ds_gen Università di Sassari/Seminario di Diritto Romano/Pubblicazioni-7

 

Bellum-1Francesco Sini

 

Bellum Nefandum. Virgilio e il problema

del “diritto internazionale antico”

 

Sassari, Libreria Dessì Editrice, 1991

 

pp. 304

 

 

 

Digesta Iustiniani 1, 8, 6, 5

(Marcian. l. III inst.) ... sicut

testis in ea re est Vergilius.

 

 

 

 

Introduzione

 

Sommario: 1. L’opera di Virgilio negli studi romanistici. – 2. Divini et humani iuris scientia. – 3. Linea della ricerca. – 4. Virgilio e il carattere originario del “diritto internazionale” di Roma.

 

 

[p. 13]

1. – L’opera di Virgilio negli studi romanistici

 

L'interesse degli studiosi di diritto romano per l'opera di Virgilio è stato, almeno finora, in gran parte occasionale[1]. Un solo dato basterà a confermare questa affermazione. Nelle tre recenti bibliografie virgiliane su Eneide, Georgiche e Bucoliche, curate rispettivamente da W. Suerbaum e W. W. Briggs jr., pubblicate negli studi in onore di J. Vogt[2], la sezione "diritto" compare unicamente nella rassegna dedicata all'Eneide, peraltro con due soli titoli[3].

[p. 14]

Sono mancate, in sostanza, negli ultimi decenni ricerche volte all'individuazione e alla valorizzazione degli aspetti giuridici presenti nei versi del sommo poeta romano; nonostante che l'esigenza di tali ricerche, con l'indicazione delle possibili linee di sviluppo, fosse stata propugnata da F. Stella Maranca nel suo noto saggio sul diritto romano e l'opera di Virgilio, pubblicato proprio sessant'anni or sono nella rivista Historia[4]. Eppure, già nell'Ottocento, studiosi quali Lorenz Lersch[5], Numa Denis Fustel de Coulanges[6], Gaston Boissier[7], avevano dimostrato quanto la testimonianza virgiliana potesse risultare utile anche a storici del diritto e della religione romana.

Bisogna dire che la situazione è parzialmente cambiata, almeno in Italia, nel decennio appena trascorso, a seguito di una iniziativa di grande prestigio editoriale. In occasione del Bimillenario della morte di Virgilio, l'Istituto dell'Enciclopedia Italiana ha patrocinato la pubblicazione di una monumentale Enciclopedia Virgiliana, il cui primo volume è apparso nel 1984[8].

[p. 15]

Il piano dell'Enciclopedia, seppure connotato nel complesso da evidenti (e comprensibili) caratteristiche storico-letterarie, riserva un notevole spazio sia alla redazione di voci propriamente giuridiche, sia al profilo giuridico di numerose altre voci[9]. In tal modo, questa importante iniziativa della

[p. 16]

cultura italiana ha costituito l'occasione di "riscoprire" Virgilio per un certo numero di studiosi di diritto romano[10], sollecitati ad una rinnovata riflessione intorno ad elementi ed aspetti, rilevanti sotto il profilo giuridico e religioso, delle opere del grande poeta[11].

 

 

[p. 17]

2. – Divini et humani iuris scientia

 

La consapevolezza che «L'Énéide est avant tout un poème religieux»[12], acquisizione relativamente tarda della storiografia contemporanea, fu invece caratteristica predominante dell'approccio alla poesia virgiliana da parte della cultura romana tardoantica. I commentatori antichi interpretavano la "sapienza" (diligentia, peritia, profunditas, scientia) di Virgilio, valorizzandone in primo luogo gli aspetti antiquari, teologici e giuridico-religiosi. Soprattutto nei casi in cui, ad una lettura

[p. 18]

non avvertita, questi motivi sapienziali potevano risultare del tutto assenti:

 

Est profundam scientiam huius poetae in uno saepe reperire verbo, quod fortuito dictum vulgus putaret[13].

 

I commentatori di Virgilio non dubitavano, infatti, di avere di fronte il testo di un poeta impegnato di continuo nella scrupolosa osservazione delle res divinae, massimamente attento all'esattezza dei termini utilizzati, alla verosimiglianza delle tecniche rituali riproposte, all'insieme della teologia sacerdotale. Un poeta, dunque – per usare le parole del Servio Danielino – gnarus totius sacrorum ritus[14]; il quale, in ogni occasione,

[p. 19]

come scrive il medesimo commentatore, disciplinam caerimoniarum secutus est[15].

Non si riteneva possibile cogliere pienamente tutte le implicazioni che la profunditas del poeta presentava, al di là del significato letterale del testo, senza rispondere in maniera affermativa alla domanda che Pretestato formula agli altri convitati nei Saturnalia di Macrobio[16]:

 

Videturne vobis probatum sine divini et humani iuris scientia non posse profunditatem Maronis intellegi?

 

Del resto, anche gli esperti professionali del diritto non pare esitassero a considerare la testimonianza di Virgilio, nel campo dello ius sacrum, un autorevole precedente su cui fondare la soluzione giuridica proposta. Valga l'esempio di Elio Marciano.

In un breve frammento del libro terzo delle Institutiones[17], pervenutoci attraverso i Digesta di Giustiniano, questo giurista per sostenere la tesi che il cenotafio fosse qualificabile locus religiosus, nonostante il contrario rescritto dei divi fratres[18] si appellava proprio alla testimonianza di Virgilio.

 

[p. 21]

Cenotaphium quoque magis placet locum esse religiosum, sicut testis in ea re est Vergilius[19].

 

Il fatto che il giureconsulto appaia privilegiare Virgilio rispetto all'autorità dei due imperatori provocava evidente sconcerto in un fine esegeta quale il van Bynkershoek; al punto che nel saggio De Cenotaphio, pubblicato nel primo volume della raccolta Observationum juris romani libri quattuor, risolveva l'apparente anomalia di un giurista che non si adegua all'autorità imperiale, supponendo che Marciano ignorasse il rescritto dei divi fratres contrario alla sua soluzione basata su Virgilio[20].

Ma il testo di Marciano si presta anche ad una riflessione in merito alla valutazione dell'opera di Virgilio da parte della scienza giuridica romana, fino alla compilazione giustinianea. Mette conto sottolineare, a tal proposito, che non risulta chiaro il perché i compilatori dei Digesta, pur non aderendo alla tesi propugnata dal giurista, abbiano tuttavia rinunciato a rendere il frammento di Marciano conforme alla soluzione da loro adottata, sulla base del rescritto degli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero: negare al cenotafio la qualifica di locus religiosus.

[p. 21]

La conservazione della differente opinione di Marciano potrebbe essere conseguenza dell'auctoritas della testimonianza virgiliana? Se fosse così, si tratterebbe «di un altro segno che anche nella visione giustinianea V(irgilio) è esperto di diritto»[21].

 

 

3. – Linea della ricerca

 

Nella lingua sacerdotale tra i termini finis, fas, hostis (bellum e pax) esiste uno stretto legame, che consente di dare senso ed unità ad un lavoro di ricerca sulla divini et humani iuris scientia di Virgilio.

Fas (nefas) e finis sono presenti nelle formule solenni dei sacerdoti romani fin dall'età più risalente della storia cittadina[22]. Ben comprensibili appaiono anche le motivazioni teologiche

[p. 22]

di tali presenze: nella determinazione del fas e dei fines doveva certo consistere una parte rilevante di quella cautela sacerdotale, volta ad assicurare la pax deorum al popolo romano, mediante la precisazione di comportamenti e limiti spazio-temporali, affinché in alcun modo le attività umane potessero risultare sgradite agli dèi[23].

L'esigenza di assicurare la conoscenza del fas e l'intangibilità (religiosa) dei fines emerse, dunque, già nella fase più antica dell'elaborazione teologica e giuridica compiuta dai sacerdoti romani: pontefici, auguri e feziali fissarono regole precise e minuziose (tramandate in formule solenni giuridico-religiose), nell'incessante preoccupazione di determinare, nel tempo e nello spazio[24], la sfera del fas e la certezza dei fines.

[p. 23]

Per chiarire quanto si è detto, basterà esaminare due formule solenni giuridico-religiose. La prima, tratta da documenti del collegio degli auguri[25] e conservataci da Tito Livio, è la formula dell'inauguratio[26]:

[p. 24]

 

Tum lituo in laevam manum translato dextra in caput Numae imposita precatus ira est: Iuppiter pater, si est fas hunc Numam Pompilium, cuius ego caput teneo, regem Romae esse, uti tu signa nobis certa adclarassis inter eos fines, quos feci. Tum peregit verbis auspicia, quae mitti vellet. Quibus missis declaratus rex Numa de tempio descendit[27].

 

Dal testo liviano appare evidente il legame che unisce la manifestazione del fas (permissiva) con una porzione dello spazio terrestre, definito appunto dalla determinazione dei fines.

La seconda formula proviene invece dai documenti dei sacerdoti feziali[28] ed è relativa alla complessa procedura

[p. 25]

 

dell'indictio belli[29]. Nel testo, anch'esso liviano, abbiamo la personificazione divinizzata del fas e dei fines:

 

Legatus ubi ad fines eorum venit, unde res repetuntur, capite velato filo – lanae velamen est – audi Iuppiter, inquit; audite fines – cuiuscumque gentis sunt, nominat – audiat fas: ego sum publicus nuntius populi Romani, iuste pieque legatus venio verbisque meis fides sit[30].

 

Negli elementi essenziali e nella struttura logica della formula dei feziali appena citata, si trova anche il filo unificante di questa ricerca su Virgilio.

[p. 26]

Fines e fas, con la forte connotazione religiosa che li caratterizza, sono chiamati ad attestare, assieme alla massima divinità romana, l'esigenza di giustizia perseguita nella rerum repetitio pronunciata dal sacerdote (per conto del popolo romano).

Agli homines del popolo straniero, destinatari della richiesta, altro non si domanda che di adeguarsi alle regole del fas e alla intangibilità dei fines[31]. Dall'inadempienza scaturisce per quegli homines la condizione di hostes, che il feziale determina con il lancio dell'asta insanguinata nel loro territorio[32]; sarà lecito scatenare contro di essi un bellum, attività che, seppure esercitata legittimamente, mette il cittadino (nella sua qualità di miles) a contatto con la sfera del nefas[33]. Ma la guerra, nella

[p. 27]

concezione giuridica e religiosa romana, si presenta sempre come una rottura della pacifica naturalità delle relazioni tra popoli; finalizzata quindi alla restaurazione della pace[34].

Proprio la pace è il grande tema dell'epica virgiliana[35]. La pace epocale instaurata da Augusto viene prospettata nella

[p. 28]

poesia di Virgilio in perfetta adesione all'ideologia tradizionale della religione romana: la ragione essenziale della "vita" del popolo romano consiste nel perseguire la pax deorum, mediante la quale si realizza storicamente l'impero di Roma e la pace fra homines[36].

 

 

4. – Virgilio e il carattere originario del “diritto internazionale” di Roma

 

Mette conto sottolineare che i risultati conseguiti nelle lecturae vergilianae[37] dei capitoli seguenti, in particolare di quelli relativi agli hostes, al bellum e alla pax, offrono solidi argomenti per criticare convinzioni inveterate della dottrina romanistica contemporanea. Mi riferisco alle posizioni di quanti teorizzano l'assenza di diritti per gli stranieri e l'ostilità

[p. 29]

permanente quali condizioni primordiali dei rapporti fra i popoli[38] da cui consegue che la guerra e non la pace sarebbe

[p. 30]

stata considerata lo stato naturale delle relazioni "internazionali”, a meno che non intervenisse di volta in volta la stipulazione di trattati, ovvero esistesse comunità di etnia[39].

Non è certo questo il luogo per un esame dettagliato della dottrina favorevole a tali tesi, che per lungo tempo furono accolte quasi unanimemente nel campo dei nostri studi, soprattutto grazie al determinante contributo di Theodor Mommsen[40]. Sarebbe, invero, troppo ampio perfino l'elenco di coloro

[p. 31]

che vi hanno aderito; anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di E. Täubler[41]: il quale non si limitò a propugnare la tesi dell'ostilità naturale nei rapporti "internazionali" dell'antichità, ma spinse le sue teorizzazioni fino al punto di sostenere che «der Staatsvertrag sich aus der Kriegsgefangenschaft entwickelt hat», insomma che la stessa pratica della stipulazione di trattati traeva origine dell'istituzione della prigionia di guerra, cioè dall'abolizione del costume di uccidere in ogni caso i nemici sconfitti[42]. Basterà solo ricordare come

[p. 32]

ancora oggi, pur tra precisazioni e distinguo, non manchino studiosi autorevoli che ritengono elemento caratteristico della più antica esperienza giuridica del popolo romano proprio la mancanza di diritti per lo straniero e l'ostilità naturale[43].

[p. 33]

Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi seguaci, contestate sporadicamente nell'Ottocento e nei primi decenni del Novecento[44], negli anni trenta di questo secolo furono

[p. 34]

sottoposte a serrate critiche da parte di A. Heuss[45], il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla conclusione che i Romani, anche indipendentemente dalla stipulazione di trattati, consideravano esistenti con gli altri popoli un certo numero di rapporti giuridici[46].

La critica alla tesi dell'ostilità naturale fu quindi perfezionata in Italia, prima da F. De Martino[47], il quale ha contestato «l'opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionale di Roma»[48], con

[p. 35]

mirabile vigore argomentativo, a partire dalla prima stesura del secondo volume della sua Storia della costituzione romana (1954) fino alla recentissima relazione su L'idea della pace a Roma dall'età arcaica all'impero[49]. In seguito le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di P. Catalano[50], lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino – «ha dato i maggiori e più originali contributi al tema dei rapporti con gli stranieri»[51], hanno dimostrato la virtuale

[p. 36]

universalità del sistema giuridico-religioso romano[52] e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti

[p. 37]

«con le teorie moderne e contemporanee secondo cui lo stato naturale (o 'primitivo') delle relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[53].

In anni recenti, come si evince dalla rassegna sul Volkerrecht der römischen Republik di K.-H. Ziegler[54], le posizioni contrarie all'esclusivismo giuridico e all'ostilità naturale hanno guadagnato sempre nuovi consensi tra gli studiosi che si sono occupati di diritto internazionale dell'antichità. Per alcuni si è assistito anche alla revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di P. Frezza, il quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[55], ha ammesso

[p. 38]

l'esistenza di rapporti intertribali, seppure in un processo dialettico che vede il «momento volontaristico” profondamente compenetrato col “momento naturalistico»[56].

Nel filone delle tesi propugnate dal Heuss, si colloca la monografia che W. Dahlheim ha dedicato allo studio della struttura e dell'evoluzíone del diritto internazionale romano[57], in cui appare ben fermo il rifiuto della tesi dell'ostilità naturale[58]; anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore dello ius fetiale[59].

[p. 39]

Nello stesso senso, si orientano sia V. Ilari[60], il quale esaminando la condizione giuridica dei socii nominisve Latini scrive quanto segue: «Oggi i presupposti stessi della teoria tradizionale appaiono superati. Dopo le critiche del Heuss, l'idea dell'ostilità naturale fra i gruppi etnici e l'assenza di diritti dello straniero, sono diventate insostenibili», da cui ricava che, superata «l’idea dell'inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una comunanza giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si sono poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza italica»[61]; sia D. Nörr[62], nel suo recentissimo lavoro dedicato all'analisi

[p. 40]

giuridica della tavola bronzea di Alcántara. Lo studioso tedesco, pur non trattando espressamente la questione, mostra tuttavia in maniera assai chiara il suo orientamento quando parla per il diritto internazionale di Roma di «Existenz einer gemeinschaftlichen Normenordnung»[63].

Da questa nostra ricerca emerge con chiarezza l'enorme distanza che separa le moderne tesi dell'ostilità naturale dalle concezioni virgiliane della pace e della guerra. Nei testi del grande poeta si avverte, infatti, il convincimento che la guerra, lungi dall'essere la condizione naturale delle relazioni umane, costituisca invece una violazione della religione e del diritto[64]: una triste necessità cui si deve talora ricorrere, ma solo

[p. 41]

dopo aver fatto constatare agli dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo, l'esistenza dell'ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare[65]. La pace, al contrario, è concepita come la condizione naturale che fin dalla più antica era dell'umanità, la mitica età dell'oro[66], presiedeva alle relazioni degli uomini, poiché si fondava sull'osservanza di precetti religiosi e giuridici comuni a tutti i popoli.

Per quanto riguarda le concezioni virgiliane della pace e della guerra, bisogna evidenziare la perfetta coincidenza di esse con l'elaborazione teologica e giuridica dei sacerdoti romani[67], come risulta chiaramente dalle occorrenze dei termini

[p. 42]

relativi ad arcaici istituti della pace, quali amicitia[68], hospitium[69], foedus[70], e alle regole della guerra[71].

Il termine amicitia compare solo due volte nelle opere di Virgilio[72], ma in entrambi i luoghi la parola viene utilizzata dal poeta, sempre in connessione con foedus, nel pregnante significato giuridico-religioso di “amicizia tra popoli”[73];

[p. 43]

stupisce, semmai, che l'autrice della v. amicizia dell’Enciclopedia Virgiliana consideri tale impiego una «accezione secondaria»[74]. In merito a hospitium[75], è stato osservato che pur non trovandosi nelle occorrenze virgiliane «riferimenti alla disciplina giuridica dello hospitium», vi è tuttavia «un accenno all'antichissima tutela di ordine religioso»[76], col pertinente

[p. 44]

richiamo alla funzione di Iuppiter di dare hospitibus iura[77]. Nell'uso del termine foedus[78] Virgilio manifesta, una volta di più, la sua piena adesione alla terminologia e ai concetti della teologia e della giurisprudenza dei sacerdoti romani: «allorché, narrando la stipulazione di alleanze fra gruppi etnici differenti, non esita ad evocare per tutte il tipico rituale dei feziali e a indicare in Giove colui che foedera fulmine sancit»[79].

Ed è proprio nelle elaborazioni sacerdotali – come autorevolmente ha mostrato il De Martino – che si è conservato nella sostanziale integrità originaria «il pensiero antichissimo, la vocazione politico-religiosa di un popolo, il cui fine supremo è la pace e l'amicizia con lo straniero»[80].

 



 

[1] A colmare questa lacuna, non basta certo il vecchio lavoro di E. HENRIOT, Les poètes juristes, ou remarques des poètes latines sur les lois, le droit civil, le droit criminel, la justice distributive et le barreau, Paris 1858, sebbene in esso si colga con precisione il ruolo del diritto nella cultura romana: «A Rome, la langue du droit était d'un usage à peu près universel parmi les classes éclairées. Son enseignement faisait partie de toute éducation libérale, et nul n'était réputé lettré qu'à la condition de la connaître» (Op. cit., p. 1).

 

[2] W. SUERBAUM, Hundert Jahre Vergil-Forschung: Eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New York 1980, pp. 3 ss.; ID., Spezialbibliographie zu Vergils Georgica, ibid., pp. 395 ss.; W. W. BRIGGS, JR., A Bibliography of Virgil's 'Eclogues' (1927-1977), in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 2, Berlin-New York 1981, pp. 1267 ss.

 

[3] Cfr. W. SUERBAUM, Hundert Jahre Vergil-Forscbung, cit. in n. precedente, p. 130: si tratta di F. DE VISSCHER, Une réminiscence de la procédure classique dans l'Énéide, in Revue belge de philologie et histoire 7, 1928, pp. 579 ss.; F. STELLA MARANCA, Il diritto romano e l'opera di Virgilio, in Historia 4, 1930, pp. 577 ss.

 

[4] F. STELLA MARANCA, Il diritto romano e l'opera di Virgilio, cit., pp. 581 ss.

 

[5] L. LERSCH, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonnae 1843.

 

[6] N. D. FUSTEL DE COULANGES, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome (Paris 1864), qui citata nell'edizione del 1927, in part. pp. 161 ss.

 

[7] G. BOISSIER, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, 2 voll., Paris 1874; per Virgilio interessa, soprattutto, il vol. I (3a ed., Paris 1884), pp. 220 ss.

 

[8] Dell'Enciclopedia Virgiliana, diretta da F. DELLA CORTE, coadiuvato da F. CASTAGNOLI, M. PAVAN, G. PETROCCHI, sono stati pubblicati 5 volumi: I (A - DA), Roma 1984; II (DE - IN), 1985; III (IO - PA), 1987; IV (PE - S), 1988; V, 1 (T -Z), 1990.

 

[9] Inizialmente la direzione dell'Enciclopedia Virgiliana aveva pensato di inserire solo la voce Diritto romano. Ma il professor PIERANGELO CATALANO, invitato a redigere tale voce, suggerì una maggiore puntualizzazione della terminologia giuridica virgiliana, programmando più voci di diritto romano, da affidare a vari specialisti. Per sé tenne le vv. generali, Giustiniano (Encicl. Virg., II, cit., pp. 759 ss.) e Ius (III, pp. 66 ss.); nonché augur (I, cit., pp. 399 s.); augurium (I, pp. 400 ss.); auspicia (I, p. 423 ss.). Non è certo possibile, in questa nota, dar conto in maniera esaustiva delle voci giuridiche contenute nei cinque volumi dell'Enciclopedia Virgiliana; tuttavia sarà utile fare qualche cenno, anche per evidenziare la nutrita partecipazione dei romanisti all'importante iniziativa editoriale: V. ANGELINI, v. Tutela (V, p. 341); M. BALZARINI, vv. Fur/furtum (II, pp. 619 s.); Indicium (II, pp. 945 s.); C. CASTELLO, v. Familia (II, p. 463); G. CRIFÒ, vv. Libertas (III, pp. 204 S.); Praemium (IV, pp. 245 ss.); Venia (V, pp. 485 s.); F. DE MARTINO, v. Hospes/hospitium (II, pp. 858 ss.); O. DILIBERTO, vv. Cura (I, pp. 962 S.); Pactum/paciscor (III, pp. 917 S.); Promessa (IV, pp. 308 ss.); Voveo (V, pp. 629 ss.); A. DI PORTO, v. Peculio (IV, pp. 2 ss.); F. GORIA, v. Matrimonio (III, pp. 406 ss.); A. GUARINO, v. Testamento di Virgilio (V, pp. 145 ss.); V. ILARI, v. Imperium (II, pp. 927 S.); G. LOBRANO, vv. Dos/dotalis (II, pp. 133 s.; Pater (III, pp. 1014 ss.); G. LURASCHI, v. Foedus (II, pp. 546 ss.); V. MAROTTA, v. Poena (IV, pp. 153 ss.); A. PALMA vv. Loco/locus (III, pp. 241 s.); Lustro (ibid., pp. 288 S.); G. POLLERA, v. Socius (IV, pp. 913 ss.); R. QUADRATO, v. Heres (II, pp. 843 s.); S. SCHIPANI, v. Culpa (I, pp. 949 ss.); F. SERRAO, vv. Fraus (II, pp. 588 ss.); Lex (III, pp. 199 ss.); G. TILLI, V. Praeda (IV, p. 244); Y. THOMAS, v. Crimen (I, pp. 932 s.); C. VENTURINI, vv. Fides (II, pp. 509 ss.); Iniquus/aequus (ibid., pp. 979 s.); Ius iurandum (III, pp. 72 s.); Plebs (IV, pp. 138 s.); Populus (ibid., pp. 218 ss.); Potestas (ibid., pp. 236 s.); Reus (ibid., p. 466); Rex (ibid., pp. 466 ss.).

 

[10] Significativo, ad esempio, quanto scrive a proposito della sua esperienza G. LURASCHI, ‘Foedus’ nell'ideologia virgiliana, in AA.VV., Atti del III Seminario romanistico gardesano, Milano 1988, p. 281: «Confesso che accettai l'incarico con un certo scetticismo, nella convinzione che poco o nulla di tecnico o, comunque, di utile, si potesse ricavare da una fonte poetica. Eppure, io sono fra coloro che tengono in somma considerazione la tradizione letteraria, non foss'altro perché su di essa ho sino ad ora fondato la maggior parte delle mie ricerche. Il mio atteggiamento preconcetto nei confronti di Virgilio era evidentemente dettato (come spesso avviene) da una scarsa conoscenza del soggetto, dei suoi metodi, dei suoi intenti, delle sue fonti, del suo ambiente culturale. È bastata una sommaria ricognizione della dottrina per farmi ricredere. Ho scoperto, così, che l'Eneide fu concepita alle origini come un vero poema storico, il quale, per sua natura e considerando l'epoca particolarmente versata nelle antiquitates, doveva comportare, per non essere clamorosamente smentito, un attento e scrupoloso vaglio delle informazioni. Ed infatti è stato, ad esempio, dimostrato che Virgilio non si limitò a dipendere da Ennio, Cicerone, Varrone, Livio, ma mise a profitto addirittura una fonte etrusca, la quale gli consentì di essere a volte più preciso e perspicace di Livio e della tradizione annalistica in genere. Ho poi verificato personalmente la vasta erudizione del poeta, che lo fa muovere con passo sicuro e linguaggio appropriato (pur con anacronismi e simbolismi, per altro facilmente riconoscibili) fra cerimonie, riti, formule giuridiche e religiose»; cfr. anche M. BALZARINI, Un esempio concreto di collaborazione fattiva tra storici del diritto e filologi, ibid., pp. 250 ss.

 

[11] Anche il presente lavoro ha un debito "occasionale" nei confronti dell'Enciclopedia Virgiliana: alcuni dei materiali elaborati nella ricerca sono stati, infatti, utilizzati a suo tempo per la redazione delle voci Fas (Encicl. Virg., II, cit., pp. 466 ss.), Hostis (II, cit., pp. 863 ss.), Nefas (III, cit., pp. 676 ss.) e della parte giuridica della voce Finis (II, cit., pp. 528 s.). La preparazione di queste voci ha comportato una prima, utilissima, verifica dei risultati fino ad allora maturati; a cominciare dall'accertata competenza del poeta in materia di religione e di diritto, che è venuta emergendo, in maniera sempre più chiara, sulla base dei riscontri testuali virgiliani. Ma lo spazio che l'impostazione editoriale dell'Enciclopedia Virgiliana aveva fissato per la stesura delle voci si mostrava del tutto insufficiente per dar conto dei risultati ottenuti nel corso della ricerca. Fu proprio per questa ragione, che decisi di pubblicare a parte (con l'apparato critico) il testo della prima voce (fas) da me inviata alla redazione: F. SINI, ‘Fas et iura sinunt' (Verg., Georg. 1, 269). Contributo allo studio della nozione romana di 'fas', I, Sassari 1984.

 

[12] G.BOISSIER, La religion romaine d'Auguste aux Antonins, I, cit., p. 231: «Mais Virgile aida surtout Auguste dans les efforts qu'il fit pour restaurer l'ancienne religion romaine. L'Énéide est avant tout un poème religieux; on s'expose a le mal comprendre si l'on n'en est pas convaincu. Ce caractère avait beaucoup frappé les savants de l'antiquité: Virgile était pour eux ce qu'était surtout Dante pour les Italiens du XVe siècle, "un théologien qui n'ignora aucun dogma". On citait ses vers, on s'appuyait de son nom, quand on discutait quelque question embarrassante qui concernait les pratiques du culte ou le droit pontifical».

 

[13] Macrobio, Sat. 3, 2, 7. Può essere di un certo interesse leggere il seguito del passo (3, 2, 7-9), in cui tra l'altro si menziona il libro V delle Antiquitates divinae di Varrone, quasi ad instaurare un rapporto tra l'opera dell'antiquario e il poema virgiliano: Multifariam enim legimus quod litare sola non possit oratio, nisi ut is qui deos precatur enim aram manibus adprehendat. Inde Varro divinarum libro quinto dicit aras primum asas dictas, quod esset necessarium a sacrificantibus eas teneri, ansis autem teneri solere vasa qui dubitet? Commutatione ergo litterarum aras dici coeptas, ut Valesios et Fusios dictos prius, nunc Valerios et Furios dici. Haec omnia illo versu poeta executus est: talibus orantem dictis arasque tenentem / audiit onnipotens. Nonne eo additum crederis non quia orabat tantum sed quia et aras tenebat, auditum? Nec non cum ait: talibus orabat dictis arasque tenebat; item: tengo aras, medios ignes ac numina testor, eandem vim nominis ex adprensione significat.

 

[14] Servio Dan.,  Ad Georg. 1, 269: Et non sine causa hoc dictum a Vergilio, gnaro totius sacrorum ritus, ponitur: religiosi enim esse dicuntur, qui faciendarum praetermittendarumque rerum divinarum secundum morem civitatis dilectum habent nec se superstitionibus implicant.

 

[15] Servio Dan.,  Ad Aen. 12, 172: Illi ad surgentem non uti nunc solem surgentem dixit: iamdudum enim dies erat: sed disciplinam caeremoniarum secutus est, ut orientem spettare diceret eum qui esset precaturus. Cfr. anche Macrobio, Sat. 1, 16, 12; 1, 24, 16. 17; 3, 2, 1; 3, 5, 1; Servio, Ad Aen. 10, 419.

 

[16] Macrobio, Sat. 3, 9, 16.

 

[17] Sull'opera vedi, ora, il saggio di L. DE GIOVANNI, Per uno studio delle 'Institutiones' di Marciano, in Studia et documenta historiae et iuris 49, 1983, pp. 91 ss.

 

[18] D. 1, 8, 7: sed divi fratres contra rescripserunt; D. 11, 7, 6, 1: Si cenotaphium fit, posse venire dicendum est: nec enim esse hoc religiosum divi fratres rescripserunt.

 

[19] D. 1, 8, 6, 5. Per i versi virgiliani a cui si riferisce il giurista, la dottrina indica generalmente Aen. 3, 303 ss.; 6, 505 ss.; la bibliografia più risalente è citata in F. GLÜCK, Commentario alle Pandette. Libro primo, tradotto e annotato da C. Ferríní, Milano 1888, pp. 724 s. Nello stesso senso, vedi anche F. STELLA MARANCA, Il diritto romano e l'opera di Virgilio, cit., p. 583 e n. 28; A. PALMA v. Loco/locus, in Enciclopedia Virgiliana, III, cit., p. 241; G. LURASCHI, ‘Foedus' nell'ideologia virgiliana, cit., p. 282 n.

 

[20] C. VAN BYNKERSHOEK, De cenotaphio, et ad L. 44 pr. ss. de religiosis et sumpt. fun., in ID., Observationum juris romani libri quattuor, I, Lugduni Batavorum 1710, pp. 27 ss.

 

[21] P. CATALANO, v. Giustiniano, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., p. 701.

 

[22] La risalenza dell'impiego dei termini fas/nefas risulta attestata anche dall'arcaico calendario romano, nel quale con tali termini si distingueva il tempo degli uomini dal tempo degli dèi: J. PAOLI, Les définitions varroniennes des jours fastes et néfastes, in Revue historique de droit français et étranger 29, 1952, p. 308 («Grecs et Romains ont eu une même vision d'ensemble du monde divisé dans ses deux domains: celui des hommes et celui des dieux. Le temps lui-même avait suivi la loi de ce partage. Mieux encore: c'est dans son cadre que ce partage s'inscrivait principalement: aux jours fastes les activités humaines, aux jours néfastes celles qu'exigeait le divin, que réclamaient les dieux»); sull'uso calendaristico dei due termini, vedi ora il pregevole studio di P. CIPRIANO, Fas e nefas, Roma 1978, in particolare pp. 95 ss.

Quanto a finis, basterà ricordare la connessione con i diversi aspetti della disciplina augurale (sulla cui antichità non resta che concordare con G. DUMÉZIL, Idées romaines, Paris 1969, p. 25: «L'augurale ius et le ius civile étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de l'Empire»): Varrone, De ling. Lat. 5, 143; 6, 53; Gellio, Noct. Att. 13, 14, 1; Festo, p. 488 L. (tesca); fra gli studiosi moderni vedi, soprattutto, E. NORDEN, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939, pp. 31 ss.

 

[23] Per la definizione di pax deorum, con ampia analisi delle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla, vedi P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et documenta historiae et iuris 19, 1953, pp. 49 ss. (= ID., Scritti di diritto romano, I, Padova, 1985, pp. 226 ss.); nonché i recenti contributi di M. SORDI, 'Pax deorum' e libertà religiosa nella storia di Roma, in AA.VV., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; e di E. MONTANARI, Il concetto originario di 'pax' e 'pax deorum', in Concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.

I versi virgiliani attinenti alla pax deorum, sono discussi infra, cap. V, pp. 257 ss.

 

[24] Riguardo alla centralità del binomio spazio/tempo nella teologia e nella giurisprudenza dei sacerdoti romani, rinvio al saggio di P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 1, Berlin-New York 1978, pp. 442 ss.

 

[25] Sui contenuti di tali documenti appare, per molti versi, ancora valida la dottrina dell'Ottocento: cfr. fra gli altri C. O. MÜLLER, Die Etrusker, II, Breslau 1828, pp. 122 ss.; F. A. BRAUSE, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Diss. Lipsiae 1875; A. BOUCHÉ-LECLERCQ, v. Augures, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines 1, 1, Paris 1877, pp. 550 ss.; P. REGELL, De augurum publicorum libris, Diss. Vratislaviae 1878 (del Regell, vedi anche Fragmenta auguralia, Progr. Hirschberg 1882; Commentarii in librorum auguralium fragmenta specimen, Progr. Hirschberg 1893); J. MARQUARDT, Römische Staatsverwaltung, III, 2a ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885, pp. 400 s. (= trad. franc. di M. Brissaud: Le culte chez les Romains, II, Paris 1890, pp. 111 ss.); V. SPINAZZOLA, v. Augur, in Dizionario epigrafico di antichità romane 1, Roma 1895, pp. 778 ss.; G. WISSOWA, v. Augures, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 2, 2, Stuttgart 1896, coll. 2313 ss.

Una recente messa a punto di tutte le problematiche relative alla tradizione documentaria augurale («The books of the augurs»), con ampio esame della letteratura, è stata operata da J. LINDERSKI, The Augural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 16, 3, Berlin-New York 1986, pp. 2241 ss.

Quanto alla possibilità di distinguere all'interno dell'archivio del collegio i contenuti dei diversi generi di documenti, vedi F. SINI, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 171 ss.

 

[26] Al rito dell'inauguratio dedica, da ultimo, un'ampia e dettagliata analisi J. LINDERSKI, The Augural Law, cit., pp. 2256 ss., a cui rimando per la letteratura precedente; sull'efficacia giuridica vedi, per tutti, P. CATALANO, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, pp. 230 ss. Non esente da limiti si presenta invece il lavoro di B. GLADIGOW, Condictio und inauguratio. Ein Beitrag zur römischen Sakralverfassung, in Hermes 98, 1970, pp. 369 ss.; questo studioso pur intendendo, giustamente, in senso tecnico il termine condictio citato dal Servio Danielino (Ad Aen. 3, 117) in relazione al potere del pontifex maximus di chiedere agli auguri l'inaugurazione dei sacerdoti, non tiene tuttavia conto dei rapporti tra augures e altri sacerdoti, né dei poteri dei magistrati riguardo alle inaugurationes di luoghi (cfr., in tal senso, P. CATALANO, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., p. 473 n. 121).

 

[27] Livio 1, 18, 8-10. Che lo storico patavino ricavi questa precatio da una solenne formula giuridico-religiosa, certamente di derivazione augurale, è un dato ormai acquisito dalla dottrina: W. KUNKEL, Zum römischen Königtum, in Ius et lex. Festgabe für Max Gutzwiller, Basel 1959, pp. 11 s. (ora in ID., Kleine Schriften, Weimar 1974, pp. 354 s.); R. M. OGILVIE, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965, pp. 92 s.

 

[28] Sulla consistenza dell'archivio dei feziali, vedi M. VOIGT, De fetialibus populi Romani quaestionis specimen, Lipsiae 1852 («Fetiales sine dubio non minus suos libros fetiales et commentarios habuerunt quam pontifices, augures aliique sacerdotes, quibus jus fetiale descriptum fuit»: op. cit., p. 16). Più in generale sulla sodalità: E. SAMTER, v. Fetiales, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft 6, 2, Stuttgart 1909, coll. 2559 ss. (ivi bibliografia anteriore); G. WISSOWA, Religion und Kultus der Römer, 2a ed., München 1912, pp. 550 ss.; E. DE RUGGIERO, v. Fetiales, in Dizionario epigrafico di antichità romane 3, Roma 1922, pp. 65 ss.; G. DUMÉZIL, La religion romaine archaïque, 2a ed., Paris 1974, pp. 579 ss. (= trad. it. di F. Jesi: La religione romana arcaica, Milano 1977, pp. 502 ss.). Per quanto riguarda gli aspetti giuridico-religiosi e la natura dello ius fetiale, è fondamentale il lavoro di P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, special. pp. 30 ss.; cfr. inoltre Chr. SAULNIER, Le rôle des prêtres fétiaux et l'application du "ius fetiale" à Rome, in Revue historique de droit français et étranger 58, 1980, pp. 171 ss.

 

[29] Cfr. Livio 1, 32, 5-14; per gli aspetti giuridici della indictio belli vedi F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, 2a ed., Napoli 1973, pp. 50 ss. Le formule della procedura per la indictio belli sono considerate da P. CATALANO, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 118 s., realtà normative che confermano la concezione del popolo romano come insieme di cittadini. Quanto, invece, al rapporto tra indictio e bellum iustum, vedi infra cap. IV, pp. 198 s.

 

[30] Livio 1, 32, 6; approfondita discussione sul carmen della rerum repetitio, recitato nel ritus belli indicendi dal pater patratus dei feziali, con esame delle diverse posizioni della dottrina romanistica contemporanea, infra cap. II, pp. 91 ss.

 

[31] Cfr. M. MESLIN, L'uomo romano, trad. it., Milano 1981, pp. 40 s., per il quale nel rito dei feziali «si percepisce molto chiaramente il legame strutturale tra lo spazio e il diritto».

 

[32] Livio 1, 32, 12-14: Fieri solitum, ut fetialis hastam ferratam aut sanguineam praeustam ad fines eorum ferret et non minus tribus puberibus praesentibus diceret: 'quod populi Priscorum Latinorum hominesque Prisci Latini adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse senatusque populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit, ut bellum cum Priscis Latinis fieret, ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque'. Id ubi dixisset, hastam in fines eorum emittebat. Cfr. anche Servio, Ad Aen. 9, 52: Principium pugnae hoc de Romana sollemnitate tractum est. Cum enim volebant bellum indicere, pater patratus, hoc est princeps fetialium, proficiscebatur ad hostium fines, et praefatus quaedam sollemnia, clara voce dicebat se bellum indicere propter certas causas, aut quia socios laeserant, aut quia nec abrepta animalia nec obnoxios redderent. Et haec clarigatio dicebatur a claritate votis. Post quam clarigationem hasta in eorum fines missa indicabatur iam pugnae principium.

 

[33] Cfr., in tal senso, infra cap. IV, pp. 200 ss.

 

[34] Questo legame tra guerra e pace, o se si vuole la subordinazione della prima alla seconda, si trova ben configurato, nei suoi aspetti teologici, nella stessa etimologia che gli eruditi antichi davano della parola fetiales. Collegandone, infatti, l'etimo a fides e foedus, si sottolineava nella competenza di questi sacerdoti la funzione di ristabilire la fides pacis con il foedus, piuttosto che quella di concipere un bellum iustum. Varrone, De ling. Lat. 5, 86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde desitum, ut f<o>edere fides pacis constitueretur. Ex his, mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum. Servio, Ad Aen. 1, 62: Foedere modo lege, alias pace, quae fit inter dimicantes. Foedus autem dictum vel a fetialibus, id est sacerdotibus per quos fiunt foedera, vel a porca foede, hoc est lapidibus occisa, ut ipse et caesa iungebant foedera porca; cfr. Servio Dan., Ad Aen. 4, 242. Da notare che anche nel II libro del De legibus ciceroniano l'ordine delle funzioni dei Feziali vede la pace anteposta alla guerra: (2, 21) Foederum pacis, belli, indotiarum ratorum fetiales iudices, nontii sunto, bella disceptanto.

Sempre sulla base della teologia ufficiale, la subordinazione della guerra alla pace appare evidente anche nella gerarchia dei sacerdozi; infatti, nell'ordo sacerdotum il flamine di Iuppiter, della divinità che tra le altre cose tutelava i foedera pacis, si presenta sovraordinato al flamine di Marte: Festo, p. 198 L.: Ordo sacerdotum aestimatur deorum <ordine, ut deus> maximus quisque. Maximus videtur Rex, dein Dialis, post hunc Martialis, quarto loco Quirinalis, quinto pontifex maximus. Itaque in soliis Rex supra omnis accumbat licet; Dialis supra Martialem, et Quirinalem, Martialis supra proximum; omnes item supra pontificem.

 

[35] Sulla centralità del tema della pace, anche nel poema epico di Virgilio, vedi infra cap. V, pp. 235 ss.

 

[36] Questa visione provvidenziale dell'impero, quasi un premio per la religiosità del popolo romano, la troviamo espressa con grande chiarezza da Cicerone, De har. resp. 19: Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos esse non sentiat, et ea quae tanta mente fiunt ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique hoc ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus.

Sulla concezione virgiliana della pace, che prospetta la pace legata necessariamente, nella concreta dinamica della storia, all'espansione dell'imperium, vedi M. PAVAN, v. Aurea, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 418.

 

[37] Ricalco la suggestiva espressione sul titolo dell'opera collettanea di critica fílologico-letteraria, curata da M. GIGANTE: Lecturae Vergilinae, 3 voll., Napoli 1981-1983.

 

[38] Per quanto riguarda la dottrina, a parte Mommsen e Täubler sui quali vedi le note seguenti, sono da menzionare (senza alcuna pretesa di completezza): A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae 1823, p. 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum, Lipsiae 1836, pp. 8, 16, 36; M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II, Leipzig 1858 [rist. an. Aalen 1966], pp. 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen 1966], pp. 269 ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts, I (1852), Leipzig 1878, pp. 225 ss. [= Id., L'esprit du droit romain, trad. franc., I, Paris 1886 (rist. an. Bologna 1969), pp. 226 ss.]; F. LAURENT, Etudes sur l'histoire de l’humanité, I, Paris 1879, pp. 46 ss.; J. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des römischen Staates, I, Leipzig 1881, pp. 58 ss.; G. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell'Accademia dei Lincei, ser. III, vol. 13, 1883-1884, pp. 455 ss.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig 1881, pp. 279 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed., Firenze 1886, p. 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli 1909, pp. 112 ss., 116; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris 1909 [rist. fot. 1931], p. 343; N. D. FUSTEL DE COULANGEs, La cité antique, cit., pp. 226 ss.; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2ª ed., Paris 1928, p. 92; S. BRASSLOFF, Der römiscbe Staat in seinen internationalen Beziehungen, Leipzig-Wien 1928, pp. 3 ss.; P. Huvelin, Études d'histoire du droit commercial romain, opera postuma a cura di H. Lévy-Bruhl, Paris 1929, pp. 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M. 1930, pp. 6 s.; H. LÉvy-Bruhl, Esquisse d’un théorie sociologique de l'esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris 1934, pp. 15 ss.; E. BETTI, Diritto romano, I. Parte generale, Padova 1935, pp. 88 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, pp. 363 ss.; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano 1943, p. 335; P. jöRS - W. KÜNKEL, Römische Privatrecht, Berlin-Göttingen-Heidelberg 1949, pp. 58 s.; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed. 1934, a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano 1958, p. 229; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, nuova ed. a cura di S. Accame, Firenze 1979, p. 87; M. Meslin, L'uomo romano, cit., p. 117.

Le cause di tale ricostruzione storica, a parere di P. CATAlano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 8 ss., sono riconducibili per larga parte «alla componente soggettiva della storiografia dell'Ottocento e del primo Novecento»; ID., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. IX s., 10 ss.; per l'aspetto filosofico cfr. anche P. BIERZANEK, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue historique de droit français et étranger 38, ser. IV, 1960, pp. 105 ss.

 

[39] Sugli atti necessari per eliminare l’“ostilità naturale", vedi Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin 1864, pp. 326 ss.; E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig 1913 [rist. an. Roma 1964], pp. 14 ss., 29 ss., 44 ss.

 

[40] Th. Mommsen: Römische Geschichte, I (1854), cit., in trad. it. (nuova ed. con introduzione di G. Pugliese Carratelli): Storia di Roma antica, I, Firenze 1984, p. 192; Id., Das römische Gastrecht und die römische Clientel, cit., pp. 319 ss.; Id., Römisches Staatsrecht, III, 1, 3ª ed., Leipzig 1887, pp. 590 ss. (= trad. franc. di P. F. Girard: Droit public romain, VI, 2, Paris 1889, pp. 206 ss.); ma è nell'Abriss che la posizione del grande giusromanista tedesco, proprio per l'esigenza di semplificazione, si presenta più netta: «Di fronte a questa federazione latina, basata sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza giuridica, le comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né romana né straniera; l’abitante del territorio, l’hostis, più tardi peregrinus, è in linea di principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato di guerra di fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in questo, che con le città etrusche, nelle quali la nazionalità diversa si affacciò per la prima volta ai romani, non vennero altrimenti conchiusi trattati se non con termine fisso». (Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. dell'ed. 1943, Milano 1973, p. 91).

 

[41] E. Täubler, Imperium Romanum, cit., p. 1: «Der Staatsfremde gilt rechtlich als Feind. Der einzelne wie der Staat tritt erst durch eine Rechtshandlung, den Vertrag, aus dem Zustande der natifflichen Feindschaft in den der Verkehrsgemeinschaft».

 

[42] E. Täubler, Imperium Romanum, cit., pp. 402 ss., in part. 406 s.: «Auf den primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus Angst, Menschenfrass und Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die Wehrwahndung des Fremden als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann die Entwicklung des Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf nicht darin gesucht werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen muss, die des anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr darauf, dass die Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Gefangenen zum Geisel macht, ihn für die Gemeinschaft, welcher er angehört, bürgen lässt, die zum Gastvertrage führende dagegen den Fremden nicht in Beziehung zu einem dritten setzt und deshalb nicht zu dessen Bürgen umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann und den freien Mann vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht». Questo tipo di estremizzazioni ha trovato contrari anche studiosi che pure nella sostanza aderivano all'impostazione mommseniana: cfr., ad esempio, P. FREZZA, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell'antico diritto romano, cit., p. 410 n. 83.

 

[43] Si veda, ad esempio, quanto scrive É. BENVENISTE, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, l. Économie, parenté, société, Paris 1969, p. 361: «Ceci ne peut se comprendre qu'en partant de l'idée que l'étranger est nécessairement un ennemi - et, corrélativement, que l'ennemi est nécessairement un étranger. C'est toujours parce que celui qui est né au dehors est a priori un ennemi, qu'un engagement mutuel est nécessaire pour établir, entre lui et ego, des relations d'hospitalité qui ne seraient pas concevables à l'intérieur même de la communauté... Les rites, les accords, les traités interrompent ainsí cette situation permanente d'interhostilité qui règne entre les peuples ou les cités». Nello stesso senso, cfr. anche A. PIGANIOL, Le conquiste dei Romani, trad. it., Milano 1971, pp. 147 s. («Dovremo però badare, in primo luogo, ad una esatta definizione dello stato di guerra. Si tratta della relazione normale tra popoli non legati da un accordo: ogni straniero è dunque un nemico»); A. GUARINO, Storia del diritto romano, 7a ed., Napoli 1987, p. 82 («Al di fuori di questi elementi umani vi erano gli stranieri, anzi i 'nemici' (hostes), così denominati perché avversari, se non proprio attuali, almeno potenziali della civitas Quiritium e della sua sfera di interessi»; lo studioso distingue tra stranieri appartenenti al nomen Latinum e altri che non vi appartenevano: con i primi vigeva «uno stato naturale di buon vicinato (amicitia)», mentre «con i secondi esisteva, ma in gradazioni varie, uno stato naturale di ostilità, che non escludeva peraltro la possibilità di trattati d'alleanza che li rendesse socii dei Quiriti»).

Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: in questo senso vedi P. FREZZA, Corso di storia del diritto romano, 3a ed., Roma 1974, p. 210: «Prima di questa età la posizione del cittadino fuori del territorio della propria città è, in linea di principio, caratterizzata dalla carenza di una protezione istituzionalmente configurata: come il singolo cittadino è pienamente protetto nell'ambito della collettività tribale cui appartiene la sua polis, così è privo di protezione quando egli varchi la cerchia della propria collettività tribale»; più di recente, M. BRETONE, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 129 («Lo straniero, hostis nel significato originario del termine, ne è escluso. Egli manca di una tutela giuridica, a meno che non si ricorra a un trattato internazionale, a un legame reciproco di "ospitalità" e di "amicizia", al patronato, alla “finzione della cittadinanza”»); F. PAstORI, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2a ed., Milano 1988, p. 175 («Lo straniero è privo di capacità giuridica nell'ordinamento romano, in quanto difetta dello status civitatis. La concezione dell'esclusivismo nazionale del diritto, che ricollega la personalità giuridica all’organizzazione politica del soggetto, domina negli Stati dell'antichità: lo straniero appartenente a collettività che Roma non riconosce, se perviene nella sua potestà, è ridotto alla condizione servile»); M. TALAmanCA, in AA.VV., Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M.T., 2a ed., Milano 1989, p. 154 («Lo straniero, in quanto tale, era privo di diritti, anche se sarebbe forse eccessivo qualificarlo, puramente e semplicemente, un "nemico"»); cfr. ID., Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, p. 103.

 

[44] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale dei Romani (estr. dall’Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, nuova serie, voll. I e II), Modena 1898, pp. 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom, Kaisergeburtstagrede, Berlin 1915, pp. 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei confronti del Täubler si mostra anche B. Kübler, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig-Erlangen 1925, pp. 109 ss.

 

[45] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit (Klio, Beiheft 31, n. F. 18), Leipzig 1933.

 

[46] A. HEUSS, Die völkerrechtlichen Grundlagen, cit., pp. 4 ss., 12 ss., 18 ss. In particolare lo studioso tedesco ha dimostrato che non v'erano trattati d'amicizia aventi lo scopo di porre fine all'ostilità naturale; che il bellum iustum era considerato necessario anche in caso di guerra contro popoli con i quali non preesisteva alcun trattato; infine, che nella formula e nel rituale dello ius fetiale relativi alla dichiarazione di guerra non si trovava alcun riferimento ad una precedente violazione di trattati. Sul ruolo del Heuss nella storiografia tedesca contemporanea, Sul ruolo di questo studioso nella storiografia tedesca contemporanea, vedi ora K. Christ, Römische Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft, München 1982, p. 245.

 

[47] F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II (1a ed., Napoli 1954, pp. 11 ss.), 2a ed., cit., pp. 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss., con ampia rassegna di bibliografia. Sull’opera storiografica e giuridica dell'illustre studioso, del quale quale di recente sono stati raccolti gli scritti “minori” a cura di A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita e F. d’Ippolito (Scritti di diritto romano: I. Diritto e società in Roma antica, Roma 1979; II. Diritto privato e società romana, Roma 1982; III. Nuovi studi di economia e diritto romano, Roma 1988), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24, 1978, pp. 7 ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18, 1990, pp. XV ss.

 

[48] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 14-15: «A noi sembra che nell’epoca delle grandi formazioni gentilizie le cause della guerra dovevano essere di gran lunga più rare di come non avvenne in seguito; l’occasione più frequente doveva essere quella della vendetta gentilizia, la quale peraltro presupponeva che ciascun gruppo fosse convinto della sua necessità, cioè il riconoscimento di un ordine universale, religioso e giuridico. L'opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma deve essere dunque riveduta, sia per ragioni di ordine generale, sia perché Roma derivava dal comune ceppo indoeuropeo, come altri popoli italici, e non è verosimile, che ben per tempo quest’eredità fosse dispersa, quando resisteva in altri campi della vita sociale e giuridica».

 

[49] F. DE MARTINO, L'idea della pace a Roma dall'età arcaica all'impero, relazione letta per l'inaugurazione dell'VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma" il 21 aprile 1988, poi pubblicata in Roma Comune, a. XII, n. 45, aprile-maggio 1988, pp. 86 ss.

 

[50] P. CATALANO, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 8 ss., 51 ss.

 

[51] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, cit., p. 86. Anche in altre parti di questo testo è espressa convinta adesione alle tesi del Catalano; così a p. 88: «La nuova concezione dei rapporti fra Romani e stranieri induce ad una revisione del principio della esclusività del diritto nella città-stato. Questo non può intendersi nel senso che lo straniero era escluso da qualsiasi protezione giuridica in Roma, ma nel senso che vi erano rapporti riservati soltanto ai cittadini, ai quali lo straniero non poteva essere ammesso: questi rapporti rientravano nella categoria del ius Romanum Quiritium, denominazione che si può supporre, come fa il Catalano con molta decisione, sorta appunta per delimitare il campo dell’esclusività del diritto»; ancora più chiaramente a p. 91: «Nei suoi studi illuminanti sul sistema dei rapporti con gli stranieri, che ha chiamato sistema sovrannazionale romano, il Catalano ha recato contributi che si possono ritenere definitivi in questo campo, affrontando coraggiosamente questioni che sembravano risolte nel senso di un rigoroso carattere esclusivo non solo del diritto, ma anche della religione antica. Egli ha tratto dalle fonti prove decisive ed argomenti che fino ad oggi non hanno trovato alcuna valida contestazione. Dalla critica alla teoria tradizionale dell’inimicizia primitiva egli ha costruito un quadro dei rapporti internazionali romani nuovo e molto più accettabile. Assumono il loro giusto valore espressioni delle fonti, che implicano l’esistenza di principi comuni, in certo senso universali».

 

[52] Per una rapida visione delle tesi sostenute dallo studioso, si legga la «riflessione conclusiva» di Linee del sistema soprannazionale romano, cit., p. 288: «Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo centro in Iuppiter, ed è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges, populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi da particolari accordi vuoi da comunanza etnica. Entro il sistema si formano sfere di rapporti più ristrette, e più fitte, sulla base di atti unilaterali o di accordi con altri popoli. Tra queste sfere hanno particolare importanza le federazioni adeguate alle realtà etniche: il nomen Latinum, e poi quella che possiamo dire la “federazione italica”. Ho chiarito come siano particolarmente i foedera, adeguati alle realtà politiche (oltre che etniche), a forgiare i gruppi etnici. Per tutto questo è possibile definire il sistema (che è romano perché alla sua “validità” è sufficiente la considerazione che ne hanno i Romani) come sovrannazionale: non solo ad indicare l’implicito superamento dell’attuale categoria del “diritto internazionale”, ma ad esprimere come esso, alimentandosi dai gruppi etnici, li costituisca in sintesi sempre più vaste, con volontà politica tendente ad una società universale».

Riguardo all'opportunità di utilizzare l'espressione “sistema giuridico-relígioso” in luogo di “ordinamento giuridico”, vedi le motivazioni offerte dal Catalano (Op. cit., p. 37 n. 75; Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., pp. 445 s.; Diritto e persone, cit., p. 57). Ma la validità della nozione di "ordinamento" viene ancora riaffermata nelle ultime opere di R. ORESTANO: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, p. 348 ss.; nello stesso senso P. CERAMI, Potere ed ordinamento nell'esperienza costituzionale romana, Torino 1987, pp. 10 ss. Si sofferma piuttosto sulla parte aggettivale dell'espressione “sistema giuridico-religioso”, da ultimo, G. LOMBARDI, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla “Dignitatis humanae”, Roma 1991, pp. 34 s., al quale non sembra, tuttavia, del tutto adeguata per rappresentare «l'ordinamento di Roma», caratterizzato da «una costante commistione tra quanto più tardi si chiamerà 'religioso' e quanto più tardi si chiamerà 'giuridico'».

 

[53] P. p. Catalano, Diritto e persone, cit., p. IX; ivi, vedi anche la nt. 3, a cui rimando per l’adesione da parte della storiografia francese alle principali tesi dello studioso riguardanti lo ius fetiale; ma ancora critica nei confronti del Catalano si mostra Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du «ius fetiale» à Rome, cit., pp. 186 ss.

 

[54] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 68 ss.

 

[55] L'adesione alle tesi mommseniane era stata data dal Frezza nel saggio Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell'antico diritto romano, cit., pp. 373 ss., 397 ss. Una prima revisione, con l'abbandono della tesi dell'ostilità naturale, si riscontra già nel saggio L'età classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1, 1955, pp. 323 ss.; dove peraltro è ancora conservata quella che postula la mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando anche, in polemica col De Martino, l'appartenenza originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei rapporti internazionali alle relazioni fra popoli della lega latina (pp. 327 ss.).

[56] P. Frezza, Il momento “volontaristico” e il momento “naturalistico” nello sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 32, 1966, pp. 299 ss., in part. 301: «Sono ora persuaso – oserei dire definitivamente – che il segreto dello sviluppo storico dei rapporti internazionali del mondo antico può essere colto soltanto a patto di pensarlo dialetticamente: ossia a patto di pensare compresenti il momento (che potrebbe essere chiamato naturalistico) particolaristico delle relazioni intratribali, ed il momento universalistico (volontaristico) delle relazioni intertribali». Nello stesso senso, cfr. Id., In tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, ibid. 33, 1967, pp. 337 ss., in part. 348 s.

 

[57] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr., München 1968.

 

[58] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts, cit., pp. 136 s. («Es ist das Verdienst von A. Heuss, die These von der natürlichen Feindschaft als Grundlage der internationalen Beziehungen und damit den aus dieser Annahme resultierenden Freundschaftsvertrag als Grundvertrag, der diese Hostilität beendet, in überzeugender Weise widerlegt zu haben»).

 

[59] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung, cit., pp. 171 ss. («Eine so weitgehende moralische Konzeption ist in den rudimentären Anfängen Roms, in die das Fetialrecht zurückführt, gar nicht denkbar. Richtig ist, dass der Krieg in Rom zu einer "Rechtsexekution" wurde, jedoch verbürgt der hier ausgesprochene Begriff "Recht" keine objektive Rechtmäßigkeit im moralischen Sinne, die Bindung an das ius fetale ist vielmehr eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet lässt»: p. 173); critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 78 s.: «Die Bindung an das ius fetiale als "eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet lässt”, zu qualifizieren, wie es zulest W. Dahlheim getan hat, scheint mir nicht glücklich. Rechtsformalismus und Rechtsethik sind keineswegs notwendig Gegensätze, vor allem nicht in frühen Rechtsordnungen»; e P. Catalano, Diritto e persone, cit., p. XI n.

 

[60] V. ILARI, Gli Italici nelle strutture militari romane, Milano 1974.

 

[61] V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari romane, cit., pp. 10-11; per questo studioso la concezione c.d. volontarista si presenta in costante riferimento allo ius fetiale, a proposito del quale aderisce alla «lettura volontarista e universalista» proposta dal Catalano: cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, p. V.

 

[62] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989.

 

[63] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts, cit., p. 13: «Die Römer (und sie nicht allein) gehen davon aus, dass der jeweilige Gegner sich grundsätzlich normativ verhält; umgekehrt weiss man von den entsprechen – den Erwartungen dieses Gegners. Normbrüche werden mit einem Unrechts – urteil versehen. Wenn man “Werturteile“ fällt, so setzt man die Existenz (oder wenigstens das Postulat) einer gemeinschaftlichen Normenordnung voraus – die etwa erlaubt, den Feind in Kampf zu töten, nicht aber nach der deditio».

 

[64] L’epica virgiliana si presenta caratterizzata da una evidente connotazione negativa della guerra: Nulla salus bello (Aen. 12.362); crimina belli (Aen. 7.339); scelerata insania belli (Aen. 7.461); il bellum è qualificato di volta in volta horridum (Aen. 6.86; 7.41; 11.96), asperum (Aen. 1.14), crudele (Aen. 8.146; 11.535), dirum (Aen. 11.21). Vi è poi da considerare che, assai significativamente, per Virgilio il bellum sul piano religioso appartiene alla sfera del nefas (Aen. 2.217-220; 10.900-902), il che giustifica l’uso degli aggettivi nefandum e infandum (Aen. 7.583; 12.572, 804); a ciò si aggiunga che nelle occorrenze virgiliane del termine a bellum non sono mai riferiti aggettivi tipici del lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix: cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Lipsiae 1912, [rist. an. Hildesheim-New York 1969], pp. 88 ss.

 

[65] Sull’eco dei rituali romani della guerra nella poesia virgiliana, vedi infra cap. IV, pp. 209 ss.

 

[66] Per l’attualizzazione virgiliana del mito dell’età dell’oro, vedi infra cap. V, pp. 269 ss.

[67] Assai opportunamente, M. VIANO, Contributo alla storia semantica della famiglia latina di “pax", in Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino 88, 1953-54, p. 5 (estratto), colloca Virgilio fra gli «autori di indiscussa autorità in materia di tradizione sacrale»; per maggiori approfondimenti, vedi il precedente lavoro di H. LEHR, Religion und Kultus in Vergils Aeneis, Diss. Giessen 1934, pp. 9 ss. Pur rivolte ad altra prospettiva, rivestono un certo interesse anche le riflessioni di F. ZEvi, Note sulla leggenda di Enea in Italia, in AA.VV., Gli Etruschi e Roma (Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 11-13 dicembre 1979), Roma 1981, pp. 147 s., in merito ai riferimenti virgiliani all'Atena Tritonia di Lavinio: «L'identificazione ha una sua particolare importanza, sia in sede storico-religiosa, sia, soprattutto, perché permette una rivalutazione di Virgilio come fonte topografica: in vari passi dell'Eneide, e specialmente là dove si accenna a Lavinio, la dea è designata come Tritonia Pallas o Tritonia virgo. L'appellativo Tritonia, che aveva dato luogo a discussioni e speculazioni erudite, si spiega ora perfettamente e, direi, letteralmente, come reale appellativo della dea lavinate. Ciò dimostra, una volta di più, lo sforzo filologico che è alla base del poema virgiliano, e la scarsa attendibilità di coloro fra i moderni, che, per spiegare passi non chiari o non conformi alle teorie in voga, hanno pensato di poter giustificare le incongruenze (forse solo apparenti) con licenze poetiche o voli di fantasia di un autore che, più che mai, si rivela invece un poeta doctus. Certo è che, in questo caso specifico, Virgilio è l’unica fonte letteraria sul culto di Atena Tritonia a Lavinio, ora confermato dall’archeologia; ed è estremamente interessante rilevare che il santuario di Atena Tritonia era in completo abbandono già all’inizio del III sec. a.C.».

 

 

[68] Per l'analisi dell'uso virgiliano di questo termine, vedi M. BELLINCIONI, v. Amicizia, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 135 ss.

 

[69] Sugli impieghi virgiliani della parola si vedano F. DE MARTINO e R. DEGL'INNOCENTI PIERINI, v. Hospes/hospitium, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., pp. 858 ss.

 

[70] Un'esaustiva analisi delle valenze giuridiche nell'uso virgiliano del termine è stata, di recente, condotta da G. LuRASCHI, v. Foedus, cit., pp. 546 ss.; ID., 'Foedus' nell'ideologia virgiliana, cit., pp. 281 ss.

 

[71] Su cui vedi infra cap. IV pp. 200 ss.

 

[72] Aen. 7, 546: dic in amicitiam coëant et foedera iungant; 11, 320-322: Haec omnis regio et celsi plaga pinea montis / cedat amicitiae Teucrorum et foederis aequas / dicamus leges sociosque in regna vocemus.

 

[73] Le diverse attestazioni di questo significato sono raccolte nel Thesaurus Linguae Latinae (v. amicitia), I, 1900, coll. 1893 s.; per quanto attiene invece alla dottrina, sono da menzionare le tesi contrapposte di E. TAÜBLER, Imperium Romanum, cit., pp. 44 ss.; e di A. HEuss, Die Völkerrechtlichen Grundlagen, cit., pp. 12 ss., 53 ss.; le ricerche sull'origine di B. PARADISI, L'amitié internationale. Les phases de son ancienne histoire, in Académie de droit international 78, 1951, pp. 329 ss.; nonché le messe a punto più recenti di W. DAHLHEIM, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts, cit., pp. 136 ss.; D. KIENAST, Entstehung und Aufbau des römischen Reiches, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 85, 1968, pp. 330 ss.; F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 29 ss.; K.-H. ZIEGLER, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 87 ss. All’esame dell’uso di amicitia nelle fonti latine, sono dedicate alcune pagine del libro di M.R. Cimma, Reges socii et amici populi Romani, Milano 1976, pp. 27 ss., dove mancano però riferimenti ai testi virgiliani.

 

[74] M. Bellincioni, v. Amicitia, cit., p. 135: «Il termine amicitia figura in Virgilio soltanto due volte nell’Eneide; in entrambi i casi è usato nell’accezione secondaria di “amicizia fra popoli”, dunque in senso affine ad “alleanza” e significativamente accompagnato da foedus »; in tal modo, questa studiosa non mi pare comprendere il profondo significato religioso e giuridico della scelta virgiliana di privilegiare «nella sua epopea patria quell’a(micizia) che supera i rapporti individuali».

 

[75] Sulla problematica relativa alla definizione e agli aspetti giuridi- ci dell'bospitium, vedi per tutti F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 23 ss.; K.-H. ZIEGLER, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 85 ss. (entrambi con riferimenti assai ampi alla dottrina precedente); da ultimo M. LEMOSSE, “Hospitium”, in Sodalitas. Scritti in onore di A. Guarino, III, Napoli 1984, pp. 1269 ss.

 

[76] F. DE MARTINO, v. Hospes/hospitium, cit., p. 858. Eccessivamente cauta appare, invece, la valutazione di M. LEMOSSE, “Hospitium”, cit., pp. 1273 n. 15, per il quale alcuni impieghi vigiliani «correspondent trop à des pratiques et des conceptions religieuses empreintes d'influence hellénistique pour être utilisés sans précautions».

 

[77] Aen. 1, 731: Iuppiter (hospitibus nam te dare iura locuntur); cfr. Cicerone, Ad Quintum fratr. 2, 10, 3: ne imploret fidem Iovis Hospitalis.

 

[78] Per la definizione e l'evoluzione storica del foedus, problemi tutt'altro che risolti nella dottrina romanistica contemporanea, sia consentito rinviare al trattato di F. DE MARTINO, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 35 ss.; alla rassegna di K.-H. ZIEGLER, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 90 ss.; e all'esaustiva bibliografia indicata nel recente saggio di G. LuRAsCHI, ‘Foedus' nell'ideologia virgiliana, cit., pp. 386 s., n. 26.

Esempi virgiliani di stipulazione di foedera in Aen. 8, 39-41; 12, 169-215; versi che sono discussi infra, cap. V, pp. 252 s.

 

[79] G. LuRAsCHI, v. Foedus, cit., p. 547; ID., ‘Foedus' nell'ideologia virgiliana, cit., pp. 288 s.; sul ruolo di Iuppiter, oltre il verso citato nel testo (Aen. 12, 200), vedi Aen. 4, 112; 8, 641; 12, 178. 492; ancora utile la consultazione del vecchio lavoro di L. LERSCH, Antiquitates Vergilianae, cit., pp. 116 ss.

 

[80] F. DE MARTINO, L'idea della pace a Roma dall'età arcaica all'impero, cit., pp. 91 s.