ds_gen Ius Antiquum N. 19 – 2007

 

 

 

L. SOLIDORO MARUOTTI*

 

ONERE PROBATORIO E GIUDIZI
DI RIVENDICA

 

1. – In un precedente contributo[1], pubblicato recentemente su questa rivista, ho tentato di illustrare alcuni profili storico-comparatistici del diritto materiale connesso con le figure giuridiche della ‘proprietà relativa’ e della ‘proprietà assoluta’. Mi propongo ora di affrontare gli aspetti di diritto processuale legati alla medesima tematica, integrando così gli scarni, sintetici e occasionali riferimenti che ho già effettuato, sulla tutela dell’appartenenza dei beni, in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ nella storia giuridica europea.

Nell’ambito della scienza processualistica e comparatistica moderna, si qualifica come ‘rivendica romana’, o ‘modello romanistico di rivendica’, l’azione con cui il proprietario spossessato chiede il riconoscimento del suo diritto nei confronti del possessore illegittimo e, per conseguenza, la restituzione del bene[2]. In questo tipo di azione il possessore convenuto in giudizio assume una posizione privilegiata, efficacemente sintetizzata nella formula commodum possessionis (richiamata, ad es., in D. 40. 12. 12. 3). Egli non ha nulla da provare, in quanto sussiste – secondo l’insegnamento della dottrina francese[3]– una presunzione di titolarità, legata al possesso del convenuto: l’onere della prova incombe solo sull’attore, il quale afferma un titolo assoluto, il diritto di proprietà[4].

L’estrema difficoltà della prova del diritto cui il rivendicante viene chiamato -non a caso definita, in età medioevale, probatio diabolica[5]è ben nota; e infatti, nessuno può ritenersi sicuro di essere proprietario se non lo era il suo autore, l’autore del suo autore e così via all’infinito, fino a risalire a un acquisto a titolo originario. Tuttavia, questa estensione dell’oggetto della prova (logica teoricamente, ma assurda sul piano pratico, almeno a partire dall’età giustinianea) già presso gli antichi Romani aveva trovato un rimedio nell’istituto dell’usucapione. L’acquisto del dominio mediante il possesso prolungato nel tempo costituiva, per l’attore in rivendica, una prova del diritto di proprietà non solo decisiva, ma anche piuttosto agevole, a causa dei tempi brevi originariamente previsti: un biennio per le res soli, un anno per le ceterae res (Ulp. Fr.Vat. 19. 8: … Usucapio est dominii adeptio per continuationem possessionis anni vel biennii: rerum mobilium anni, immobilium biennii). Ed è proprio per questa ragione che l’ usucapio romana meritò l’epiteto di finis sollecitudinis et periculi[6]. L’usucapione divenne oggetto di prova più rara -o comunque più impegnativa- solo nel VI sec. d.C., a seguito della riforma con la quale i termini per il compimento dell’usucapione furono portati a un triennio per i beni mobili, e a dieci o venti anni per gli immobili[7].

Ma il momento rimediale non poteva, in età romana -così come non può oggigiorno- restare confinato nel solo campo della procedura, dal momento che il rimedio processuale non è che uno strumento idoneo a proteggere l’interesse o il bene giuridico[8]. In altri termini, la struttura della rivendica appena descritta presupponeva – e ancora oggi presuppone- qualcosa di preciso e di ben definito sul piano del diritto sostanziale: e questo qualcosa è il modo di concepire il diritto di proprietà. L’attribuzione dell’onus probandi alla sola parte attrice e l’individuazione dell’oggetto della prova in una dimostrazione rigorosa del titolo (titolo dei danti causa, fino a risalire ad un acquisto per usucapione) postulano una nozione ‘assoluta’ di proprietà (nel senso che un bene è in proprietà di qualcuno quando nessun altro può vantare un diritto superiore a quello del proprietario); tale nozione assoluta di proprietà comporta, a sua volta, la netta distinzione tra proprietà, diritti reali su cosa altrui e possesso (per il quale, in particolare, sono previsti altri rimedi processuali, ben distinti dalla rivendica). Appunto questa nozione di proprietà assoluta viene oggi generalmente qualificata da civilisti e comparatisti come il ‘modello romanistico della proprietà’[9].

Sussiste dunque, per antica tradizione, un nesso di interdipendenza tra nozione assoluta della proprietà cd. romanistica (nell’ambito del diritto sostanziale) e prova rigorosa della proprietà nella rivendica cd. romanistica (sul piano processuale).

Nell’ambito del diritto vigente, quasi tutti i Paesi cd. romanisti, cioè dell’area di civil law, sulla scia del celebre art. 544 del Codice Napoleone, hanno consacrato nei loro codici civili una nozione assoluta della proprietà, intesa, cioè, come il diritto di godere della cosa in maniera assoluta e in via esclusiva, purché nei limiti della legge (art. 436 c.c.it.abr.; § 903 BGB; art. 641 c.c.svizzero; art. 832 c.c.it.)[10].

Coerentemente con questa scelta, in Italia (art. 948 c.c.) e in Germania (§ 985 BGB) viene enunciata, almeno a livello normativo e dottrinale, una perfetta simmetria tra l’adozione di questo concetto sostanziale assoluto della proprietà e una tutela processuale dell’appartenenza incentrata sulla rivendica, azione per la quale –proprio come nel diritto romano- si riconosce la legittimazione attiva solo al proprietario spossessato[11]. Nel silenzio della legge in materia di onus probandi nella rivendica, la dottrina, sulla scia della tradizione, ha ribadito la regola dell’attribuzione al solo attore dell’onere probatorio, avente ad oggetto (fatte salve alcune eccezioni[12]) la cd. probatio diabolica. In altri termini, all’adozione della nozione romanistica della proprietà assoluta ha fatto riscontro (almeno prima facie), sul piano della tutela processuale, il ricorso al cd. modello romanistico di rivendica.

In Francia, invece, alla solenne declamazione sul piano del diritto sostanziale di un diritto di proprietà unitario e assoluto non ha fatto riscontro un analogo orientamento in senso ‘romanistico’, da parte di dottrina e giurisprudenza, in ordine alla tutela processuale della proprietà. Il silenzio del legislatore e un particolare indirizzo giurisprudenziale e dottrinale hanno dato adito, sul piano operativo, ad una singolare soluzione: richiamando il principio per cui il processo civile non è concepito per scoprire e proclamare una verità assoluta, ma solo per indicare la verità migliore tra quelle prospettate dalle parti, i francesi si sono accontentati di chiedere all’attore solo elementi che lo rendano ‘preferibile’ al suo avversario. La lite, di conseguenza, viene vinta da colui che prova di avere un miglior diritto (droit meilleur) al possesso, sulla base di un giudizio comparativo[13], le cui radici storiche sono ravvisabili nelle lontane esperienze giuridiche franche e germaniche.

 

2. – Difatti, l’applicazione della cd. rivendica romanistica e della nozione assoluta della proprietà, come ben sappiamo, non costituiscono affatto l’unica soluzione possibile in materia di rapporti proprietari. Nel sistema giuridico di common law tanto i rapporti proprietari, tanto la loro tutela processuale, si sono sviluppati secondo schemi radicalmente diversi dai nostri, in quanto mutuati dai concetti franco-germanici della Gewere e della saisine[14]. Se il cd. modello franco-germanico dei rimedi reipersecutori presenta considerevoli differenze rispetto alla rivendica romana, ciò si deve al fatto che gli antichi diritti franco-germanici e il common law attuale, attraverso un processo evolutivo plurisecolare, hanno orientato il loro sistema di azioni a tutela dell’appartenenza dei beni non intorno all’idea (romano-classica) astratta e assoluta di proprietà, ben distinta dal possesso, bensì sul fondamento della Gewere e della saisine, forme di appartenenza non esattamente riconducibili alla coppia romana proprietà-possesso[15]. Volendo utilizzare categorie a noi familiari, potremmo definire l’appartenenza franco-germanica come un uso e un godimento della cosa tutelati dall’ordinamento, oppure come uno stato di fatto possessorio elevato a titolo, o ancora come un ‘diritto di possedere’ in forza di una concessione feudale.

Data questa antica configurazione dell’appartenenza dei beni, nel sistema franco-germanico non è mai esistita un’azione unica a tutela della ‘proprietà’, ben distinta dai rimedi volti al recupero del possesso: da un’antica azione preposta alla tutela generica dell’appartenenza si è poi articolata una pluralità di rimedi reipersecutori, una sorta di scala di azioni, ordinata gerarchicamente in ragione della situazioni più o meno dense dell’appartenenza, cui si intendeva apprestare tutela[16]. Una serie di documenti processuali relativi al diritto medioevale dimostra che le parti in contesa riguardo a un immobile (Land) potevano avere entrambe un qualche genere di saisine, sicché la questione si incentrava su quale dei due contendenti aveva la saisine ‘migliore’[17]. Così, il giudizio che si instaurava con l’esercizio di questi rimedi assumeva la struttura del giudizio comparativo[18].

Attualmente, nell’area di common law la situazione non è molto cambiata. A distanza di secoli, qualcosa della ‘relatività’ dei diritti sulla terra e della connessa tutela processuale è sopravvissuto al feudalesimo. Secondo quanto ancora attualmente si insegna, ciò che l’attore invoca in un’azione volta al recupero del possesso è la titolarità di un right to immediate possession della cosa contestata, e tale diritto è quasi sempre ‘relativo’[19]. Ne consegue che “nessuno è mai chiamato a dimostrare una proprietà valida nei confronti di tutti; fa già abbastanza quando prova un diritto di data più antica di quello della persona che egli attacca”[20].

Oggi, come allora, nel giudizio comparativo non spetta alla sola parte attrice fornire la prova di un titolo assoluto, perché le parti competono nella prova del diritto poziore al possesso: vincerà la lite chi avrà provato di avere un diritto più antico o più forte al possesso del bene. Al giudicante è attribuito il compito di effettuare una graduazione delle pretese e di affermare, quindi, chi dei due ha fornito la prova del better title, o del droit meilleur. La parte che esce vittoriosa dalla contesa non è dunque un ‘proprietario assoluto’, bensì un ‘proprietario relativo’, cioè semplicemente colui che tra i due contendenti si è visto riconoscere la prevalenza; perciò nulla esclude che spunti fuori un terzo munito di un titolo poziore rispetto al vincitore della lite.

In sostanza, la dottrina inglese del XIX secolo si è dimostrata ben consapevole del legame sussistente, nell’area di civil law, tra ‘modello romanistico della proprietà’ (cioè proprietà assoluta) e ‘modello romanistico della rivendica’; perciò, avendo respinto il primo ha, coerentemente, respinto il secondo. Il sistema inglese, rimasto ancorato alle sue matrici germaniche, ha ammesso, sul piano del diritto materiale, una molteplicità di rights to possession e ha formulato un diritto probatorio aderente al diritto sostanziale[21]. Eppure, questa rigorosa corrispondenza non è rimasta immune da incrinature: nell’ultimo cinquantennio, a seguito della comparsa di un sistema di registrazione della proprietà fondiaria (Registered Land), è affiorato nel common law qualche significativo elemento di ‘assolutezza’ della proprietà (immobiliare), di stampo romanistico.

L’approfondimento, sul piano storico, di questi differenti assetti dogmatici, caratterizzanti i Paesi di civil law e di common law, ci sembra sollecitato da due ordini di ragioni. In primo luogo, attualmente, il dogma dottrinale (in qualche caso recepito, più o meno esplicitamente, anche a livello normativo, come in Italia e in Germania), per cui alla proprietà assoluta in ambito sostanziale debba corrispondere sul piano processuale la rivendica romana, e, viceversa, all’appartenenza di tipo franco-germanico debbano corrispondere i giudizi comparativi, è un assunto che si è seriamente incrinato di fronte all’imporsi di numerose regole operative, affermatesi innanzitutto in Francia, come già si è accennato, poi anche in Italia (per l’attenuazione del tradizionale rigore probatorio addossato all’attore nelle frequenti ipotesi di ammissioni del convenuto[22]) e –in direzione opposta- in Inghilterra. Secondariamente, l’osservazione analitica delle origini storiche di queste differenti esperienze giuridiche non corrisponde in pieno al quadro piuttosto sommario che viene generalmente rappresentato in materia dai cultori del diritto vigente.

Tenterò di chiarire innanzitutto tale ultima problematica. Benché possa dirsi senz’altro corretta l’identificazione, effettuata da civilisti, processualisti e comparatisti, della tutela romana delle forme più dense dell’appartenenza con la rivendica, caratterizzata dall’onere probatorio gravante sul solo attore e vertente sul titolo assoluto della proprietà, tuttavia occorre ricordare che il diritto romano conobbe e praticò, oltre a questo tipo di rivendica (collegata, sul piano del diritto sostanziale, a una nozione assoluta di proprietà), anche un rimedio sfociante in un giudizio comparativo, nel corso del quale ambedue le parti processuali venivano chiamate a fornire la prova del loro titolo (‘relativo’), per vedersi riconoscere dal giudicante un diritto poziore (ma non necessariamente ‘assoluto’) al possesso, rispetto alla controparte[23].

3. – A questo meccanismo sembra che si rapportasse appunto, nell’età arcaica di Roma, il carattere indifferenziato della rivendica[24]: originariamente, nell’antica legis actio sacramenti in rem, la solenne affermazione di potere -trasfusa nel meum esse aio- oltre ad adattarsi indistintamente alla tutela di tutte le situazioni potestative facenti capo al pater familias, valeva a connotare la posizione processuale di ambedue i contendenti, dunque non soltanto della parte attrice[25]:

 

Gai 4.16 (con PSI XI 1182): Si in rem agebatur, mobilia quidem et moventia, quae modo in ius adferri adducive possent, in iure vindicabantur ad hunc modum: qui vindicabat, festucam tenebat: deinde ipsam rem adprehendebat, veluti hominem, et ita dicebat: HUNC EGO HOMINEM EX IURE QUIRITIUM MEUM ESSE AIO SECUNDUM SUAM CAUSAM. SICUT DIXI, ECCE TIBI VINDICTAM IMPOSUI, et simul homini festucam imponebat. Adversarius eadem similiter dicebat et faciebat. Cum uterque vindicasset, praetor dicebat: MITTITE AMBO HOMINEM; illi mittebant. Qui prior vindica <verat, ita alterum interroga>bat: POSTULO ANNE DICAS, QUA EX CAUSA VINDICAVERIS. Ille rispondebat: IUS FECI SICUT VINDICTAM IMPOSUI. Deinde qui prior vindicaverat dicebat: QUANDO TU INIURIA VINDICAVISTI, D AERIS SACRAMENTO TE PROVOCO; adversarius quoque dicebat similiter: ET EGO TE (…); postea praetor secundum alterum eorum vindicias dicebat, id est interim aliquem possessorem constituebat, eumque iubebat praedes adversario dare litis et vindiciarum, id est rei et fructuum (…). Festuca autem utebatur quasi hastae loco, signo quodam iusti dominii; quod maxime sua esse credebant quae ex hostibus cepissent rell.

 

Dalla descrizione contenuta nelle Istituzioni gaiane (4.16), apprendiamo che nell’antica procedura le parti erano (almeno nella fase iniziale) collocate sullo stesso piano, senza essere inquadrate rigidamente nei precisi ruoli di attore e di convenuto: ambedue effettuavano dichiarazioni solenni e identiche, nella forma e nel contenuto, con cui affermavano la titolarità del medesimo diritto (aio hanc rem meam esse ex iure Quiritium). La bilateralità della più antica actio in rem[26] è chiaramente attestata anche in:

Gell. 20.10.9: … in ius in urbem ad praetorem deferrent et in ea gleba tamquam in toto agro vindicarent.

 

Plaut. Rud. 4.3.90: Gr.: nescio neque ego istas vestras leges

urbanas scio, nisi quia hunc meum esse dico.

Tr.: et ego item esse aio meum.

 

Cic. pro Mur. 12.26: Cum hoc fieri bellissime posset: «Fundus Sabinus meus est ». «Immo meus », deinde iudicium, noluerunt rell.

 

Boet. ad Cic. top. 3.5.28: deinde, postquam hic vindicaverit, praetor interrogat eum qui cedit an contravindicet.

 

Probabilmente, l’effettuazione del sacramentum-sfida (attraverso cui si perveniva alla decisione, nel contrasto tra i litiganti) si può interpretare come il residuo storico dell’ordalia relativa a un ‘duello’, sul quale si fondava la sentenza nei tempi più antichi[27]. In ogni caso, era inevitabile che questa struttura dell’azione si riflettesse sulla posizione delle parti in ordine alla dimostrazione da fornire. Sarebbe certamente improprio e anacronistico presupporre, con riferimento alla fase più arcaica della procedura sacramentale, l’esistenza di una vera e propria regola sull’attribuzione dell’onere probatorio[28]; ciononostante, la struttura dell’azione lascia presumere che il giudicante dovesse valutare gli argomenti addotti in ordine ad ambedue le affermazioni di meum esse aio, indipendentemente da una eventuale assegnazione interinale del possesso (addictio vindiciarum)[29].

Sembra difficilmente contestabile che in questo meccanismo procedurale sia dato ravvisare una ‘tutela relativa’ della proprietà[30]. Secondo quanto inequivocabilmente attesta Gai 4.16, le parti processuali pronunciavano dichiarazioni uguali e contrarie (…cum uterque vindicasset…); che la posizione dei litiganti fosse assai poco differenziata risulta anche dal fatto che Gaio non qualifica le parti come attore e convenuto[31], distinguendo piuttosto solo colui qui prior vindicaverat dall’adversarius. Se ne è pertanto dedotto –e, a mio avviso, correttamente- che la duplicità delle affermazioni di meum esse aio (nonché la reciproca sfida al sacramentum circa la ‘conformità al diritto’ di tali simmetriche affermazioni) dovesse comportare una duplicità del thema probandum: la proprietà di qui prior vindicaverat, la proprietà dell’adversarius[32].

Ignoriamo, però, non solo chi, tra i due contendenti, fosse il primo a pronunciare solennemente la sua pretesa, ma anche quale parte processuale venisse per prima chiamata dal giudice alla dimostrazione. Un indizio in favore della tesi, sostenuta dal Pugliese[33], che a procedere per primo alla solenne rivendicazione della res litigiosa fosse il soggetto privo del possesso del bene sembrerebbe offerto dalla struttura della in iure cessio. Questa procedura, come è noto, era qualificata dai Romani come una legis actio, benché poi consistesse in una applicazione fittizia dell’antica l.a.s.i.r., intesa a realizzare il trasferimento della proprietà. Secondo quanto attesta Gai 2.24, in occasione della in iure cessio (che, ovviamente, per la sua natura ‘negoziale’ non consentiva di qualificare le parti come ‘attore’ e ‘convenuto’) la rivendica veniva effettuata dal soggetto che non possedeva il bene, mentre il proprietario (e possessore) si limitava a tacere: ne consegue che, se effettivamente lo schema della cessione dovesse ritenersi perfettamente corrispondente a quello dell’antica l.a.s.i.r. (fatta salva l’eliminazione di “tutti gli elementi funzionali alla rappresentazione di una contesa”[34]), nell’antica rivendica il primo ad affermare il suo diritto sul bene controverso doveva essere di regola colui che non possedeva il bene, cioè l’ ‘attore’[35]. Contro queste conclusioni si è però efficacemente obiettato che il procedimento della in iure cessio era il risultato di un profondo rimaneggiamento della struttura originaria della l.a.s.i.r., operato dalla giurisprudenza pontificale al fine di adattare lo schema arcaico alle finalità traslative[36]; il richiamo alla struttura della in iure cessio, pertanto, non si può considerare decisivo ai fini della individuazione dell’attore quale primo rivendicante.

Per corroborare l’ipotesi che la posizione del convenuto fosse particolarmente vantaggiosa anche nei tempi più risalenti, si è invocata l’opinione di Catone, in Gell. n. A. 14.2.26 (… ille unde petitur, ei potius credendum est); ma, a ben vedere, l’affermazione non aveva nulla a che vedere né con l’ordine delle affermazioni in sede processuale, né con la necessitas probandi, e costituiva semmai un monito, nei confronti del giudice, affinché assolvesse il convenuto in assenza totale di prove (benché poi risulti che il giudice, contro il parere ricevuto, pronunciò il ‘non liquet’).

In ogni caso, anche gli elementi addotti dal Cannata[37] al fine di dimostrare che il soggetto indicato da Gaio (4.16) come qui prior vindicaverat era piuttosto il convenuto, come si illustrerà più avanti, non sembrano pienamente convincenti[38]. E infine, pure la congettura, astrattamente plausibile, elaborata da Arangio-Ruiz[39], secondo cui i litiganti pronunciavano contemporaneamente i verba sollemnia della vindicatio, accompagnati dagli atti rituali corrispondenti, pare trovare una smentita nel resoconto delle fonti sopra citate, che invece attestano il succedersi delle due affermazioni in momenti distinti.

Quanto poi all’oggetto e all’onere della dimostrazione, il Kaser[40] ha congetturato (sotto la suggestione esercitata dallo svolgimento del giudizio comparativo franco-germanico, improntato sull’Anefang[41]) che anticamente la difesa dell’appartenenza fosse caratterizzata dalla maggiore difficoltà della posizione processuale del possessore convenuto in giudizio, rispetto alla posizione di qui prior vindicaverat: nel senso che il convenuto, in quanto sospettato di furto, prima ancora di potere fornire la prova della legittimità del suo rapporto materiale con la res litigiosa, avrebbe dovuto dimostrare di non essere un ladro, perché, in caso contrario, sarebbe stato considerato responsabile dell’illecito penale. Si tratta però di una supposizione non suffragabile da robuste prove testuali (se si eccettua il possibile riferimento contenuto nella locuzione solenne quando tu iniuria vindicavisti D aeris sacramento te provoco[42]) e inoltre indebolita –anche se solo parzialmente[43]- dalla considerazione che l’evoluzione del meccanismo reipersecutorio condusse piuttosto in direzione diametralmente opposta: quella, cioè, costituita dal riconoscimento del commodum possessionis.

Ciò che invece le fonti sembrano autorizzarci ad ipotizzare è che il giudice dovesse procedere a una valutazione comparativa delle prove addotte dai due contendenti, aggiudicando infine la res al titolare del ‘diritto più forte’. Sul punto, ci sembra perciò di potere pienamente accogliere le conclusioni cui erano già pervenuti, sulle orme di Jhering, Arangio-Ruiz e Franciosi[44], osservando come nell’antica l.a.s.i.r. le parti processuali stessero su di un piano di perfetta parità: il carattere bilaterale dell’azione rendeva indifferente che l’iniziativa fosse presa dall’uno o dall’altro dei due contendenti, dal momento che l’onere della dimostrazione sarebbe comunque gravato su ambedue i soggetti del rapporto litigioso.

Si è già segnalata la scarsa consistenza degli elementi sulla cui base il Kaser ha avanzato l’ipotesi che l’onere probatorio, nell’antica rivendica romana, gravasse -esclusivamente, o almeno in prima battuta- sul convenuto (il quale avrebbe dovuto dimostrare di essere proprietario, per scagionarsi dal sospetto di furto). Appare invece difficilmente superabile un’altra considerazione, di carattere più generale: negli ordinamenti giuridici poco sviluppati[45], il compito di provare la proprietà viene costantemente attribuito ad ambedue i contendenti. La ripartizione dell’onere probatorio, nelle più antiche azioni a tutela dell’appartenenza, si è infatti riscontrata, oltre che nei precedenti storici dell’Anefang germanica, anche nella diadikasìa dei diritti greci[46] e negli istituti processuali egizi, babilonesi, russi, sassoni e danesi[47]. Tale constatazione rende verosimile l’ipotesi che anche nella romana l.a.s.i.r, in quanto contesa incentrata su di un ‘diritto al possesso poziore’ (qualificabile, con Kaser, ‘proprietà relativa’[48]), non si richiedesse a nessuno dei due contendenti di fornire la prova assoluta del titolo. Occorreva, verosimilmente, solo che il giudicante valutasse quale, tra le dimostrazioni fornite, era migliore dell’altra.

Sul piano del diritto materiale, questo tipo di rimedio processuale, così congegnato, trovava riscontro in particolari situazioni giuridiche. Si può ormai ritenere sufficientemente dimostrato[49] che nell’età arcaica non si era ancora tracciata una netta linea di demarcazione tra le forme possessorie, il diritto di proprietà, le potestà familiari, i diritti reali limitati[50]: il potere unitario del pater (mancipium, o ius) si articolava al suo interno in una estrema varietà di schemi giuridici in ragione dei numerosi oggetti (schiavi, figli, donne, terre, animali, strumenti di lavoro, etc.), mentre, in termini di concettualizzazione giuridica, corrispondeva a una generica ‘appartenenza’ di res e personae.

Alla luce di queste linee ricostruttive, si profilano due conclusioni tra loro parzialmente interdipendenti: innanzitutto, con riguardo alla fase arcaica, sono effettivamente individuabili (anche se in linea largamente ipotetica) gli elementi di una corrispondenza tra l’assenza di una chiara tricotomia possesso-proprietà-diritti reali limitati, sul piano del diritto sostanziale, e, sul piano processuale, la configurazione di un rimedio posto a tutela dell’appartenenza implicante un giudizio comparativo, nel corso del quale ambedue i contendenti erano, verosimilmente, chiamati alla prova delle loro affermazioni. In secondo luogo, sulla base delle considerazioni appena svolte, si dovrebbe senz’altro asserire –con Kaser- l’antica esistenza di una ‘proprietà relativa’[51], sussistendo, però, una condizione: la chiara attestazione, nelle fonti romane, dell’inopponibilità della sententia (favorevole alla parte che avesse dimostrato il titolo poziore, nell’ambito di un giudizio comparativo) nei confronti del vero proprietario, rimasto estraneo alla contesa. Ma l’ambiguità dei testi non consente conclusioni pienamente affidabili sul punto[52]. D’altra parte, va sottolineata la debolezza delle argomentazioni da taluno addotte contro l’esistenza di una ‘proprietà relativa’ nell’età romana arcaica: l’ “exclusive character”[53] della solenne dichiarazione del meum esse aio, effettuata dai litiganti nel corso della l.a.s.i.r, quale affermazione di un potere esclusivo sulla cosa, a nostro avviso era solo incompatibile con la configurazione dell’appartenenza come ‘proprietà divisa’ (c.d. geteiltes Eigentum, in cui le facoltà connesse allo sfruttamento di un bene sono distribuite tra più soggetti), ma non certo con la ‘proprietà relativa’, in ordine alla quale titolare del diritto (in via esclusiva) è colui che ha posseduto il bene per un periodo di tempo (relativamente) più lungo (rispetto all’avversario[54]), o in base a un titolo (relativamente) poziore (in confronto a quello vantato dalla controparte)[55].

Ciò non escludeva la possibilità dell’esistenza, accanto a forme di appartenenza relativa, di alcuni diritti assoluti: particolari modi di acquisto, quali l’uso acquisitivo (originato dall’usus auctoritas), l’acquisto per in iure cessio, o l’occupatio costituirono probabilmente il prototipo della ‘proprietà assoluta’[56]. Nella fase più risalente, però, tali situazioni costituivano certamente una eccezione, e non va trascurata la possibilità –altamente verosimile- che in età predecemvirale l’ usus auctoritas non fosse ancora configurato come un uso acquisitivo rigidamente ancorato ai termini annuale e biennale, ma che corrispondesse solo ad un rapporto materiale con il bene, soggetto a progressiva consolidazione con il decorso del tempo[57]. Comunque, in ipotesi di titolarità di un diritto di proprietà in senso assoluto (per uso acquisitivo annuale o biennale, per acquisto tramite in iure cessio, o per occupazione), il soggetto avrebbe ricevuto tutela nei confronti di chiunque altro, pur mantenendosi inalterata la struttura della l.a.s.i.r. come giudizio comparativo[58]: semplicemente, il ‘proprietario assoluto’ sarebbe sempre stato in grado di fornire una dimostrazione più soddisfacente rispetto a quella dell’avversario in giudizio e di qualunque altro terzo.

 

4. – Nel corso dei secoli successivi, l’assetto ora illustrato subì modifiche di considerevole portata. Agli albori del II sec. a.C. cominciò a delinearsi con maggiore precisione, e a generalizzarsi, quella nuova nozione della proprietà, esclusiva, unitaria e assoluta (sconosciuta agli altri diritti coevi, tra cui i diritti greci) che poi è passata alla storia del diritto europeo come ‘modello romanistico della proprietà’. Gli indizi della svolta -attentamente studiati da Kaser, Monier e Capogrossi Colognesi- sono prevalentemente terminologici e consistono nella comparsa dei termini erus, dominus, dominium[59]. Sul piano del diritto materiale, ogni possibile dubbio circa l’effettiva esistenza, nella Roma tardo-repubblicana, di un concetto di proprietà unitaria e assoluta, è fugato da Gai 2.40 (Sequitur ut admoneamus apud peregrinos quidam unum esse dominium: nam aut dominus quisquis est, aut dominus non intellegitur. Quo iure etiam populus Romanus olim utebatur: aut enim ex iure Quiritium unusquisque dominus erat, aut non intellegebatur dominus rell.).

Dell’affermazione di una nozione di proprietà assoluta, ben distinta dalla possessio, abbiamo un chiaro riscontro nel campo della tutela processuale[60]: l’introduzione di un’azione specifica per la protezione della proprietà dei beni (dominium ex iure Quiritium), e cioè l’actio in rem per sponsionem[61] prima, e poi, nell’ambito della procedura formulare, la formula petitoria[62].

Ho già altrove segnalato[63] che i due nuovi procedimenti comportavano l’unicità del thema probandum, cioè il diritto di proprietà vantato dall’attore, la conseguente netta differenziazione delle parti processuali –attore e convenuto- e l’attribuzione dell’onere della prova all’attore[64]: è inequivocabile, con riferimento all’agere per sponsionem, quanto attesta Gai 4.93 (… Qua formula ita demum vincimus, si probaverimus rem nostram esse rell.). Il meccanismo della sponsio caratterizzava l’azione posta a tutela dell’appartenenza non più come iudicium duplex (con onus probandi gravante su entrambi i contendenti), bensì come procedimento unilaterale, nel quale spettava al solo attore fornire la dimostrazione della sua pretesa. Al rivendicante si chiese allora di dimostrare il dominio del suo dante causa, risalendo fino a un acquisto a titolo originario. Benché in nessuna fonte a noi pervenuta ciò sia affermato in modo assolutamente esplicito[65], tutti gli elementi testuali a nostra disposizione depongono in tal senso. Però, quella che i medioevali chiamarono probatio diabolica[66] non fu per l’attore -almeno fino all’età Tardoimperiale- particolarmente complessa[67], sia per la successione nel possesso[68], sia per la già ricordata brevità dei termini richiesti per l’usucapione nella legge delle XII Tavole[69].

E’ comunque innegabile che la nuova disciplina tendeva a rendere difficile, o quanto meno impegnativa, la posizione della parte attrice e a privilegiare, per contro, il convenuto-possessore (il quale, non dovendo provare il proprio titolo, sarebbe stato esclusivamente tenuto a contestare la validità della dimostrazione fornita dall’attore). Ma lo ‘sbilanciamento’ (tale, ovviamente, rispetto all’asserita perfetta bilateralità dell’antica l.a.s.i.r.), contrariamente alle apparenze, non si rivelava favorevole sempre e comunque al presunto usurpatore (quello, cioè, che nella ricostruzione del Kaser, doveva anticamente dimostrare di non essere fur), bensì, per lo più, alla sua vittima. Comparvero ben presto, infatti, alcuni meccanismi processuali atti a compensare la scomoda posizione dell’attore-non possessore, o, più precisamente, idonei ad attribuire la gravosa necessitas probandi alla parte processuale che appariva prima facie meno meritevole di tutela. Secondo quanto attestano Gaio (4.148) e Ulpiano (D. 43.17.1.3), con l’introduzione dell’ interdictum uti possidetis e dell’interdictum utrubi, oltre a risolversi preliminarmente la controversia possessoria tra i litiganti, si stabilivano i ruoli delle parti nella successiva azione di rivendica: colui che, dimostratosi vittima delle turbative, usciva vittorioso dal procedimento interdittale, avendo conseguito il possesso della res litigiosa risultava legittimato passivo alla rivendica, in cui assumeva la comoda posizione di convenuto (c.d. commodum possessionis). Così, l’ ‘attore’-non possessore dell’antica l.a.s.i.r. nei nuovi meccanismi della rivendica formulare si ritrovava ora, dopo l’esercizio del rimedio possessorio, nell’agevole ruolo di convenuto-possessore[70].

Al riguardo, va osservato come una tale evoluzione del rimedio posto a tutela della proprietà –che sostanzialmente riconosceva il commodum possessionis con maggiore frequenza non al presunto ladro, bensì alla presunta vittima dell’usurpazione- si ponga perfettamente in linea con quanto ipotizzato dal Kaser, circa l’antica attribuzione dell’onere probatorio al possessore-presunto fur. Corrobora questa ricostruzione un ulteriore dato: nella rivendica formulare, la distinzione dei ruoli delle parti si determinava sulla base dell’assegnazione del possesso interinale (vindiciae), da parte del magistrato, ad uno dei due contendenti (Gai 4.16: … postea praetor secundum alterum eorum vindicias dicebat, id est interim aliquem possessorem constituebat rell.), indipendentemente dalla situazione possessoria antecedente la lite (Gai 4.16: … mittite ambo hominem [rem] rell.)[71]. L’esposizione gaiana sembra non lasciare dubbi sul fatto che la res litigiosa potesse essere affidata dal praetor ad uno qualunque dei contendenti (probabilmente a colui che avesse offerto migliori garanzie, ma non si può escludere che ai fini dell’assegnazione il magistrato tenesse invece conto della migliore apparenza di diritto); comunque, nell’ipotesi in cui le vindiciae fossero state assegnate all’attore, costui, assumendo il ruolo di convenuto, si sarebbe avvalso del commodum possessionis, sgravandosi dell’onere probatorio.

In definitiva, per quanto concerne la fase storica corrispondente agli ultimi due secoli della Repubblica romana, si può riscontrare un nesso tra l’affermazione di una nozione unitaria e assoluta della proprietà, sul piano del diritto sostanziale, e la comparsa di meccanismi processuali finalizzati a una tutela specifica della proprietà assoluta dei beni; tale protezione risulta incentrata sulla netta differenziazione delle posizioni processuali di attore e convenuto e sulla attribuzione dell’onere probatorio al solo rivendicante-non possessore.

Questo assetto, che tanto successo ha poi riscosso nell’evoluzione del diritto europeo moderno, per quanto ci risulta, a Roma, però, non ebbe in realtà una durata così lunga come si potrebbe immaginare. Con l’affermazione di due forme di appartenenza, parallele al dominium ex iure Quiritium (in bonis esse e sfruttamento delle terre provinciali), già all’inizio del Principato poteva dirsi nuovamente delineata una pluralità di sistemi proprietari.

5. – Della vicenda legata alla comparsa della c.d. proprietà pretoria, si può dire che il momento rimediale ha chiaramente preceduto i mutamenti poi verificatisi sul piano del diritto sostanziale: infatti, fu l’introduzione dell’actio Publiciana, modellata sullo schema della rei vindicatio, a fare assurgere al rango di situazione proprietaria (piuttosto che di semplice situazione possessoria ad usucapionem) in un primo momento la condizione dell’acquirente di res mancipi, cui la cosa fosse stata trasferita senza le formalità della mancipatio, e poi il possesso di chi avesse acquistato in buona fede, anche se a non domino[72]. Oggetto della prova in Publiciana non era ovviamente il titolo assoluto, ma la traditio e il giusto titolo del possesso (acquisto di res mancipi senza mancipatio o, in seguito, acquisto in buona fede a non domino). Sicché –è stato ipotizzato- poteva accadere che persino il proprietario civilistico preferisse agire con l’azione Publiciana, proprio per esimersi dall’onere di dovere produrre la prova rigorosa del suo diritto[73].

Dunque, come attesta Gaio[74], il dominium, che per un breve periodo di tempo era stato unitario, si era nuovamente scisso (divisionem accepit dominium) ed era così divenuto duplex, potendosi articolare in dominium ex iure Quiritium e in bonis esse. Ma se, da un lato, il dominio era divenuto ‘doppio’ (nel senso che la duplicità delle forme di appartenenza non si era sviluppata internamente al medesimo sistema giuridico, ma costituiva la proiezione di due sistemi giuridici diversi, lo ius civile e lo ius honorarium[75]), per altro verso è anche vero che la tutela processuale publiciana aveva indirettamente introdotto un sistema di proprietà funzionalmente divisa (cd. geteiltes Eigentum). Infatti, la divisio del dominium implicava, almeno in alcune sue applicazioni, la distribuzione delle singole facoltà del dominio tra due soggetti. La fattispecie di ‘proprietà funzionalmente divisa’ risulta particolarmente evidente nell’ipotesi (segnalata in Gai 1.54) in cui oggetto di duplex dominium fosse un servo: la potestas sullo schiavo era riconosciuta all’in bonis habens, mentre l’astratta titolarità del diritto (nudum ius Quiritium) faceva capo al proprietario civilistico (Gai 1.54: …qui nudum ius Quiritium in servo habet, is potestatem habere non intellegitur)[76]. Il compimento del tempus ad usucapionem avrebbe comportato l’acquisizione, in capo all’in bonis habens, del plenum ius, cioè della piena proprietà, risultante dall’assommarsi dell’in bonis esse con il dominium ex iure Quirirtium (Gai. 2.41).

Inoltre, osservando questa vicenda da una diversa angolazione, si può affermare che l’ingresso nell’ordinamento giuridico romano dell’in bonis esse quale rapporto parallelo e concorrente con il dominium ex iure Quiritium aveva anche connotato la proprietà in genere come una situazione potenzialmente solo ‘relativa’[77]. Infatti, per il caso in cui fosse stata trasferita una res mancipi con semplice traditio, il dominus ex iure Quiritium non sarebbe stato processualmente tutelato nei confronti di tutti i terzi, in quanto la sua condizione di proprietario civilistico sarebbe risultata opponibile a chiunque, tranne che all’in bonis habens. Viceversa, nell’ipotesi (ammessa probabilmente in un momento successivo) di acquisto in buona fede a non domino, l’in bonis habens sarebbe stato tutelato nei confronti di tutti, ma non nei confronti del dominus ex iure Quiritium (il quale avrebbe efficacemente opposto la replicatio iusti dominii, in quanto rimasto estraneo all’atto traslativo): in questa fattispecie, il dominium ex iure Quiritium si prospettava come ‘proprietà assoluta’, l’in bonis esse, invece, come ‘proprietà relativa’.

Sotto tale profilo, perciò, se è vero che la Publiciana, contrapponendosi alla formula petitoria (strumento di tutela della ‘proprietà assoluta’), assumeva il ruolo e la struttura che avevano caratterizzato la l.a.s.i.r.[78], è pure vero che l’indiretto riconoscimento dell’in bonis esse come rapporto proprietario aveva reso anche la formula petitoria un mezzo di tutela solo ‘relativo’ della proprietà, in quanto inidoneo a far prevalere il proprietario civilistico, in ipotesi di lite tra quest’ultimo e un in bonis habens (divenuto tale a seguito di acquisto informale a domino).

La conclusione che si può trarre da queste sintetiche considerazioni è che con riguardo all’età del Principato, in linea di massima, sembra riproporsi il rapporto simmetrico (già osservato per l’età arcaica, seppure con caratterizzazioni ben diverse) tra pluralità di forme proprietarie e relatività della tutela processuale, incentrata sulla prova non necessariamente rigorosa del titolo.

 

6. – Veniamo ora all’età del Basso Impero. Attraverso una lunga e articolata serie di studi sviluppatisi nel Novecento[79], è stato dimostrato come nel corso del IV e V sec. d.C. le categorie giuridiche classiche in materia di appartenenza si siano andate progressivamente snaturando, per il venir meno della netta distinzione, concettualizzata dai classici, tra possessio, dominium e altri diritti reali. Mi sembra che tra le cause di questi mutamenti vada annoverato, accanto alla estensione del tributo al suolo italico e all’affermarsi della concezione del Dominato, anche l’influsso esercitato dalle concezioni proprie del mondo provinciale -orientale e occidentale- in ordine alla configurazione giuridica delle situazioni di appartenenza dei beni[80].

Tanto l’area ellenistica, quanto l’area franco-germanica non avevano mai praticato una netta distinzione tra possesso e proprietà. Si è già accennato che numerosi diritti dell’antichità conoscevano soltanto una generica nozione di godimento dei beni (che nella Gewere era peraltro frazionabile tra più soggetti, in relazione alle utilità offerte dal bene: geteiltes Eigentum) e che tale stato di godimento, suscettibile di rafforzamento con il decorso del tempo, veniva tutelato dall’ordinamento attraverso un giudizio di tipo comparativo. Mentre per quanto riguarda le esperienze maturate nell’ambito dei diritti greci regnano ancora molte incertezze[81], recenti ricerche testuali condotte sul diritto sostanziale e processuale dell’area germanica[82] sono approdate ad una ricostruzione senz’altro attendibile e alquanto particolareggiata delle antiche concezioni dell’appartenenza.

L’ambigua figura giuridica della Gewere era certamente consistente nell’uso e nel godimento del bene, tutelato dall’ordinamento: dunque, come si è già altrove ricordato, si trattava di un rapporto di fatto elevato a titolo[83]. Con il termine Gewere, però, si designavano situazioni possessorie di vario tipo e intensità, il che comportava, coerentemente con l’antica tradizione germanica dell’appartenenza collettiva, che su di uno stesso bene potessero insistere più Gewere: dunque, lo stesso terreno poteva essere contemporaneamente nella Gewere di più persone, purché in base a titolo diverso e con contenuti diversi. Pertanto, se il bene era fonte di più utilità, ci potevano essere tante Gewere, cioè tanti stati di godimento, per quante erano le utilità offerte dalla cosa[84].

Sul piano processuale, quando la controversia sulla Gewere verteva non sulla titolarità della medesima facoltà di godimento del bene, ma sulla durata del rapporto materiale con la cosa (dal momento che l’ordinamento germanico non prevedeva termini ai fini dell’uso acquisitivo, come era invece per il diritto romano), il giudicante doveva addivenire a valutazioni di tipo comparativo, apprestando una tutela solo ‘relativa’[85].

Benché per l’età più risalente ci si possa basare quasi esclusivamente sulle esigue testimonianze contenute a tal riguardo nelle fonti letterarie romane[86], data la ben nota avversione dei barbari per la scrittura, da documenti risalenti ai secoli VII-XI d.C. risulta che nei giudizi susseguenti alla violazione della Gewere ambedue le parti processuali -cioè colui che lamentava lo spoglio e l’attuale possessore- dovevano fornire le prove del titolo che le abilitava al godimento del bene[87]. La Gewere sottostava alle regole comuni a tutte le controversie del mondo barbarico, e cioè alle regole su cui era costruito il processo ordalico. Perciò, nel caso che il confronto tra le prove del titolo non offrisse elementi sufficienti, la prova principe era costituita dal mezzo ordalico, disposto dal magistrato. In origine, la prova ordalica era intesa nel senso –assolutamente materiale- del duello fisico, sottoposto al giudizio divino; poi, in tempi più maturi (VI-VII sec. d.C.), al soggetto che esercitava la Gewere fu consentito di purgarsi con il semplice giuramento, nel caso in cui l’attore non avesse prodotto alcuna prova concreta in suo favore e contraria al godimento della cosa da parte del convenuto[88].

Anche quando il duello non avvenne più nella forma dello scontro fisico, la prova ordalica mantenne alcune delle sue antiche caratteristiche. Sicché, dal momento che la dimostrazione costituiva, al tempo stesso, lo strumento di difesa e la decisione della lite, non veniva espletato nessun processo di cognizione: il regolamento si effettuava non attraverso la conoscenza dei fatti, bensì sulla sola base di un confronto disciplinato normativamente, che avrebbe consentito alle parti in lite di affermare la propria superiorità fisica o morale non in assoluto, ma solo relativamente, cioè solo nei confronti dell’avversario[89].

 

7. – Gli influssi esercitati dal diritto romano su parte del mondo barbarico risultano particolarmente evidenti nell’Editto di Rotari. Vi si attesta (come ho già altrove ricordato) che nel diritto longobardo, in particolare, l’attore chiamava in giudizio il detentore del bene, negando il suo buon diritto, in base al presupposto che il convenuto possedesse malo ordine (ed. Rotari 228[90]). Sia dalla disciplina normativa (Ed. Rotari 360), sia dai numerosi documenti della prassi, risulta che, nelle controversie sulla Gewere, l’onere della prova spettava innanzitutto al possessore citato in giudizio, forse perché si presumeva fino a prova contraria che costui fosse un usurpatore (invasor)[91].

La particolare struttura dell’azione processuale in materia di appartenenza dipendeva strettamente dalla originaria confusione del processo franco e longobardo con l’azione penale: e, infatti, l’azione posta a difesa della Gewere, l’Anefangsklage, consisteva in una sorta di ‘rivendica del possesso’, fondata sul fatto delittuoso dello spoglio. Per conseguenza, nei processi franco-longobardi il convenuto era immediatamente tenuto alla dichiarazione del titolo e della liceità del suo possesso e veniva poi chiamato per primo a fornire la prova delle precedenti affermazioni[92]. Una volta chiarita la liceità del possesso del convenuto, si chiamava alla prova l’attore, affinché un successivo giudizio comparativo tra i titoli vantati chiudesse la lite, sebbene l’esito del giudizio non fosse poi opponibile ai terzi, in quanto basato su un confronto e non su valutazioni assolute.

Come si è già segnalato, mancano elementi per asserire la diffusione in area romana delle concezioni ellenistiche e franco-germaniche in materia di appartenenza. E’ però innegabile che in età tardo-imperiale ricomparvero forme di ‘proprietà divisa’ e di ‘proprietà relativa’: ne fu conseguenza, in ambito processuale, l’abbandono di quegli aspetti della tutela giudiziaria dell’appartenenza che risultavano inscindibilmente legati alla nozione assoluta di dominium e alla sua netta diversificazione rispetto agli altri iura in re e al possesso. Di fatto, questi cambiamenti realizzarono un’assimilazione alle strutture processuali in uso presso i Greci e i Germani.

Mi limito qui a ricordare come anche nella prassi romana dell’età del tardo Principato, in occasione di giudizi petitori e possessori, cominciasse a profilarsi la tendenza a non imporre alla sola parte attrice l’onere della prova[93]. Alcune costituzioni imperiali sembrano attestare che questa tendenza si consolidò nel corso del IV e V secolo[94]. Tuttavia, sarebbe incauto sostenere che il giudizio comparativo veniva ammesso dalle cancellerie solo, e invariabilmente, in conseguenza della disgregazione dei rapporti proprietari. Non si può escludere, in particolare, che il tipo di ‘proprietà relativa’ di cui il petitor chiedeva l’accertamento nel corso del giudizio (che si sarebbe potuto evolvere con modalità comparative) si riferisse, almeno in qualche caso, a un titolo ‘assoluto’: si pensi all’ipotesi di una lite vertente tra i beneficiari di disposizioni di ultima volontà, redatte in date diverse, nel corso della quale, però, non si mettesse minimamente in discussione il diritto (di proprietà ‘assoluta’) del comune dante causa.

A prescindere da questa eventualità, comunque, il quadro offerto dalle fonti sembra consentire la conclusione che fosse stato soprattutto il progressivo sfaldamento della linea di confine tra possessio, dominium e iura in re, in atto tra IV e V sec., ad avere reintrodotto forme di tutela relativa della proprietà, sfocianti nei giudizi comparativi. E’ difficile dire se tale soluzione fosse di matrice genuinamente romana, o derivata da modelli provenienti dal mondo provinciale: in particolare, un provvedimento di Arcadio, da me già altrove esaminato (CTh. 11.39.12[95]), relativo alla prassi, probabilmente invalsa nei tribunali orientali, di costringere il convenuto-possessore all’immediata enunciazione del proprio titolo, sembra rispecchiare (casualmente?) la struttura processuale in uso presso i popoli franco-germanici.

Proprietà relativa e giudizi comparativi scomparvero, poi, con l’avvento di Giustiniano e con il conseguente ritorno al binomio classico proprietà/possesso e agli strumenti di tutela processuale ad esso relativi[96]. Nel ripristino del sistema proprietario classico non mancò, tuttavia, una macroscopica smagliatura: benché l’abolizione di ogni differenza tra dominium ex iure Quiritium e in bonis esse avesse dovuto comportare la soppressione dell’azione Publiciana e la sopravvivenza della sola rivendica, i bizantini scelsero di conservare entrambe le azioni (D. 6.1; D. 6.2), circoscrivendo però il ricorso alla Publiciana all’ipotesi di acquisto in buona fede a non domino (D. 6.2.1 pr.). Schema, questo, che si è poi mantenuto pressoché inalterato fino all’età moderna[97].

Ma la riorganizzazione giustinianea dei rapporti proprietari secondo il modello romano-classico si dimostrò effimera. Nell’Alto Medioevo, l’organizzazione terriera feudale debellò quasi ovunque la forma proprietaria del dominio assoluto, di matrice romana, e Glossatori e Commentatori, tra il XII e il XV secolo teorizzarono le nuove realtà attraverso l’elaborazione della figura dottrinale del ‘dominio diviso’. Sul piano del diritto processuale, la prassi forense non mancò di adeguarsi, modellando la rivendica sulle nuove e molteplici forme di appartenenza dei beni. I Dottori medioevali suggerirono pertanto l’esercizio dell’azione diretta solo a chi si reputasse in grado di dimostrare in modo pienamente convincente la piena proprietà, e agli altri, invece, l’uso di due distinte formule giudiziarie: una per la rivendica, riservata al dominus, l’altra relativa alla Publiciana, e perciò utilizzabile da quanti non si sentissero sicuri nella dimostrazione del dominium pieno e assoluto[98].

 

8. – Nel frattempo, i Paesi più marcatamente permeati dalle esperienze franco-germaniche della saisine e della Gewere continuavano a ignorare in modo radicale la netta distinzione tra possesso, diritti reali limitati e proprietà, e, con essa, anche la protezione processuale dell’appartenenza nella forma della rivendica romano-classica, caratterizzata dalla imposizione dell’onere probatorio alla sola parte attrice.

Così, il giudizio comparativo ha continuato a trovare applicazione in Inghilterra, nella giurisdizione in Equity e nel common law tradizionale, dove è tuttora applicato con la designazione di criterio del better title[99]. Va considerato che il diritto inglese è rimasto sensibile, fino a tempi recenti, alle concezioni feudali del regime immobiliare ed ha quindi praticato la scissione dei rapporti proprietari in domini diretti e domini utili; in un simile contesto, non poteva trovare alcuna giustificazione la netta distinzione tra possesso (stato di fatto), diritti reali limitati e proprietà, che invece contraddistingue gli ordinamenti a base romanistica. Ne consegue che, per antica tradizione, al rivendicante non si è chiesta la prova del titolo assoluto, ma solo la dimostrazione di un maggior ‘diritto al possesso’ rispetto all’avversario. In sostanza, i titoli sono stati sempre concepiti come ‘relativi’, non come ‘assoluti’; pertanto essi non risultano opponibili ai terzi. Siffatta impostazione è stata poi solo parzialmente modificata sul finire del XIX secolo, quando la registrazione dei titoli immobiliari, come meglio si esporrà più avanti, ha configurato una sorta di ‘proprietà assoluta’[100].

Corollario di questa particolare configurazione sostanziale e processuale dell’appartenenza dei beni è l’assenza, nel common law, di una distinzione dicotomica tra azioni possessorie e petitorie. Perciò, tuttora si insegna che ciò che l’attore invoca in un’azione per il recupero del possesso è la titolarità di un right to immediate possession della cosa, diritto che è quasi invariabilmente relativo[101]. In altri termini, alla parte processuale non viene mai richiesta la dimostrazione di una proprietà valida nei confronti di tutti; occorre solo provare un diritto di data più antica di quello della controparte[102].

Eppure, negli orientamenti anglosassoni non mancano punti di contatto con il sistema adottato dai Paesi romanisti. Secondo un detto che si fa risalire al Chief Justice Lee[103], nell’azione di ejectment (in cui la parte attrice è priva dell’ actual possession del bene e fa valere il proprio right to immediate possession[104]) “l’attore deve vincere per la forza del proprio titolo, non per la debolezza di quello del convenuto”. Un primo elemento di analogia tra l’ejectment e la ‘rivendica romanistica’ può senz’altro essere individuato nel fatto che l’azione inglese mira a recuperare il bene dall’attuale possessore, senza che sia richiesta la prova della ‘colpa’ commessa dal convenuto[105]. E’ invece tutt’altro che pacifica l’individuazione del title di cui l’attore, per uscire vittorioso dalla controversia, deve fornire la dimostrazione[106]. La corrente più tradizionale, supportata dalla giurisprudenza prevalente, insiste nel richiedere all’attore la dimostrazione del better title, rispetto a quello dell’avversario[107]. Tuttavia, secondo la dottrina innovativa di William Holdsworth[108] (il quale si è basato, oltre che sulla casistica, sul modello continentale romanistico della rivendica), dal momento che l’attore non può uscire vittorioso dalla lite in forza di un titolo prevalente (better title, secondo la dottrina tradizionale), ma solo dimostrando un absolute right, good as against all the world, anche nel diritto inglese esisterebbe un embrione di quella proprietà assoluta e astratta, che caratterizza l’antica esperienza giuridica romana e i sistemi contemporanei di civil law[109].

L’impostazione di Holdsworth risulta apparentemente contraddittoria con le tradizionali concezioni del common law; ma essa, in realtà, va collegata, oltre che con l’innegabile suggestione esercitata dal modello romanistico della rivendica, anche con recenti problematiche giuridiche proprie del mondo anglosassone; mi riferisco in particolare alle regole concernenti quella specie di Real property che prende il nome di Registered Land e che riguarda gli immobili per i quali sia stata effettuata l’iscrizione nell’apposito Register. La nuova disciplina ha preso l’avvio a partire dal 1862[110], con l’emanazione di alcuni provvedimenti legislativi[111] che hanno riordinato la proprietà fondiaria attraverso un sistema di registrazione facoltativa o obbligatoria (compulsory registration). Benché la registrazione non abbia efficacia né costitutiva, né dichiarativa[112], l’importanza e l’incidenza di questa ‘nuova proprietà’ si è andata accrescendo rapidamente. Inizialmente, i manuali inglesi hanno trattato questo fenomeno alla stregua di una eccezione rispetto alla disciplina generale. D’altronde, la registrazione con absolute title rende il proprietario sicuro solo se il Register non subisce rettifiche contro di lui. E, considerata anche l’ampia discrezionalità del potere di rettifica riconosciuta al Registrar, si è osservato che il sistema inglese di registrazione nel libro fondiario per certo “non giunge a garantire la sicurezza della circolazione degli immobili così validamente come i sistemi tedeschi ed il sistema Torrens[113]. Comunque, il regime del Registered Land “costituisce, all’interno del sistema inglese, quanto di più vicino sia possibile al conferimento di un titolo assoluto”[114].

Tornando ora alle summenzionate divergenze tra sostenitori e avversari dell’esistenza, nel diritto inglese, di forme di ‘tutela assoluta’ dell’appartenenza, va ricordato come sia invece pacificamente ammesso da ambedue gli indirizzi che nell’azione di ejectment valga la formula “possession is prima facie evidence of legal title”[115]; essa comporta che, ove l’attore dimostri di avere posseduto in precedenza, si presume che egli sia legittimato a possedere. Pertanto, spetta al convenuto rovesciare la presunzione, provando per sé e per il suo predecessore un valido titolo di acquisto, oppure (e qui si verifica una nuova divergenza tra gli autori inglesi) un possesso che generi una presunzione più forte, cioè un possesso di più lunga durata rispetto all’attore[116].

Secondo la giurisprudenza prevalente e la dottrina tradizionale, qualsiasi possesso preterito dell’attore (purché protrattosi tra i dodici mesi circa e i 15–16 anni al massimo) prevale sul possesso del convenuto. Ora, è chiaro che se oggetto della prova fosse un possesso protrattosi per un periodo di tempo non rigidamente predeterminato, saremmo ancora nell’ambito di un giudizio comparativo, vertente sulla tutela di una ‘proprietà relativa’. Ma William Holdsworth, sull’autorità di alcune sentenze[117], ha sostenuto che la prova del possesso continuato per un certo periodo di tempo non deve avere ad oggetto semplicemente un ‘diritto al possesso’ anteriore o migliore rispetto al convenuto, bensì un diritto da chiunque inattaccabile[118]: in altri termini, un diritto radicato su qualcosa di simile alla nostra usucapione, di origine romana. Di fronte all’oscillazione della giurisprudenza, la dottrina più recente[119] si è attestata sulle posizioni tradizionali: la prova cui è chiamato l’attore in ejectment in ordine al suo right to possession non si ritiene debba vertere su di un diritto assoluto. Benché attualmente si ammetta che il convenuto possa prevalere anche quando il ‘diritto al possesso’ dell’attore sia poziore rispetto al suo, se dimostra che un terzo ha un titolo indipendente da quello delle parti in causa e migliore di entrambi, si ribadisce però che il titolo prevalente, chiunque ne sia il titolare, resta un titolo ‘migliore’ solo relativamente, e non, comunque, in senso assoluto[120].

9. – Tra il XIX e il XX secolo, nell’area europea si è diffusa l’idea di una proprietà unitaria e assoluta, ricalcata sullo schema del dominium romano. La circolazione di questo modello è avvenuta in un primo momento attraverso il filtro della scienza giuridica del XVIII e XIX secolo, poi si è riversata in quasi tutte le codificazioni moderne, che di quella scienza sono state espressione[121]. Da un rapido esame delle scelte effettuate da alcuni Paesi legati alla tradizione romanistica (su cui rinvio al mio precedente contributo[122]), risulta che solo il codice civile generale austriaco (ABGB) ha accolto il modello germanico del ‘dominio diviso’, mentre nelle altre codificazioni, sulla scia dell’art. 544 del codice Napoleone, trionfa la figura unitaria e assoluta della proprietà, di stampo romano-classico[123].

Occorre ora verificare come la struttura dalla rivendica e il diritto probatorio si rapportino alle concezioni contemporanee dell’appartenenza.

In Europa, il problema della struttura della rivendica, con particolare riguardo alla legittimazione attiva e alla ripartizione dell’onere della prova, costituisce un aspetto alquanto problematico della materia proprietaria. In teoria, le caratteristiche dei rimedi processuali posti a tutela della proprietà dovrebbero corrispondere in maniera simmetrica alla natura del diritto di proprietà, così come esso viene delineato nei vari codici continentali: agli enunciati sul piano del diritto sostanziale dovrebbe fare riscontro regole probatorie ad essi aderenti. Perciò, la disciplina dell’azione di rivendica dovrebbe “completare la dottrina delle facoltà del proprietario”[124], nei termini in cui essa è stata delineata dal legislatore.

Così, è logico che in Austria, simmetricamente all’accoglimento della concezione del dominio diviso in diretto e utile (cd. modello germanistico della proprietà), si ammetta il ricorso ad un giudizio comparativo (con conseguente ripartizione dell’onere della prova tra le due parti processuali) e si riconoscano, a tutela dell’appartenenza, più strumenti reipersecutori (la rivendica e una specie di Publiciana). E infatti, coerentemente con l’orientamento espresso sul piano del diritto sostanziale, nel sistema austriaco della proprietà la facoltà di rivendicare viene riconosciuta tanto al direttario, tanto all’utilista[125]. Al § 372, l’ABGB disciplina l’ipotesi che l’attore non riesca a produrre una prova piena del suo diritto di proprietà: “Se l’attore non riesce nella prova dell’acquistata proprietà della cosa detenuta da un altro, ma prova il titolo valido e il modo non vizioso del possesso acquistato, egli dovrà essere considerato come il vero proprietario rispetto a qualunque possessore il quale non produca alcun titolo del suo possesso, o ne produca solo uno più debole”. Questa eventualità è stata interpretata dalla dottrina come una ammissione dell’actio Publiciana nel sistema delineato dal Codice[126].

Viceversa, in Francia, in Germania e in Italia – cioè, in Paesi che hanno optato per il ‘modello romanistico’ della proprietà, intesa in senso unitario e assoluto- l’azione di rivendica dovrebbe essere unica, riconosciuta al solo proprietario spossessato, ben distinta dai rimedi possessori, e, infine, l’oggetto della prova richiesta all’attore dovrebbe essere costituito dal titolo assoluto (c.d. probatio diabolica).

Di fatto, questa lineare corrispondenza è ravvisabile solo in Germania. Nel BGB le norme sulla rivendicazione e sulle azioni possessorie si applicano indifferentemente ai beni mobili e immobili[127] (mentre in Francia sussiste una profonda divaricazione tra la proprietà mobiliare e immobiliare). L’azione di rivendica (§ 985) è ricalcata sulla ‘rivendica romana’[128], così come la definizione del diritto di proprietà, sul piano del diritto sostanziale, richiama un concetto assoluto e unitario di dominio, di stampo romanistico (§ 903)[129]. L’attore deve provare la proprietà, dimostrando un proprio valido titolo d’acquisto, e quindi anche l’acquisto del predecessore e così via di seguito. La difficoltà della prova è evidente, ma essa risulta opportunamente alleviata da due presunzioni legali. Per la proprietà immobiliare, al § 891 si stabilisce che un soggetto iscritto come proprietario di un immobile nel libro fondiario (Grundbuch) è presunto tale e spetta al convenuto rovesciare tale presunzione, fornendo la prova contraria; ne consegue che l’attore in rivendica può limitarsi, di regola, a dimostrare la registrazione nel Grundbuch[130]. Per la proprietà mobiliare, al § 1006 si stabilisce la stessa ‘presunzione di proprietà’ proclamata in Francia, in forza della quale il possessore attuale è presunto proprietario[131].

Le ragioni della semplicità e della coerenza del sistema tedesco della proprietà immobiliare sono nella presenza dei Grundbücher, che fanno piena prova della proprietà. Inoltre, il proprietario con titolo iscritto è, per il giurista tedesco, l’unico legittimato all’azione di rivendicazione (sistema della pubblicità costitutiva). L’iscrizione obbligatoria, dunque, semplifica e limita al massimo i problemi operativi, consentendo una produzione alquanto agevole della prova assoluta della proprietà[132]. In definitiva, in Germania “la regola romanista può dirsi vincente”[133].

 

10. – La Francia è il Paese in cui vige il sistema più confuso, complesso e contraddittorio. La ragione principale del caos normativo, dottrinale e operativo dipende prevalentemente da un incongruo intreccio tra due tradizioni storiche eterogenee e tra di loro difficilmente conciliabili: la tradizione romana classica e quella franco-germanica[134]. Ma, soprattutto, i problemi sono sorti per il fatto che dottrina e giurisprudenza hanno costruito le regole delle azioni reipersecutorie senza essere del tutto consapevoli di attingere a due diverse tradizioni giuridiche.

Sul piano del diritto sostanziale, il Codice civile francese, all’art. 544, declama una nozione di proprietà unitaria e assoluta, dunque di stampo romano-classico. Per quanto concerne la tutela del diritto di proprietà, a fronte di una disciplina piuttosto dettagliata della rivendicazione dei beni mobili (art. 2279)[135], nulla si dispone in ordine all’azione di rivendica dei beni immobili e al relativo onere probatorio[136]; e, constatato come neppure il Codice di procedura civile francese si sia occupato della rivendicazione, è spettato agli interpreti riprodurre la regola romana, che riconosce la legittimazione attiva al proprietario spossessato[137]. Nel silenzio del legislatore (che solo in materia di obbligazioni attribuisce espressamente l’onere della prova all’attore, all’art. 1315), dottrina e giurisprudenza, sulla base delle fonti giustinianee e del diritto comune, hanno anche concordato nel fissare un’altra regola basilare romanistica: l’attore deve provare il suo titolo[138].

Posta questa premessa piuttosto teorica (e simmetrica, rispetto alla nozione assoluta di proprietà introdotta, sul piano del diritto sostanziale, dall’art. 544), gli ulteriori passaggi si sono snodati lungo una direzione concettualmente e storicamente opposta. Data l’assenza, in Francia, di un sistema di registrazione sicuro, la prova rigorosa della proprietà risulta impraticabile (per la sua estrema difficoltà)[139]. Per altro verso, benché il legislatore francese agli artt. 2262 e 2265 abbia espressamente disciplinato l’usucapione, che dovrebbe essere oggetto della dimostrazione dell’attore (con la conseguenza che in caso di fallita prova l’attore perderebbe la lite e il convenuto resterebbe nel possesso del bene), tale congegno di stampo romano-classico non è stato accolto dai giuristi francesi: essi hanno preferito presentare l’onere probatorio gravante sull’attore alla stregua di presunzione valevole fino a prova contraria, posta a favore del convenuto. Va precisato che tale regola, secondo cui il convenuto-possessore gode di una presunzione di proprietà, è del tutto priva di base normativa e trova il suo fondamento solo nella tradizione giuridica francese[140]. Ciononostante, è orientamento generale che tale presunzione semplice, suscettibile di prova contraria, possa essere rovesciata dall’attore attraverso mezzi di prova ordinari (scritti o fatti), che dimostrino la scarsa verosimiglianza della presunzione o la sua difformità rispetto alla realtà giuridica[141]. E’ evidente che tale dimostrazione non può essere che relativa e criticabile[142], così come relativa e criticabile è la presunzione di proprietà, legata al possesso del convenuto.

In definitiva, vince chi prova di avere il titolo migliore, cioè un possesso meglio qualificato di quello dell’avversario[143]. Quanto ai criteri adottati al riguardo, nel silenzio del legislatore, la Scuola dell’Esegesi ha fatto rivivere una regola germanica, radicata nella tradizione giuridica francese: nella rivendica immobiliare, prevale il possessore relativamente più antico[144]. Si è così stabilita anche una forte affinità con il giudizio comparativo dei titoli, che caratterizza il diritto inglese moderno[145].

La mancanza di un sistema di prove assolute (per l’imperfetto meccanismo di registrazione immobiliare) ha fatto sì che tutta l’attenzione degli interpreti francesi in materia di rivendicazione si subordinasse al discorso sulla prova; e tutto il discorso sulla prova si è necessariamente orientato verso la ricerca del ‘diritto migliore’. Per opportunità pratiche, ci si accontenta di chiedere all’attore elementi che lo rendano semplicemente preferibile al suo avversario. La lite, di conseguenza, viene vinta da colui che prova di avere un miglior diritto (droit meilleur) al possesso; è quindi possibile che prevalga un soggetto che potrebbe, in seguito, soccombere di fronte ad altri[146].

Attraverso siffatti argomenti e attraverso il gioco degli oneri probatori gravanti sulle parti, l’antica soluzione franco-germanica, poi fatta propria dal common law, si è introdotta nel sistema di civil law francese. Questo risultato finale è stato razionalizzato a posteriori dalla dottrina francese, richiamando il principio per cui il processo civile non è concepito per scoprire e proclamare una verità assoluta, ma solo per indicare la verità migliore tra quelle offerte dalle parti[147]. Non sono mancati neppure tentativi di dare a questo schema processuale un inquadramento dogmatico autonomo. Sulle orme delle ricerche romanistiche di R. von Jhering, nel 1896 Em. Lévy, immediatamente seguito nelle sue conclusione fondamentali da R. Saleilles, nel 1907, ha pensato di trasfondere questa particolare struttura della rivendica francese nell’ambito del diritto sostanziale, mediante il ricorso alla discussa figura della ‘proprietà relativa’[148]: si può essere proprietari nei confronti di certe persone e non esserlo nei riguardi di certe altre. Proprietà relativa e tutela relativa della proprietà ci si mostrano, così, come le due facce di una stessa medaglia[149].

E’ evidente come questa pur esatta conclusione in ordine alla tutela dell’appartenenza in Francia risulti del tutto antitetica rispetto alla definizione della proprietà –come proprietà assoluta- posta dal legislatore all’art. 544. In realtà, nel corso del XIX secolo la dottrina francese non ha colto la necessità di osservare lo stretto legame sussistente tra la concezione della proprietà e la struttura della rivendica. Sicché, nonostante il dogma della assolutezza della proprietà, introdotto nel 1804 con l’art. 544, è stato poi ammesso il ricorso al giudizio comparativo, sotto la suggestione ancora esercitata dalle consuetudini locali, legate alle strutture agrarie feudali di matrice franco-germanica.

Un influsso significativo su tali orientamenti dottrinali e giurisprudenziali francesi è stato senza dubbio esercitato dalla soluzione adottata con il Codice civile austriaco del 1811, che al § 372 –come già segnalato- prevede il ricorso al giudizio comparativo per l’eventualità che l’attore offra solo una dimostrazione semipiena del suo diritto. Questa disposizione, suggerita al legislatore austriaco dalle tradizioni franco-germaniche legate alla Gewere e dalla tutela dei diritti (‘relativi’) di appartenenza mediante il duello ordalico, è stata invece letta dagli interpreti in chiave romanistica, e considerata come un esplicito riconoscimento dell’actio Publiciana[150].

Senza rilevare che lo schema processuale sancito dal legislatore austriaco era strettamente legato alla nozione di ‘proprietà divisa’, accolta sul piano sostanziale nell’ABGB, anche la dottrina prevalente francese, sulla scia dei Dottori medioevali e della dottrina francese precodicistica[151], si è adoperata per dimostrare l’ammissibilità dell’actio Publiciana nel proprio ordinamento, ammantando di ‘romanità’ una soluzione che aveva invece prevalenti matrici franco-germaniche: così, al fine di giustificare l’alleggerimento dell’onere probatorio, tipico del giudizio comparativo, numerosi giuristi francesi, tra i quali spiccano i nomi di Duranton[152], Troplong[153], Demolombe[154], Aubry e Rau[155], hanno asserito la sopravvivenza dell’antica azione Publiciana, ammettendone il ricorso. Ma nel sistema francese -come già per l’età medioevale- il richiamo alla Publiciana è stato “una pura copertura”[156], utile per giustificare che all’attore venisse richiesta esclusivamente la prova di un ‘diritto migliore o più probabile’. In sostanza, la dottrina si richiamava solo all’idea-base della Publiciana, senza richiederne affatto i requisiti romano-classici (cosa suscettibile di essere usucapita, iusta causa traditionis, buona fede) o giustinianei (acquisto in buona fede a non domino); i giuristi francesi, insomma, invocavano la Publiciana al precipuo scopo “di attenuare il rigore della prova imposta all’attore in rivendicazione”[157], citando l’autorità del Corpus iuris civilis.

La ‘finzione’ sottesa a questa dottrina è stata presto evidenziata da alcuni romanisti-civilisti, primo tra tutti il Laurent[158], convinto assertore della nozione romanistica (assoluta e astratta) della proprietà. La necessità di assoggettare l’attore in rivendica ad una prova piena del suo diritto di proprietà trovava una base normativa, secondo il Laurent, nella regola enunciata in materia di obbligazioni, all’art. 1315: tale “principio fondamentale del diritto” si doveva, secondo l’a., applicare anche ai diritti reali, in quanto la legge non dispone alcuna deroga. E’ pur vero –ammetteva il Laurent- che il diritto romano e il diritto comune, prevedendo l’applicazione della Publiciana, avevano introdotto una deroga; però, con l’entrata in vigore del Code ogni diritto preesistente era stato abrogato e, con esso, la deroga al principio (sancito all’art. 1315 c.c.fr.) che impone all’attore la prova rigorosa della proprietà.

Questa evoluzione dottrinale sembrava destinata a segnare un nuovo percorso; e invece, nella settima edizione del trattato di Aubry e Rau[159] si tornava ad affermare l’esistenza, nel sistema francese, di una specie particolare di azione “che non è esattamente la Publiciana”, ma che, come quella, consente di evitare ingiustizie, in quanto ammette l’attore a provare un diritto migliore del convenuto. I francesi sono pertanto addivenuti a questo assetto: “in difetto della prova irrefutabile desunta dalla usucapione, le presunzioni si graduano così: il titolo, il possesso, alcune circostanze di fatto”[160]. Se, dunque, l’attore produce un titolo di proprietà, si deve ritenere che egli fornisca una prova sufficiente del suo diritto, sempre che il suo titolo sia più antico del possesso del convenuto[161]. Se, viceversa, il possesso del convenuto è anteriore rispetto al titolo dell’attore, allora –secondo una soluzione argomentata da Pothier[162] e recepita in una massima della Cassazione del 1864[163]- l’attore deve produrre il titolo del suo autore, dimostrando che esso è anteriore al possesso del convenuto: dunque, “titolo e possesso sono posti sullo stesso piano, e tra i due prevale quello che è più risalente”[164]. Qualora, invece, nessuna delle due parti abbia un titolo, la giurisprudenza tende a non assegnare necessariamente la vittoria al convenuto, ma a procedere a un confronto, nel quale l’attore può vincere, se dimostra un possesso più remoto rispetto a quello del convenuto, migliore e meglio caratterizzato[165]. La stessa impostazione, come illustreremo tra breve, è stata seguita poi in Italia, in tempi anche recenti.

Il dibattito suscitato da queste tematiche ha infine indotto, sullo scorcio del XIX secolo, a configurare la Publiciana (da parte di quanti ancora ne ammettono l’applicazione nel sistema codicistico) non più alla stregua di azione autonoma[166] (come invece era stato nel diritto romano e comune), ma come tutela petitoria garantita alla parte attrice che, in difetto del titolarità del dante causa, agisse nei confronti del possessore prima del compimento dei termini dell’usucapione, fornendo una prova ‘minore’ o ‘semipiena’ del proprio diritto; l’attore in Publiciana sarebbe uscito vittorioso dalla lite se la controparte non avesse vantato alcun titolo, o se avesse affermato o dimostrato (nell’ambito di un giudizio comparativo) un titolo meno forte del suo.

Con la negazione dell’ammissibilità della Publiciana quale azione indipendente, si è generalmente abbandonata l’opinione per cui l’attenuazione dell’onere probatorio si dovrebbe ricondurre all’applicazione dell’antica tutela romana; ma ciò non ha impedito che il ricorso alla ripartizione della necessitas probandi e, quindi, al giudizio comparativo divenisse una prassi consolidata e accettata anche in ambito dottrinale. Solo su profili marginali, dunque, si è dato ascolto a quella corrente minoritaria, capeggiata dal Laurent, che negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore del Codice Napoleone aveva segnalato la discrasia tra una nozione codicistica di proprietà (compatta e assoluta) e un meccanismo processuale che si era invece plasmato sull’esperienza ormai sorpassata del dominio diviso. Il Laurent rimproverava in sostanza alla dottrina di essersi rifatta, nel silenzio del Codice in materia di rivendica, ad una tradizione precodicistica, senza però tenere conto del fatto che la nuova nozione francese della proprietà risultava incompatibile con i meccanismi processuali del passato. Il richiamo all’esperienza romana dell’azione Publiciana è in ribasso; ma l’instaurazione del giudizio comparativo in rivendica è ormai regola operativa ben solida.

 

11. – L’Italia è stata caratterizzata da vicende per certi aspetti simili. Nel vigore dell’abr. c.c. del 1865, a causa della pressoché totale coincidenza con il modello del Code civil, la dottrina italiana si era sostanzialmente allineata su quella francese, asserendo l’ammissibilità dell’azione Publiciana[167]. Ma, anche in questo Paese, non pochi romanisti-civilisti, tra cui soprattutto il Bonfante[168] e il Brugi[169], rilevarono immediatamente come il ricorso all’antica Publiciana avesse il solo obiettivo di perseguire un alleggerimento dell’onere probatorio: il richiamo era esclusivamente nominale, dal momento che i requisiti dell’originario rimedio romano non venivano effettivamente richiesti. Tra gli studiosi che espressero le loro perplessità, molti respinsero vigorosamente la compatibilità della Publiciana con il sistema del Codice, rilevando –come già in Francia il Laurent- l’inconciliabilità dell’attenuazione dell’onere probatorio e del giudizio comparativo con la nozione assoluta e unitaria di proprietà, accolta dal Codice: “…l’oggetto della prova è dato dal diritto sostanziale; la prova dev’esser intera, altrimenti si altera il diritto sostanziale … i Romani ammisero forse una facilitazione della prova della proprietà? Ma niente affatto: essi ammisero un nuovo istituto [di] diritto sostanziale, la Publiciana e il rapporto da essa garantito”[170].

Anche la giurisprudenza aveva espresso un orientamento pressoché unanime per l’inammissibilità dell’azione Publiciana, affermando anche, in ordine alla legittimazione attiva al rimedio reipersecutorio, che lo stretto legame sussistente tra nozione assoluta della proprietà e struttura della rivendica imponeva di individuare il soggetto cui compete l’esercizio della rivendica, ex art. 439 c.c. abr., nel solo proprietario[171].

Tuttavia, il tema della prova della proprietà continuava a presentarsi problematico: a fronte della ribadita necessità di produrre una prova rigorosa del dominio, la giurisprudenza rilevava come l’attore continuasse ad incorrere spesso in difficoltà insormontabili, per la inidoneità dei mezzi predisposti dall’ordinamento al fine di fornire la prova. Da un lato, perciò, la dottrina spingeva affinché il legislatore introducesse “strumenti positivi e legali di prova per la rivendicazione immobiliare, quali possono risultare libri fondiari dotati di piena efficacia giuridica”[172]. Nel frattempo, la giurisprudenza, sul postulato del libero convincimento del giudice[173], aveva superato il problema tornando al criterio del ‘diritto migliore’ e, dunque, al giudizio comparativo: si reputava sufficiente che il titolo sulla base del quale agiva l’attore in rivendica, ancorché imperfetto, fosse prevalente su quello prodotto dal convenuto, affinché la prova potesse dirsi raggiunta[174]. Così come già in Francia, anche in Italia ci si attestava su di una posizione intermedia: pur negando l’ammissibilità della Publiciana, come azione autonoma, nel nostro ordinamento, dottrina e giurisprudenza ne proponevano “la permanenza degli effetti sotto specie di attenuazione dell’onere probatorio in capo all’attore al quale non potrebbe chiedersi che la prova d’un droit meilleur ou plus probable rispetto a quello addotto dal convenuto”[175].

Poi, con l’entrata in vigore del vigente c.c. del 1942, la dottrina e la giurisprudenza italiane, incoraggiate dalla formulazione dell’art. 948, sono sembrate inizialmente orientate, in modo ancora più fermo, verso un drastico ritorno alla ‘rivendica romana’. La rivendicazione viene concordemente configurata come un rimedio generale e principale, fondato sulla proprietà: giurisprudenza e dottrina ripetono incessantemente che legittimato attivo all’azione è il proprietario che non possiede (così è presupposto nella disciplina dell’azione di rivendica: art. 948 c.c.)[176] e che causa petendi dell’azione è la proprietà dell’attore[177]. Questi deve provare il suo diritto risalendo a un acquisto a titolo originario, o mediante la dimostrazione del compimento del termine di usucapione (c.d. probatio diabolica). Non si ritiene sufficiente, invece, che l’attore dimostri di avere un titolo poziore rispetto a quello del convenuto; sicché, se l’attore non dà piena prova del suo diritto di proprietà, la domanda deve essere respinta, anche quando il possesso del convenuto non sia avvalorato da alcun titolo[178]. Nel diritto italiano vigente si esclude, pertanto, il ricorso all’azione Publiciana, dovendosi applicare la regola rigorosa della probatio diabolica.

Sembrerebbe dunque sussistere, attualmente, una netta contrapposizione tra il sistema francese (in cui la revendication è concordemente attribuita anche a soggetti meno qualificati del proprietario) e il sistema italiano[179].

E invece, nonostante lo stretto legame accortamente posto dal legislatore italiano tra nozione assoluta della proprietà e ‘modello romanistico’ della rivendica, le prime discrasie si sono evidenziate in tema di legittimazione attiva al rimedio, con la questione dell’attribuibilità della rivendicazione all’enfiteuta, al superficiario, all’usufruttuario, nonché al nudo proprietario[180].

Per altro verso, sulla delicata questione della prova, gli stessi autori e la medesima giurisprudenza che declamano la vigenza delle regole probatorie connesse con la rivendica romano-classica ammettono, marginalmente, l’operatività di alcuni ‘accomodamenti’, che tuttavia non sembrano –almeno all’apparenza- affatto inconciliabili con il concetto codicistico di proprietà unitaria e assoluta: un’ attenuazione del rigore probatorio può accettarsi nell’ipotesi in cui il convenuto ammetta in tutto o in parte il diritto di proprietà del rivendicante, riconoscendo l’esistenza del diritto stesso fino a un dato momento e a un determinato acquisto[181]. Le ammissioni del convenuto (cui può fare seguito una semplificazione della prova richiesta all’attore) costituiscono dunque, nell’ordinamento italiano, l’unica deviazione rispetto alla regola della prova rigorosa a carico del rivendicante. Tali ammissioni riguardano le ipotesi: a) che l’acquisto della proprietà sia un fatto pacifico tra le parti; b) che il convenuto si affermi avente causa dello stesso autore da cui l’attore deriva il suo diritto; c) che il convenuto riconosca la proprietà in capo ad alcuni dei danti causa dell’attore[182].

 

12. – Esiste un cospicuo filone giurisprudenziale sulla cd. attenuazione dell’onere probatorio per la provenienza del bene da un comune dante causa. Già nel 1956 la Corte di Cassazione italiana affermava che il principio per cui nella rivendicazione l’onere della prova del diritto di proprietà spetta all’attore non è assoluto, ma va adeguato, come ogni problema di prova, alle concrete particolarità delle singole situazioni; deve cioè tenersi conto delle ammissioni del convenuto e anche del valore del titolo che egli deduce in suo favore, invece di trincerarsi nella posizione del possedeo quia possideo[183]. Si è introdotto così un principio fortemente innovativo rispetto alle regole tradizionali, che invece disciplinavano la posizione probatoria del rivendicante indipendentemente dalla linea difensiva scelta dal convenuto[184].

La casistica in merito è poi divenuta imponente, anche perché le fattispecie in cui l’onere probatorio va alleviato sono state progressivamente dilatate dalla Cassazione, che è passata dalla ipotesi di ammissione espressa della provenienza da un comune dante causa[185], all’ammissione implicita[186] o presunta[187], alla mancata contestazione[188] (nel 1984) e persino alla ipotesi in cui l’unicità del dante causa venga contestata in modo generico, immotivato, o senza il conforto di prove specifiche e pertinenti[189].

Uno strappo ancora più deciso – ma non direttamente lesivo del concetto unitario e assoluto della nozione italiana della proprietà- è provenuto dalla decisione della S.C. del 1969, nella parte in cui si è affermato che “l’intensità e l’estensione dell’onere probatorio del rivendicante devono esser commisurate alle peculiarità di ogni singola controversia (…) e subire opportuni temperamenti a seconda della linea difensiva del convenuto”[190]. Si nota in questa, come in quasi tutte le altre pronunce allineate su tale indirizzo, che l’attenuazione dell’onere probatorio viene costantemente riguardata come una eccezione rispetto alla regola declamata, della prova rigorosa della proprietà a carico dell’attore[191]. Tuttavia, la portata e la quantità delle eccezioni ammesse alla regola hanno finito per evidenziare un sostanzioso divario tra il principio enunciato e la regola applicata[192].

La breccia che, sul piano operativo, è stata aperta nella regola declamata risulta particolarmente evidente nell’asserzione della Cassazione, secondo cui “il principio che nella rivendicazione l’onere della prova del diritto di proprietà spetta all’attore non è assoluto, ma va adeguato, come ogni problema di prova, alla concreta particolarità delle singole situazioni”[193]. Di fronte a questo orientamento, la dottrina[194] si è allontanata a tal punto dal modello romano-classico della rivendica da giungere ad affermare che “il processo ha per oggetto una pretesa dell’attore ed una normalmente antitetica pretesa del convenuto (…) Ora nel caso del convenuto che riconosca il diritto del revindicante, nessuna pretesa egli fa valere in contrasto con la pretesa dell’attore (…) Altre preoccupazioni non possono nutrirsi: non vi è l’esigenza che la sentenza accerti in modo inequivocabile la proprietà dovendo essa fare stato erga omnes, in quanto nulla impedisce di contestare il diritto di proprietà accertato in un giudizio tra altri instauratosi”[195].

L’accentuata tendenza espressa dalla giurisprudenza ad attribuire al giudicante il compito di effettuare una comparazione tra i titoli addotti dalle parti in rivendica, producendo una ripartizione dell’onere probatorio, legittima il dubbio che la vecchia regola del commodum possessionis, a vantaggio del convenuto, trovi ormai solo sporadica applicazione; ciò benché non siano mancati isolati tentativi di dimostrare –sulla scia della dottrina francese- che il possesso esercitato dal convenuto faccia sorgere a suo vantaggio una presunzione di proprietà, che spetta all’attore di rovesciare[196]. Il convenuto, insomma, è costretto sempre più spesso ad attivarsi, mentre all’attore si chiede con frequenza sempre maggiore una prova ‘minore’.

Una notevole semplificazione dell’onere probatorio opera anche in un ambito più marginalmente attinente al tema in esame, quello delle azioni di mero accertamento, in cui l’attore -già in possesso del bene di cui è controversa l’appartenenza- chiede solo la dichiarazione giudiziale, con efficacia erga omnes, che una determinata cosa gli appartiene[197]: in considerazione della “rilevanza giuridica del possesso di cui l’attore è già investito”[198], in queste azioni si richiede un minore rigore della dimostrazione, sicché l’attore –che non intende modificare lo stato di fatto- è tenuto solo ad esibire un valido titolo d’acquisto[199]. Qualora invece l’azione di accertamento sia promossa da chi non è in possesso del bene, allora la ratio della attenuazione della prova viene meno[200].

Va però considerato che l’ammissione della possibilità di proporre una azione di mero accertamento a tutela della proprietà (e non dunque restitutoria), ove sussista un interesse concreto a tale accertamento, ha anche un’altra significativa implicazione: lo spossessamento non è più considerato un elemento necessario per agire a difesa della proprietà (ove questa venga contestata e ciò arrechi pregiudizio al proprietario)[201]. Eppure, all’art. 948 c.c. si è accolta la regola romana della legittimazione alla rivendica (riconosciuta dalle fonti romane esclusivamente al proprietario spossessato, salvo un misterioso unus casus[202]): ove non vi sia spossessamento, ma solo turbativa o molestia, si è tradizionalmente ritenuto che non esistano i presupposti per agire a difesa della proprietà; né sarebbe possibile agire in negatoria, i cui presupposti sono, ex art. 949 c.c., che taluno affermi di avere sulla proprietà altrui un qualche diritto (del quale, con la negatoria, si tende appunto ad accertare l’insussistenza).

D’altronde, anche sul terreno dell’azione negatoria (art. 949 c.c.) si sono affermati i nuovi indirizzi: in considerazione del fatto che l’attore ha già il possesso del bene, non si richiede più che il proprietario fornisca la prova rigorosa della titolarità del proprio diritto, ma è sufficiente che egli dimostri (con ogni mezzo, comprese le presunzioni) l’esistenza, a proprio favore, di un titolo derivativo. Spetta al convenuto dimostrare che egli è titolare dei diritti vantati sulla cosa[203]. Insomma, “l’attore deve provare la sua situazione ‘prevalente’, mentre il convenuto deve dimostrare che la sua situazione è a sua volta ‘prevalente’ rispetto alla prima”[204].

Attraverso queste ‘eccezioni alla regola’ torna a farsi strada il fenomeno di ‘relativizzazione’ della rivendica, ma nel senso, del tutto particolare, che il giudizio risulta limitato “alla cognizione di un solo titolo di acquisto” della proprietà. Ne derivano importanti conseguenze: l’azione potrebbe venire “sottratta alle regole processuali delle azioni reali e sottoposta a quelle delle azioni personali (…) e assoggettata alla prescrizione ordinaria”[205].

 

13. – Di fronte ai molteplici tentativi effettuati da dottrina e giurisprudenza italiane per superare l’assetto tradizionale della tutela della proprietà, ci si interroga su quale portata pratica, e su quale apprezzabile funzione ancora rivestano, attualmente, la regola secondo cui il proprietario può agire a difesa della proprietà solo in caso di spossessamento (art. 948 c.c.) e il precetto, tuttora considerato ‘precetto generale’, sulla prova rigorosa dell’acquisto della proprietà. Destano perplessità, inoltre, i riflessi che potrebbero derivare, sul piano del diritto sostanziale, dall’ammissione del possessore alla tutela della proprietà e dall’attenuazione dell’onere probatorio, per la dubbia compatibilità dell’ampliamento della legittimazione e della semplificazione probatoria con una nozione assoluta di proprietà.

Per lungo tempo, i civilisti italiani hanno in massima parte ostentato indifferenza nei confronti di questa problematica, ma negli ultimi decenni si sono registrati alcuni interventi particolarmente significativi. Un atteggiamento fortemente critico nei confronti del richiamo alla tradizione romanistica è stato assunto da Tabet[206], il quale ha asserito l’ “illegittimità” della interpretazione in chiave storico-romanistica delle norme vigenti in materia di tutela del diritto di proprietà, in considerazione della totale assenza, nel sistema delineato dal c.c. it. del 1942, dei dati positivi che avevano dato luogo alla formazione del sistema romano-classico, quali: l’agganciamento della rei vindicatio ad un sistema di azioni tipiche, l’inidoneità del mero consenso al trasferimento del dominio, la brevità dei termini previsti per il compimento dell’usucapione, la presenza operativa della Publiciana accanto alla rivendica civilistica.

Così, nel 1971, Proto Pisani[207], ponendosi anche sulle orme della dottrina francese[208], ha rilevato che con la terminologia ‘azione di rivendica’ la giurisprudenza italiana non fa più necessariamente riferimento allo schema romano-classico dell’azione: già nel corso del XIX secolo sarebbe stata introdotta, “in via pretoria, una nuova specie di azione (…) la quale (…) sul piano funzionale mira a fornire una difesa petitoria –non possessoria- contro chi possiede un titolo ‘meno valido’ di quello dell’attore (…) ciò deriva (…) dal fatto che l’esperienza giurisprudenziale mostra l’esistenza di casi nei quali l’attore deve provare non già che il suo affermato diritto di proprietà si fonda su un acquisto a titolo originario, ma solo di possedere in ordine al bene in questione un ‘titolo’ (anche e soprattutto derivativo) prevalente rispetto a quello eventualmente vantato dal convenuto”. Per altro verso, l’attenuazione dell’onere probatorio, secondo l’a., non investirebbe esclusivamente i profili tecnici dell’onus probandi, ma opererebbe direttamente sul terreno del diritto sostanziale, individuando nuove situazioni soggettive, suscettibili di tutela, e non più del tutto coincidenti con il tradizionale binomio romano proprietà-possesso.

Ecco il punto: si può davvero affermare che le nuove regole operative hanno irrimediabilmente intaccato l’assolutezza della proprietà, sancita all’art. 832 c.c.it.? Oppure sono intervenuti mutamenti, rispetto all’assetto tradizionale, che hanno soltanto alterato il rapporto tra un persistente concetto sostanziale di proprietà assoluta e la relativa tutela processuale di stampo romanistico?

Da un lato, va osservato che, indubbiamente, una alterazione del collegamento tra situazione inattiva (pretesa) e situazione attiva (facoltà di godimento) si è verificata nel momento in cui la situazione attiva è venuta in rilievo in dimensione solo ‘relativa’, e non più ‘assoluta’: “oggetto del processo di rivendicazione non è la condanna alla restituzione della cosa e l’accertamento del diritto di proprietà tout court, ma la condanna predetta e l’accertamento del diritto considerato nei suoi riflessi nei confronti del solo convenuto in rivendicazione”[209]. Ne consegue l’inidoneità della sentenza passata in giudicato a fare stato “nei confronti di chi non sia stato parte o non ne sia erede o avente causa”[210].

Tuttavia, questo assetto, se implica certamente una ‘relativizzazione’ della tutela della proprietà, non sempre e non necessariamente comporta anche la trasformazione in senso sostanziale della proprietà da ‘assoluta’ in ‘relativa’[211]: Si pensi all’ipotesi che due soggetti istituiti eredi in disposizioni testamentarie recanti date differenti siano in lite tra loro per la proprietà di un cespite: una volta riconosciuto il diritto poziore sul bene a favore del soggetto istituito erede nella disposizione recante la data più recente, nulla impedisce a un terzo di farsi avanti e prevalere a sua volta, adducendo un testamento redatto in un momento ancora successivo. E’ chiaro che, in un caso del genere, alla ‘tutela relativa’ della proprietà non fa certamente riscontro una concezione ‘relativa’ del diritto di proprietà in senso sostanziale.

In ambito europeo, un elemento che ha invece profondamente modificato non solo la materia della prova della proprietà, ma anche il modo stesso di concepire ‘assolutezza’ e ‘relatività’ dei rapporti proprietari e della loto tutela è stato costituito dalla introduzione dei registri immobiliari e dall’obbligo di trascrizione degli atti di disposizione. Questo sistema ha introdotto elementi di ‘proprietà assoluta’ nel sistema di common law, dove la tradizione conosceva esclusivamente forme di appartenenza ‘relative’, e, viceversa, elementi di relatività nei sistemi romanisti, in cui la proprietà si connota per tradizione come assoluta (si pensi alla fattispecie della doppia alienazione immobiliare, con riguardo alla quale si verificano forme di ‘tutela relativa’ della proprietà)[212]. Inoltre, a incrinare ulteriormente il dogma della prova assoluta della proprietà è intervenuta la regola, già ricordata, della inopponibilità del giudicato ai terzi[213].

Certamente, le nuove regole operative non consentono più di riconoscere, nel nostro sistema di civil law, l’antica distinzione di tipo dicotomico tra azioni a tutela della proprietà e azioni a tutela del possesso; ciò si deve al superamento, realizzato dalla giurisprudenza, di quella situazione -reputata troppo “restrittiva” per una efficace tutela giurisdizionale della proprietà- che ci è stata consegnata dal diritto romano e dalla tradizione romanistica e che appariva basata su di una assai rigida individuazione dei presupposti per agire a difesa dell’appartenenza, attraverso una pluralità di rimedi tipici, tra di loro ben differenziati[214]. La contrapposizione tradizionale rivendica-azione possessoria ha lasciato così il posto alla operatività di un ampia gamma di rimedi, ordinati all’interno di una ‘scala’, degradante dal mero possessorio al petitorio.

 

14. – Resta da chiedersi se gli indirizzi dottrinali e giurisprudenziali che hanno irrobustito questa trasformazione si possono considerare legittimi, cioè conformi alla situazione normativa. Sul punto, le opinioni non possono che divergere. Per quanto concerne l’Italia, da un lato si deve rilevare l’assenza di previsioni esplicite, da parte del legislatore, in materia di onere probatorio con riguardo alla tutela dei diritti reali (ed è controverso se possa estendersi alla materia dei diritti reali quanto disposto in tema di prova delle obbligazioni). Invece, per ciò che concerne la legittimazione attiva ai rimedi posti a tutela della proprietà, in certe occasioni (specie in relazione all’azione di mero accertamento) la giurisprudenza ha deciso non in piena conformità con le regole espresse dal legislatore circa il requisito dello spossessamento (art. 948 c.c.).

L’allontanamento dalla configurazione tradizionale dell’onere probatorio in materia di tutela dei diritti reali e, almeno marginalmente, dal dato normativo in materia di legittimazione attiva all’azione, è stato ritenuto altresì legittimo, in Italia, in quanto valutabile alla luce della situazione sistematica, che non prevede più azioni tipiche a difesa dei diritti. E di fronte ai dubbi avanzati, con frequenza sempre crescente, circa l’esistenza “di un fondamento razionale” della regola romana sulla tipicità delle azioni, è necessario ammettere che le condizioni su cui tale soluzione si era anticamente basata oggi non sono più attuali[215]. La disciplina della cd. ‘rivendica romana’, nella sua contrapposizione ai rimedi possessori, rispondeva alla logica di un sistema (quello romano dell’età repubblicana e classica[216]) dominato dalla tipicità delle azioni processuali (sistema in cui ogni azione è volta alla tutela di un particolare diritto soggettivo, o è caratterizzata da un proprio preciso modello normativo). Ma questo assetto non trova attualmente un riscontro del tutto esplicito nel dato normativo. Benché la tradizione deponga nel senso della ‘tipicita’, nel sistema giuridico italiano si richiede soltanto che le modalità della tutela giurisdizionale dei diritti si adeguino alla diversa natura dei diritti: e “la tutela giurisdizionale della proprietà non può fare eccezione a questi principi”[217].

E’ appunto in tale contesto che le nuove tendenze vanno valutate. Il principio cui gli indirizzi giurisprudenziali illustrati si ispirano è che, anche con riguardo ai conflitti proprietari, “oggetto di accertamento non è l’astratta titolarità del diritto (di proprietà), ma il concreto interesse del proprietario a vedersi riconosciuto un titolo ‘prevalente’ e/o migliore rispetto a quello del convenuto e ciò sul modello dell’actio publiciana di romana memoria”[218].

Nell’ambito della tutela processuale, tra le possibili conseguenze di questo indirizzo se ne profila oggi una particolarmente significativa, anche perché già verificatasi nell’esperienza giuridica della Roma tardo-imperiale, tra IV e V sec. d.C., in concomitanza con la temporanea caduta del principio della tipicità delle azioni[219]: e cioè, l’accessibilità, al proprietario, dell’azione reale reipersecutoria anche nei confronti del soggetto cui abbia volontariamente consegnato la cosa[220]. In tal modo, la tutela reale si verrebbe ad assommare alla tutela dei diritti derivanti dai contratti[221].

Sul piano del diritto sostanziale, invece, è probabile che i nuovi orientamenti contribuiscano ad offuscare la netta linea di demarcazione, posta dalla tradizione civilistica italiana, tra possesso, proprietà e altri diritti reali. Attenuazione e ripartizione dell’onere probatorio all’interno di un giudizio comparativo potrebbero risultare funzionali al radicamento (o alla comparsa) di nuove fattispecie sostanziali, collocabili nella zona grigia tra ‘possesso’ e ‘diritto reale’. E su questa materia non si può che rinviare alle lucide considerazioni già svolte in dottrina[222] circa la dubbia incidenza rivestita, sul piano delle regole operative, dal dogma -consacrato dal legislatore italiano all’art. 832 c.c.- di una proprietà astratta, unitaria, compatta, assoluta: sotto alcuni profili, la declamazione di matrice romanistica accolta nel Codice civile italiano difetta irrimediabilmente di concreta applicabilità.

 

 

 

Л. СОЛИДОРО МАРУОТТИ

 

БРЕМЯ ДОКАЗЫВАНИЯ И СУДЕБНЫЕ ПРОЦЕССЫ РИВЕНДИКАЦИИ

 

(РЕЗЮМЕ)

 

«Римская ривендикация» (иск, все еще принятый во многих европейских странах, посредством которого лишенный владения собственник требует признания своего абсолютного права на вещь, а следовательно, и ее реституции) характеризуется трудностью доказательства, требующегося от истца: probatio diabolica, состоящая в демонстрации права возбудившего тяжбу вплоть до приобретения от первоначального титула. Значительному бремени, возложенному на истца, противостоит инертная позиция ответчика-вла­дельца (commodum possessionis).

Такая структура иска предполагала в римском правопорядке, а в какой-то мере еще и сегодня, некое понятие абсолютной, унитарной и абстрактной собственности (так называемой «римской собственности»). Связь между абсолютным понятием собственности и виндикационным иском с бременем доказательства, лежащим только на стороне истца, встречается и в современном праве, например, в Италии и Германии. В Австрии, наоборот, параллельно с принятием понятия принадлежности, свойственного франко-германскому опыту разделенного доминия, виндикационный иск структурируется как состязательный суд с бременем доказательства, лежащим на обеих сторонах тяжбы.

Также и область common law осталась связанной с концепцией «относительности» прав на землю, а следовательно, на процессуальном заседании судья должен оценивать доказательства, представленные обеими сторонами, и из двух спорящих утверждать во владении того, у кого «лучший титул владения» (better title).

Однако в реальности в правопорядках указанных выше стран в определенной мере существует «контаминация» двух столь очевидно противоположных моделей: моделей римского и франко-германского происхождения. Впрочем, и в римском юридическом опыте выявляется противопоставление между биномом «относительная собственность» / «состязательный суд» и биномом «абсолютная собственность» / «ривендикация» с ее лежащем только на истце бременем доказательства. Что касается современной эпохи, то в некоторых зонах применения common law, применяющих систему регистрации земельной собственности (Registered Land), введены элементы абсолютной собственности. Во Франции, хотя и принято понятие абсолютности собственности, суд ривендикации структурируется как состязательный, требуя от судьи только определения «лучшего права» (droit meilleur); в Италии же облегчение бремени доказательства, возложенного на истца, проявляется в предположении согласия с этим со стороны ответчика, и таким образом получается, что ривендикация превращается в состязательный суд (даже принимая во внимание невозможность оппонировать суждениям третьих лиц), в значительной мере осваиваясь в том, что титул, на базе которого истец предъявляет виндикационный иск, хотя и не совершенен, однако превалирует над тем, которым пользуется ответчик.

 

 



* Лаура Солидоро Маруотти – профессор кафедры римского права юридического факультета Университета г. Салерно (Италия).

[1] L. SOLIDORO MARUOTTI, ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ nella storia giuridica europea, in Ius Antiquum № 14. 2004. P. 7–50.

[2] V. al riguardo le considerazioni di A. GAMBARO, nella Presentazione a S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie in diritto comparato (Milano 1988) V ss.

[3] Sul punto, M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Les biens, in Traité pratique de droit civil français, 2° ed., III (Paris 1952) 348 ss., 353.

[4] Sulle origini romanistiche di tale struttura della rivendica, è tuttora fondamentale la lucida trattazione di P. BONFANTE, Corso di diritto romano II. La proprietà, pt. 2 (Roma 1926, rist. della I° ed. [da cui cito], Milano 1968) 395 ss.; approfondita trattazione, con fonti e bibl., in M. MARRONE, s.v. Rivendicazione (dir. rom.), in E.D. XLI (Milano 1989) 1 ss. Sull’accoglimento, negli ordinamenti ‘romanisti’, dell’impostazione che vede nella rivendica un rimedio generale, fondato sulla proprietà, v. in giurisprudenza, ad es., Cass. 25 novembre 1978, n. 5546, in Rep. Giur. it., 1978, s.v. Proprietà, 56, e cfr., in letteratura, A. TABET, s.v. Rivendicazione (azione di), in NNDI. XVI (Torino 1959) 224 ss., specialm. 226; L. BARASSI, Proprietà e comproprietà (Milano 1951) 827; S. PUGLIATTI, Rivendica, reintegra e azione per restituzione, in Foro it., 1933, I, 1537; S. FERRERI, s.v. Rivendicazione (dir. vig.), in E.D. XLI (Milano 1989) 49 ss., specialm. 55 ss., con altra lett.; EAD., s.v. Rivendicazione, in D.disc. priv. Utet, sez. civ. XVIII (Torino 1998) 89 ss., specialm. 90.

[5] Sull’attribuzione ai Glossatori del dogma della probatio diabolica, v. R. FEENSTRA, Action Publicienne et preuve de la propriété, principalement d’apres quelques romanistes du Moyen Age, in ID., ‘Fata iuris Romani’. Études d’histoire du droit (Leiden 1974) 119 ss., specialm. 124 s., con AA. ivi citt.

[6] Cic. Caecin. 26.74 ; v. anche, nello stesso senso, Gai 2.44; D. 41.3.1; Nerat. D. 41.10.5 pr.; I. 2.6; per ulteriori approfondimenti si rinvia a L. VACCA, s.v. Usucapione (dir. rom.), in ED. XLV (Torino 1992) 990.

[7] CI. 7.31.1 (a. 531); I. 2.6 pr.: … Et ideo constitutionem super hoc promulgavimus, qua cautum est, ut res quidem mobiles per triennium usucapiantur, immobiles vero per longi temporis possessionem, id est inter praesentes decennio, inter absentes viginti annis usucapientur rell., su cui v. soprattutto P. DE FRANCISCI, Nuovi studi intorno alla legislazione giustinianea durante la compilazione delle Pandette, in BIDR. 27 (1914) 5 ss.; D. NöRR, Time and the acquistition of ownership in the law of the Roman Empire, ora in ID., ‘Historiae iuris antiqui’. Gesammelte schriften I (Goldbach bei Aschaffenburg 2003) 599 ss.; L. VACCA, La riforma di Giustiniano in materia di ‘usucapio’ e ‘l.t.p.’ fra concezioni dommatiche classiche e prassi postclassica, in BIDR. 35/36 (1993/1994) 146 ss.

[8] Così A. GAMBARO, Presentazione cit., XI. Sul concetto e sulla funzione dei ‘rimedi’ (intesi come protezione assicurata dall’ordinamento giuridico a un interesse) e sul legame sussistente, nella nostra tradizione giuridica di civil law, tra diritto soggettivo e rimedio giurisdizionale, v. A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti III (Milano 1987) V ss. e passim. Come mette bene in evidenza questo a., attualmente, nel nostro sistema, a seguito del fenomeno di codificazione, si postula la corrispondenza tra diritto soggettivo e tutela giurisdizionale, nel senso che ad ogni diritto deve corrispondere un rimedio (cfr. art. 2907 c.c., secondo cui “chi vuol far valere un diritto deve proporre domanda al giudice competente”), come è indicato dal celebre brocardo ubi ius ibi remedium; viceversa in alcuni ordinamenti antichi (in particolare nel diritto romano), nonché nel sistema di common law, nei quali è ignorata la categoria del diritto soggettivo, vale piuttosto il principio ubi remedium ibi ius, nel senso che i diritti si formano “in via di derivazione” (p. 58) dai rimedi posti a tutela di determinati interessi: il fatto che la tutela giurisdizionale risulti svincolata dalla titolarità di un diritto soggettivo consente, sul piano pratico, “di cogliere i nuovi bisogni di tutela via via emergenti nella realtà economico-sociale” (p. VI), ma si tratta di un meccanismo pressoché incompatibile con un diritto codificato. Nel campo dei rapporti proprietari, la stretta rispondenza tra diritto soggettivo e relativo strumento di tutela processuale è stata ben evidenziata già dal TOULLIER (Le droit civil français suivant l’ordre du Code II, § 73 [Bruxelles 1845]), il quale descriveva l’azione di rivendicazione come ornamento e complemento indispensabile del diritto di proprietà.

[9] Su cui rinvio a quanto da me già considerato in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.; v. anche l’articolata trattazione di A. CANDIAN – A. GAMBARO – B. POZZO, Property-Propriété-Eigentum. Corso di diritto privato comparato (Padova 1992). In ambito strettamente romanistico, il nesso di interdipendenza tra la concezione della proprietà in senso sostanziale e la struttura dell’azione di rivendica è già stato ben evidenziato da M. KASER, Zur ‘legis actio sacramenti in rem’, in Estudios de derecho romano en honore de Alvaro D’Ors II (Pamplona 1987) 671 ss., specialm. 688 ss.

[10] Fa eccezione l’Austria, che ha invece accolto la figura medioevale del ‘dominio diviso’, in diretto e utile (§§ 353 e 357 ABGB). Sul tema, v. amplius infra, nel testo, e adde quanto ho già esposto in La tradizione romanistica nel diritto europeo II. Dalla crisi dello ‘ius commune’ alle codificazioni moderne (Torino 2003) 231 ss., specialm. 261 ss.

[11] Qualifica che costituisce la causa petendi della domanda e che perciò differenzia la rivendica da altre azioni (in particolare, le azioni personali di restituzione, di ripetizione dell’indebito, di arricchimento ingiustificato) che pure potrebbero realizzare lo stesso fine; e proprio per il fatto che la rivendica si fonda solo sul diritto di proprietà, indipendentemente dal fatto che ha cagionato la perdita del possesso, si giustifica la permanenza di tale azione nel nostro sistema attuale, caratterizzato dalla atipicità delle azioni processuali: lo rilevano S. PUGLIATTI, Rivendica cit., 1532; S. FERRERI, s.v. Rivendicazione cit., 51, ove altra lett.

[12] Per la cui disamina rinvio a quanto già esposto in Ripartizione e attenuazione cit.

[13] In questo senso, cfr. soprattutto C. AUBRY- F.-C. RAU, Cours de droit civil français d’après la méthode de Zachariae, 4° ed. (Paris 1869–1878) § 219; M. PLANIOL- G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., 360 s. ; per una esposizione più dettagliata rinvio al mio studio su Ripartizione e attenuazione cit.

[14] Cfr. al riguardo quanto già esposto in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.; tra la sconfinata lett. in materia, oltre agli aa. citt. alla nt. successiva, v. G. PUGLIESE, Property nei sistemi di common law, in Scritti giuridici scelti IV. Problemi di diritto vigente (Napoli 1986) 494 ss.; A. GAMBARO, La proprietà nel common law anglo-americano, in A. CANDIAN-A. GAMBARO-B. POZZO, Property-Propriété-Eigentum cit., 3 ss., ove altra bibl.; il nesso di derivazione della proprietà di common law dalle esperienze franco-germaniche è efficacemente delineato da W. HOLDSWORTH, History of english law III (L. 1909) 83.

[15] Per il resoconto delle fonti, v. Caes. de bell Gall. 4.1.3–7; 6.21.1–2; Tac. Germ. 26.2; Orat. carm. 3.24. A causa della scarsa propensione degli antichi popoli germanici per la scrittura, la ricostruzione della Gewere è avvenuta in via largamente ipotetica, procedendo a ritroso dalle risultanze delle fonti medioevali; tra le ricerche più significative sul tema, si segnalano in partic. L. HEUSLER, Die Gewere (Weimar 1972); ID., Institutionen des deutschen Privatrechts II (Leipzig 1885) 1 ss.; A. PERTILE, Storia del diritto italiano dalla caduta dell’Impero romano alla codificazione IV. Storia del diritto privato (Torino 1893) 170 ss.; O. von GIERKE, Die Bedeutung des Fahrnisbesitzes für streitiges Rechts (Jena 1897) specialm. 45 ss.; ID., Deutsches Privatrecht II. Sachenrecht (Leipzig 1905) § 113, 187; F. SCHUPFER, Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all’Italia. Possessi e domini II, 2° ed. (Città di Castello 1915) 7 ss.; G. DIURNI, Le situazioni possessorie nel Medioevo. Età longobardo-franca (Milano 1988) 57 ss. Sulla Gewere e sulla sua tutela processuale si v. le considerazioni già esposte in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 6.

[16] Ampia trattazione in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie in diritto comparato (Milano 1988) 12 ss.

[17] Dimostrazione in W.W. BUCKLAND – A.D. Mc NAIR, Roman law and common law. A comparison in outline (Cambridge 1965) specialm. 66 ss.

[18] Sulla relatività dei diritti sulla terra in età medioevale, v. M. BLOCH, La società feudale (tr. it. Torino 1949) 190; particolareggiata disamina di documenti altomedioevali in materia di liti sulla proprietà in G. DIURNI, Le situazioni possessorie cit., 46 ss., 196 ss.

[19] Così F.H. LAWSON – B. RUDDEN, The law of property, 2° ed. (Oxford 1982) 115.

[20] F. POLLOCK – F.W. MAITLAND, History of english law II (L. 1895) 67.

[21] Lo segnala S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 10 ss., 144. Tuttavia, non sono affatto mancati influssi romanistici sulla dottrina anglossassone dell’appartenenza dei beni: i concetti romani di dominium e possessio e le forme romane di tutela del possesso e della proprietà, per la mediazione del Bracton e, più tardi, del Blackstone (il quale alquanto contraddittoriamente coltivava, in parallelo con Pothier, un concetto assoluto di proprietà), per un certo periodo furono ‘prese in prestito’ e applicate dalla scienza giuridica inglese. Ciononostante, nel complesso il common law finì per rifiutare l’impianto romanistico, elaborando una dottrina autonoma e originale, ispirata alla tradizione giuridica franco-germanica (cfr. W. HOLDSWORTH, o.c. 83; G. PUGLIESE, Property cit., 496 ss.; A. GAMBARO, La proprietà nel common law cit., 37 ss., 60 ss., 123 ss.).

[22] Già nel 1956 la Corte di Cassazione italiana ha affermato che il principio per cui nella rivendicazione l’onere di provare il diritto di proprietà spetta all’attore non è assoluto, ma va adeguato alle concrete particolarità delle singole situazioni, dovendosi tenere conto delle ammissioni del convenuto, nonché del valore del titolo che egli deduce in suo favore: Cass., 9 febbraio 1956, n. 392, in Giust. civ., 1956, I, 403, su cui v. amplius quanto espongo in Ripartizione e attenuazione, cit.

[23] Dimostrazione in R. von JHERING, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung III, t. 1, 8° ed. (Basel 1954) specialm. 91 ss.; sulle orme di Jhering, G. FRANCIOSI, Il processo di libertà in diritto romano (Napoli 1961) 52 ss.; G. PUGLIESE, Il processo civile romano I. Le ‘legis actiones’ (Roma 1962) 406 ss.; sviluppa queste intuizioni con riferimento all’età del Tardo Impero C. A. CANNATA, ‘Possessio’, ‘possessor’, ‘possidere’ nelle fonti giuridiche del Basso Impero romano (Milano 1962) 125 s.; si v. inoltre le considerazioni che ho già svolto in La tutela del possesso in età costantiniana (Napoli 1998) 155 ss., 174 ss. V. anche infra, nel testo.

[24] Per vero, l’attribuzione interinale del possesso del bene controverso (addictio vindiciarum: Gai 4.16) da parte del magistrato in favore della parte processuale che desse maggiori garanzie potrebbe fare ipotizzare una assunzione, da parte dei contendenti, di precisi ruoli, soprattutto ai fini dell’onere probatorio, facendo venire meno anche la natura di iudicium duplex della rivendica; ma tale eventualità viene respinta -sulla scia di E. ECK (Die sogenannten doppelseitigen Klagen des römischen und gemeinen Deutschen Rechts [B. 1870] 9 ss.), e di R. von JHERING (oluc., specialm. 104, nt. 129c), da numerosi AA., tra cui si v. in partic. G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 52 ss., 67, con prec. lett. in questo senso, e C.A. CANNATA, Qui prior vindicaverat: la posizione delle parti nella ‘legis actio sacramenti in rem’, in Mélanges F. Wubbe [Fribourg 1993] 88-, per la considerazione che le ripercussioni dell’addictio vindiciarum sull’onere probatorio non si produssero che nella procedura formulare, in connessione con la comparsa degli interdetti possessori: le vindiciae sarebbero pertanto ininfluenti sull’onere probatorio. D’altronde, va ricordato che l’ addictio vindiciarum si colloca più verosimilmente in una fase storica già lontana dalle origini della procedura sacramentale, e dunque prodromica, se non addirittura successiva, all’affermarsi della legis actio per sponsionem e forse della formula petitoria; nell’antica l.a.s.i.r., occorreva vagliare la veridicità di ambedue i sacramenta e la pronuncia del giudice sul punto era inscindibilmente connessa alla questione della proprietà del bene controverso, affermata da entrambi (così E. ECK, o.l.u.c.).

[25] Approfondimenti in C. A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit., 83 ss., il quale dimostra che nell’età arcaica le parti processuali potevano effettuare la rivendica contemporaneamente (cioè pronunciando la formula solenne nel medesimo momento), oppure poteva rivendicare per primo il possessore del bene controverso, o, al contrario, il soggetto che asseriva di essere stato spossessato del bene; v. anche M. MARRONE, s.v. Rivendicazione (dir. rom.), in E.D., XLI (Milano 1989) 2 ss., 7 ss. e nt. 30 s.

[26] Su cui restano fondamentali le trattazioni di E. ECK, Die sogenannten doppelseitigen Klagen cit., 7 ss., e di R. von JHERING, oluc., il quale modificò sostanzialmente buona parte della esposizione svolta nella prima edizione del Geist, alla luce delle obiezioni mossegli da Eck; tra la lett. successiva, orientata nello stesso senso, v. soprattutto V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni di diritto romano, 14° ed. (Napoli 1960) 115; G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 55 ss.

[27] In tal senso, con puntuale esame critico delle fonti, cfr. E. BETTI, La ‘vindicatio’ romana primitiva e il suo svolgimento storico nel diritto romano e nel processo, in Il Filangieri 39. 3 (1915) 321 ss.; H. LéVY-BRUHL, Le simulacre de combat dans le ‘sacramentum in rem’, in Quelques problèmes du très ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques (Paris 1934) 3 ss.; P. FREZZA, Ordalia e ‘legis actio sacramento, in A.G. 142 (1952), 83 ss., ora in ID., Scritti II (Roma 2000) 3 ss.; G. BROGGINI, La prova nel processo romano arcaico, in Jus 11 (1963) 348 ss., ora anche in “Coniectanea”. Studi di diritto romano (Milano 1966) 133 ss.; G. PUGLIESE, Il processo civile romano I cit., 407 ss.; G. FALCHI, L’onere della prova nella “legis actio sacramenti in rem”, in SDHI. 38 (1972) 247 ss.; M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 7 s. e nt. 31.

[28] La regola che imponeva all’attore l’onere probatorio si affermò contestualmente alla procedura della legis actio sacramenti in personam, per poi estendersi alle azioni reali nell’agere per sponsionem; tanto risulta da Gai 4.93, su cui v. G. BROGGINI, La prova cit., 133 ss.; U. BRASIELLO, s.v. Istruzione del processo (dir. rom.), in E.D. XXIII (Milano 1973) 131 ss., specialm. 133. La generalizzazione del principio per cui spetta all’attore (il quale tende a rimuovere l’attuale stato di fatto) provare le sue affermazioni risale a Paul. D. 22.3.2; si l. anche D. 6.1.24 e CI. 2.1.4.

[29] Reputo totalmente condivisibili, sul punto, le conclusioni di E. ECK, Die sogennanten doppelseitigen Klagen cit., 9 s., di R. von JHERING, Geist cit., 104, nt. 129c; e di G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 58. Il CANNATA (‘Qui prior vindicaverat’ cit., 83 ss.), invece, sulla base della convinzione che a dovere dichiarare la ‘giusta causa’ della rivendica fosse sempre ed esclusivamente l’attore-non possessore, ha sostenuto che la struttura dell’antica l.a.s.i.r costituì la “radice prima della regola che, nella rei vindicatio, addossa all’attore l’onere della prova della proprietà” (p. 91). Tuttavia, la ricostruzione del Cannata presuppone che il soggetto indicato da Gaio come qui prior vindicaverat fosse sempre il convenuto-possessore, al quale, secondo lo schema gaiano, sarebbe poi spettato invitare l’attore-non possessore alla specificazione (e poi alla dimostrazione) della causa; tale termine –la cui presenza è confermata da Val. Prob. 4.6- è peraltro assai oscuro, e su di esso molto si è discusso: A. CORBINO, La struttura dell’affermazione contenziosa nell’ ‘agere sacramento in rem’, in Studi C. Sanfilippo VII (Milano 1987) 152 s.; M. MARRONE, La formula della rivendica: astratta o causale?, in ‘Cunabula iuris’. Scritti storico giuridici per G. Broggini (Milano 2002) 229 ss. Al riguardo, mi sembra non solo tutt’altro che certo che il primo rivendicante fosse sempre il convenuto-possessore (Cannata ammette, del resto, che nella fase più antica uno qualunque dei due contendenti poteva procedere per primo alla rivendica, effettuabile persino contestualmente), ma addirittura insostenibile che l’onere probatorio gravasse sempre e comunque sul solo attore: infatti, la successiva sfida al sacramento implicava che ambedue i contendenti ‘gareggiassero’ nel dimostrare l’uno la ‘giuridicità’ della rivendica, l’altro, invece, la sua ‘antigiuridicità’ (il destinatario del sacramentum replicava con analoga sfida, ed è stato anzi ipotizzato che la formula gaiana ‘adversarius quoque dicebat similiter ET EGO TE’ non sia che la sintesi di una locuzione originaria più articolata: J. ZLINSKY, Gedanken zur ‘legis actio sacramenti in rem’, in ZSS., 106 [1989] 106 ss., specialm. 129 s.; C.A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit., 87 nt. 8). Per certo si può affermare solo che la dichiarazione della causa (benché non si sappia esattamente cosa si volesse indicare anticamente con questo termine, ritengo più verosimile il significato di ‘titolo d’acquisto’, come sembra suggerito da Liv. 3.45 s.), o quanto meno della ‘conformità al diritto’ della rivendica, poteva sortire l’effetto di individuare e circoscrivere, in qualche misura, l’oggetto della dimostrazione da fornire: significativo Plaut. Curc. 4.2.12 (nec vobis autor ullus est nec vosmet estis ulli). Ma le fonti, a nostro parere, non offrono elementi per determinare la parte processuale che stabilmente dovesse addivenire a tale specificazione. Anche la più tarda assegnazione interinale del possesso (su cui, amplius supra, nt. 24), secondo quanto appare aderente al dettato delle fonti, era decisa discrezionalmente dal magistrato, non in considerazione della posizione processuale dell’assegnatario (lo ribadisce C. A. CANNATA, ‘Qui prior vinidicaverat’ cit., 88), ma in base alla qualità delle garanzie offerte dai contendenti (non soddisfa la congettura formulata da G. PUGLIESE, Il processo civile romano I cit., 296, per cui a guidare il magistrato nell’assegnazione interinale del possesso sarebbe stata la valutazione delle “probabilità di vittoria finale” della parte: si controbatte, da parte di C. A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit., 88 nt. 11, che in questa fase del vetusto procedimento il magistrato non aveva ancora appreso altro, se non l’esistenza di una lite).

[30] La costruzione di M. KASER (illustrata nella sua versione definitiva in Über ‘relatives Eigentum’ im altrömischen Recht, in ZSS. 102 [1985] 1 ss., ove si osserva un notevole ridimensionamento della teoria in oggetto, rispetto agli scritti precedenti, citt. infra, alla nt. 40) – in cui si deduceva dalle peculiarità procedurali in esame l’esistenza, nella Roma arcaica, di una ‘proprietà relativa’- ha sollevato vivaci critiche (che in massima parte non ritengo, peraltro, condivisibili: v. quanto espongo in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.); le obiezioni mosse al Kaser non paiono comunque applicabili al più circoscritto ambito di una tutela relativa della proprietà: cfr. K.F. THORMANN, ‘Auctoritas’, in Iura, 5 (1954) 1 ss., il quale rifiuta la teoria dell’esistenza in Roma arcaica di una proprietà relativa in senso sostanziale, ma sostiene che la proprietà (assoluta) diveniva relativa in sede processuale.

[31] Si cfr. la terminologia (actor, petitor / possessor, is cum quo agitur, reus) adoperata al riguardo dal giurista classico in altri luoghi della sua opera: ad es., Gai 4.18 (actor/adversarius) e Gai 4.61 (actor/is cum quo actum est), Gai 4.94 (petitor/ possessor), Gai 4.95 (reus). Sul punto, G. FRANCIOSI, IL processo di libertà cit., 60 ss. Con riguardo alla struttura dell’antica rivendica descritta in Gai 4.16, nel silenzio delle fonti non mi sembra si possa ritenere aprioristicamente condivisibile l’individuazione (proposta da G. PUGLIESE, Il processo civile romano I cit., 230) del ‘qui prior vindicaverat’ con l’attore-non possessore e dell’ ‘adversarius’ con il convenuto-possessore.

[32] Così, tra glia altri, F. GIRARD, Histoire de l’organisation judiciaire des Romains I (Paris 1901) 193, nt.1; R. von JHERING, Geist cit., 90 ss. ; ARANGIO-RUIZ, Istituzioni cit., 115 ; G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 52 ss.; G. PUGLIESE, Il processo civile romano I cit., 406 ss.

[33] Il processo civile romano I cit., 230.

[34] C.A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit., 92.

[35] V. in proposito M. KASER, Das römische Privatrecht I, 2° ed. (München 1971) 48.

[36] Così C.A. CANNATA, ‘Qui prior vindicaverat’ cit., 92 ss.

[37] Qui prior vindicaverat’ cit., 85 ss.

[38] La tesi del Cannata si fonda sulla considerazione che il primo rivendicante si rivolgeva all’avversario dicendo “postulo anne dicas, qua ex causa vindicaveris” (Gai 4.16); ne è discutibile presupposto il convincimento che alla verifica del fondamento della propria vindicatio fosse chiamato l’attore (non possessore); al riguardo v. infra, nel testo.

[39] Istituzioni cit., 115.

[40] M. KASER, Eigentum und Besitz im älteren römischen Recht, 2° ed. (Köln-Graz 1956) 6 ss., 68 ss.; ID., Neue Studien zum altrömischen Eigentum, in ZSS. 68 (1951) 135 ss.; V. Anche R. MAYR, Das sacramentum der ‘ legis actio’, in Mél F.P. Girard II (Paris 1912) 200, e, con qualche variante, G. DIÒSDI, Ownership in ancient and preclassical roman law (Budapest 1970) 102 ss.; afferma invece l’originaria incombenza dell’onere probatorio sull’attore F. DE SARLO, ‘Onus probandi incumbit ei qui dicit’, in AG. 114 (1935) 189 ss.

[41] Sull’Anefang v. ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 7. Secondo M. KASER (Zur ‘l.a.s.i.r.’, cit., 701 ss.), l’Anefang germanica e la legis actio sacramenti in rem furono istituti del tutto simili.

[42] Gai 4.16, dove tuttavia non vi è alcuna allusione al furto, ma, genericamente, ad una condotta antigiuridica. L’assimilazione tra Anefang e l.a.s.i.r. è stata puntualmente confutata da C. KUNDEREWICZ, The problem of ‘Anefang’ in certain ancient and medieval laws, in JJP. 9/10 (1955/56) 401 ss., e respinta anche da P. VOCI, Modi di acquisto della proprietà (Milano 1952) 281.

[43] V. infra, nel testo, § 4, sull’effettivo funzionamento del meccanismo di tutela processuale cui era legata la regola del commodum possessionis.

[44] R. von JHERING, o.l.c.; V. ARANGIO-RUIZ, Istituzioni cit., 115 nt. 2; con ulteriori considerazioni e dati testuali, G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 68 s., il quale precisa che, nel caso in cui il giudice avesse deciso di esimersi dalla decisione dichiarando ‘non liquet’, si sarebbe dovuto procedere alla nomina di un altro giudice.

[45] Per esperienze giuridiche simili in tempi non lontani, si v. G. LEPOINTE, Une ordalie privée en pays Malgache, in Mélanges H. Lévy-Bruhl (Paris 1959) 431 ss.

[46] Ampia discussione del problema e delle contrapposte opinioni soprattutto in E. ECK, Die sogenannten doppelseitegen Klagen cit., 9 ss. (per i più antichi processi germanici); M. KASER, Der altgriechische Eigentumsschutz, in ZSS. 64 (1944) 134 ss.; A. KRÄNZLEIN, Eigentum und Besitz im griechischen Recht des fünften und vierten Jahrhunderts v. Chr. (B. 1963) 138 ss.; A.R.W. HARRISON, The law of Hathens (Oxford 1968) 214 ss.; A. MAFFI, Processo di ‘status’ e rivendicazione in proprietà nel codice di Gortina: ‘diadikasìa’ o azione delittuale?, in Dike 5 (2002) 111 ss., con fonti e altra lett.

[47] Lo dimostrano M. SAN NICOLO’, Die Schlussklauseln der altbabylonischen Kauf-und Tauschverträge (München 1922) 23 s., 106, 165 ss.; e, per le affinità con gli antichi diritti danese e anglosassone, R. von JHERING, Geist cit., 92 ss., nott. 114, 129a, 129d., con lett. ivi cit.

[48] A tale riguardo occorre precisare che non sempre è riscontrabile la corrispondenza tra ‘relatività’ della tutela processuale e ‘relatività’ del diritto sul piano sostanziale (v. infra, nel testo). Negano, criticando il Kaser, che in Roma arcaica vi fosse corrispondenza tra la tutela relativa della proprietà e una nozione di ‘proprietà relativa’ in senso sostanziale, K.F. THORMANN, ‘Auctoritas’ cit., 1 ss., 60 ss.; M. SARGENTI, Il ‘de agri cultura’ di Catone, in SDHI. 22 (1956) 176 s.; G. DIÒSDI, Ownership cit., 105 s. Il nostro pensiero risulta dal testo, nonché da quanto considerato in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’, cit.: pur ammettendo che in molti contesti, storici e istituzionali, non sia dato ravvisare alcuna coincidenza tra ‘tutela relativa della proprietà’ e ‘proprietà relativa’ nel diritto sostanziale, ci sembra sufficientemente dimostrato che nelle fasi arcaica e tardo antica del diritto romano, così come in altre esperienze giuridiche medioevali, moderne e contemporanee, tale corrispondenza sia invece ravvisabile.

[49] Il tema è stato oggetto di ampio e vivace dibattito in ambito romanistico; per una descrizione sintetica, ma estremamente completa ed efficace del quadro a nostro avviso più verosimile delle forme di appartenenza nella Roma arcaica, v. G. DIÒSDI, Ownership, cit., 19 ss., 60 s.; A. CORBINO, Schemi giuridici dell’appartenenza nell’esperienza romana arcaica, in La proprietà e le proprietà. Pontignano, 30 settembre – 3 ottobre 1985. Atti del Conv. della Soc. it. di st. del dir., cur. E. CORTESE (Milano 1988) 3 ss., con accenni anche alle contrapposte opinioni.

[50] Come è noto, ai Romani fu sempre estranea non solo la terminologia di iura in re aliena, ma anche la consapevolezza di tale categoria; sulle origini medioevali e sull’evoluzione moderna della nozione di ‘diritto reale su cosa altrui’, v. soprattutto R. FEENSTRA, ‘Dominiumand ius in re aliena’: the origins of a civil law distinction, in New perspectives in the roman law of property. Essays for B. Nicholas (Oxford 1989) 111 ss.

[51] L’impiego di questa categoria con riferimento all’esperienza giuridica romana è tutt’altro che pacifico: sulla storia della nozione di ‘proprietà relativa’ e sul dibattito storiografico che su di essa si è sviluppato, rinvio a quanto ho già esposto in ‘Proprietà assolutae proprietà relativa’ cit., nt. 12 e passim.

[52] Il noto principio romano ‘res inter alios iudicata aliis non praeiudicat’ sembrerebbe deporre chiaramente nel senso della inopponibilità del giudicato: E. BETTI, D. 42.1.63. Trattato dei limiti soggettivi della cosa giudicata in diritto romano (Roma 1922) 1 ss., ma v. la dettagliata controargomentazionevolta a dimostrare i mutamenti intervenuti nella disciplina, nel corso dei secoli- di M. MARRONE, L’efficacia pregiudiziale della sentenza nel processo civile romano, in Annali Palermo 24 (1955) specialm. 21, 64 ss., 121, nonché quanto esposto dallo stesso A. nella relazione Riflessioni in tema di giudicato, svolta in occasione del Convegno Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo. Giornate di studio in ricordo di Giovanni Pugliese (Roma 9–11 giugno 2005).

[53] G. DIÒSDI, Ownership cit., 105.

[54] Ritengo verosimile che anteriormente alla trasformazione dell’ usus auctoritas in uso acquisitivo la maggior parte delle controversie sull’appartenenza dei beni vertesse appunto su questo aspetto.

[55] V. sul punto M. KASER, Eigentum und Besitz, cit., 117; F. WUBBE, Quelques remarques sur la fonction et l’origine de l’action Publicienne, in RIDA. 8 (1961) 417 ss.

[56] Lo ammette M. KASER, Neue Studien cit., 165.

[57] Era questa una ovvia implicazione della originaria assenza di demarcazione tra possesso e proprietà: G. DIÒSDI, Ownership cit., 124.

[58] Non si vede perché si dovrebbe escludere l’idoneità -così come sostiene G. DIÒSDI (Ownership cit., 106)- di una stessa procedura (nella specie, la l.a.s.i.r.) ai fini di apprestare tutela a diritti di carattere sia assoluto, sia relativo. E’ però vero che se una rivendica strutturata come giudizio comparativo (cioè con attribuzione dell’onere probatorio ad ambedue i litiganti) può adattarsi alla tutela di una ‘proprietà assoluta’, oltre che di una ‘proprietà relativa’ (v. le considerazioni svolte al riguardo infra, nel testo, con riferimento al fenomeno della registrazione della proprietà fondiaria nel common law), viceversa una rivendica che preveda l’onus probandi a carico della sola parte attrice risulterebbe inadeguata ai fini della protezione di una ‘proprietà relativa’ (non consentendo al giudicante una valutazione comparativa delle due dimostrazioni).

[59] Il tema è stato trattato più dettagliatamente in ‘Proprietà assoluta e ‘proprietà relativa’ cit.; mi limito a esporre, in questa sede, gli aspetti più strettamente attinenti alla tutela processuale del dominio. Rassegna di fonti, con esegesi critica e ragguagli sulla storiografia in materia, in R. MONIER, Du mancipiumau dominium’: essai sur l’apparition de la notion de propriété en droit romain (Paris 1947); M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 306 ss., 309 e nt. 5; L. CAPOGROSSI COLOGNESI, La struttura della proprietà e la formazione dei iura praediorumnell’età repubblicana I (Milano 1969) 64 ss., 105 ss., 492 ss.; v. anche G. PUGLIESE, ‘Dominium ex iure Quiritium’ – Eigentum Property, in ID., Scritti giuridici scelti IV. Problemi di diritto vigente (Napoli 1986) 413 ss. Fondamentale è l’espressione contenuta nella Lex agraria del 111 a.C. (FIRA., I.109, lin.27): Is ager locus domneis privatus ita, utei optuma lege privatus est, esto; sui modelli di organizzazione agraria dell’epoca immediatamente precedente, v. ora O. SACCHI, L’ ‘ager Campanus antiquus’ (Napoli 2004) 201 ss. e nt. 18.

[60] M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 307, ritiene che la scomparsa della proprietà relativa e l’affermazione della proprietà assoluta siano state dovute ad un mutamento della tutela processuale delle forme proprietarie, in senso più confacente alle nuove tendenze individualiste. Secondo altra impostazione, la definizione di una nozione di proprietà (assoluta), autonoma rispetto ad altre forme di appartenenza, sarebbe piuttosto conseguente alla emersione della categoria della servitus (copiosamente attestata da Cicerone) e alla comparsa dell’istituto dell’ usufructus: v. G. DIÒSDI, Ownership cit., 133 s., con altra bibl. Certamente non trascurabile, per la forte spinta all’elaborazione di nozioni giuridiche astratte, fu anche l’apporto della filosofia greca, che intorno al II e I sec. a.C. condizionò fortemente la nascente scienza giuridica romana: F. SCHULZ, Geschichte der römischen Rechtswissenschaft (Weimar 1961) 73 ss.

[61] Su cui si v. quanto attesta Gai 4.91, 93–95; tale azione risulta nota a Cicerone (Verr. 2.1.45.115), ma veniva adoperata già in epoca precedente, come espediente per superare la posizione paritaria dei litiganti e per addossare al solo attore la necessitas probandi, anteriormente gravante su entrambe le parti in causa: dettagli in F. BOZZA, ‘Actio in rem per sponsionem’, in Studi in onore di P. Bonfante II (Milano 1930) 591 ss.; M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 277 ss.; G. PUGLIESE, Il processo civile I cit., 357 ss.; G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 59 nt. 31; M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 8 ss., con fonti e altra bibl. La creazione della procedura per sponsionem dovette essere verosimilmente anteriore alla diffusione della nozione di dominium, perché vi compaiono espressioni analoghe a quella caratterizzanti l’antica l.a.s.i.r. (Gai 4. 93: … si homo quo de agitur ex iure Quiritium meus est …): in tal senso G. DIÒSDI, Ownership cit., 152.

[62] Fondamentali, al riguardo, soprattutto le testimonianze di Cic. Verr. 2.2.12.31 e Gai 4.91, sulle quali non possono gravare sospetti di itp. In lett., cfr. in partic. G. DIÒSDI, Ownership cit., 149 ss.; M. MARRONE, o.u.c. 11 ss. ed AA. ivi citt. Con la rivendica formulare, la comparsa del commodum possessionis realizza quella protezione del possesso (quale situazione distinta dall’esercizio del potere sulla cosa), che invece il più antico diritto romano, mediante la tecnica dell’arcaica actio in rem, mostrava di ignorare: G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 62 e nt. 44, e v. anche infra, nel testo.

[63]Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 6.

[64] Cfr. G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 83 ss.

[65] Ci risulta anzi l’assenza, fino all’età classica avanzata, non solo di regole tassative in tema di necessitas probandi, ma anche la mancata fissazione dei criteri di valutazione delle prove: G. PUGLIESE, L’onere della prova nel processo romano ‘per formulas’, in RIDA. 3 (1956) 349 ss.; ID., La preuve dans le procès romain de l’époque classique, in La preuve, Recueils de la Société Jean Bodin, 16.1 (Bruxelles 1965) 298 ss.; V. GIUFFRE’, ‘Necessitas probandi’. Tecniche processuali e orientamenti teorici (Napoli 1984). Circa l’oggetto della prova in rivendica, sono però chiare le attestazioni di Gai 4.93, di CI. 4.19.2 (a. 215), di CI. 4.19.12 (a. 293), di Ulp. D. 6.1.9; v. anche le fonti citt. supra, alla nt. 6.

[66] Sulle origini medioevali della teorica sulla probatio diabolica, cfr. F. FEENSTRA, Action Publicienne et preuve de la propriété principalement d’après quelques romanistes du Moyen Age, in Mélanges P. Meylan I (Lausanne 1963) 91 ss. ; H. KIEFNER, Klassizität der ‘Probatio diabolica’ ?, in ZSS. 81 (1964) 212 ss.; F. BENEDEK, Zur Frage des ‘Diabolischen Beweises’, in Studi in onore di A. Biscardi IV (Milano 1983) 445 ss.; V. GIUFFRE’, ‘Necessitas probandi’ cit., 194 nt. 24.

[67] Lo sottolinea F. STURM, Zur ursprünglichen Funktion der ‘actio Publiciana’, in RIDA. 9 (1962) 357 ss.

[68] In forza del quale l’erede subentra nella situazione possessoria del dante causa, e può quindi continuare la possessio ad usucapionem cui ha dato inizio il defunto; in età classica si ammise anche che in virtù dell’accessio possessionis l’acquirente a titolo particolare aggiungesse al suo possesso il possesso dell’alienante (I. 2.6.13).

[69] Tab. 6.3; V. sul punto M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 10.

[70] V. in tal senso M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 10.

[71] Sulla libertà del magistrato di concedere le vindiciae all’uno o all’altro dei contendenti, ampia trattazione in G. FRANCIOSI, Il processo di libertà cit., 62 ss., il quale dimostra anche l’inconsistenza dell’ipotesi –da taluni avanzata- secondo cui l’assegnazione del possesso interinale della res litigiosa sarebbe stata prevista dalla struttura originaria della l.a.s.i.r. Per la cautio pro prede litis et vindiciarum, prevista nell’actio per sponsionem, v. O. LENEL, E.P., 3° ed., § 282; qualora il convenuto avesse rifiutato di prestare la cautio, si sarebbe verificata la translatio possessionis in favore della controparte, e il convenuto, divenuto attore, sarebbe stato gravato dell’onus probandi.

[72] In ordine ai contenuti dell’editto, è questa la teoria dominante (per la cui formulazione v. soprattutto P. BONFANTE, L’editto Publiciano, in Scritti giuridici varii. II, Proprietà e servitù [Torino 1926] 389 ss.), benché non manchino differenti ricostruzioni, tra cui particolarmente significativa appare quella di F. WUBBE (Quelques remarques cit., 417 ss.), il quale ritiene che l’originaria funzione dell’actio Publiciana non fosse quella di tutelare quanti avessero acquistato beni senza le formalità prescritte dallo ius civile, ma quella, più ampia, di tutelare ogni possesor bonae fidei. Secondo tale a. –che su questo aspetto segue l’impostazione di M. KASER- la Publiciana sarebbe stata introdotta specificamente per ovviare alle difficoltà probatorie connesse con la struttura della rivendica formulare, a loro volta causate dall’affermazione di una nozione assoluta della proprietà: il tramonto della ‘proprietà relativa’ avrebbe comportato l’attribuzione dell’onere della probatio diabolica all’attore (pp. 422, 426). Contro Wubbe, F. STURM (Zur Ursprünglichen Funktion del ‘actio Publiciana’, in RIDA. 9 [1962] 357 ss.) ha riproposto l’impostazione tradizionale (indicando l’originaria funzione della Publiciana nella tutela degli acquisti informali a domino), sostenendo inoltre l’arbitrarietà della teoria che individua nella formula petitoria difficoltà probatorie, a carico dell’attore, pressoché insormontabili, dal momento che la teoria medioevale della probatio diabolica non è supportata da fonti romane (pp. 363 ss.); la mia opinione al riguardo risulta dal testo. Vivaci repliche, in chiave fortemente critica, alla ricostruzione di Sturm, sono state formulate da F. WUBBE (Der gutgläubige Besitzer, Mensch oder Begriff ?, in ZSS. 80 [1963] 203), da R. FFENSTRA (Action Publicienne cit., 91 ss.) e da H. KIEFNER (Klassizität der‘probatio diabolica’ cit., 212 ss.).

[73] L’ipotesi è stata formulata da F. WUBBE, Der gutgläubiger Besitzer cit., 189, e da M. KASER, ‘In bonis esse’, in ZSS. 78 (1961) 173 ss., specialm. 195, ma occorre ammettere che al riguardo mancano attestazioni esplicite delle fonti. Si esprime infatti in senso nettamente contrario F. STURM (Zur ursprünglichen Funktion cit., 385), il quale sostiene (anch’egli, però, senza alcuna base testuale), che le difficoltà probatorie, nelle due azioni, erano praticamente le stesse: ma si può facilmente obiettare che, pur considerando la brevità dei termini richiesti all’epoca per l’usucapione, la prova dell’ultimo acquisto informale doveva risultare comunque più agevole. Ritiene che la Publiciana fosse concessa solo ai soggetti non legittimati all’esercizio della rei vindicatio G. DIÒSDI, Ownership cit., 160 e nt. 66, sulla base della considerazione che l’azione si basava sulla finzione del compimento dell’usucapione e dunque, presumibilmente, il magistrato si rifiutava di concedere la Publiciana a chi già fosse proprietario; tale A. non ritiene pertanto applicabile alla fattispecie in esame la massima romana in eo, quod plus sit, semper inest et minus (Gai D. 50.17.110 pr.), dal momento che, per quanto risulta dalle fonti, le finzioni non venivano applicate a favore di soggetti che non ne avessero bisogno.

[74] Gai 1.54; 2.40.

[75] V. quanto già considerato al riguardo in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’, cit.; sul tema, fondamentali gli spunti di M. TALAMANCA, Considerazioni conclusive, in La proprietà e le proprietà cit., 183 ss.

[76] Sul punto, si v. P. BONFANTE, Sul cosiddetto dominio bonitario e in particolare sulla denominazione ‘in bonis habere’, in Scritti giuridici varii II cit., 370 ss.

[77] Per la discussione del tema, cfr. anche gli spunti offerti da R. von JHERING, Geist cit., 105 ss. con gli approfondimenti di J.A. ANKUM, Le droit romain classique a-t-il connu un droit de propriété bonitaire relatif ?, in Satura R. Feenstra (Fribourg 1985) 125 ss.

[78] L’antica legis actio era infatti lo strumento processuale di tutela della ‘proprietà relativa’, caratterizzante l’età romana arcaica: l’osservazione è di M. KASER, Eigentum und Besitz cit., 298.

[79] Fondamentale, sul tema, E. LEVY, West roman vulgar law. The law of property (Philadelphia 1951), dove risultano sviluppati gli spunti fortemente innovativi offerti da A. BISCARDI, Studi sulla legislazione del Basso Impero II. Orientamenti e tendenze del legislatore nella disciplina dei rapporti reali, in Studi senesi 54 (1940) 303 ss.; III. La nuova proprietà, in Studi senesi 56 (1942) 275 ss.; la materia è stata ulteriormente approfondita da C. A. CANNATA, ‘Possessio’ cit.; da P. DIURNI, Le situazioni cit., 1–45; da P. VOCI, Nuovi studi sulla legislazione del Tardo Impero (Padova 1989); e ancora da A. BISCARDI, Proprietà e possesso nell’indagine positiva sul diritto del Tardo Impero, in Atti dell’Accademia Romanistica Costantiniana 9 (Napoli 1993) 91 ss.; altra letteratura in L. SOLIDORO MARUOTTI, La tutela cit., e ‘Abstraktes Eigentume forme di appartenenza fondiaria nell’Impero romano, in SDHI. 67 (2001) 135 ss.

[80] L’ipotesi di influssi provinciali sull’affermazione, nell’ordinamento giuridico romano, di forme di tutela dell’appartenenza estranee al diritto classico, benché non suffragabile da prove specifiche, appare altamente probabile, non solo per lo stretto contatto intrecciatosi con i provinciali all’interno dell’esercito, ma, in materia di regime fondiario, soprattutto per le massicce concessioni di terre romane ai Germani assoggettati (Laeti), con l’obbligo di difendere la provincia (terrae Laeticae). Reputano determinante l’apporto di esperienze esterne nelle concezioni del regime proprietario romano A. GAUDENZI, L’antica procedura germanica e le ‘legis actiones’ del diritto romano (Bologna 1884); A. BISCARDI, Studi III cit., 343; B. BRUGI, Della proprietà, in Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza, diretto da B. BRUGI, IV (Napoli-Torino 1923) t. 1, 14 s.; G. LONGO, L’onere della prova nel processo civile romano, in IURA 11 (1960) 149 ss.

[81] Per le oscillazioni degli studiosi sulla esatta natura delle forme di appartenenza e soprattutto sulla struttura dei relativi rimedi processuali, cfr. soprattutto G.A. LEIST, Der attische Eigentumsstreit im System der Diadikasien (Jena 1886); A. KRÄNZLEIN, Eigentum und Besitz im griechischen Recht des fünften und vierten Jahrhunderts v. Chr. (B. 1963) con altra lett.

[82] Mi riferisco agli studi di G. DIURNI, Le situazioni cit.

[83] Cfr. con quanto già illustrato in ‘Proprietà assoluta’ eproprietà relativa’ cit., § 11, cui rinvio anche per i ragguagli bibl.; assolutamente fondamentali, L. HEUSLER, Die Gewere cit.; ID., Institutionen cit., 1 ss.

[84] E’ evidente che il sistema della ‘proprietà divisa’ o ‘appartenenza funzionalmente divisa’ (Geteiltes Eigentum) non aveva nulla a che vedere con il ben diverso fenomeno della contitolarità del diritto di proprietà; ampiamente, sul tema, P. GROSSI, Le situazioni reali nell’esperienza giuridica medievale (Padova 1968); ID. Un altro modo di possedere (Milano 1977) con altra bibl.

[85] Tanto risulta dai documenti della prassi, per il cui esame si rinvia a G. DIURNI, Le situazioni possessorie cit., 46 ss., 196 ss.

[86] Sull’assenza della proprietà individuale presso i popoli franco-germanici, indifferenti, in particolare, alla proprietà fondiaria, sono assolutamente esplicite le attestazioni di Caes. de bell. Gall. 4.1.3–7; 6.21.1–2; e di Tac. Germ. 26.2, riportate per esteso in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 11.

[87] Si rinvia, sul punto, alla dettagliata esposizione in M. A. BETHMANN-HOLLWEG, Der Civilprozess des gemeinen Rechts in geschichtlicher Entwicklung. IV, Der germanisch-romanische Civilprozess (Bonn 1868, rist. 1874); E. ECK, Die sogenannten doppelseitigen Klagen cit.; J. GAUDEMET, La preuve (Bruxelles 1964) 99 ss.; G. DIURNI, Le situazioni possessorie cit., 46 ss., 97 ss., con altra bibl.

[88] Ciò attesta ed. Rotari 227, a. 643.

[89] In tal senso, G. ASTUTI, Spirito del processo longobardo: il processo ordalico, in Atti del Convegno int. ‘La civiltà dei Longobardi in Europa’, Accad. Naz. dei Lincei, Problemi attuali di scienza e cultura, 370 (Roma 1973) 1 ss., ora in ID., Tradizione romanistica e civiltà giuridica europea, cur. G. DIURNI, I (Napoli 1984) 83 ss.; G. DIURNI, Le situazioni possessorie cit., 69 ss., 93 ss., 115 ss.

[90] V. l’esposizione in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 11. Sulla discussa interpretazione della formula malo ordine, cfr. P. OURLIAC – J. DE MALAFOSSE, Histoire du droit privé. II, Les biens (Paris 1961) 331 s. (i quali considerano il possessore malo ordine alla stregua di un usurpatore, o autore di spoglio); F. SINATTI D’AMICO, Le prove giudiziali nel diritto longobardo. Legislazione e prassi da Rotari ad Astolfo (Milano 1968) 263 s. (secondo cui l’espressione allude a una situazione di abuso e inganno); G. DIURNI, s.v. Possesso (diritto intermedio), in E.D. XXXIV (Milano 1985) 476, e v. anche Le situazioni possessorie, cit., 89 ss., e A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione (diritto intermedio), in E.D. XLI (Milano 1989) 31 e nt. 7 (i quali ritengono, piuttosto genericamente, che malo ordine significhi solo ‘difetto di valido titolo’).

[91] Così P. S. LEICHT, Il diritto privato preirneriano (Bologna 1933) 147 e nt. 1, e da P. OURLIAC – J. DE MALAFOSSE, Histoire cit., II, 332; altri dettagli in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 11.

[92] Sul punto, sono assolutamente espliciti i contenuti della lex ribuaria 33 e della lex salica 49. Altre fonti e rassegna bibl. in G. DIURNI, Le situazioni cit., 97 ss. e passim; L. MENGONI, Gli acquisti cit., 44 s.

[93] Il tema è stato trattato in ‘proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 12 e soprattutto nei miei studi su La tutela cit., 155 ss. Il testo più significativo è un rescritto del 215, di Antonino Caracolla, conservato in CI. 4.19.2 (Possessiones, quas ad te pertinere dicis, more iudiciorum persequere. Nec enim possessori incumbit necessitas probandi eas ad se pertinere, cum te in probatione cessante dominium apud eum remaneat).

[94] Circa un secolo dopo il rescritto di cui alla nt. prec., in antitesi con l’indirizzo espresso da Caracalla nel 215, Costantino, con una cost. del 325 (CTh. 11.39.1, per la cui esegesi rinvio a quanto ho già esposto ne La tutela cit., 163 ss. e in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 12), si pronunciò favorevolmente all’applicazione dei mores regionum. Questa svolta fu in qualche misura temperata dall’abile tentativo di raccordare l’innovazione con le regole tradizionali romane: dopo avere ricordato che l’attribuzione dell’onere della prova all’attore in petitoria si basava su una regola assai antica, corroborata dalla riflessione dei giuristi e da rescritti imperiali, la cancelleria costantiniana affermava che l’equità e la giustizia imponevano una modifica della disciplina tradizionale, per cui, pur rimanendo confermato il principio che in prima battuta spettava all’attore la prova del suo titolo, se poi tale prova si fosse rivelata insufficiente, l’onere della dimostrazione sarebbe stato addossato anche al convenuto-possessore, il quale avrebbe dovuto dimostrare la natura del suo possesso, per consentire al giudice di far luce sulla verità (CTh. 11.39.1, a. 325: Etsi veteris iuris definitio et retro principum rescribta in iudicio petitori eius rei quam petit necessitatem probationis dederunt, tamen nos aequitate et iustitia moti iubemus, ut, si quando talis emerserit causa, in primordio iuxta regulam iuris petitor debeat provare, unde res ad ipsum pertineat; sed si deficiat pars eius in probationibus, tunc demum possessori necessitas inponatur probandi, unde possideat vel quo iure teneat, ut sic veritas examinetur); l’obbligo imposto ad ambedue le parti processuali di attivarsi, eventualmente, ai fini della dimostrazione, era funzionale anche ad una esigenza di carattere generale, quella di evitare che il giudice pronunciasse sentenze di non liquet.

[95] La tutela cit., 174 ss.; ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 12. CTh. 11.39.12: Cogi possessorem ad eo qui expetit titulum suae possessionis edicere, quae tanta erit amentia, ut ratione praepostera petitor ab eo quem pulsat informari suas postulet actiones, cum omnem probationem exigi oporteat ab eo, qui vindicare nititur, non ab eo, qui se iuste tenere contendit? Intentanti namque, non suscipienti probationum necessitas inponenda est, praeter eum, qui edicere cogitur, utrum ex sua persona an ex successione coeperit possidere.

[96] Al riguardo, rinvio alle considerazioni che ho svolto in ‘Abstraktes Eigentum’ cit., 180 ss.

[97] Lo sottolineava già P. BONFANTE, L’editto publiciano, in Scritti II cit., 389 ss., specialm. 406 ss.; ID., L’azione Publiciana nel diritto civile, ibid., 439 ss.; v. ora anche C.A. CANNATA, Corso di Istituzioni di diritto romano I (Torino 2001) 551 ss.; per altri ragguagli sul punto, rinvio alla seconda parte del mio contributo su Ripartizione e attenuazione cit.

[98] Per una trattazione più approfondita su queste vaste e complesse tematiche, si v. quanto ho già esposto in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., §§ 13–15, con bibl.

[99] A tal riguardo, tra la vasta bibl. già segnalata supra, al § 2, v. soprattutto W.W. BUCKLAND-A.D. Mc NAIR, Roman law and common law cit., 67 ss.; A. GAMBARO, La proprietà cit., 57 e nt. 35.

[100] Ulteriori informazioni su quel tipo di real property che viene detta Registered Land, in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 26 ss.

[101] Così F.H. LAWSON – B. RUDDEN, The law of property cit., 115.

[102] In tal senso, F. POLLOCK – F.W. MAITLAND, History cit., 67.

[103] Nel caso Martin d. Tregonwell v. Strachan, (1742) T.R., 107; il principio è stato accolto dalla House of Lords – Danford v. Mc Anulty, (1883) 8 App. Cas., 456-, nonché dal Privy Council – Emmerson v. Maddison, [1906] A.C., 569; ulteriori ragguagli in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 17 ss.

[104] Nell’azione di ejectment “possession is prima facie evidence of legal title” (per questa formula, e relativa casistica, cfr. S.A. WIREN, The plea of ‘ius tertii’ in ejectment, in LQR. 41 [1925] 139 ss., specialm. 142). Sui caratteri generali del rimedio in oggetto, P.H. WINFIELD – J.A. JOLOWICZ, On tort, 10° ed. (L. 1975) 385 ss., e v. infra, nel testo.

[105] E ciò dal momento che i nessi sussistenti con l’illecito civile (tort) sarebbero di natura puramente storica: F.H. LAWSON, The rational strenght of english law (L. 1951) 125; sulle cause storico-giuridiche del venir meno di questo legame, v. S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 23 ss.

[106] Discussione del problema, con riferimenti bibl., in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 18 s.

[107] Così A.D. HARGREAVES, Terminology and title in ejectment, in LQR. 56 (1940) 378 ss.

[108] W. HOLDSWORD, History of english law, VII (cap. The land law. Trespass and Ejectment) (L. 1909) 62. Tale a. è definito da A. D. HARGREAVES (Terminology and title cit., 378) “il più rivoluzionario” tra quanti hanno studiato la struttura dell’ ejectment.

[109] Questo pensiero è stato ribadito da W. HOLDSWORTH, nell’articolo Terminology and title in ejectment. A reply, in LQR. 56 (1940) 479 ss., scritto in replica alle critiche mossegli da Hargreaves.

[110] In forza del Land registry act 1862.

[111] Per la cui elencazione, si v. Halsbury’s statutory instruments, XVIII, Real property, P.I.: Land registration.

[112] L’efficacia della registrazione consiste nella garanzia per evizione assunta dallo Stato e della quale può avvalersi l’acquirente qualora l’alienante non sia owner del legal estate; altra importante funzione della registrazione è quella della pubblicità (l’acquirente è posto in grado di conoscere eventuali legal estates o interests che terzi vantino sull’immobile), nei confronti della quale, tuttavia, la cultura giuridica anglosassone continua a manifestare la sua tradizionale insofferenza: ampia trattazione in M. LUPOI, Appunti sulla real property e sul trust nel diritto inglese (Milano 1971) 88 e passim.

[113] N. PICARDI, La trascrizione delle domande giudiziali (Milano 1968) 128.

[114] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 28.

[115] V. al riguardo S.A. WIREN, The plea of ‘ius tertii’ cit., 142.

[116] Sulle ragioni storiche di questo assetto, S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 19 ss.

[117] Dati in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 25 nt. 59.

[118] Il possesso valido come titolo in ejectment sarebbe, secondo Holdsworth, il rapporto materiale con il bene protratto per il termine indicato negli Statutes of Limitation, che è generalmente ventennale: dettagli in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 25 e nt. 60.

[119] Che si muove sulla scia di F.H. LAWSON, The rational strenght cit., 99 s.

[120] Così F.H. LAWSON, o.l.u.c.

[121] Gli eventi fondamentali nell’affermazione del concetto assoluto, unitario e astratto della proprietà sono stati costituiti dalla Rivoluzione francese, dalla formulazione dell’art. 544 del Codice Napoleone e dal contributo di alcuni autori della Scuola storica e dell’indirizzo pandettistico (specie Savigny e Windscheid); per una più ampia trattazione e ragguagli bibl., rinvio al mio studio su ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., §§ 16–18.

[122] ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 19.

[123] Particolarmente efficace resta, al riguardo, la trattazione di B. BRUGI, Il diritto civile italiano secondo la dottrina e la giurisprudenza. IV, Della proprietà, t. 2, 2° ed. (Napoli-Torino 1923) 58, nt. 2 s.

[124] Queste le parole di B. BRUGI, Della proprietà II cit., 578.

[125] Ulteriori informazioni in A. AMATI – A. CASTELLI, Manuale sul codice generale austriaco (Milano 1844) 158; G. BASEVI, Annotazioni pratiche al Codice civile austriaco (Milano 1847) 118 ss.; B. BRUGI, Della proprietà cit., 56 ss.; A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 45.

[126] Così A. AMATI – A. CASTELLI, Manuale cit., 161

[127] Ciò benché nel terzo libro del BGB (Sachenrecht) sia tracciata una netta distinzione tra regime della proprietà immobiliare (§§ 925–928) e mobiliare (§§ 929–936); una differenziazione nella tutela dei beni sussiste nella previsione di un’azione di natura ibrida e del tutto particolare (poi imitata anche dal Codice civile svizzero), che attribuisce ai beni mobili una “protezione possessoria di natura petitoria”: altri elementi e bibl. in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 76 s.

[128] Tant’è che la dottrina tedesca non disdegna di qualificarla occasionalmente come rei vindicatio (cfr. F. BAUR, Lehrbuch des Sachenrechts [München 1973] 81) e di definirla come una “Verwirklichung des Eigentums” (H. WESTERMANN, Sachenrecht [Karlsruhe 1960] 137).

[129] La necessità di instaurare una relazione di interdipendenza tra azione processuale e diritto tutelato è ben colta e sottolineata dagli interpreti (H. WESTWERMANN, Sachenrecht cit., 136: “der Anspruch ist dem Eigentum gegenüber unselbständig, fällt also mit ihm fort“)

[130] E dal momento che in Germania la validità degli atti traslativi dei diritti sugli immobili è subordinata alla registrazione nel libro fondiario, solo in pochi casi (quali, ad es., la successione a causa di morte, o i provvedimenti giudiziali, per cui il proprietario non annotato nel libro fondiario può chiedere la correzione) l’attore è tenuto a una prova più complessa: F. BAUR, Lehrbuch des Sachenrechts, 2° ed. (München 1985) § 22; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 78.

[131] V. infra, nel testo; dettagliata trattazione della disciplina tedesca in L. MENGONI, Gli acquisti ‘a non domino’ (rist. 3° ed., Milano 1994) 74; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 78 ss., con altra bibl.

[132] Si tratta di un sistema apertamente ‘invidiato’ dagli interpreti francesi, i quali esprimono accorato rammarico per essere costretti ad accontentarsi di una prova relativa della proprietà, a causa del loro imperfetto meccanismo di registrazione immobiliare: A. COLIN – H. CAPITANT – L. JULLIOT DE LA MORANDIèRE, Traité de droit civil VII (Paris 1959) § 462, 250, ma v. quanto richiamato alla nt. successiva. Sulla rivendica immobiliare francese v. anche infra, nel testo.

[133] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 145, la quale rileva (p. 203), tuttavia, che la tutela di cui dispone il proprietario tavolare tedesco è in fondo solo ‘relativa’, in quanto colui che figura come proprietario sul libro fondiario soccombe nei confronti dell’acquirente titolare di un diritto personale (è proprio quest’ultimo, anzi, che il diritto romano avrebbe qualificato come dominus ex iure Quiritium). Sotto questo profilo, va quindi esclusa la riproduzione pedissequa, in Germania, del sistema romano classico.

[134] Scolpisce efficacemente, e in estrema sintesi, un passaggio di questa vicenda A. GAMBARO (Presentazione cit., VII): “… l’influenza delle regole romanistiche, dominanti in materia immobiliare, spinge perché sia adottato il criterio della usucapione trentennale, niente meno. Ma la reazione germanistica non si fa attendere: si proclama la regola dell’anno e giorno. Il possesso per tal tempo protrattosi si trasmuta in una forma di proprietà”.

[135] Al cui primo comma si enuncia il celebre principio “En fait de meubles la possession vaut titre”; esauriente analisi dell’art. 2279 e delle sue radici storiche in L. MENGONI, Gli acquisti cit., 34 ss.; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 58 ss.; v. anche quanto già esposto in L. SOLIDORO MARUOTTI, La tradizione romanistica nel diritto europeo. II, Dalla crisi dello ‘ius commune’ alle codificazioni moderne (Torino 2003) 109 s.

[136] La trattazione insufficiente e frammentaria della rivendica all’interno di alcuni codici moderni è stata considerata da B. BRUGI (Della proprietà II cit., 566) la inevitabile conseguenza dell’approccio radicalmente differente che caratterizza il sistema codicistico rispetto al diritto romano: mentre questo era fondato sulle azioni, “la nostra legge determina dei diritti, rilasciando molto, per le azioni, alla dottrina, salvo la necessità del Codice di procedura per la competenza, per la forma degli atti processuali etc.”.

[137] Secondo la definizione di M.PLANIOL – G. RIPERT- M. PICARD, Traité pratique cit., III § 351, 318, “la rivendicazione è l’azione esercitata da una persona che reclama la restituzione di una cosa, pretendendo di esserne il proprietario”, pertanto, “la rivendicazione si fonda sull’esistenza del diritto di proprietà e ha per scopo il conseguimento del possesso”. Tuttavia, nonostante l’insistente richiamo alla figura del proprietario, quale legittimato attivo, “dottrina e giurisprudenza rivelano che l’azione è concessa anche a personaggi meno qualificati” (S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 102).

[138] H. MAZEAUD – L. MAZEAUD, Leçons de droit civil II (Paris 1967) 279: “In nessun testo del Codice civile è disciplinata la prova della proprietà immobiliare. La giurisprudenza ha dovuto supplire alla carenza del legislatore”. Sebbene il legislatore francese abbia regolato compiutamente la prova delle obbligazioni, in materia di prova della proprietà si è limitato, nell’art. 1350, a fare riferimento all’usucapione, quale presunzione legale assoluta del diritto di proprietà: G. BAUDRY-LACANTINERIE – A. WAHL, Trattato di diritto civile. Dei beni, 3° ed. (tr. it. Milano s.d.) § 236, 183. Poiché nell’ambito delle obbligazioni l’art. 1315 Code civil assegna all’attore l’onere probatorio, parte della dottrina francese, richiamando questo dato, ha optato per una soluzione vistosamente romanistica: “l’attore ha l’onere della prova: deve provare il diritto di proprietà che pretende gli appartenga; non sarebbe sufficiente dimostrare che il convenuto è privo di diritto (M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., III 351); “non è sufficiente all’attore dimostrare l’assenza di diritto del suo avversario, egli deve dimostrare il fondamento della sua pretesa, cioè il suo diritto di proprietà” (H. MAZEAUD – L. MAZEAUD, Leçons de droit civile cit., § 164). In queste asserzioni è stata notata (S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 103 nt. 12) una forte affinità con la formula adottata dai giudici inglesi nell’azione di ejectment: “l’attore deve vincere per la forza del suo titolo, non per la debolezza di quello del convenuto”. Altra parte della dottrina francese ha invece rifiutato di ritenere estensibile alla materia dei diritti reali il disposto dell’art. 1315: v. soprattutto C. APPLETON, Histoire de la propriété prétorienne et de l’action publicienne (Paris 1889).

[139] Si è rilevato (C. AUBRY – F.C. RAU, Cours de droit français d’après la méthode de Zachiariae, 4° ed. [Paris 1869–1878] § 219), infatti, che “fuori dall’usucapione, la prova del diritto di proprietà (…) non potrebbe, in pura teoria, essere fornita in modo completo che con la produzione di un titolo traslativo della proprietà, accompagnata dalla giustificazione del diritto del dante causa immediato e di quello dei predecessori di quest’ultimo. Ma una prova così rigorosa si concilierebbe difficilmente con le esigenze pratiche; e sembra, d’altra parte, che dal punto di vista dell’equità non si possa pretendere dal rivendicante che la prova di un diritto migliore o più probabile di quello del convenuto”.

[140] Lo sottolineano M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., III 354.

[141] Così, in particolare, A. COLIN – H. CAPITANT, Traité de droit civil VII cit., § 462, 250.

[142] In tal senso A. COLIN – H. CAPITANT, Traité de droit civil VII cit., § 462, 250.

[143] Cfr. A. GAMBARO, Presentazione cit., IX s.

[144] Rinvio a quanto ho già segnalato ne La tradizione romanistica II cit., 117.

[145] Sul punto cfr. S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 102 ss., con altra bibl., e v. quanto già esposto supra.

[146] In questo senso, v. soprattutto C. AUBRY – F.C. RAU, Cours de droit civil français, cit., § 219; M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., III 360 s. 

[147] Lo ricorda A. GAMBARO, Presentazione cit., X. E’ interessante notare che, al contrario, l’Imperatore Costantino indicava nel giudizio comparativo lo strumento processuale più idoneo per il conseguimento della veritas in senso oggettivo: v. supra, nt. 94.

[148] La nozione di ‘proprietà relativa’, applicata da M. KASER (Eigentum und Besitz cit.) all’esperienza giuridica romana, era già stata introdotta sul finire del XIX secolo nell’ambito della romanistica tedesca e della scienza civilistica francese; si v. quanto già esposto in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit.

[149] Le critiche –a mio avviso per lo più non condivisibili- che ha suscitato l’impiego della categoria ‘proprietà relativa’ hanno indotto di recente gli studiosi a circoscrivere il concetto della relatività in ambito strettamente processuale, inquadrando i fenomeni fin qui illustrati come forme di ‘tutela relativa’ della proprietà (v. ad es. L. MENGONI, Gli acquisti cit., 113 ss., 152 ss.). La relatività del diritto di proprietà è definita da A. TABET, s.v. Rivendicazione cit., 227 nt. 1-, in modo piuttosto sbrigativo, un “concetto erroneo”; è sorprendente che al più convenzionale concetto di ‘proprietà assoluta’ non si rivolga invece, generalmente, un’attenzione altrettanto critica.

[150] Così A. AMATI – A. CASTELLI, Manuale cit., 161; A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 46.

[151] In questo ambito, ebbe grande peso la costruzione di R.-J. POTHIER, Traité du droit de la propriété, in Traités-Oeuvres, 2° ed. (Paris 1781) § 292.

[152] A. DURANTON, Corso di diritto civile secondo il codice francese IV (Torino 1841) 519 ss.

[153] R.T. TROPLONG, Commentaire sur la prescription I (Bruxelles 1843) 230; ID., Le droit civil expliqué suivant l’ordre du Code Civil. De la vente I (Bruxelles 1841) n.235.

[154] C. DEMOLOMBE, Corso del codice civile. Prima versione italiana degli avvocati G. De Filippis, F. Mascilli e G. Tucci IX (Napoli 1847–1848) n. 481.

[155] C. AUBRY – F.C. RAU, Cours de droit civil français, 4° ed., cit., § 219, n.1.

[156] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 109.

[157] Questa la strada indicata da già R.-J. POTHIER, Traité du droit de la propriété cit., § 292, su cui v. B. BRUGI, Della proprietà II, cit., 595. Come si è accennato, all’attore si richiede solo di provare di avere in passato posseduto, di avere posseduto anteriormente al convenuto e di avere attuato un possesso “meglio caratterizzato”, anche se non corredato dei requisiti della possessio ad usucapionem: A. COLIN – H. CAPITANT, Traité de droit civil II (Paris 1959) 253; M. PLANIOL – G. RIPERT – M. PICARD, Traité pratique cit., III 354.

[158] F. LAURENT, Principi di diritto civile IV (tr. it. Milano 1910) 155 ss.

[159] Cours de droit français, cit., II, 7° ed., (cur. ESMAIN) 507, n.3. L’esigenza di ammettere l’esistenza di tale rimedio sarebbe in ciò, che “se è sufficiente aver posseduto per un anno per esercitare la complainte in caso di spossessamento, sarebbe sorprendente che colui che ha posseduto per ventotto anni non possa, se è stato privato del possesso durante un anno, recuperare il suo immobile”.

[160] G. BAUDRY-LACANTINERIE – A. CHAVEAU, Traité théorique et pratique de droit civil V. Les biens (Paris 1896) n. 253, 184.

[161] Così C. AUBRY- F.C.RAU, Cours de droit français II. Droits réels, 5° ed., cur. RAU-FALCIMAIGNE (Paris 1897) § 219, 564.

[162] Traité du droit de propriété cit., 463, n.323: “... il titolo che produco non mi è di per sé sufficiente ... a meno che ne produca altri più antichi che provino che colui il quale ... mi ha venduto o regalato il bene che è oggetto dell’azione di rivendica ne era effettivamente proprietario: perché io non posso procurarmi un titolo con una vendita o una donazione di un immobile che altri possiede, da una persona che non possiede; il possessore è, per la sua sola qualità di possessore, presunto essere il proprietario del bene, invece di quello che me l’ha venduto, che non lo possedeva …”.

[163] Cass. Ch. Civ. 22 juin 1864, in D. 1864, 1,413, in cui è soprattutto affrontato il problema della opponibilità ai terzi degli atti traslativi della proprietà.

[164] S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 114, con altra bibl. e riferimenti giurisprudenziali.

[165] Dati in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 118 s., con altra bibl.

[166] Lo chiariscono, tra gli altri, C. AUBRY- F.C. RAU, Cours de droit civil français II cit., 347, 389; e, in Italia (v. infra, § 14), E. PACIFICI MAZZONI, Istituzioni di diritto civile italiano II (Firenze 1867) 31 ss.; G. LOMONACO, Della distinzione dei beni e del possesso (Napoli 1891) 554 ss.

[167] V., tra gli altri, E. CARUSI, L’azione publiciana è ammissibile nel diritto civile, in Annuario critico, 1890, 444; C. FERRINI, L’azione publiciana nel diritto civile, ibid., 154; A. DOVERI, Istituzioni di diritto romano I (Firenze 1866) 541; F. FILOMUSI GUELFI, Diritti reali (Roma 1902) § 43.

[168] In Appendice a G. BAUDRY-LACANTINERIE – A. WAHL, Dei beni, cit., 959; ID., L’azione Publiciana nel diritto civile, in Scritti giuridici varii II. Proprietà e servitù (Torino 1918) 439 ss.

[169] Della proprietà II cit., 575 ss., specialm. 592 ss.

[170] P. BONFANTE, Appendice, cit., 959; il BRUGI, invece, pur negando vigorosamente l’ammissibilità della Publiciana per la tutela della proprietà immobiliare, ne asserì la validità in ordine ai beni mobili (Della proprietà II cit., 602). Il rifiuto in toto della Publiciana è stato espresso anche da G. TISCORNIA, Sulla prova della proprietà nel diritto italiano, in Cassazioni unite civili, 1910, 209; A. BUTERA, La rivendicazione nel diritto civile, commerciale e processuale II (Milano 1911) 359 ss.

[171] Nell’affermazione del diritto del proprietario all’esercizio dell’azione, contenuta nell’art. 439 c.c. 1865, l’aggiunta della formula “salve le limitazioni stabilite dalla legge” è stata giudicata come un pleonasmo “privo di rilevanza teorica e pratica” (A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione, cit., 47). Sugli indirizzi giurisprudenziali, v. A. ASCOLI, Nota a Cass. Roma, 30 maggio 1911, in Foro it., 1911, I, 1117 ss.

[172] A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 48, così sintetizza i rilievi di A. BUTERA, Rivendicazione cit., 603, e di A. GRANITO, s.v. Rivendicazione (azione di), in D.it., XX, pt. 2 (Torino 1913/1918) 1400 ss., specialm. 1416.

[173] Su cui cfr. M. NOBILI, Il principio del libero convincimento del giudice (Milano 1974) e, con specifico riguardo al tema qui trattato, A. BUTERA, s.v. Rivendicazione cit., 352 ss.

[174] Così, A. GRANITO, s.v. Rivendicazione cit., 1413, con giurisprudenza; v. anche A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 48; tra le pronunce giurisprudenziale v. soprattutto Cass. Torino, 16 marzo 1870, in Giur. it., 1870, I, 287.

[175] S. FERRERI, s.v. Rivendicazione cit., 55; l’adesione alla dottrina già formulata in Francia da R.-J- PO­THIER, Traité du droit de la propriété cit., §§ 323–337, e poi accolta, tra gli altri, come già segnalato da AUBRY- RAU e APPLETON, si registra anche in Italia, ad opera di G. LOMONACO, Istituzioni di diritto civile italiano III (Napoli 1827) 127; E. PACIFICI MAZZONI, Istituzioni di diritto civile italiano III, pt. I (Firenze 1905) 405.

[176] V. per tutti A. TABET – E. OTTOLENGHI – G. SCALITI, La proprietà, in Giurisprudenza sistematica civile e commerciale (fond. W. BIGIAVI) (Torino 1981) 983.

[177] In giurisprudenza, v. ad es., Cass., 25 novembre 1978, in Giur. it. rep., 1978, v. Proprietà, n. 56; per la dottrina, cfr. soprattutto A. TABET, Rivendicazione (azione di), NNDI. XVI (Torino 1969) 226 ss., ma già nello stesso senso si erano espressi L. BARASSI, Proprietà e comproprietà (Milano 1951) 827, e S. PUGLIATTI, Rivendica, reintegra e azione per restituzione, in Foro it., 1933, I, 1532.

[178] Cfr. L. BARASSI, Proprietà e comproprietà cit., 836; G. RUSSO, Azioni a difesa della proprietà, in Commentario al codice civile, diretto da M. D’AMELIO-E. FINZI, III, Libro della proprietà (Firenze 1942) 515; F. DE MARTINO, Beni in generale. Proprietà, in Commentario del codice civile, a cura di A. SCIALOJA – G. BRANCA, Lib. III, Della proprietà (art. 810956) (Bologna-Roma 1976) 538; in giurisprudenza, v. Cass. 12 dicembre 1977, n. 5394, in Foro it. rep., 1977, v. Proprietà (azioni a difesa), n. 13; Cass. 18 agosto 1981, n. 4931, in Foro it. mass., 1981, 1015.

[179] Lo sottolinea A. TABET, s.v. Rivendicazione cit., 227.

[180] Il problema fu già posto sul finire del XIX secolo (approfondimenti in A. SCIUME’, s.v. Rivendicazione cit., 47 s.) e il dibattito che ne scaturì fece emergere la tendenza –in dottrina e in giurisprudenza- al riconoscimento all’enfiteuta del diritto di esercitare la rivendica; attualmente, è opinione comunemente accolta che ai titolari dei diritti reali limitati spetti l’esercizio di una azione che taluni qualificano ‘rivendicazione’, altri ‘azione confessoria’: altri dettagli, con ampio ragguaglio bibl., in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 6 ss. E’ invece escluso l’esercizio della rivendica da parte del nudo proprietario, in quanto privo del diritto di godimento e di possesso della cosa: A. BUTERA, Delle azioni a difesa della proprietà, in Il nuovo codice civile italiano commentato (Torino 1941) 275; F. SALARIS, L’azione di rivendicazione, in Trattato di diritto privato, diretto da P. RESCIGNO, VII, t. 1 (Torino 1982) 676.

[181] Ampi ragguagli in A. TABET, s.v. Rivendicazione cit., 227; F. DE MARTINO, Beni cit., 538; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 122 ss.

[182] La dottrina ha esaminato la questione soprattutto sotto la spinta di sentenze innovative: F. SCADUTO, Riconoscimento del diritto di proprietà ed azione di rivendicazione, Nota a Cass., 11 agosto 1924, in La Corte di Cassazione, 1925, 850; P. GIAMMIRO, Revindica e prova della proprietà, Nota a Trib. Teramo, ord. 6 giugno 1949, in Riv. giur. abbruzz., 1950, 140; R. CORONA, “Probatio diabolica” e riconoscimento del dominio, in Rass. giur. sarda, 1959, 686; A. PROTO PISANI, Sulla tutela giurisdizionale “del diritto di proprietà”, Nota a Cass., 16 ottobre 1970, in Foro it., 1971, I, c. 434. Tra le trattazioni più ampie ed organiche: G. VERDE, L’onere della prova nel processo civile (Napoli 1974) 457 ss.; C.A. GRAZIANI, Il riconoscimento dei diritti reali (Padova 1979) 212; C. GRANELLI, Il riconoscimento dei diritti reali (Milano 1983) 126 ss.; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 122 ss.

[183] Cass., 9 febbraio 1956, n. 392, in Giust. civ., 1956, I, 403, su cui v. S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 125 nt. 76.

[184] Lo sottolinea A. DI MAJO, La tutela civile dei diritti III, 3° ed. (Milano 2001) 86.

[185] Cass., 4 luglio 1966, n. 1722, in Mass. Cass., 1966; Cass., 2 ottobre 1970, n. 1778, in Giur. it., 1971, c. 233.

[186] Cass., 6 dicembre 1974, n. 4049, in Giur. agr. it., 1976, 426.

[187] Cass., 9 febbraio 1981, n. 816, in Foro it. mass., 1981, 305.

[188] Cass., 21 luglio 1984, n. 4276, in Foro it. mass., 1984.

[189] V. ancora Cass., 9 febbraio 1981, n. 816 cit.

[190] Cass., 10 marzo 1969, n. 771.

[191] Esemplare, in tal senso, già Cass., 18 febbraio 1966, n. 516, in Foro Pad., 1966, I, c. 984: “In tema di rivendica, l’attore deve dimostrare il suo diritto di proprietà mediante una serie ininterrotta di titoli di acquisto, suoi e dei suoi aventi causa, fino a giungere ad un acquisto a titolo originario e cioè fino ad esaurire il tempo necessario per l’usucapione; Tuttavia, nell’ipotesi in cui il convenuto ammetta in modo non equivoco che, fino a un certo momento, il bene conteso era di proprietà dell’attore o dei suoi aventi causa, è sufficiente che l’attore provi la serie ininterrotta di titoli di acquisto solo fino a quel momento”. Altri particolari in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 124 s.

[192] Così S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 124.

[193] Cass., 9 febbraio 1956, n. 392 cit.

[194] V. specialm. GIAMMIRO, Revindica cit., 140.

[195] Molto significativo degli orientamento in oggetto è anche il principio (confermato dalla giurisprudenza) della libertà dei mezzi di prova, tema su cui rinvio alle considerazioni svolte da S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 126 ss. ove ampio ragguaglio su dottrina e giurisprudenza.

[196] V. ad es., G. PESCATORE – A. DI FILIPPO, Rassegna di giurisprudenza sul codice civile, L. III, t.1, art. 810–977 (Milano 1968) 511, nt. 27; in giurisprudenza, C. App. Milano, 20 giugno 1950, in Foro Pad., 1950, II, c. 71, nt. 251.

[197] V. tra gli altri L. BARASSI, Proprietà cit., 827; l’azione di mero accertamento del diritto di proprietà immobiliare è espressamente prevista all’art. 2653, n. 1, c.c.

[198] Così Cass., 5 maggio 1973, n. 1182, in Giust. civ. rep., s.v. Rivendicazione, n. 4.

[199] Cass., 25 gennaio 1957, n. 189, in Foro it. mass., 1958, c. 36; Cass., 26 ottobre 1961, n. 2420, in Giust. civ. rep., 1961, s.v. Rivendicazione, n. 5; Cass., 9 marzo 1983, n.1766, in Foro it. mass., 1983, 366; in dottrina, cfr. E. BIANCHI, Corso di codice civile italiano IX (Napoli-Roma-Milano 1898) 101; S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 137 ss.

[200] Dottrina e giurisprudenza sono pressoché concordi nel ritenere che l’azione di accertamento possa essere proposta anche da chi non è in possesso del bene: dati in S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 138 s.

[201] Così A. DI MAJO, La tutela III cit., 86.

[202] Nelle Istituzioni giustinianee si afferma che vi è un solo caso in cui la rivendica spetta a chi possiede, rinviandosi a tal riguardo ai Digesti (I. 4.6.2); ma quale sia l’unus casus è tutt’altro che chiaro: P. BONFANTE, Corso di diritto romano, II, La proprietà, pt. 2 (rist. Milano 1968) 400 s.

[203] Cass., 16 ottobre 1970, n. 2049, in Foro it., 1971, I, c. 434; Cass., 13 marzo 1972, n. 732, in Giust. civ. mass., 1972, 396; Cass., 8 giugno 1983, n. 3942, in Foro it. mass., 1983, c. 823; in dottrina, S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 137 s., nt. 105; A. DI MAJO, La tutela III cit., 86.

[204] G. VERDE, L’onere della prova nel processo civile (Camerino 1974) 464.

[205] Sulle conseguenze della configurazione di una ‘rivendica relativa’, approfondita trattazione in L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti (Torino 1985) 220 ss.; cenni in A. DE MAJO, La tutela III cit., 88.

[206] S.v. Rivendicazione cit., 228.

[207] A. PROTO PISANI, Sulla tutela giurisdizionale “del diritto di proprietà” cit., c. 434; ne condividono l’impostazione S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 140 ss.; A. DI MAJO, La tutela III cit., 87 s.

[208] Cfr. soprattutto C. AUBRY- F.C. RAU, Cours de droit civil français, 7° ed., II cit., 506, nt. 3 ; v. sul punto S. FERRERI, Le azioni reipersecutorie cit., 106 s., nt.23.

[209] G. VERDE, L’onere della prova cit., 458 nt. 742.

[210] G. VERDE, L’onere della prova cit., 459.

[211] Cfr. al riguardo, correttamente, L. MENGONI, Gli acquisti cit., 113 ss., 152 ss.

[212] Ampia trattazione in L. MENGONI, Gli acquisti cit., 255 ss.

[213] V. supra, nel testo.

[214] Così A. DI MAJO, La tutela III cit., 86.

[215] In questo senso A. GAMBARO, La proprietà (Milano 1990) 400.

[216] Il principio della tipicità delle azioni non costituì un’assoluta costante neppure dell’esperienza giuridica romana: esso cadde nel corso dei secoli IV e V d.C. e venne poi ripristinato da Giustiniano. Sul punto v. anche infra, nel testo, e nt. 219.

[217] A. DI MAJO, La tutela III cit., 86 s.

[218] A. DI MAJO, La tutela III cit., 87, e, per il riferimento alla Publiciana, A. GAMBARO, La proprietà cit., 400.

[219] Dettagliata dimostrazione in A. BISCARDI, Studi III cit., 297 ss.; E. LEVY, Property cit., 210 ss.; C. A. CANNATA, ‘Possessio’ cit., 168 ss.; M. MARRONE, s.v. Rivendicazione cit., 26; L. SOLIDORO MARUOTTI, La tutela cit., 202 ss.

[220] Ho già altrove (La tutela cit., 173 s., 202 ss.) tentato di dimostrare che la fattispecie illustrata in CTh. 11.39.1, a.325, è collegata con il problema della dilatazione della rivendica, verificatosi in epoca postclassica. Intorno al IV sec., infatti, la rivendica era ritenuta esperibile anche quando il bene di cui si chiedeva la restituzione era stato antecedentemente consegnato dallo stesso attore al convenuto: la tutela restitutoria si assommava, dunque, a quella derivante da contratto: per un precedente storico, si l. CTh. 11.39.1, su cui rinvio a quanto esposto in ‘Proprietà assoluta’ e ‘proprietà relativa’ cit., § 12 e nt. 69.

[221] Amplius, A. GAMBARO, La proprietà cit., 409.

[222] Pioniere, in questo campo, fu senza dubbio S. PUGLIATTI, di cui si l. soprattutto La proprietà e le proprietà con riguardo particolare alla proprietà terriera, in Atti del terzo congresso internazionale di diritto agrario, Palermo, 1923 ottobre 1952, cur. CASCIO (Milano 1954) 46 ss., anche in La proprietà nel nuovo diritto (Milano 1954) 145 ss.