N° 1 - Maggio 2002 - Tradizione - Lavori in corso - Contributi

 

 

Initia Urbis. La fondazione di Roma tra teologia e diritto nei poeti

dell’epoca di Augusto (Virgilio e Ovidio)

 

di Francesco Sini

 

 

(*) Comunicazione presentata nel XVII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Initia urbis. Fondazioni di Roma Costantinopoli Mosca» (Campidoglio, 21-23 aprile 1997).

 

 

 

Sommario:

1.                 Premessa: passato e presente nella fondazione di Roma.

2.                 Alle radici della concezione provvidenziale e universalistica dell’imperium populi Romani: religio e pax deorum.

3.                 Dall’Urbs, all’Imperium sine fine, agli aurea saecula: Roma tra spazio e tempo nell’Eneide di Virgilio.

4.                 La rielaborazione ovidiana dell’Urbis origo.

5.                 Una riflessione conclusiva su tradizione documentaria sacerdotale, teologia e diritto.

 

 

 

 

1. - Premessa: passato e presente nella fondazione di Roma

 

         Nella sua monografia dedicata alla fondazione di Roma, Alexandre Grandazzi sostiene che gli antichi romani ebbero coscienza del «recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città, in ragione delle varie ‘fondazioni’ di cui essa era stata oggetto in epoche diverse[1].

         Ugualmente connesso, sul piano della religio, ad una nuova fondazione di Roma appare lo stesso Augusti cognomen attribuito ad Ottaviano nel 27 a.C., quando in Senato prevalse la proposta di Munazio Planco su quanti ritenevano che lo si dovesse chiamare invece Romolo. Dal passo di Svetonio, che ci riferisce nel dettaglio l’episodio, apprendiamo che quel nome fu scelto ispirandosi al noto verso, con cui il poeta Ennio aveva cantato l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclyta condita Roma est[2].

         Invero l’esempio di Augusto è particolarmente calzante anche agli affetti del nostro discorso; in quanto la sua presenza nella storia di Roma rappresenta per poeti e storiografi dell’epoca l’angolo di osservazione imprescindibile da cui rimodellare la tradizione (mitica, religiosa e giuridica) della fondazione di Roma. Non è certo una novità, sostenere la tesi che negli scrittori dell’età augustea (o meglio ancora nell’ideologia che presiedeva alla ‘restaurazione’ augustea[3]) il motivo storiografico dell’antichissima fondazione della urbs Roma si saldava indissolubilmente con il presente[4]: sia con le giustificazioni religiose insite nella concezione provvidenziale e universalistica dell’impero ‘mondiale’ dei Romani, sia col mito dell’eternità di Roma.

         Questo è, dunque, il punto di partenza necessario per trattare di alcuni autori augustei (Virgilio e Ovidio): per intendere al meglio le peculiarità delle ricostruzioni proposte, in aderenza alle realtà giuridica e religiosa elaborate dai sacerdoti nel corso dell’età repubblicana.

 

 

2. - Alle radici della concezione provvidenziale e universalistica dell’imperium populi Romani: religio e pax deorum

 

         Secondo la teologia e il diritto dei sacerdoti, un rapporto imprescindibile legava l’esistenza dell’urbs Roma e la crescita del populus Romanus (civitas augescens, per dirla con i giuristi) alla religio[5].

         L'analisi di alcune delle più pregnanti definizioni di Cicerone[6], dove religio è sempre intesa nel senso di "culto degli dèi"[7], lascia infatti intravedere, con grande chiarezza, la giustificazione teologica (e dunque, giuridica) dell'egemonia romana, che gli antichi attribuivano naturalmente al favore degli dèi, ma non senza merito da parte dei Romani; i quali, per sensibilità e cautela verso la religio, superavano di gran lunga tutti gli altri popoli.

         Particolarmente significativi, a questo proposito, si presentano due passi del de natura deorum. Vediamone il primo:

 

[De nat. deor. 2, 8] C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Trasumenum scribit magno cum rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores[8].

 

         Nel passo si afferma che il neglegere la religio determina sempre intollerabili vulnera al popolo romano, come appunto la sconfitta del Trasimeno; mentre l’osservanza della religio non può che determinare, nella dinamica della storia, la costante amplificatio della res publica, almeno finché i Romani continueranno ad essere «religione, id est cultu deorum, multo superiores»[9].

         Nel secondo passo, Cicerone delinea anche i principali campi della religio («le deux grandes divisions, exhaustives, de la religion», come scrive G. Dumézil)[10], affermando che essa in sacra et in auspicia divisa sit:

 

[De nat. deor. 3, 5] Cumque omnis populi Romani religio in sacra et in auspicia divisa sit, tertium adiunctum sit si quid praedictionis causa ex portentis et monstris Sibyllae interpretes haruspicesve monuerunt, harum ego religionum nullam umquam contemnendam putavi mihique ita persuasi Romulum auspiciis, Numam sacris constitutis fundamenta icisse nostrae civitatis, quae numquam profecto sine summa placatione deorum immortalium tanta esse potuisse[11].

 

         Dal testo citato emerge che sacra e auspicia non costituiscono soltanto i due principali campi della religio, ma sono da considerare come gli stessi fundamenta originari (riferibili, infatti, alle origini dell’Urbe di Romolo e di Numa Pompilio) della civitas romana; della quale, a parere di Cicerone, sarebbe del tutto inspiegabile l'elevato potere conseguito nella sua storia sine summa placatione deorum immortalium.

         Questa visione provvidenziale dell'impero, quasi un premio al popolo romano per aver saputo superare in religiosità tutti i popoli, si ritrova anche in altri luoghi dell'opera ciceroniana: così, ad esempio, nell'orazione De haruspicum responsis si legge che per pietas e religio «omnis gentis nationesque superavimus»:

 

[De har. resp. 19] Etenim quis est tam vaecors qui aut, cum suspexit in caelum, deos non sentiat et ea quae tanta mente fiunt, ut vix quisquam arte ulla ordinem rerum ac necessitudinem persequi possit, casu fieri putet, aut, cum deos esse intellexerit, non intellegat eorum numine hoc tantum imperium esse natum et auctum et retentum? Quam volumus licet, patres conscripti, ipsi nos amemus, tamen nec numero Hispanos nec robore Gallos nec calliditate Poenos nec artibus Graecos nec denique ipso huius gentis ac terrae domestico nativoque sensu Italos ipsos ac Latinos, sed pietate ac religione atque hac una sapientia, quod deorum numine omnia regi gubernarique perspeximus, omnis gentis nationesque superavimus[12].

 

         Oppure nell'orazione pro Milone: dove la imperi nostri magnitudo viene presentata in strettissima connessione con la

 

[Pro Mil. 83] maiorum nostrorum sapientia, qui sacra, qui caerimonias, qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt[13].

 

         Anzi, a ben vedere, la consapevolezza di questa fondamentale funzione della religio nella vita della comunità romana è motivo ricorrente di tutta la storiografia latina. Basteranno soltanto alcuni esempi.

         Nella Catilinae coniuratio, lo storico dei populares Sallustio contrappone il luminoso esempio dei maiores nostri, religiosissimi mortales, alla decadenza dei contemporanei[14].

         Nelle sue "Storie", Tito Livio caratterizza la città di Roma come luogo massimamente votato alla religione[15]; né si stanca di ripetere che la storia dei Romani costituisce la prova più sicura di come omnia prospera evenisse sequentibus deos[16], poiché gli dèi si mostrano sempre favorevoli alla pietas e alla fides: per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit[17].

         Allo stesso modo, Valerio Massimo sottolinea, quale elemento basilare e caratterizzante della civitas romana, il principio omnia namque post religionem ponenda semper nostra civitas duxit; spiegando che « per questo le più alte autorità non esitarono a mettersi a disposizione per i riti sacri, stimando che avrebbero avuto il governo del mondo, se avessero servito bene e costantemente il potere degli dèi»[18].

         Infine, Tertulliano nel suo Apologeticum polemizza con grande vigore contro illa praesumptio, assai diffusa peraltro tra i suoi contemporanei, secondo cui solo la grandissima pietà religiosa ha innalzato i Romani fino al dominio del mondo, in quanto gli dèi concedono il massimo della potenza ai popoli che massimamente li venerano[19].

         Quella affermata dagli autori antichi costituisce una concezione quasi originaria nell'esperienza giuridica e religiosa romana; profondamente connaturata con la più antica teologia sacerdotale. Già in epoca assai risalente, i sacerdotes aveva nei fatti teorizzato l'esistenza di un legame indissolubile tra la vita del popolo romano e la sua religio, al punto da finalizzarne tutta l'attività al conseguimento (e conservazione) della "pace con gli dèi"[20]: cioè al permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e divinità[21], intesi anch’essi pur sempre come parte del sistema giuridico-religioso[22].

         Emerge così il concetto di pax deorum, attestato anche nella sua forma arcaica pax divom o deum[23] da Plauto (sunt hic omnia, quae ad deum pacem oportet adesse)[24], Lucrezio (non divom pacis votis adit, ac prece quaesit)[25], Tito Livio[26] e Virgilio (exorat pacem divom)[27].

         Tuttavia, dal punto di vista umano, il "legalismo religioso"[28] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come una somma di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli dèi. Ciò spiega, tra l'altro, l'attenzione precisa e minuziosa dell'annalistica romana, erede diretta dell'attività "storiografica" del collegio dei pontefici[29], nel documentare i fatti suscettibili di turbare la pax deorum, le conseguenze negative per la vita comunitaria, i rimedi rituali posti in essere per espiare[30].

         In questa prospettiva, può ben comprendersi anche il perché la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale[31] e fosse considerato, al tempo stesso, l'elemento basilare del sistema giuridico-religioso. Oggetto, dunque, dello ius del popolo (ius publicum), non a caso tripartito in sacra, sacerdotes, magistratus[32]: «una suddivisione propria della giurisprudenza repubblicana, tracciata in spontanea adesione ai documenti sacerdotali e magistratuali»[33].

 

 

3 - Dall’Urbs, all’Imperium sine fine, agli aurea saecula: Roma tra spazio e tempo nell’Eneide di Virgilio

 

         Come aveva annotato negli anni quaranta del secolo scorso Lorenz Lersch[34], in un paragrafo delle sue Antiquitates Vergilianae, intitolato: «De urbis condendae more», nel poema di Virgilio[35] non mancano precisi riferimenti ai riti che sono necessari «ad novae urbis vel coloniae aedificationem». Che nel descrivere tali riti Virgilio, «oltre che il mondo della colonizzazione greca», abbia tenuto presenti soprattutto «i concetti, le forme e la prassi della colonizzazione romana», è la tesi espressa di recente da G. A. Mansuelli, nella v. “Città” da lui scritta per l’Enciclopedia Virgiliana[36]. Così il poeta in Aen. 5, 755-761:

 

Interea Aeneas urbem designat aratro

sortiturque domos; hoc Ilium et haec loca Troiam

esse iubet. Gaudet regno Troianus Acestes

indicitque forum et patribus dat iura vocatis.

Tum vicina astris Erycino in vertice sedes

fundatur Veneri Idaliae tumuloque sacerdos

ac lucus late sacer additur Anchiseo

 

ci presenta Enea che, anacronisticamente[37], procede alla fondazione di una nuova Troia, la città governata da Aceste in Sicilia, sulla base del rituale romano di fondazione, con il tracciamento del solco e il sorteggio delle case. Ma per completare l’opera di fondazione, sono necessarie anche le strutture giuridico-politiche comunitari: vi provvede Aceste, re della nuova città, costituendo l’assemblea del popolo e promulgando le prime leggi[38].

         Nel poema virgiliano, le fondazioni più importanti di città appaiono proiettate in un futuro più o meno lontano. Tale è il caso di Alba Longa che sarà fondata da Ascanio (Aen. 6, 766). Tale è il caso della Roma di Romolo, l’inclita Roma, di cui Anchise in Aen. 6, 781-784 tratteggia il destino imperiale:

 

en huius, nate, auspiciis illa incluta Roma

imperium terris, animos aequabit Olympo

septemque una sibi muro circundabit arces,

felix prole virum[39];

 

anche se per poter raggiungere il magnum imperium a cui è destinata, l’Urbs avrà bisogno di essere fondata anche legibus da Numa Pompilio (Aen. 6, 809-812):

 

nosco crinis incanaque menta

regis Romani, primum qui legibus urbem

fundabit, Curibus parvis et paupere terra

missus in imperium magnum[40].

 

         Dalla profezia di Anchise emerge, dunque, il destino di Roma all’impero. Negli initia Urbis stanno le premesse per ciò che si dovrà compiere: «In altri termini - scrive Massimiliamo Pavan - la R(oma) di Romolo è già città imperiale, nella stessa misura in cui l’impero pacificato da Augusto sarà un impero romuleo»[41].

         Del resto, fin dal primo libro dell’Eneide si appalesa nella promessa di Iuppiter[42], subito dopo la fondazione di Roma, il futuro imperium dei Romani: l’imperium sine fine (Aen. 1, 275-279):

 

Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus

Romulus excipiet gentem et Mavortia condet

moenia Romanosque suo de nomine dicit.

His ego nec metas rerum nec tempora pono,

imperium sine fine dedi.

 

         La forte carica ideologica e la precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggiti a P. Boyancé, per il quale proprio sull’annuncio Imperium sine fine dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire toute l’oeuvre»[43]. Già i commentari antichi (cfr. Servio, Ad Aen. 1, 278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior parte della dottrina contemporanea (C. Koch, F. Fabbrini, E. Paratore, K. D. Bracher, J.-L. Pomathios ecc.).

         Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G. Piccaluga[44], sia R. Turcan[45]; mentre il collega sassarese A. Mastino sostiene che nei due versi è attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva frontiere»[46].

         Nella prospettiva storiografica dell’Eneide, il regno di Saturno (Aen. 8, 314-327), che fonda nell’antichissimo Lazio il mos, il cultus, le leges e la pax, costituisce il vero punto d’inizio della storia “nazionale” romana; la quale si sviluppa attraverso il re Latino e la discendenza di Enea, ancora presente a Roma nella persona di Cesare Augusto: il Troianus Caesar profetizzato da Iuppiter in Aen. 1, 286-290.

         Con Ottaviano il passato si fonde col presente e si proietta nel futuro: solo a lui, tra i personaggi dei tempi storici, è riservato il raffronto con Saturno, solo a lui è consentito dalla profezia di Anchise il condere aurea saecula (Aen. 6, 791-795):

 

Hic vir, hic est, tibi quem promitti saepius audis,

Augustus Caesar, Divi genus, aurea condet

saecula qui rursus Latio regnata per arva

Saturno quondam; super et Garamantes et Indos

proferet imperium[47].

 

         Si adempiono in tal modo, per Virgilio e per la sua generazione, i fata degli Eneadi e della Urbs Roma: appare ora evidente che le vicende storiche dell’imperium dei Romani sono state determinate dagli dèi al fine di instaurare nell’età presente, tramite Augusto, un nuovo secolo d’oro, forse superiore per stabilità anche agli antichi aura saecula di Saturno[48].

 

 

4. - La rielaborazione ovidiana dell’Urbis origo

 

         é noto che la vicenda della Urbis origo viene trattata dal poeta nel IV libro dei Fasti ai versi 807-862[49], nel quadro dell’illustrazione della festività dei Parilia[50]; che i calendari antichi annotavano con la formula Roma condita o Natalis Urbis. La narrazione poetica presenta diverse articolazioni: a) le consultazione divina per mezzo degli uccelli (807-818); b) il rituale della fondazione (819-836); c) il sacrilegio, la morte e il funerale di Remo (837-856); d) la preghiera per Roma (857-862).

         Che nella descrizione della Urbis origo proposta da Ovidio, i riti di fondazione della città siano stati improntati «secondo i concetti del diritto augurale che vediamo consolidato nella Repubblica», è stato autorevolmente dimostrato da P. Catalano nei suoi studi sul diritto augurale[51]; dove peraltro lo studioso evidenzia come in Ovidio siano correttamente descritte «l’inaugurazione di scelta circa il regnum (versi 812-818); implicitamente, l’auspicazione circa il dies (versi 819 ss.); e infine l’inaugurazione di approvazione del luogo, cioè del pomerio (verso 825 ss.)»[52].

         è stato altresì evidenziata, nel documento introduttivo, l’attezione del poeta nel configurare con esattezza terminologia e realtà giuridiche (precedenti e successive) connesse alla fondazione dell’Urbs.

         I due gemelli, che ancora guidavano un vulgus di pastori[53], convengono di fondare la città (moenia ponere) al fine di contrahere agrestis (Fasti 4, 810); quindi si procede alla consultazione degli aves, che ha esito favorevole per Romolo (Fasti 4, 818: et arbitrium Romulus urbis habet); solo a questo punto hanno inizio i riti di fondazione veri e propri: col tracciamento del solco pomeriale, la preghiera di Romolo alle divinità, la costruzione delle mura.

 

Apta dies legitur, qua moenia signet aratro;

sacra Pales suberant: inde movetur opus.

Fossa fit ad solidum, fruges iaciuntur in ima

et de vicino terra petita solo;

fossa repletur humo, plenaeque imponitur ara,

et novus accenso finditur igne focus.

Inde premens stivam designat moenia sulco;

alba iugum niveo com bove vacca tulit.

Vox fuit haec regis: «Condenti, Iuppiter, urbem,

et genitor Mavors Vestaque mater, ades,

quosque pium est adhibere deos, advertite cuncti!

auspicibus vobis hoc surgat opus.

Longa sit huic aetas dominaeque potentia terrae,

sitque sub hac oriens occiduusque dies».

Ille praecabatur, tonitru dedit omina laevo

Iuppiter et laevo fulmina missa polo.

Augurio laeti iaciunt fundamina cives,

et novus exiguo tempore murus erat[54].

 

         Il testo, come ho detto, è stato assai ben studiato dal punto di vista dello ius augurium: non sarebbe, dunque, molto significativo soffermarsi ulteriormente a descrivere le varie fasi del manifestarsi della volontà degli dèi, i quali col tuono e col fulmine determinano l’augurium che perfeziona e conferma l’avvenuta fondazione della città. Dal momento in cui si manifesta l’augurium, che costituisce anche l’atto conclusivo della fondazione, ha inizio l’esistenza (religiosa e giuridica) della urbs Roma e quindi anche dei suoi cives; i quali, infatti, non più vulgus ma cives, costruiranno in breve tempo le mura della città[55].

        Vorrei soffermarmi, invece, brevemente sul testo della preghiera che Romolo nel fondare la sua città rivolge a Iuppiter, Mars, Vesta e agli altri dèi quosque pium est adhibere (Vox fuit haec regis: «Condenti, Iuppiter, urbem, / et genitor Mavors Vestaque mater, ades, / quosque pium est adhibere deos, advertite cuncti / auspicibus vobis hoc surgat opus. / Longa sit huic aetas dominaeque potentia terrae, / sitque sub hac oriens occiduusque dies): non tanto sul contenuto dell’invocazione, con cui il poeta proietta nel passato romuleo l’universalità dell’imperium di Roma, storicamente determinato nell’età augustea, quanto piuttosto sulla struttura della preghiera.

        Può essere interessante sottolineare, al riguardo, la perfetta aderenza della formulazione poetica alla cautela rituale delle formule di preghiera elaborate dai sacerdoti romani, i quali, quasi ad esorcizzare l’umana impossibilità di conoscere il numero degli dèi, prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat, una volta pronunciata l’invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia:

 

[Servio Dan., Georg. 1, 21] ‘Dique deaeque omnes’ post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat, more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur[56].

 

         Anche in questo caso, dunque, Ovidio mostra perfetta aderenza al mos pontificum delle invocazioni; che costituisce - come è stato già da altri osservato - «una “apertura” illimitata» della religione romana e, nello stesso tempo, la «linea implicita alla tolleranza religiosa» verso tutti gli dèi[57] presente nel sistema giuridico religioso romano.

 

 

5. – Una riflessione conclusiva su tradizione documentaria sacerdotale, teologia e diritto.

 

         Vorrei concludere questa mia comunicazione, formulando alcune considerazioni più generali in merito all'attendibilità e alla rilevanza della tradizione documentaria riferibile agli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani[58]; specialmente per la ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma arcaica.

         I materiali religiosi e giuridici degli archivi sacerdotali[59] (e quindi il lessico e i concetti elaborati dai sacerdoti)[60] rappresentano le evidenze più autentiche e le prime riflessioni sistematiche della più antica giurisprudenza romana[61]; documenti, dunque, di straordinaria importanza per lo storico e per il giurista: non solo perché contengono gli elementi basilari per individuare le caratteristiche originarie e la dialettica dello sviluppo delle istituzioni, pubbliche e private; ma soprattutto, perché costituiscono il nucleo più risalente e affidabile della storiografica romana.

         Vi è però anche un'altra ragione che rende preziosi tali materiali. A fronte della constatata inadeguatezza delle moderne categorie giuridiche, per comprendere quel peculiare rapporto tra religione e diritto, che stava alla base dell'organizzazione 'politica' romana; i documenti sacerdotali sono da considerare strumenti indispensabili per un riesame complessivo del "sistema giuridico-religioso"[62] dei Romani: a cominciare dalla ridefinizione del «diritto pubblico romano» in chiave non "statualista"[63].

         Non è certo questo il luogo per sviluppare critiche articolate intorno alla sistematica sottesa al Römisches Staatsrecht di Theodor Mommsen; critiche variamente formulate dalla dottrina, e con ben altra autorevolezza. Basterà rilevare – citando il collega Lobrano – che nel complesso rapporto «così instaurato tra “materiale” romano e sistematica contemporanea»[64], quel voler ricondurre la concreta realtà dello ius publicum all’astratto sistema dello «Staatsrecht» ha prodotto risultati a dir poco unilaterali, inadeguati e parziali.

         Nella tradizione documentaria dei collegi sacerdotali, possono individuarsi due linee di tendenza, in qualche misura peraltro complementari. Abbiamo così, da un lato, un formalismo assai rigoroso[65] (cioè conservazione del testo originario, o di quello ritenuto tale) per quanto riguarda gli antichissimi carmina [66], recitati ancora in età imperiale avanzata nella loro forma linguistica arcaica, seppure ormai mal compresa dagli stessi sacerdoti, come ci riferisce l’autorevole testimonianza di Quintiliano[67]. D'altra parte i sacerdoti, mentre con prassi documentaristica costante e minuziosa registravano gli atti significativi del loro operare quotidiano, procedevano nel contempo all'aggiornamento linguistico dei testi che riguardavano regole rituali e forme di culto; al fine di renderli quanto più possibile comprensibili ai contemporanei. Così, di generazione in generazione, si vennero accumulando materiali d'archivio – per la maggior parte decreta e responsa[68] – che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell'età repubblicana.

         Su questo punto, mi permetto di rinviare alle conclusioni di un mio precedente lavoro: Documenti sacerdotali di Roma antica[69]; dove credo di aver dimostrato la sostanziale continuità della tradizione documentaria sacerdotale, individuando, anche, alcune probabili revisioni o sistemazioni dei materiali degli archivi nel corso della storia di Roma.

 

 

 



 

[1] A. Grandazzi, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991, p. 195.

 

[2] Svetonio, Augusti vita, 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari opportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non tantum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est.

 

[3] Fra la sterminata mole di bibliografia vedi: per gli aspetti politico-sociali, R. Syme, La rivoluzione romana, trad. it., Torino 1962 (rist. 1974), pp. 442 ss.; C. Parain, Augusto, trad. it., Roma 1979, pp. 113 ss.; M. A. Levi, Augusto e il suo tempo, Milano 1986, pp. 245 ss.; per i riflessi giuridico-costituzionali, F. De Martino, Storia della costituzione romana, IV, 2a ed., Napoli 1974, pp. 230 ss.; per la materia propriamente religiosa, J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it., Torino 1959, pp. 185 ss., e K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, pp. pp. 294 ss.

 

[4] Cfr., ad esempio, Tito Livio 1, 4, 1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium.

 

[5] Cfr. H. Fugier, Recherches  sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, pp. 265 ss.; H. Wagenvoort, "Wesenzüge altrömischer Religion", in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 348 ss. (ripubblicato col titolo "Characteristic Traits of Ancient Roman Religion", in Id., Pietas. Selected studies in Roman Religion, Leiden 1980, pp. 223 ss.); G. Lieberg, "Considerazioni sull'etimologia e sul significato di Religio", in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, pp. 34 ss.; R. Muth, "Von Wesen römischer religio", in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16,1, Berlin-New York 1978, pp. 290 ss.; R. Schilling, "L'originalité du vocabulaire religieux latin", in Id., Rites, cultes, diex de Rome, Paris 1979, pp. 30 ss.; E. Montanari, "Religio", in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 423 ss.

Sull'antitesi religio/superstitio, vedi il lavoro ormai classico di W. F. Otto, "Religio und Superstitio", in Archiv für Religionswissenschaft 14, 1911, pp. 406 ss.; F. Solmsen, "Cicero on religio et superstitio", in The Classical Weekly 37, 1943-44, pp. 159 ss.; e il recentissimo saggio di M. Sachot, "Religio/superstitio. Histoire d'une subversion et d'un retournement", in Revue de l'Histoire des Religions 208, 1991, pp. 355 ss.

 

[6] In generale, sul tema vedi J. Kroymann, "Cicero und die römische Religion", in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki, Leiden 1975, pp. 116 ss.; L. Troiani, "Cicerone e la religione", in Rivista Storica Italiana 96, 1984, pp. 920 ss.

 

[7] Cfr anche De nat. deor. 1, 117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur); De leg. 1, 60 (cum animus cultum deorum et puram religionem susceperit); 2,30 (Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra collegium nosset); ed ancora De har. resp. 18 (Ego vero primum habeo auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).

Per una diversa definizione di religio, vedi invece Servio, Ad Aen. 8, 349: Religio, id est metus, ab eo quod mentem religet dicta religio. Sull'uso del termine in Virgilio, vedi E. Montanari, "Religio", in Enciclopedia  Virgiliana, IV, cit., pp. 423 ss.; quanto alla competenza del poeta nel campo dello ius sacrum, rinvio al mio libro Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", Sassari 1991.

 

[8] Acute osservazioni in C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932 (Westport, Conn., 1972), pp. 274 s.; da ultimo, M. Humbert, "Droit et religion dans la Rome antique", in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, pp. 196 s. Anche Virgilio si mostra sensibile a tale ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter versi quali Aen. 12, 838-840: Hic genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores; cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", Sassari 1991, p. 192 n. 27.

 

[9] Cfr. R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden - New York - Kobenhavn - Köln 1988, pp. 5 s.: «C'est à la piété collective et institutionnelle, aux religiones de la cité que les Romains attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l'emporter sur tous peuples religione, id est cultu deorum».

 

[10] G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969, p. 96 n. 1; nello stesso senso, anche, J. Bayet, La religione romana. Storia politica e psicologica, cit., p. ; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Cultes, rites, dieux de Rome, cit., p. 37 («En dèfinitive, on comprend que les pontifices et les augures constituent pour les Anciens les piliers fondamentaux de la religion romaine. Les premiers administrant les sacra, les seconds interviennent dans la pride des auspicia - division qui correspond aux deux provinces de la religion romaine»).

 

[11] Sul testo citato, vedi l'ampio commento di A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, II (1957), rist. an. Darmstadt 1968, pp. 983 s.

 

[12] Stimolanti riflessioni sul valore più generale del testo in M. Humbert, "Droit et religion dans la Rome antique", cit., pp. 191 ss.

 

[13] Cicerone, Pro Mil. 83: Nec vero quisquam aliter arbitrari potest, nisi nullam vim esse ducit numenve divinum, quem neque imperi nostri magnitudo neque sol ille nec caeli signorumque motus nec vicissitudines rerum atque ordines movent, neque, id quod maximum est, maiorum nostrorum sapientia, qui sacra, qui caerimonias, qui auspicia et ipsi sanctissime coluerunt et nobis suis posteris prodiderunt.

 

[14] Sallustio, Cat. 12, 1-5: Postquam divitiae honori esse coepere et eas gloria imperium potentia sequebatur, hebescere virtus, paupertas probro haberi, innocentia pro malevolentia duci coepit. Igitur ex divitiis iuventum luxuria atque avaritia cum superbia invasere: rapere consumere, sua parvi pendere, aliena cupere, pudorem pudicitiam, divina atque humana promiscua, nihil pensi neque moderati habere. Operae pretium est, quom domos atque villas cognoveris in urbium modum exaedificatas, visere templa deorum, quae nostri maiores, religiosissumi mortales, fecere. Verum illi delubra deorum pietate, domos suas gloria decoraverunt, neque victis quicquam praeter iniuriae licentiam eripiebant. At hi contra, ignavissumi homines, per summum scelus omnia ea sociis adimere, quae fortissumi viri victores reliquerant: proinde quasi iniuriam facere, id demum esset imperio uti.

 

[15] Tito Livio 5, 52, 2: Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis solemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiunt.

 

[16] Tito Livio 5, 51, 5: Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus.

 

[17] Tito Livio 44, 1, 9-11: Paucis post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus; ea omnia quam diis quoque invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit.

 

[18] Valerio Massimo 1, 1, 9: Quapropter non dubitaverunt sacris imperia servire, ita se humanarum rerum futura regimen existimantia, si divinae potentiae bene atque constanter fuissent famulata.

 

[19] Tertulliano, Apolog. 25, 2: Quoniam tamen Romani nominis proprie intercedit auctoritas, non omitto congressionem, quam provocat illa praesumptio dicentium, Romanos pro merito religionis diligentissimae in tantum sublimitatis elatos et impositos, ut orbem occuparint, et adeo deos esse, ut praeter ceteros floreant, qui illis officium praeter ceteros faciant.

 

[20] Per la definizione del concetto di pax deorum, con ampi riferimenti alle fonti attestati i comportamenti umani suscettibili di violarla, vedi P. Voci, "Diritto sacro romano in età arcaica", cit., pp. 49 ss. (ora in Id., Scritti di diritto romano, I, cit., , pp. 226 ss.); a cui sono da aggiungere, M. Sordi, "Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma", in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, "Il concetto originario di pax e pax deorum", in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma  1990, pp. 85 ss. (Appendice I: "Tempo della città e pax deorum: l'infissione del clavus annalis"); da ultimo, F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente).

 

[21] Cfr., in tal senso, P. Voci, "Diritto sacro romano in età arcaica", cit., p. 49 (= Scritti di diritto romano, cit., p. 224); ma anche, da ultimo, M. Humbert, "Droit et religion dans la Rome antique", cit., p. 195: «La conception - d'ordre philosophique - du monde romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi».

 

[22] J. Scheid, "Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République", in Aa.Vv., Des ordres à Rome, dir. de C. Nicolet, Paris 1984, pp. 269 s.: «La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats».

 

[23] Sull'autenticità e risalenza dell'espressione pax deum, vedi M. Sordi, "Pax deorum e la libertà religiosa nella storia di Roma", cit., p. 147. Le conclusioni dell'illustre studiosa non sono del tutto condivise da E. Montanari, "Il concetto originario di pax e la pax deorum", cit., p. 56.

 

[24] Poen. 253.

 

[25] De rer. nat. 5, 1229.

 

[26] Livio 3, 5, 14:His  avertendis terroribus in triduum feriae indictae, per quas omnia delubra pacem deum exposcentium virorum mulierumque turba implebantur; 7, 2, 2: nisi quod pacis deum exposcendae causa tertio tum post conditam urbem lectisternium fuit.

 

[27] Aen. 3, 369-373: Hic Helenus caesis primum de more iuvencis / exorat pacem divom vittasque resolvit / sacrati capitis, meque ad tua limina, Phoebe, / ipse manu multo suspensum numine ducit, / atque haec deinde canit divino ex ore sacerdos. Questo è anche l'unico passo di Virgilio in cui troviamo esplicitamente menzionata l'espressione pax deorum ; il contenuto, poi, è di particolare solennità rituale (cfr. C. Bailey, Religion in Virgil, Oxford 1935, p. 47; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., p. 262), come aveva già rilevato il grammatico Servio, spiegando che il verbo exorare nel linguaggio sacerdotale significa impetrare: Ad Aen. 3, 370.

 

[28] L'espressione è di P. Voci, " Diritto sacro romano in età arcaica", cit., p. 50, per il quale «Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano a mantenere la pax deorum» (= Scritti di diritto romano, cit., p. 225).

 

[29] Su tale attività e sull'influenza di essa per il formarsi della tradizione annalistica, v. B. W. Frier, 'Libri Annales pontificum Maximorum': the origins of the Annalistic Tradition, Papers and Monographs of the American Academy in Rome, v. XXVII, Roma 1979.

 

[30] Cfr., giusto a titolo d'esempio: Livio 2, 36, 1; 3, 5, 14; 3, 10, 6; 4, 9, 3; 4, 12, 6; 4, 21, 5; 4, 30, 7; 5, 13, 4; 6, 20, 16; 7, 2, 2; 7, 3, 3; 7, 27, 1; 7, 28, 7; 8, 6, 9; 8, 9, 6-12; 8, 25, 1; 10, 47, 6; 21, 46, 1-3;  21, 63, 13; 22, 3, 11; 22, 9, 7; 22, 36, 6; 23, 31, 15; 23, 36, 10; 23, 39, 5; 24, 10, 6; 24, 44, 8-9; 25, 7, 7-9; 25, 16, 1; 25, 17, 3; 26, 23, 3-6; 26, 45, 9; 27, 4, 11; 27, 11, 1; 28, 27, 16; 30, 2, 9-13; 30, 38, 8.  Sul nutrito elenco di prodigi presenti nell'opera liviana, certo improntati - direttamente o indirettamente - agli Annales Maximi, v. E. De Saint-Denis, "Les énumerations de prodiges dans l'oeuvre de Tite-Live", in Revue de Philologie 16, 1942, pp. 126 ss.; J. Ph. Packard, Official notices in Livy's fourth decade: style and treatment, Ann Arbor 1970, pp. 125 ss.; E. Rawson, "Prodigy list and the use of Annales Maximi", The Classical Quarterly 21, 1971, pp. 158 ss.; infine il più recente lavoro di B. MacBain, Prodigy and expiation: a study in religion and politics in Republican Rome, Bruxelles 1982, pp. 82 ss. [Appendix A: index of prodigies].

 

[31] C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932 (Westport, Conn. 1972), p. 76: «Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult, recognized four means (caerimoniae ) for securing and maintaining the pax deorum, the relation of kindliness betwen gods and men».

 

[32] D. 1, 1, 1, 2 (Ulpianus libro primo institutionum): Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Contrari alla genuinità del frammento F. Schulz, I principii del diritto romano, cit., p. 23 n. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt a. M. 1955, p. 618: «Die merkwuerdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»; dubbioso B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p. 192 n. 295. Sono invece favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); F. Wieacker, "Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians", in Mélenges De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano. Su tutta questa problematica, vedi ora G. Arico' Anselmo, "Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone", in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, pp. 447 ss., in part. 461 ss.

 

[33] P. Catalano, " La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone)", in Studi in onore di G. Grosso, VI, Torino 1974, p. 676; con adesione di C. Nicolet, "Notes complementaires", in Polybe, Histoires, Livre VI, Paris 1977, pp. 149 ss.; J. Scheid, "Le prêtre et le magistrat", cit., pp. 269 ss.

 

[34] L. Lersch, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonnae 1843, pp. 30 ss.

 

[35] Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 31, 1, Berlin-New York 1980, pp. 3 ss. Quanto alla “divini et humani iuris scientia” di Virgilio, vedi ora F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 17 ss.

 

[36] G. A. Mansuelli, v. “Città”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, p. 803: «In sostanza la peregrinazione degli Eneadi eqivale al trasferimento di un nucleo coloniale classico, di cui i responsi oracolari e l’organizzazione interna fanno appunto una potenziale c(ittà), anche prima che questa si materializzi nelle strutture costruite, ma, prima che questo avvenga, di c(ittà) in senso pieno non si può parlare, anche per il condizionamento di adempimenti rituali. In realtà quindi l’asserzione tucididea che la c(ittà) sono gli uomini e non le mura, non è accettata da V(irgilio): la c(ittà) potenziale vive e si muove nella speranza di attualizzarsi. In questa angolazione si può dire che V(irgilio), oltre che il mondo della colonizzazione greca, ha tenuto presenti i concetti, le forme e la prassi della colonizzazione romana».

 

[37] Ottima la spiegazione di G. A. Mansuelli, v. “Città”, in Enciclopedia Virgiliana, cit., p. 805: «Il ribaltamento nell’antichità ancestrale del rituale di fondazione vale a presentare come originariaquesta prassi romana: in ciò V(irgilio) ha condiviso le opinioni correnti e le ha accreditate quasi come un dogma, stante la stretta connessione con la sfera sacrale. A ogni modo viene messa in primo piano, pur se con espressioni sintetiche, l’interdipendenza stretta fra i preliminari rituali e l’assolvimento giuridico-sociale».

 

[38] Cfr. E. Paratore, Virgilio, Eneide, III (Libri V-VI), Milano 1979, pp. 191 ss.; G. A. Mansuelli, v. “Città”, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 805.

 

[39] Sulla valenza religiosa del verso 781, vedi H. Lehr, Religion und Kultus in Vergils Aeneis, Giessen 1934, p. 97. Sul significato più ampio del contesto, vedi invece P. Catalano, v. “Auspicia”, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 424-425:«Con tutta la forza della sua polivalenza (omen-potestas) la parola a(uspicia) torna in E 6, 781 ss. en huius, nate, auspiciis illa incluta Roma / imperium terris, animos aequabit Olimpo / septemque una sibi muro circundabit arces. L’espressione virgiliana (auspicia vi indica la potestà romulea e non direttamente i segni augurali interpretati dal primo rex) non trova perfetta corrispondenza in quella degli altri autori antichi; il linguaggio dell’Eneide sembra dunque sottolineare maggiormente la continuità delle potestà: da Romolo, attraverso gli a(uspicia). dei magistrati, fino ad Augusto. D’altra parte, questa continuità, grazie all’augurium di Giove, risale alla partenza di Enea da Troia; l’aeternitas di Roma assicurata dai riti augurali di fondazione, cioè dagli a(uspicia). di Romolo, risale dunque a Troia».

 

[40] Cfr. Tito Livio 1, 19, 1: [Numa] Qui regno ita potitus urbem novam, conditam vi et armis, iure eam legibusque ac moribus de integro condere parat.

 

[41] M. Pavan, v. Roma (Storia), in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, p. 531.

 

[42] Per gli aspetti ideologici della figura e e del culto della massima dività romana in età tardo-repubblicana e augustea, vedi C. Koch, Das römische Iuppiter, Frankfurt a. M. 1937; J. R. Fears, The Cult of Jupiter and Roman Imperial Ideology, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II. 17, 1, Berlin-New York 1981, pp. 3 ss.

 

[43] P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 54.

 

[44] G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, p. 209.

 

[45] R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains de l’éternité, in Aa.Vv., Roma Costantinopoli Mosca, “Da Roma alla Terza Roma”, Studi, I, Napoli 1983, p. 16.

 

[46] A. Mastino, ‘Orbis’, ‘kosmos’, ‘oikoumene’: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Aa.Vv., Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, “Da Roma alla Terza Roma”, Studi, III, Napoli 1986, p. 71.

 

[47] E. Paratore, Virgilio, Eneide, III, cit., pp. 345 ss.; cfr. R. Syme, La rivoluzione romana, cit., p. 465.

 

[48] Così si spiegano anche i vv. Aen. 1, 291-296 della profezia di Iuppiter. Cfr. A. Novara, Poésie virgilienne de la mémoire. Questions sur l’histoire dans énéide 8, Clermont-Ferrand 1986, p. 13.

 

[49] Per il testo seguo l’edizione di H. Le Bonniec, Ovide, Les fastes, tome II, Bologna 1970. Sulla figura del poeta non è possibile dare qui referenze bibliografiche complete: cfr., per tutti, F. Stella Maranca, Ius pontificium nelle opere dei giureconsuli e nei fasti di Ovidio”, in Annali del Seminario giuridico dell’Università di Bari 1, 1927, pp. 3 ss.; R.  Düll, “«Ovidius iudex». Rechtshistorische Studien zu Ovids Werken”, in Studi Biondi, I, Milano 1965, pp. 73 ss.; R. Schilling, “Ovide interpréte de la religion romaine”, in Revue des études Latines 46, 1968, pp. 222 ss.; A. W. J. Holleman, “Ovid and politics”, in Historia 20, 1971, pp. 458 ss.; R. Syme, History in Ovid, Oxford 1978, in part. pp. 21 ss.: «Evidence in the Fasti»; D. Porte, L’étiologie religieuse dans les ‘Fastes’ d’Ovide, Paris 1985, ivi ampia rassegna bibliografica, pp. 539 ss. 

 

[50] J. H. Vanggaard, “On Parilia”, in Temenos 7, 1971, pp. 93 ss.; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, pp. 128 ss.

 

[51] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, I, Torino 1960, pp. 580 ss.

 

[52] P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, cit., p. 582

 

[53] Fasti 4, 809-810: Iam luerat poenas frater Numitoris, et omne / pastorum gemino sub duce vulgus erat.

 

[54] Fasti, 4, -819-836.

 

[55] Da sottolineare, ancora una volta, l’aderenza del poeta alla tradizione sacerdotale dello ius augurium: è noto, infatti, che gli augures publici populi Romani distinguevano tra il pomerio, confine religioso dell’urbs, e la cinta muraria della città, che non si identificava con il pomerio, nè era indispensabile per l’esitenza giuridica dell’urbs. Vedi Varrone, De ling. Lat. 5, 143; Tito Livio 1, 44, 3-7; Aulo Gellio, Noct. Att. 13, 14, 1.

 

[56] Di grande interesse anche il seguito del passo: [Servio Dan., Georg. 1, 21] Quod autem dicit “studium quibus arva tueri”, nomina haec numinum in indigitamentis inveniuntur, id est in libris pontificalibus, qui et nomina deorum et rationes ipsorum nominum continent, quae etiam Varro dicit. Nam, ut supra diximus, nomina numinum ex officiis constant imposita, verbi causa ut ab occatione deus Occator dicatur, a sarritione Sarritor, a stercoratione Sterculinus, a satione Sator. Seguo la lezione del testo serviano offerta da B. Cardauns: M. Terentius Varro, Antiquitates rerum divinarum, I. Die Fragmente, Wiesbaden 1976, p. 64 fragm. 87. L’insigne studioso ritiene, non senza ragione, che il passo di Servio sia un frammento varroniano tratto dal XIV libro delle Antiquitates rerum divinarum: «Man darf also Serv. georg. 1, 21 (fr.87) mit guter Wahrscheinlichkeit auf RD XIV zurückführen und der Einleitung des Buches zuweisen, in der Varro auf Indigitamenta als wichtige - doch sicher nicht einzige - Quelle hinwies. Dass auch die bei Servius folgenden Ausführungen und vor allem die Zwölfgötterreihe den RD entstammen, ist möglich, aber ungewiss» [Op. cit. II. Kommentar, p. 184]. Brevemente anche F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 108 s.

 

[57] M. Andriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, cit., p. 516.

 

[58] Per l'archivio dei pontefici, a parte le opere di I. A. Ambrosch citate nella nota seguente, vedi (ma senza pretesa di completezza): J. V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. pp. 127 ss.; E. Lübbert, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. Bouché-Leclercq, Les Pontifes de l’ancienne Rome. étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, 2a ed., Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], pp. 299 ss.; R. Peter, Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxon. 1906; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 14 ss. Per l'archivio degli auguri, mi pare che le opere di F. A. Brause (Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875) e P. Regell (De augurum publicorum libris, Vratislaviae 1878; Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882; Commentarii in librorum auguralium fragmenta specimen, Hirschberg 1893) siano tuttora le più complete. Ma è anche da vedere J. Linderski, “The augural Law”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16,3, Berlin-New York 1986, pp. 2241 ss.

 

[59] Le basi per la ricostruzione critica del materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già state poste, nella prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I. A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. pp. 159 ss.; Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; Quaestionum pontificalium caput primum, Vratislaviae 1848; Quaestionum pontificalium caput alterum, Vratislaviae 1850. Sulle compilazioni sacerdotali e sul valore storico-giuridico dei dati provenienti da tali documenti, vedi, fra gli altri, C. W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, Kobenhavn 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939; R. Besnier, “Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois”, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 17 ss.

 

[60] F. Sini, "Documenti sacerdotali e lessico politico-religioso di Roma arcaica", in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell'antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), ed. a cura di I. Lana - N. Marinone, Torino 1980, pp. 127 ss.; ma più in generale cfr. anche C. Nicolet, "Lexicographie politique et histoire romaine: problèmes de méthode et directions de recherches", ibid., pp. 19 ss.

 

[61] Cfr., in tal senso, le «Remarques préliminaires sur la dignité et l’antiquité de la pensée romanine» di G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969, pp. 9 ss.; in quelle pagine l’illustre studioso francese ha dimostrato, in maniera peraltro assai convincente, che «des techniques aussi complexes que l’augurale ius et le ius civile étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de l’Empire» (p. 25).

Già negli studi sulla giurisprudenza romana di P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen, Berlin 1888, pp. 15 ss., si dedicava ampio spazio all’analisi della «pontificale Jurisprudenz» e al ruolo insostituibile dei suoi «Ritualvorschriften» come modelli della successiva elaborazione giurisprudenziale. Nello stesso senso, vedi ora G. Nocera, “Iurisprudentia”. Per una storia del pensiero giuridico romano Roma 1973, pp. 11 ss.; e soprattutto F. Wieacker, “Altrömische Priesterjurisprudenz”, in Iuris professio. Festgabe für Max Kaser zum 80. Geburtstag, Wien-Graz-Köln 1986, pp. 347 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, München 1988, pp. 310 ss.; da ultimo, brevemente, anche A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 4 s.

 

[62] Utilizzo l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano: Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss., in part. p. 37 n. 75; “Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia”, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16,1, Berlin-New York 1978, pp. 445 s.; Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s. La validità del concetto di «ordinamento giuridico» viene ancora riaffermata negli ultimi scritti di Riccardo Orestano: Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; “Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto”, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss. Assai più pragmatica, e non sempre in linea con le tesi dell’Orestano, appare invece la posizione di A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.

 

[63] Per una penetrante critica all'interpretazione "statualista'' del sistema giuridico-religioso romano, vedi P. Catalano, Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 41 ss. (con ampia analisi [pp. 52 ss.] dei motivi di opposizione nei confronti della «Staatslehre» mommseniana, presenti nella coeva cultura giuspubblicistica italiana); Id., “La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone)”, cit., pp. 273 ss.; ma anche J. Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975, pp. 16 ss. («Kritik der Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»); infine G. Lobrano, Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, pp. 6 ss.

 

[64] G. Lobrano, “Note su «diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo”, in Index 7, 1977, [ma 1979], p. 66; cfr. Id, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari 1990, pp. 81 ss.

 

[65] A proposito del formalismo rituale delle società antiche, non appare troppo lontana dal vero la giustificazione proposta nel secolo scorso dal grande storico e comparatista francese N. D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome (1864), 16ª ed., Paris 1898, p. 197: «Toutes ces formules et ces pratiques avaient été léguées par les ancêtres qui en avaient éprouvé l’efficacité. Il n’y avait pas à innover. On devait se reposer sur ce que ces ancêtres avaient fait, et la suprême piété consistait à faire comme eux. Il importait assez peu que la croyance changeât: elle pouvait se modifier librement à travers les âges et prendre mille formes diverses, au gré de la réflexion des sages ou de l’imagination populaire. Mais il était de la plus grande importance que les formules ne tombassent pas en oubli et que les rites ne fussent pas modifiés» (= trad. it. di G. Perrotta: La città antica, 1924, rist. con nota introduttiva di G. Pugliese Carratelli, Firenze 1972, p. 202).

 

[66] Per il significato e l'antichità del termine vedi A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 3ª ed., I, Torino 1964, p. 41. Derivano certamente dagli archivi dei sacerdoti, oltre il carmen saliare (frammenti in: C. M. Zander, Carminis saliaris reliquiae, Lundae 1888; B. Maurenbrecher, “Carminum Saliarium reliquiae”, in Jahrbücher für classische Philologie, Suppl. 21, 1894, pp. 315 ss.; W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et Lucilium, 2ª ed. (1927), rist. Stutgardiae 1963, pp. 1 ss.) e il carmen arvale (sul quale vedi: M. Nacinovich, Carmen arvale, 2 voll., Roma 1933-1934; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, cit., pp. 99 ss.), le solenni formule giuridico-religiose di cui le fonti ci hanno conservato i testi: cfr. Livio 1, 18, 6 ss. (inauguratio); 1, 24, 3 ss. (foedus); 1, 32, 11-13 (indictio belli); 1, 38, 2 (deditio); 8, 9, 16 (devotio); Macrobio, Sat. 3, 9, 7 (evocatio). Cfr. C. M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890; C. Thulin, Italische sakrale Poesia und Prosa, Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906; G. Appel, De Romanorum praecationibus, [Religionsgeschichte Versuche und Vorarbeiten, 7, 1], Gissae 1909; G. B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958.

 

[67] Cfr. Quintiliano, Instit. orat. 1, 6, 39-41: Verba a vetustate repetita non solum magnos adsertores habent, sed etiam adferunt orationi maiestatem aliquam non sine delectatione: nam et auctoritatem antiquitatis habent, et, quia intermissa sunt, gratiam novitati similem parant. Sed opus est modo, ut neque crebra sint haec nec manifesta, quia nihil est odiosius adfectatione; nec utique ab ultimis et iam oblitteratis repetita temporibus, qualia sunt «topper» et «antegerio» et «exanclare» et «prosapia» et Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta. Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est.

 

[68] La distinzione tra i decreta e i responsa sacerdotali non risulta del tutto chiara in dottrina: vedi, per tutti, P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, cit., pp. 29 ss.; E. De Ruggiero, “Decretum”, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II, 2, Roma 1910, pp. 1497 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 541 s., 527 ss., 551; F. Schulz, History of Roman Legal Science, 2ª ed., Oxford 1953, pp. 15 ss. (= trad. it., a cura di G. Nocera: Storia della giurisprudenza romana, Firenze 1968, pp. 37 ss.); da ultimo, si occupa dei decreta pontificum, nell’ambito di uno studio più ampio sulla normativa decretale in Roma repubblicana, G. Mancuso, “Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana”, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 40, 1988, pp. 78 ss.

Per quanto riguarda i responsa, non è neppure certo se, e in che misura, essi vincolassero il magistrato, il senato o il privato che li avevano richiesti; tuttavia il prestigio dei sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero disattesi. Cfr. Cicerone, De harusp. resp. 6, 12: Quae tanta religio est qua non in nostris dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M. Luculli responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.

 

[69] F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 163 ss. Le fonti attestano, infatti, almeno quattro interventi ordinatori, che si susseguirono con sorprendente periodicità: il primo è attribuito a Numa, seppure nella forma di compilazione originaria; il secondo ci è presentato come opera di Anco Marcio; il terzo, datato nei primissimi anni della repubblica, è costituito dalla raccolta di leges regiae del pontefice Papirio (su questa mia interpretazione dello ius Papirianum, vedi ora l’adesione di D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989, p. 28 n. 5.); l’ultimo si colloca immediatamente dopo l’incendio gallico. Completano il quadro dei possibili modi di trasmissione dei documenti sacerdotali fino alla seconda metà del II secolo a.C. altri due avvenimenti, che dovettero avere rilevanti riflessi su tali documenti: intendo parlare della lex Ogulnia del 300 a.C. e della composizione degli Annales Maximi intorno al 130 a.C. Appare, dunque, assai credibile che i sacerdoti-giuristi e gli antiquari degli ultimi secoli della repubblica, nel comporre le loro opere, abbiano attinto a documenti sacerdotali più antichi, o a copie fedeli di essi.