII-VIII), Milano 1981, p. 199: «infandum: v'è il giudizio del poeta, ma reso indiscutibile dalle circostanze successivamente addotte, l’anafora relativa ai responsi, che rende perversum il numen che ispira la richiesta di guerra; il guaio è che si tratta del numen di Giunone». Sul passo, brevemente, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, 1, cit., pp. 369 s.

 

[64] Cfr. in tal senso Servio, Ad Aen. 12.573.

 

[65] Analizzando la struttura di questo e di altri discorsi di Giove J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l'énéide de Virgile, cit., pp. 328 ss., prospetta un "Jupiter magistrat": «La "loi du Destin" n'est pas plus la loi de Jupiter que les lois de état romain ne sont uniquement celles du magistrat – fut-il Auguste ‑ chargé de les faire appliquer».

 

[66] Su tale accezione cfr. B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus L. L., cit., col. 1823; A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4ª ed., Paris 1967, p. 68 s.; A. Walde - J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, 3ª ed., I, Heidelberg 1938, p. 100.

 

[67] Per l'esame degli impieghi virgiliani rimando a G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 478.

 

[68] Aen. 1.565-566; 2.108-109; 8.374-375.

 

[69] Aen. 1.263-264; 7.80; 9.528; 11.305-307.

 

[70] Aen. 8.55.

 

[71] Aen. 8.637.

 

[72] Georg. 1.509; Aen. 7.604.

 

[73] Cfr. G. Lotito, v. Bellum, cit., p. 479.

 

[74] Aen. 11.362; 399.

 

[75] Aen. 2.511; 7.339;461;553; 8.140; 11.505; 515.

 

[76] Georg. 1.170; Aen. 1.339; 2.241; 4.40; 6.878; 8.480; 9.201; 10.185;441; 12.347.

 

[77] Aen. 1.23;48;263;541; 3.247; 6.820;828;890; 7.444;455;604; 9.279; 10.626-627; 11.250;305; 12.158;333; Georg. 1.509.

 

[78] Bellum, in Thesaurus L. L., II, cit., coll. 1824 ss.

 

[79] Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 479.

 

[80] Si tratta di Georg. 2.279-280; Aen. 8.637; 9.656; 10.146; 11.18.

 

[81] Così, ad esempio, per Georg. 4.69-70; Aen. 1.456-457; 2.315;718; 10.173; 11.535.

 

[82] G. Lotito, v. Bellum, cit., p. 479.

 

[83] Elenco (non esaustivo) della presenza omerica nel poema virgiliano in G. Lotito, Op. cit., pp. 479 s.; ma sull’argomento vedi soprattutto L. Wickert, Homerisches und Römisches im Kriegswesen der Aeneis, in Philologus 85, 1930, pp. 285 ss., 437 ss.; nonché il lavoro di G.N. Knauer, Die Aeneis und Homer. Studien zur poetischen Technik Vergils mit Listen der Homerzitate in der Aeneis, Göttingen 1964; di questo studioso vedi anche Vergil und Homer, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.2, Berlin-New York 1981, pp. 869 ss.

 

[84] Esempi in G. Lotito, Op. cit., pp. 480 s.

 

[85] Nel corso della grande restaurazione della religione romana promossa da Augusto, fu dato ampio spazio alla rifondazione di alcuni collegi sacerdotali. Il caso più conosciuto è certamente quello della sodalità degli Arvales (G. Wissowa, v. Arvales fratres, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 2.2, Stuttgart 1896, coll. 1463 ss.; J. Scheid, Les frères arvales. Recrutement et origine sociale sous les empereurs julo-claudiens, Paris 1975, pp. 335 ss.), ma la riforma interessò anche altri sacerdozi che avevano conosciuto una vistosa decadenza nell’ultimo secolo della repubblica, come ad esempio i feziali: cfr. Chr. Saulnier, Le rôle des prêtes fétiaux et l’application du «ius fetiale» à Rome, in Revue historique de droit français et étranger 58, 1980, pp. 171 ss.

Più in generale sulla riforma religiosa augustea, fra la sterminata mole di bibliografia, vedi: sugli aspetti politico-sociali, R. Syme, La rivoluzione romana, trad. it., Torino 1962 (rist. 1974), pp. 442 ss.; C. Parain, Augusto, trad. it., Roma 1979, pp. 113 ss.; M.A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1986, pp. 389 ss.; per il riflesso politico-costituzíonale, F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV.1, 2ª ed., Napoli 1974, pp. 230 ss.; per la materia propriamente religiosa, J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., pp. 185 ss.; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 294 ss.

 

[86] L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., pp. 43 s.

 

[87] Mette conto rilevare come nell’età virgiliana si ebbe, grazie all’azione politico-relígiosa di Augusto, una certa rinascita dello ius fetiale: cfr. Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du «ius fetiale» à Rome, cit., pp. 171 ss., 191 ss. Non a caso nella lotta contro Antonio e Cleopatra il Principe, feziale egli stesso (Res Gestae 1.7.48), fece ricorso all’antica e ormai desueta cerimonia dell’indictio belli (Virgilio, Aen. 8.678 ss.; Cassio Dione 50.4.5; Plutarco, Ant. 60): «grâce auquel cet ultime combat civil est assimilé à l’une des nombreuses guerres qui ont été nécessaires à l’extension de la Pax Romana au monde» (P.M. Martin, De la «Paix Romana» à la «Paix Augusta»: genèse et mutation d’un concept, in Concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma», cit., p. 109). Cfr. anche J.W. Rich, Declaring War in the Roman Republic in the period of Transmarine expansion, Bruxelles 1976, pp. 17, 57 n. 3; G. Luraschi, ‘Foedus’ nell’ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario romanistico gardesano, Milano 1988, p. 301.

 

[88] Per l'analisi dei versi citati, di cui viene evidenziata l'intenzione di ricostruire il passato leggendario di Roma e della gens Iulia, vedi D. Lassandro, Le porte di guerra del dio Giano (nota a Aen. 7, 601-623), in Invigilata Lucernis 3-4, 1981-1982, pp. 187 ss.; cfr. anche, da ultimo, J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, cit., p. 135.

 

[89] Servio, Ad Aen. 7.601.

 

[90] Anche il culto di Giano appare legato in particolar modo alla restaurazione augustea: per J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, cit., p. 174 (= La religione romana, cit., p. 191) fu proprio la politica religiosa di Augusto che «revigora les rites de Janus»; anche per R. Schilling, Ianus. Le dieu introducteur. Le dieu des passages, in Mélanges de l'école française de Rome 72, 1960, p. 90 (= Id., Rites, cultes, dieux de Rome, Paris 1979, p. 221), il dio «devait à Auguste une survie que son rôle, effacé de la fin de la République, avait rendue aléatoire»; nello stesso senso, J.-C. Richard, Pax, Concordia et la religion officielle de Ianus à la fin de la République romaine, in Mélanges de l'Ecole française de Rome 75, 1963, p. 360; e M. Meslin, La fête de Kalendes de janvier dans l'Empire romaine. Etude d'un rituel du Nouvel An, Bruxelles 1970, p. 25: il quale ascrive la rinascita del culto «dans la propagande augustéenne du rétablissement d'une paix définitive». Per una più recente messa a punto di questa problematica, vedi R. Turcan, Janus à l'époque impériale, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.17.1, Berlin-New York 1981, pp. 376 ss.

 

[91] Il poeta ancora una volta traccia la storia del Lazio seguendo uno schema che prefigura la sostanziale continuità delle esperienze giuridiche e religiose, attraverso Alba Longa, dall’arcaica comunità del leggendario re Latino fino a Roma. Anzi, si potrebbe concordare con V. Buchheit, Vergil über die Sendung Roms, Heidelberg 1963, pp. 86 ss., nel ritenere che il riferimento al tempio di Giano sottolinei ulteriormente il ruolo di precursore di Augusto attribuito al re Latino, nel quale ‑ come nel Principe ‑ prevale la funzione di pacificatore. Tale funzione appare esaltata dalla stessa genealogia del re, discendente di Saturno, e dal valore di prosecuzione dell'età aurea che ha il suo regno pacifico: Aen. 7.45-49.

G. Freyburger, v. Giano, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 724, valuta il testo relativo all'apertura del tempio di Giano un’ottima testimonianza sul santuario del dio posto a Roma nell'Argileto, come risulta dalla precisa ubicazíone di Livio 1.19.2: Quibus cum inter bella adsuescere videret non posse, quippe efferari militia animos, mitigandum ferocem populum armorum desuetudine ratus, Ianum ad infimum Argiletum indicem pacis bellique fecit, apertus ut in armis esse civitatem, clausus pacatos circa omnes populos significaret. Sul rito vedi anche Ovidio, Fast. 1.277 ss., il quale ne spiega il significato in maniera convincente, collegando l’apertura delle porte al ritorno dell'esercito dalla guerra: nello stesso senso, H. LE Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 104: «l'explication relative à l’ouverture des portes semble exacte: il faut que subsiste le lien magico-religieux qui unit la ville et ses habitants à l’armée en campagne; la porte fermée serait un obstacle surnaturel à la rentrée des guerriers»; e da ultimo D. Porte, L’étiologie religieuse dans les fastes d’Ovide, Paris 1985, p. 321. Diversa risulta, invece, l’impostazione di D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 17 s.

 

[92] Per una rapida visione di sintesi sugli anacronismi nell’Eneide, vedi N. Horsfall, v. Anacronismi, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 151 ss.

 

[93] N. Horsfall, Op. cit., p. 152.

 

[94] Aen. 7.616-619: cfr. P. Grimal, Virgile ou la seconde naissance de Rome, cit., p. 217: «Latinus, et lui seul, en sa qualité de roi, pouvait accomplir ce geste [aprire le porte del tempio], dans la ville. Il s'y refuse. Aucune autorité légitime ne peut donc déclencher le iustum bellum» (= Virgilio. La seconda nascita di Roma, cit., p. 244). Cfr. anche J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., p. 245, il quale sottolinea il rapporto tra la caratterizzazione pacifica del personaggio di Latino e la figura di Augusto.

 

[95] Aen. 10.228-229: su questi versi vedi, variamente, L. Lersch, Antiquitates Vergilianae, cit., p. 93; G. Boissier, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, I, cit., pp. 232 ss.; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbuchern, cit., p. 155; G. Dumézil, Mythe et épopée, cit., p. 392; Id., Mariages indo-européens, suivi de quinze questions romaines, Paris 1979, pp. 195 ss.; P. Grimal, Virgile, cit., pp. 227 s. (= Virgilio, cit., 256 s.).

 

[96] Servio, Ad Aen. 10.228: “Vigilasne deum gens Aenea” vigila verba sunt sacrorum; nam virgines Vestae certa die ibant ad regem sacrorum et dicebant «vigilasne rex? Vigila». Sul passo vedi, fra gli altri, P. Lambrechts, Vesta, in Latomus 5, 1946, p. 328; A. Brelich, Vesta, Zürich 1949, p. 30; P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, p. 455; F. Guizzi, Aspetti giuridici del sacerdozio romano. Il sacerdozio di Vesta, Napoli 1968, p. 209 n. 37.

 

[97] Il significato ‘teologico’ e rituale di questo monito delle vestali sfugge agli studiosi della religione romana: cfr. G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., p. 157; N. Turchi, La religione di Roma antica, cit., pp. 48, 56; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 110; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 576 (= La religione romana arcaica, cit., p. 500).

Non risolutiva, mi pare, la soluzione prospettata dal Brelich, Vesta, cit., pp. 28 ss., il quale ne trae indizio ulteriore del collegamento antico tra il culto di Vesta e quello di Giano; sulla stessa linea sembra essere D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., p. 204, quando afferma che «l'azione conservatrice di Vesta (e delle Vestali) si contrapponeva, equilibrandola, all’azione innovatrice che, a suo luogo, abbiamo riscontrato in Giano (e nel rex sacrorum)»; cfr. anche p. 223 n. 71: «La moderazione esercitata da Vesta su Giano si proiettava in una moderazione esercitata dalle vestali sul rex sacrorum: noi l’abbiamo messa in parentesi, ma è in qualche modo attestata da una notizia di Servio (ad Aen. 10, 228): “Le vergini vestali in un certo giorno andavano dal rex sacrorum e gli dicevano: Vigili, re? Vigila!”».

 

[98] Servio, Ad Aen. 8.3: Utque impulit arma hoc ad pedites. Est autem sacrorum: nam is qui belli susceperat curam, sacrarium Martis ingressus primo ancilia commevebat, post hastam simulacri ipsius, dicens 'Mars vigila'. Sul significato del rito restano ancora fondamentali le osservazioni di E. Norden, Aus altrömischen Priestrebuchern, cit., pp. 154 s., 173 ss.; ma vedi anche K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 115 ss.; S. Tondo, Aspetti simbolici e magici nella struttura giuridica della manumissio vindicta, Milano 1967, pp. 88 s.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 42 s., 216 (= La religione romana arcaica, cit., pp. 38 s., 190); U.W. Scholz, Studien zum altitalischen und altrömischen Marskult und Marsmythos, Heidelberg 1970, pp. 26 ss.; H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, cit., p. 104.

 

[99] Cfr. Aen. 12.190-193; sulla regalità di Enea vedi, da ultimo, J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., pp. 175 ss., 180 s., 187 ss. Sempre suggestive, riguardo alla "autorità religiosa" del re nelle comunità antiche, le intuizioni di N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique, cit., pp. 202 ss. (= La città antica, cit., pp. 208 ss.).

 

[100] Virgile, cit., p. 228 (= Virgilio, cit., p. 257).

 

[101] Vedi H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, cit., pp. 88 ss.; cfr. B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, cit., col. 1847.

 

[102] Aen. 9.641-644. Francamente riduttivo il commento di Servio, Ad Aen. 9.639: Iure merito. Per P. Catalano, v. Ius / iustitia / Iustitia, in Enciclopedia Virgiliana, III, Roma 1987, p. 70, assai più correttamente, è proprio ius «il concetto fondamentale (insieme a fatum) della profezia di Apollo sul popolo romano e l’età aurea»; sui versi vedi anche, con varie prospettive, B. Tilly, Vergil’s Latium, Oxford 1947, pp. 11 s.; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., pp. 134, 147, 234, 247.

 

[103] A.M. Guillemin, Virgile. Poète, artiste et penseur, Paris 1951, pp. 283 ss., coglie assai bene l'aspetto religioso e politico della profezia e sottolinea la funzione pacificatrice dell'impero del popolo romano insita nei vv.; anche il commento di E. Paratore, Virgilio, Eneide, V (Libri IX-X), Milano 1982, p. 197, si orienta nel medesimo senso: «Il poeta, invece d’insistere sull’idea dei trionfi e delle vittorie, mette in primo piano quella della pace, più consona al suo sentimento».

 

[104] Appare, quindi, poco convincente l’interpretazione dei versi a suo tempo proposta da L.H. Feldmann, The character of Ascanius in Virgil’s Aeneid, in Classical Journal 48, 1953, pp. 303 ss., special. 308 ss., il quale parla della caratterizzazione di Ascanio come capo di un popolo guerriero.

 

[105] Non a caso, per Virgilio, fu proprio Iustitia l’ultima dea ad abbandonare la terra alla fine dell’età aurea: Georg. 2.473-474: sacra deum sanctique patres; extrema per illos / Iustitia excedens terris vestigia fecit.

 

[106] Il tema si presentava, da una parte connesso profondamente con la riflessione, greca e latina, intorno alla legittimità della conquista romana: su cui, oltre il lavoro per molti versi fondamentale di W. Capelle, Griechische Etik und römischer Imperialismus, in Klio 25, 1932, pp. 86 ss. (ristampato in AA.VV., Ideologie und Herrschaft in der Antike, hrsg. von H. Kroft, Wege der Forschung Bd. 528, Darmstadt 1979, pp. 238 ss.), vedi fra la letteratura più recente: F.W. Walbank, Political morality and friends of Scipio, in Journal of Roman Studies 55, 1965, pp. 1 ss.; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, cit. in n. 41; P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in Posidonio, in Rendiconti dell’Istituto lombardo 106, 1972, pp. 482 ss.; A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino 107, 1972-73, pp. 693 ss. (= Id., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, Roma 1980, 1, pp. 89 ss.); G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a. C., I, Torino 1973, pp. 38 ss.; P. Treves, La cosmopoli di Posidonio e l’impero di Roma, in La filosofia greca e il diritto romano (Atti del Colloquio italo‑francese, Roma, 14-17 aprile 1973), Accademia Naz. Lincei. Quaderno 221, Roma 1976, 1, pp. 27 ss.; E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, in Athenaeum 65, 1977, pp. 49 ss.; W.V. Harris, War and imperialism in republican Rome, cit., in part. pp. 105 ss.; D. Musti, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1979; P. Jal, L’impérialisme romain: observations sur les témoignages littéraires latines de la fin de la République romaine, in Ktéma 7, 1982, pp. 143 ss.; infine J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Rome 1988.

D’altra parte, il tema si inquadrava anche nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche della tradizione filosofica greca e romana: cfr., fra la sterminata mole di letteratura, M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistiger Bewegung, Göttingen 1959, qui citato nella trad. it., La stoa. Storia di un movimento spirituale, I, Firenze 1967, pp. 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età repubblicana, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali (dir. da L. Firpo), I. L’antichità classica, Torino 1982, pp. 731 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la fin de la République, Paris 1984, in part. pp. 231 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, pp. 323 ss. Non è certo senza significato che sia proprio del I secolo a. C. la prima menzione affidabile a noi pervenuta di «natura ius»: (Rhet. Ad Her. 2.19) Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur. Sulla datazione dell’opera vedi Cornifici Rhetorica ad Herennium, (Introduzione, testo critico, commento) a cura di G. Calboli, Bologna 1969, pp. 12 ss.; C. Achard, L’auteur de la “Rhetorique à Herennius”?, in Revue des études latines, 63, 1985 (ma 1987), pp. 56 ss., il quale però ritiene poco probabile che il manualetto sia stato effettivamente composto da Cornificio.

 

[107] Su L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel 136 a. C. (cfr. R.T.S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951 [rist. an. 1986], p. 486), di cui ancora Macrobio citava ‑ seppure di seconda mano ‑ un vestustissimus liber (così F.P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896, pp. 29 s.; diversamente Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae anteiustintanae reliquias, 6a ed., a cura di E. Seckel e B. Kübler, I, Lipsiae 1908, p. 15 n. 1; possibilisti M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur bis zum Gesetzgebungswerk des Kaisers Justinian, 1, 4a ed., München 1927 [rist. an. 1966], p. 234: «Der Verfasser ist wahrscheinlich der Konsul des J. 136 L. Furius Philus»), vedi Fr. Münzer, v. Furius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 7, 1, Stuttgart 1910, col. 360; O. Behrends, Tiberius Gracchus und die Juristen seiner Zeit ‑ die römische Jurisprudenz gegenüber der Staatskrise des Jahres 133 v. Cr., in Das Profil des Juristen in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlass des 70. Geburtstages von F. Wieacker, Ebelbach 1980, pp. 113 ss.; e da ultimo R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316‑82 BC, München 1983, pp. 282 ss.

 

[108] Sebbene si sappia dallo stesso Cicerone, che il discorso di Furio Filo è improntato all’insegnamento di Carneade (De re publ. 3.8: Nunc ea dicenda sunt L. Furio Filo, quae Carneades, Graecus homo et consuetus, quod commodum esset, verbis ... ), tuttavia «les historiens de la Nouvelle Académie n’ont pas tiré de ce texte tout le parti qu’ils auraient pu»: J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, in Revue des études latines 55, 1977, p. 128.

Fra gli studi dedicati a Carneade e alla Nuova Accademia vedi, in particolare: J. Croissant, La morale de Carnéade, in Revue internationale de philosopie 3, 1939, pp. 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen Akademie, in Museum Helveticum 1, 1944, pp. 47 ss. (= Id., Studien zur antiken Philosophie, Berlin 1972, pp. 412 ss.); A. Weische, Cicero und die neue Akademie, Münster West. 1961, in special modo pp. 77 ss.; H.J. Kraemer, Platonismus und hellenistische Philosophie, Berlin 1971, pp. 5 ss.; M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, 2ª ed., I, Bari 1975, pp. 167 ss.

Sembra potersi dubitare del fatto che Carneade, nel discorso pronunciato a Roma, si sia fatto portavoce dell’opposizione culturale greca all’egemonia “mondíale” dei Romani (come invece sostenevano H. Fuchs, Der geistige Wiederstand gegen Rom in der antiken Welt, 2ª ed., Berlin 1964, pp. 2 ss.; F.W. Walbank, Polibius and Rome’s eastern Policy, in Journal of Roman Studies 53, 1963, pp. 1 ss.; E. Candiloro, Politica e cultura in Atene da Pidna alla guerra mitridatica, in Studi classici e orientali 14, 1965, pp. 158 ss.): cfr., in tal senso T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico, a c. di L. Firpo, Bari 1961, p. 373; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del secondo secolo a. C., II, cit., pp. 363 ss.; J.-L. Ferrary, Art. cit., p. 156.; Id., Philhellénisme et impérialisme, cit., pp. 351 ss.

 

[109] De re publ. 3.20. Il passo tratto da Lattanzio (Inst. div. 6.9.3-4) è stato considerato non ciceroniano nelle edizioni curate da K. Büchner (M. T. Cicero, Von Gemeinwesen, 3a ed., Zürich 1973) e da P. Krarup (M. T. Ciceronis De re publica librorum sex quae supersunt, Firenze 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De re publica, Hildesheim 1966, pp. 90 s., ritiene il passo non riconducibile al discorso di Furio Filo, rilevandovi contraddizioni con le tesi centrali di tale discorso esposte da Lattanzio, Inst. div. 5.16. Una stimolante analisi del passo si ha in D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, p. 70; per il commento vedi K. Büchner, M. Tullius Cicero. De Republica, Kommentar, cit., p. 287: a parere dello studioso tedesco, la parte del discorso riguardante lo ius fetiale non deriverebbe dal pensiero di Carneade: «Karneades ‑ den in die Philusrede gehört dieser Fragment ‑ dürfte es kaum gewagt haben, die Institution der Fetialen direkt anzugreifen, wie es Philus offenbar getan hat».

Per una analisi più ampia di questa parte del De re publica, vedi ora J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, cit., pp. 128 ss. (dello stesso autore cfr. anche: Le discours de Laelius dans le troisième livre du De re publica de Cìcéron, in Mélanges de l’école française de Rome 86, 1974, pp. 745 ss.); A. Michel, A propos du De republica III: la politique et le désir, in Mélanges de littérature et épigraphie latines, d’histoire ancienne et archéologie. Hommage à la mémoire de P. Wuilleumier, Paris 1980, pp. 229 ss.

 

[110] D. 1.1.11. Nonostante riserve come quelle di G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium, Milano 1947, pp. 224 ss.; A. Burdese, Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica, in Rivista italiana per le scienze giuridiche (ser. 111) 8, 1954, p. 418; G. Nocera, Ius naturale nella esperienza giuridica romana, Milano 1962, p. 28; la dottrina romanistica attuale non esita a ritenere genuinamente paolino il frammento: cfr. C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, Milano 1937, pp. 178 ss.; Id., Il diritto naturale come ordinamento giuridico inferiore?, in L’Europa e il diritto romano. Studi in memoria di P. Koschaker, II, Milano 1954, pp. 425 ss.; M. Bartošek, Sulla concezione naturalistica e materialistica dei giuristi classici, in Studi in memoria di E. Albertario, II, Milano 1953, pp. 492 s.; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, 2ª ed., Torino 1967, pp. 106 ss.; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 277 s.; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der klassichen römischen Juristen, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, Berlin-New York 1976, pp. 82 s.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence romaine des IIe et IIIe siècles, in Studia et documenta historiae et iuris 47, 1981, pp. 238 ss.

 

[111] La frase è di C.A. Maschi, La conclusione della giurisprudenza classica all’età dei Severi. Iulius Paulus, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, cit., p. 694; critica verso il lavoro dello studioso (sia per quanto attiene all’impianto complessivo, sia per l’interpretazione proposta del frammento D. 1.1.11) la posizione di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, in Bullettino dell’Istituto di diritto romano 80, 1977, pp. 221 ss., in part. 226 ss.

 

[112] Cfr. D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antiken, cit., p. 140. L’importanza della utilitas viene sottolineata, peraltro, anche da Ulpiano in D. 1.1.1.2, dove si danno le definizioni di ius publicum e di ius privatum (huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim); per l’analisi di questo testo, nella prospettiva che qui interessa, vedi F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storta delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti varii di diritto romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; ma anche A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex in elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia et documenta historiae et iuris 46, 1980, pp. 272 ss. Il frammento ulpianeo è stato oggetto di innumerevoli studi, di cui sarebbe arduo dar conto in una nota: da ultimo, vedi G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Palermo 37, 1983, pp. 455 ss.

Ampia raccolta di testi giuridici riguardanti l’utilitas in F.B. Cicala, Il concetto di “utile” e sue applicazioni in diritto romano, Milano-Torino-Roma 1910, del quale si legga quanto scritto a p. 9: «Come ci risulterà dalla seguente completa raccolta dei testi relativi delle Istituzioni e del Digesto, il concetto dell’utilitas signoreggia in tutto il campo del diritto romano: ora s’impone alla considerazione del giurista, come un rilevante momento economico-sociale, ora si accosta alla necessitas per additarci la ratio iuris o il punto di partenza dell’interpretatio, ora offre un criterio di decisiva importanza nella valutazione della giuridica rilevanza di questo o quel comportamento degli individui, e nella commisurazione della forza ed efficacia dei rimedi giuridici, ecc. Può addirittura affermarsi, senza tema di esagerare, che una delle rappresentazioni generali meglio delineate e più vive nella coscienza di tutta la giurisprudenza romana, è appunto quella, che poggia l’intero edifizio del diritto sulle profonde basi dell’utile individuale e collettivo». Cfr. ancora A. Steinwenter, Utilitas publica - utilitas singulorum, in Festschrift für P. Koschaker, I, Weimar 1939, pp. 84 ss.; U. von Lübtow, De iustitia et iure, in Zeitschrift der Savìgny Stiftung für Rechtsgeschichte 66, 1948, pp. 458 ss.; J. Gaudemet, Utilitas publica, in Revue historique de droit français et étranger 29, 1951, pp. 465 ss.; G. Longo, Utilitas publica, in Labeo 19, 1972, pp. 7 ss.

 

[113] De leg. 2.10; cfr. 1.18: lex est ratio summa insita in natura, quae iubet ea, quae facienda sunt, proibetque contraria. Eadem ratio cum est in hominibus mentis confirmata et perfecta, lex est. Sui due passi del de legibus vedi, ora, interpretazione e commento di K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus, cit., pp. 65 ss. Nel concetto di “legge positiva", come derivazione dalla superiore legge naturale", si è soliti vedere l’influenza della filosofia stoica sull’elaborazione giuridica romana: cfr., con varie posizioni, M. Villey, Deux conceptions du droit naturel dans l’Antiquité, in Revue historique de droit français et étranger 31, 1953, pp. 475 ss.; A. Watson, The Natural law and Stolcism, in A.A. Long (a cura di), Problems in Stoicism, London 1971, pp. 216 ss.; H.T. Johann, Gerecktigkeit und Nutzen. Studien zur ciceronischen und hellenistischen Naturrechts- und Staatslehre, Heidelberg 1981, pp. 196 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi, cit., pp. 231 ss.

Mi pare, infine, che si possa senz’altro convenire con J. Gaudemet, Des «droits de l’homme» ont-ils été reconnus dans l’Empire romain?, in Labeo 33, 1987, pp. 7 ss., quando sostiene che attraverso le concezioni filosofiche e giuridiche propugnate da Cicerone «s’introduit dans l’analyse des juristes classiques la notion d’un droit naturel» (p. 13); cfr. anche Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l'œuvre dans la jurisprudence romaine du IIe et IIIe siècles, cit., pp. 195 ss.

 

[114] Aen. 8.324-327. Si tratta del mito di Saturno, storicizzato da Virgilio con precisa localizzazione degli aurea saecula nell’antichissimo Lazio: Aen. 6.793-794; 7.49;180;202-204; cfr. 8.357-358 (sui versi citati vedi M. Pavan, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 412 ss.).

In Aen. 8.319 ss. è possibile intravvedere quello che sarà poi «lo schema argomentativo della teoria dello ius naturale che riconduce tale ius ad un inizio felice della storia degli uomini, anteriore cioè alle lotte e alle divisioni prodotte dalla società»: P. Catalano, v. Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., p. 762; schema che si ritroverà ripetutamente citato nella compilazione di Giustiniano: D. 1.1.4.5; 40.11.2; Inst. 1.2.2; Nov. 74.1; 89.1 pr. Sui vv. citati, vedi infra pp. 270 ss.

 

[115] Cfr. anche Georg. 1.121 ss.;505-508; 2.536-540 (Ante etiam sceptrum Dictaei regis et ante / impia quam caesis gens est epulata iuvencis, / aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat; / necdum etiam audierant inflari classica, necdum / impositos duris crepitare incudinibus ensis). Per la contrapposizione tra agricoltura (attività più vicina alla condizione umana dell’età dell’oro) e guerra, vedi Aen. 7.635-636: vomeris huc et falcis honos, huc omnis aratri / cessit amor; recoquont patrios fornacibus ensis; su cui cfr. il commento di E. Paratore, Virgilio, Eneide, IV, cit., p. 204, e le penetranti riflessioni di G. Dumézil, Mythe et épopée, I, cit., pp. 370 s.

 

[116] Aen. 7.338-339: Fecundum concute pectus, / dissice compositam pacem, sere crimina belli. Da notare l’interpretazione di Servio, Ad Aen. 7.339, il quale intende crimina nel senso di causas: non solo le conseguenze della guerra sono dunque crimina, ma perfino le motivazioni che la provocano.

 

[117] Fiorentino, Libr. I inst. = D. 1.1.3. Sul frammento, di cui la vecchia dottrina interpolazionista sosteneva la non autenticità (così ancora G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium, cit., pp. 154 ss.), vedi in altro senso: C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, cit., p. 44; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, cit., p. 23; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen Juristen, cit., pp. 85 s.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel à l’oeuvre dans la jurisprudence romaine du IIe et IIIe siècles, cit., pp. 256 s.; i quali variamente sottolineano il ruolo della cognatio naturalis come fondamento giuridico della legittima difesa. Si richiama invece al nefas F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e lus, cit., p. 247. Sull’influenza stoica si sofferma M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, I, cit., p. 547: «In modo ancora più preciso Fiorentino, riallacciandosi direttamente alla teoria stoica del primo istinto naturale, fa derivare il diritto naturale dal diritto all’autoconservazione e alla parentela che lega tra loro tutti gli uomini».

Mi pare ancora più difficoltoso sostenere che si tratta di un testo interpolato, se si riflette sul fatto che nel frammento compaiono temi e motivi (natura, cognatio, nefas) già presenti in opere giuridiche e letterarie dell’età republicana e del principato: cfr. Rhet. ad Her. 2.19: Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis et a parentibus liberi coluntur; Cicerone, Pro Milone 10: Est igitur haec, iudices, non scripta sed nata lex, quam non didicimus, accepimus, legimus, verum ex natura ipsa adripuimus, hausimus, expressimus, ad quam non docti, sed facti, non istituti, sed imbuti sumus, ut, si vita nostra in aliquas insidias, si in vim aut in tela aut latronum aut inimicorum incidisset, omnis honesta ratio esset expediendae salutis; Gaio, libr. VII ad edict. prov. = D. 9.2.4 pr.: Itaque si servum tuum latronem insidiantem mihi occidero, securus ero: nam adversus periculum naturalis ratio permittit se defendere (sul testo v. M. Bartošek, Sulla concezione naturalistica e materialistica dei giuristi classici, cit., p. 480; A. Burdese, Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica, cit., p. 415); Seneca, Epist. 15.3.33: Homo, res sacra homini; 15.3.52: Natura nos cognatos edidit, cum ex isdem et in eadem gigneret (su cui E. Levy, Natural law in Roman thought, in Studia et documenta historiae et iuris 15, 1949, p. 8 n. 63).

 

[118] Aen. 6.86-87 (Bella, horrida bella / et Thybrim multo spumantem sanguine cerno); 7.41 (Tu vatem, tu, diva, mone. Dicam horrida bella); cfr. 11.96-97 (Nos alias hinc ad lacrimas eadem horrida belli / fata vocant). Il riferimento alla cognatio è esplicitato nel commento di Servio, Ad Aen. 6.85: Horrida bella quae contra hospitem cognatumque suscepta sunt.

 

[119] Inst. 1.158. Per Gaio, dunque, lo ius cognationis «vale a dire la situazione collettiva di chi è con altri in rapporto di parentela di sangue, non può venire meno per capitis deminutio, a differenza del ius agnationis, essendo fondato su una realtà di fatto»: A. Burdese, Il concetto di ius naturale nel pensiero della giurisprudenza classica, cit., p. 414. Lo stesso concetto si ritrova, esposto quasi in termini uguali, in D. 37.4.8.7 (= Ulpiano, Libr. XXX ad edict.) e D. 38.6.4 (= Paolo, Libr. II ad Sabin.) a proposito del permanere di iura naturalia nel figlio naturale, anche dopo l’emancipazione.

Più in generale sul passo gaiano vedi, con varie prospettive, C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, cit., pp. 150 ss.; G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium, cit., pp. 144 ss.; D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, cit., p. 99; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der römischen klassischen Juristen, cit. pp. 144 s.; F. Casavola, Cultura e scienza giuridica nel secondo secolo d. C.: il senso del passato, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.15, cit., pp. 167 s. (sull’interpretazione del Casavola vedi le critiche di M. Talamanca, Per la storia della giurisprudenza romana, cit., p. 296 n. 214); H. Wagner, Studien zur allgemeinen Rechtslehre des Gaius (Ius gentium und ius naturale in ihrem Verhältnis zum ius civile), Zutphen 1978, pp. 114, 183 ss.; G.G. Archi, Lex e natura nelle istituzioni di Gaio, in Festschrift für W. Flume zum 70. Geburtstag, I, Köln 1978, pp. 3 ss. (= Id., Scritti di diritto romano, I, Milano 1981, pp. 139 ss., in part. 149 ss.); Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel, cit., p. 208 e n. 85.

 

[120] F. Stella Maranca, Il diritto romano e l’opera di Virgilio, in Historia 4, 1930, pp. 588 s.; P. Catalano, v. Giustiniano, cit., pp. 762 s.

 

[121] Georg. 4.153-157. Per le implicazioni politiche insite nei versi citati, cioè sul popolo delle api proposto come modello di organizzazione politica, cfr. R. Joudoux, La philosophie politique des Géorgiques d’après le livre IV, vers 149 à 169, in Bulletin de l’Association G. Budé 30, 1971, pp. 67 ss. Più in generale, sulle api nella poetica virgiliana vedi, da ultimo, F. Della Corte, v. Ape, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 211 ss.

 

[122] Libr. I inst. = D. 1.1.1.3. Su questa definizione ulpianea è stato scritto moltissimo, sia per negarne l’attendibilità, sia per difenderla: letteratura precedente in C.A. Maschi, La concezione naturalistica del diritto e degli istituti giuridici romani, cit., p. 164. Non è quindi possibile dar conto compiutamente, in questo luogo, neppure della letteratura più recente. Rifiutano ancora, fra gli altri, l’attribuzione del testo ad Ulpiano F. Schulz, History of Roman Legal Science, Oxford 1946, cit. in trad. it. di G. Nocera, Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, p. 244 («probabilmente una inserzione postclassica»); G. Lombardi, Sul concetto di ius gentium, cit., pp. 194 ss.; M. Bartošek, Sulla concezione naturalistica e materialistica dei giuristi classici, cit., p. 492 n. 74. Sono invece favorevoli all’autenticità del frammento: M. Kaser, Das römisches Privatrecht, 2ª ed., I, München 1971, pp. 204-205; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., pp. 325 s., 391; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodo, mezzi e fini, Napoli 1966, pp. 205 s., per il quale si tratta di definizione «teoretica»; P. Frezza, La cultura di Ulpiano, in Studia et documenta historiae et iuris 34, 1968, pp. 369 s.; W. Waldstein, Entscheidungsgrundlagen der klassischen römischen juristen, cit., pp. 82 ss.; Ph. Didier, Les diverses conceptions du droit naturel, cit., pp. 250 s.

In prospettiva più ampia, vedi J. Modrzejewski, Ulpien et la nature des animaux, in La filosofia greca e il diritto romano, cit., pp. 177 ss. (a proposito del frammento citato, lo studioso francese pensa che la formulazione ulpianea risenta dell’influenza della retorica greca: «Notons ici que l’idée d’un droit commun à ceux-ci et ceux-là avait fait l’objet d’un long débat parmi les philosophes grecs; elle a fini par pénétrer dans l'œuvre de Cícéron: il la rapporte au livre III du De re publica et en signale l’origine pythagoricienne. Deux siècles et demi plus tard Ulpien l’insère dans sa division tripartie du ius, sans doute sous l’influence de la rhétorique»: p. 184).

 

[123] Inst. Iust. 1.2.11. Sulla concezione giustinianea dello ius naturale come ordinamento universale e immutabile si vedano, pur nella diversità delle rispettive posizioni: P. Frezza, Ius gentium, in Mélanges F. De Visscher, I, Bruxelles 1949, p. 308; B. Biondi, La concezione cristiana del diritto naturale nella codificazione giustintanea, ibid., III, Bruxelles 1950, p. 157; J. Gaudemet, Quelques remarques sur le droit naturel à Rome, in Revue internationale des droits de l’antiquité 1, 1952, pp. 459 ss.; M. Bartošek, Sulla concezione naturalistica e materialistica dei giuristi classici, cit., p. 494; G. Nocera, Ius naturale nell’esperienza giuridica romana, cit., pp. 9 ss.; G. Grosso, Problemi generali del diritto attraverso il diritto romano, cit., p. 109; D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, cit., p. 101; G.G. Archi, Lex e natura nelle istituzioni di Gaio, in Id., Scritti di diritto romano, I, cit., p. 168.

 

[124] Cfr. B. Biondi, Diritto romano cristiano, II, Milano 1952, p. 8.

 

[125] In tal senso già M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequm et bonum und ius gentium der Römer, I, Leipzig 1856, pp. 275 ss., 446 ss., 566 ss.; contrario invece A. Zocco Rosa, Imperatoris Iustiniani institutionum palingenesia, I, Messina 1908, p. 65. Da ultimo vedi, sinteticamente, P. Catalano, v. Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., p. 762.

 

[126] C. Castello, Il pensiero giustinianeo sull’origine degli status hominum, in Studi in memoria di E. Albertario, II, cit., p. 217.

 

[127] Questo collegamento tra il dare iura e l’età aurea, passata e futura, si manifesta ad esempio in Aen. 1.291-293.

In riferimento al regno di Saturno, nel Lazio dell’età aurea, Virgilio usa l’espressione leges dare con il significato di iura dare: Aen. 8.321-323; cfr. Servio, Ad Aen. 8.322; P. Catalano, v. Ius, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., p. 67.