N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

LO SPAZIO DELLA MEDIAZIONE

 

 

Giovanni Cosi

Maria Antonietta Foddai

Università di Sassari

 

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Sui limiti del diritto come mezzo di pacificazione sociale. – 3. Sulla vera natura del conflitto sociale. – 4. L’inflazione processuale e i metodi ADR. – 5. Alcuni vantaggi dell’ADR. – 6. Conciliazione come mediazione. – 7. Patologicità del tecnico. – 8. Sulla struttura della mediazione. – 9. Diverse concezioni della mediazione. – 10. Il posto della mediazione.

 

 

 

1. – Premessa.

 

Giustizia sostanzialista e giustizia formalista: la prima è ‘antica’, la seconda ‘moderna’.

In una società tradizionale, ancora priva della separazione tra diritto e morale, l’ethos violato richiede di essere rapidamente ripristinato. Che ciò avvenga per mezzo di una ritorsione privata o tramite un ‘giudizio’, l’importante è disporre di un capro espiatorio da sacrificare sull’altare dell’Ordine del gruppo. Non vi è problema di prove e cautele procedurali, perché la sentenza e la pena sono note fin dall’inizio: esse sono in qualche modo consustanziali alla violazione stessa. Lo si può vedere ancora oggi nei regimi politici in senso lato integralisti, dove esiste una contaminazione sistematica tra diritto e morale sociale ‘ufficiale’: nei luoghi dove una sola cosa può essere detta, l’esibizione di facciata della razionalità procedurale serve soltanto ad avallare giuridicamente ciò che è già stato deciso politicamente.

Noi moderni da tempo cerchiamo (almeno pubblicamente) di ripudiare questa concezione di giustizia. Non volendo (o non potendo) sapere cosa sia ‘giusto’ in senso sostanziale, abbiamo escogitato complesse metodiche procedurali-formali volte a produrre la cosiddetta ‘verità processuale’; pallido riflesso – ma l’unico umanamente accessibile – dell’idea di giustizia. In altri termini, mentre ci teniamo a distanza dall’oggetto pericoloso e desiderato, tentiamo tuttavia nostalgicamente di comportarci come se fosse ancora raggiungibile; sia pure per altre vie.

Situazione spesso spiacevole e problematica, almeno sul piano psicologico. Se infatti dal punto di vista istituzionale e ordinamentale il passaggio dalla prima alla seconda nozione di giustizia appare come un’evoluzione improbabilmente reversibile, a livello psicologico individuale i due modelli spesso convivono ancora conflittualmente: si pensi al dilemma tra ‘cosa è giusto fare’ e ‘cosa ho il diritto di fare’. La nozione sostanzialista di giustizia tenta ancora di far valere i propri diritti contro quella formalista; il sottofondo istintuale dell’esperienza giuridica cerca di rompere gli argini di razionalità – tutto sommato piuttosto recenti – entro cui è stato imbrigliato[1].

Anche la nostra cultura appartiene da tempo al gruppo di quelle che hanno deciso di delegare la gestione dei conflitti sociali al diritto e ai suoi strumenti formali di decisione delle controversie. Non importa se di civil o di common law, se ‘accusatori’ o ‘inquisitori’, i nostri sistemi giuridici ci sembrano i soli capaci di garantire la pace e l’ordine, scongiurando al tempo stesso la necessità di ricorrere a interventi di controllo eccessivamente repressivi, o addirittura totalitari.

Tuttavia è proprio dall’interno della più proceduralista tra le culture giuridiche moderne, quella americana, che si sono sviluppate le reazioni alternative più significative alla razionalità procedurale-formale. Sono ormai più di trent'anni che i metodi informali di risoluzione delle controversie – in particolare quelli basati sul modello della mediation conflittuale - trovano ampia applicazione negli ordinamenti anglosassoni, e specialmente in quello statunitense[2]. L'interesse, sia teorico che pratico, per questi strumenti sta crescendo in numerosi paesi europei, il nostro compreso. Diversi fattori hanno congiurato, sul finire degli anni '60, nel favorire il fenomeno; ma, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, esso s'inquadra in un più vasto movimento di critica de-legalizzante e de-istituzionalizzante al proceduralismo formalista[3], le cui origini si collocano agli inizi del ‘900. Una delle prime e più importanti voci che all’epoca si levarono contro le distorsioni e gli eccessi del sistema adversary americano, fu quella di Roscoe Pound con il suo attacco alla cosiddetta "sporting theory of justice". La sua tesi era che il formalismo giuridico incoraggiava un uso strumentale del diritto, poiché era incapace di favorire l'accordo basato su un consenso intorno ai valori realmente in gioco nel conflitto: «L'effetto della nostra procedura esageratamente contenziosa non è soltanto di eccitare le parti, i testimoni e i giurati, ma anche di diffondere nella comunità un falso concetto delle intenzioni e degli scopi del diritto [...]. Se la legge è solo un gioco, né i giocatori che vi prendono parte né il pubblico che vi assiste possono essere spinti a sottomettersi al suo spirito, quando vedono che i loro interessi sono meglio serviti eludendolo [...]. Così i tribunali, istituiti per amministrare la giustizia secondo la legge, si trasformano in agenti o in complici dell'illegalità»[4].

Molti decenni più tardi, sarà praticamente con gli stessi argomenti che si tenterà di dimostrare come gli ideali di eguaglianza, giustizia e libertà invocati a sostegno della 'legalità' in una democrazia liberale, entrino di fatto in conflitto proprio con le procedure formali di risoluzione delle controversie che, applicandoli sostanzialmente, dovrebbero legalizzarli[5]: in altri termini, gli strumenti di aggiudicazione che, provvedendo all'applicazione della 'giustizia', costituiscono il principale riferimento per la legittimazione di un ordinamento eminentemente proceduralista come quello americano, spesso fallirebbero nel loro scopo proprio per eccesso di formalismo. La 'delegalizzazione' propugnata dal movimento riformista consisterebbe conseguentemente in un ridimensionamento del formalismo procedurale in nome del recupero di una razionalità sostanziale incentrata più sulla tutela di interessi che non sull’accertamento di diritti.

Soprattutto l'antropologia si è fatta carico di produrre un'ampia letteratura dedicata a evidenziare comparativamente l'esistenza di una vasta diffusione transculturale di metodi di 'soft justice' radicalmente alternativi ai 'valori' di riferimento della razionalità procedurale moderna.  L'antropologia giuridica e le indagini sugli ordinamenti in senso lato 'tradizionali', hanno sicuramente ridimensionato la centralità dei modelli di legalità e di giudizio dominanti nelle moderne società tecnologicamente avanzate, mostrando come le procedure informali di risoluzione delle controversie - in particolare quelle basate sulla mediazione e la negoziazione - siano state largamente impiegate nel corso della storia da un gran numero di culture. Hanno insomma 'scoperto' che non esisterebbe affatto, né sostanzialmente né proceduralmente, un concetto univoco di 'legalità', dal momento che in tutte le società la 'legge' opererebbe da sempre in ambiti e con strumenti molto differenziati[6]. Soltanto il pregiudizio etnocentrico e una buona dose di presunzione culturale, uniti talvolta al retaggio della venerata tradizione romanistica, farebbero ritenere agli abitanti della parte nord-occidentale, 'ricca e stabile' del pianeta, di vivere nella migliore possibile, se non nell'unica vera civiltà giuridica.

«Abbiamo conservato le tracce di almeno diecimila sistemi di diritto»[7]: il nostro sarebbe in realtà soltanto uno tra questi. E forse nemmeno il migliore, almeno dal punto di vista della qualità della pace sociale che riesce a garantire.

 

 

2. – Sui limiti del diritto come mezzo di pacificazione sociale

 

Ambigua è la funzione del diritto: per comprenderla, una buona metafora potrebbe essere quella del confine. Tra gli stati e le nazioni, il confine è spesso una sorta di ‘luogo geometrico’ (cioè immateriale e convenzionale) che esiste soltanto nelle carte geografiche e nella mente di chi lo deve oltrepassare. Tuttavia, garantendo ai  popoli che separa l'esclusiva di uno spazio vitale, esso fornisce sicurezza e conferisce identità, con perfetta simmetria. Ovviamente esistono confini ‘buoni’ e aperti e confini ‘cattivi’ e chiusi: confini attraverso i quali i popoli fanno serenamente transitare i loro scambi commerciali, e confini attraverso i quali le nazioni muovono eserciti per affermare con la forza la loro identità inflazionata. Confini simili alla bassa siepe tra i giardini di due vicini premurosi, e confini che ricordano le mura paranoiche di una fortezza assediata.

Come il confine tra i popoli, così il diritto tra gli individui, insieme unisce e divide: disegna intorno a ognuno quella sfera di diritti e doveri che ne rappresenta l'identità civile; e stabilisce i modi e le forme in cui le diverse sfere possono o devono entrare in contatto tra loro. Quindi, al pari del confine, conferisce identità e fornisce sicurezza[8]. In questo senso, il diritto può essere visto costituire il minimo comun denominatore dell'umano ‘di base’ nel contesto sociale: regolamentando gli egoismi e ponendo un freno alle reciproche invasioni, è condizione necessaria allo sviluppo delle potenzialità individuali, al manifestarsi dell'umano ‘di vertice’. Ma non è sufficiente. Perché se il principio originario del diritto consiste essenzialmente in una radicale alternativa di metodo alla violenza, tuttavia niente impedisce - se non il riconoscimento, necessariamente meta-giuridico, della presenza nell'’altro’ di un identico rango ontologico - che col diritto si continuino a perseguire gli stessi scopi di prevaricante affermazione dell'esserci, tipici della violenza. Se la presenza del diritto è la discriminante forse fondamentale per rendere possibile un'umana esistenza, un'esistenza che voglia dirsi veramente umana non potrà mai passare esclusivamente attraverso di esso. Il diritto possiede dunque dei limiti ontologici. Questi limiti emergono soprattutto in relazione alla sua capacità di essere o meno un efficace strumento di pacificazione nei rapporti sociali.

Come vera ‘salute’ non è soltanto assenza di malattia, così vera ‘pace’ non è soltanto assenza di guerra: esistono numerosi stati, o livelli, di pace diversi; e altrettanti modi di risoluzione dei conflitti ad essi corrispondenti. Il livello più basso di pacificazione è sicuramente quello dell'armistizio: i contendenti depongono le armi e sospendono le ostilità, ma non per fare la pace; semplicemente, si lasciano in pace, perché sono venute momentaneamente meno le risorse materiali o le spinte motivazionali necessarie al conflitto; le ingiustizie perpetrate e subite rimangono intatte sul terreno della contesa. La pace come armistizio presuppone che il parametro di normalità nelle relazioni sia rappresentato dallo stato di guerra.

Diversa appare, almeno nelle intenzioni, la pace perseguita attraverso il diritto. E' la ricerca, o il ripristino, di un ordine basato sulla certezza dei rapporti: sulla nitida individuazione e separazione della pretesa dall'obbligo, della ragione dal torto, dell'innocenza dalla colpevolezza. Tale la natura della pace che discende dalla sentenza o dal lodo arbitrale[9]. La legge si sostituisce alla violenza, certificando erga omnes le posizioni reciproche, rendendole esigibili e coercibili. L'ordine e la sicurezza non dipendono perciò tanto dalla validità della soluzione adottata o dal consenso delle parti, quanto dalla forza dell'ordinamento e dall'efficacia del suo apparato di coercizione. I contendenti potranno anche non essere soddisfatti; le radici del conflitto non essere estirpate: la ‘pace’ del diritto funzionerà comunque, riposando sulla sua capacità impositiva. Come certi medicinali, il diritto sembra dunque capace di trattare soprattutto i sintomi, e non le cause, di un malessere.

La pace assicurata dal diritto, rimanendo alla ‘superficie’ degli eventi, si dimostra spesso carente sia sul piano etico generale, sia su quello pratico dell'effettiva risoluzione del conflitto: sul piano etico, non solo non spinge i contendenti alla consapevolezza delle proprie reali motivazioni, ma non va oltre la mera tolleranza, senza pervenire a un vero riconoscimento dell'altro; sul piano pratico, confonde quasi sempre la verità con la vittoria, lasciando lo sconfitto solo col suo rancore e il suo desiderio di rivalsa. Ciò perché essa segue a una procedura che di fatto tende ad assimilare i contendenti più alla figura del nemico che non a quella dell’avversario. L’avversario è colui senza il quale, nel conflitto, io non esisto: solo dove lui è, anch’io posso veramente essere. Con lui ci si confronta. L’avversario mi permette infatti non solo di misurarmi con lui, ma anche con me stesso: mi fa scoprire i miei limiti e le mie possibilità. L’avversario è come me: ha i miei stessi timori e le mie stesse speranze; imparando a conoscerlo, scoprendo la sua forza e le sue ragioni, i suoi punti deboli e le sue incongruenze, imparo a conoscere anche i miei. Perciò gli devo rispetto. Il nemico è invece colui che m’impedisce di esistere: dove lui è, io non posso essere. Con lui si combatte; fino alla resa, o all’annientamento. Tale è in realtà l’esito di ogni vittoria, anche processuale.

La pacificazione giuridica non farebbe del resto che riflettere, nei metodi utilizzati e nei risultati perseguiti, il modo tipicamente competitivo d'intendere le relazioni sociali diffuso nelle moderne società tecnologicamente avanzate: non esistono altri esiti possibili di una disputa, oltre la vittoria/sconfitta e il compromesso. E il conflitto diventa contesa soprattutto perché il bisogno percepito come fondamentale è quello di avere ragione, non quello di trovare una soluzione: «L'ego di ciascun soggetto s'identifica ben presto con la posizione presa; l'oggetto della controversia viene accantonato per lasciare spazio allo scontro tra le persone, tra le rispettive (incompatibili) volontà di vittoria. Così facendo il conflitto perde la sua oggettività e 'si personalizza', non è più uno scontro 'su' qualcosa, ma 'fra' qualcuno. [...] Gli effetti svantaggiosi di questa situazione sono evidenti: la creazione di una crisi di comunicazione, l'inasprimento o la rottura delle relazioni interpersonali, l'incapacità a ricercare la migliore soluzione possibile date le circostanze»[10].

 

 

3. – Sulla vera natura del conflitto sociale

 

Gli ordinamenti procedurali-formali non ignorano del tutto gli strumenti informali di soluzione delle controversie; tuttavia riescono quasi sempre a snaturarne la funzione. Ad esempio, il nostro codice di procedura civile conosce da sempre l’istituto del tentativo di conciliazione che dovrebbe essere effettuato dal magistrato con la presenza diretta delle parti. Questo però nella realtà quasi mai viene seriamente perseguito: il più delle volte è vissuto anzi come un intralcio, come un corpo estraneo a una procedura che, una volta avviata, è rivolta a ben altri risultati. E comunque, quando viene tentato, rimane quasi inevitabilmente segnato dalla mentalità decisionale di chi lo opera: il giudice. è insomma una conciliazione molto ‘guidata’ e influenzata dall’incombenza del giudizio. Soprattutto, è una conciliazione operata da soggetti che quasi mai sono specificamente preparati a utilizzarla in quanto efficace e autonomo strumento di soluzione della controversia.

Il modo in cui è stata trattata finora la conciliazione nell’ambito delle nostre istituzioni non è altro che una conseguenza dell’atteggiamento culturale con cui, nelle nostre società, ci si accosta normalmente al conflitto[11]. Lo si considera senz’altro un  evento patologico, un problema da risolvere in via esclusivamente tecnica da parte di soggetti professionalmente addestrati a farlo nell’ambito di una struttura formalizzata: il processo-giudizio. Tutte le società tecnologicamente avanzate manifestano in varia misura questa tendenza: c’è, per così dire, una diffusa ‘mancanza di fantasia’ che porta a ritenere il giudizio, la decisione imposta da un potere esterno, come il principale, se non l’unico, metodo praticabile di soluzione conflittuale. Ad esempio, in molti rapporti commerciali si oscilla spesso da un eccesso d’informalismo (promesse verbali, fiducia personale assoluta …) finché le cose ‘vanno bene’, a un improvviso eccesso di formalismo (la lite, il processo) quando sorgono dei problemi. Nel mezzo c’è invece tutto uno spazio intermedio, spesso inesplorato, dove possono venire utilmente applicati i metodi in senso lato riconducibili al modello della conciliazione.

Un primo passo per cominciare a comprendere dove inserire utilmente gli strumenti informali di soluzione delle controversie potrebbe essere proprio quello di considerare il conflitto non come un evento sociale patologico, un male da curare o da rimuovere, ma come un fenomeno fisiologico; talvolta addirittura positivo. Se spogliato dalla considerazione pregiudiziale negativa, un conflitto non è dopotutto altro che una disputa tra tesi e opinioni diverse intorno a un problema. Può essere visto e vissuto come un’occasione di confronto, certo anche di contrasto, ma non necessariamente di dissidio insanabile che escluda a priori la possibilità della comunicazione e implichi la trasformazione dell’avversario in un nemico da sconfiggere (secondo la logica vittoria\sconfitta tipica del processo). Del resto, anche una banale considerazione del conflitto in termini di ‘darwinismo sociale’, fa comprendere come esso sia indispensabile allo stesso progresso: una società senza conflitti è inevitabilmente statica; non solo, c’è da diffidare delle società che apparentemente non manifestano conflitti. Quello che conta, non è che ci siano conflitti, ma come questi vengono gestiti.

è ovvio che una società può essere minata profondamente da una cattiva gestione dei conflitti. Ma ‘cattiva’ è appunto se mai la gestione, non il conflitto in quanto tale. Il conflitto di per sé è un fatto, un evento, un fenomeno neutrale: sono le nostre valutazioni che lo qualificano come ‘utile’ o ‘inutile’, ‘positivo’ o ‘negativo’, e simili. Dipende quindi da noi come considerarlo. Per ora ci siamo limitati a un solo tipo di scelta, credendo che fosse l’unica possibile. Di più: in una società dove i soggetti hanno spesso in comune soltanto il conflitto che contingentemente li oppone, questo potrebbe essere inteso anche come un’occasione di comunicazione che, se adeguatamente sfruttata, è talvolta in grado di generare insospettate, nuove opportunità per entrambe le parti.

 

 

4. – L’inflazione processuale e i metodi ADR

 

I metodi alternativi e ‘informali’ di risoluzione delle controversie (Alternative Dispute Resolutions - A.D.R.), con un ritardo di decenni rispetto ai paesi di common law e anche di alcuni europei, si stanno affacciando come realtà autonoma anche nel nostro ordinamento[12]. L’origine della diffusione moderna di questi strumenti, come abbiamo accennato, va ricercata negli Stati Uniti dei primi anni ‘70 e, soprattutto all’inizio, fu determinata da motivi prevalentemente utilitaristici legati al fenomeno della cosiddetta ‘litigation explosion’.

Tra il 1970 e il 1985 il numero delle cause civili iscritte presso le corti federali americane era più che quadruplicato. Si trattava soprattutto di cause complesse, che implicavano tempi lunghi ed elevati costi di gestione: viene stimato che nel giro di un decennio le spese vive sopportate dal sistema della giustizia civile americano siano quasi raddoppiate, giungendo a sfiorare l’equivalente di 60.000 miliardi di lire dell’epoca. Costi che, soprattutto in un sistema di mercato assolutamente liberista come quello americano, venivano a minare la competitività globale dei soggetti produttori coinvolti, che si vedevano inevitabilmente costretti a scaricarli sul consumatore finale[13].

Diverse erano le cause di questa degenerazione patologica del sistema di gestione della patologia sociale. In primo luogo il grande incremento della legificazione statale in materie tradizionalmente lasciate all’autodeterminazione contrattuale delle parti: a riprova che c’è una relazione diretta, e non inversa, tra quantità di norme di un ordinamento e quantità di controversie. Poi l’imprevedibilità dei verdetti delle giurie popolari: il ‘trial by jury’, caposaldo dei diritti di libertà americani teoricamente accessibile a tutti, presenta forti rischi di manipolazione della cosiddetta ‘verità processuale’, oltre a propendere spesso per indennizzi decisamente esagerati. Infine la crescita esponenziale del numero dei professionisti legali, ormai divenuti un vero e proprio problema sociale: gli avvocati americani sono attualmente oltre un milione; possono farsi pubblicità; lavorano normalmente in base al patto di quota lite (il ‘contingent fee’)[14]; con quali conseguenze è facile immaginare. Il risultato è stata la paralisi, tendenziale se non attuale, di numerosi settori della giustizia civile. Le differenze con la situazione italiana odierna sono ‘di scala’, non di qualità o quantità[15].

Motivi in senso lato di ordine ideologico e culturale hanno congiurato a favore della diffusione dei metodi ADR. è però evidente che già sul piano semplicemente pratico-utilitaristico vi erano ragioni più che sufficienti per tentare l’esperimento.

Molti e diversi sono gli strumenti di soluzione delle controversie riconducibili all’ambito dell’ADR: tutti però condividono la caratteristica di voler fornire una gestione privata del conflitto, nel senso che le parti si accordano per tentare di risolverlo con dei mezzi diversi da quelli del processo-giudizio pubblico. Gli strumenti dell’ADR sono molteplici ma, a ben vedere, costituiscono essenzialmente delle ‘variazioni sul tema’ di due modelli base: l’arbitrato e la mediazione. In termini generalissimi, il primo è una forma di giudizio privatizzato; la seconda una negoziazione assistita.

L’arbitrato è una procedura secondo cui le parti si accordano per sottomettere la loro controversia alla valutazione di un terzo (singolo o collegio) arbitro imparziale. Il risultato della procedura è di solito una decisione (lodo) variamente vincolante.

Lo schema di massima è quello del processo-giudizio ufficiale. Rispetto a questo, l’arbitrato diminuisce il formalismo della procedura (le parti possono accordarsi preventivamente sulle regole da seguire per produrre documenti, testimonianze, ecc.); aumenta la competenza del terzo decisore, che viene di solito designato in quanto esperto nella materia oggetto del contendere (mentre il giudice pubblico è ‘precostituito per legge’); accorcia drasticamente i tempi di decisione. Dell’arbitrato si servono soprattutto soggetti imprenditoriali e commerciali. Può avere dei costi elevati, ma questi vengono comunque in genere ripagati dai risparmi di tempo e dalla competenza della decisione. Dato l'informalismo della procedura, l’arbitrato può aprirsi abbastanza agevolmente agli altri strumenti alternativi di soluzione delle controversie; in particolare alla conciliazione.

La mediazione è una procedura in cui un terzo neutrale, il mediatore, assiste le parti nel ricercare una soluzione al loro conflitto accettabile per entrambi. A differenza dell’arbitro, il mediatore non ha il potere di prendere decisioni vincolanti.

La mediazione può funzionare anche quando le parti non sono state capaci di raggiungere un accordo in sede negoziale, perché il mediatore, grazie alle sue tecniche di comunicazione e alla sua competenza in materia, può assisterle nell’esplorare alternative che esse, da sole, non erano state capaci di prendere in considerazione. Alcuni dei principali vantaggi della mediazione:

-         le parti sono coinvolte direttamente nella negoziazione dell’accordo;

-         il mediatore, in quanto terzo neutrale, possiede una visione ‘esterna’ e oggettiva del conflitto; proprio per questo può aiutare le parti nella ricerca di alternative insospettate;

-         la procedura è rapida e meno costosa non solo rispetto al giudizio, ma anche all’arbitrato;

-         i mediatori sono professionisti dotati di formazione specifica e di competenza tecnica;

-         è la procedura che maggiormente tutela la conservazione dei rapporti tra le parti;

-         è aperta a soluzioni creative che rispecchino i reali interessi delle parti;

-         le informazioni assunte nel corso della mediazione sono normalmente riservate e non possono venire utilizzate nell’ambito di altre procedure, formali o informali[16].

 

 

5. - Alcuni vantaggi dell’ADR

 

Secondo le statistiche, il 95% dei procedimenti giudiziari americani si concludono con un accordo di tipo transattivo o compromissorio; spesso appena prima di andare in aula per il dibattimento. Il ricorso a metodi ADR, anche nell’ambito di processi già pendenti davanti a un tribunale, può portare a un’equa soluzione mesi, o addirittura anni, prima della procedura standard.

In molti casi le normali procedure giudiziarie risultano troppo lente e complesse per produrre dei risultati che valgano la pena dei costi sostenuti, specie tenuto conto del fatto che l’accertamento giudiziario dei fatti non si basa sul principio di ottenere il massimo numero possibile d’informazioni a un costo ragionevole, ma di ricercare ogni informazione che sia comunque rilevante come prova. Non sono rari negli Stati Uniti i verbali di processi da cui risulta che il costo della raccolta di tutte le informazioni rilevanti per la causa supera di gran lunga l’importo di ogni possibile risarcimento[17]. In poche parole, più tardi ci si accorda (se ci si accorda) più alto è il costo. La soluzione tramite un metodo ADR, ove praticabile, elimina o comunque riduce drasticamente le spese per le indagini di accertamento: l’esperienza americana mostra che l’80% delle informazioni rilevanti possono essere ottenute al 20% del costo necessario per una procedura giudiziaria standard.

Infine, il controllo delle parti sui risultati della procedura. I metodi ADR si sono dimostrati capaci di risolvere conflitti complessi e apparentemente insolubili, in cui erano coinvolti emozioni e interessi che difficilmente avrebbero potuto trovare piena udienza nell’ambito di una procedura di giudizio formale. Spesso le parti si sono risolte a ricorrere alla giustizia ‘alternativa’ quando hanno realizzato che con quella ‘normale’ avrebbero perso ogni controllo sul prodotto finale della decisione. Come conseguenza indiretta, specie su certe materie i metodi ADR svolgono poi un’azione di cura del rapporto tra la parti e di prevenzione conflittuale, come vedremo meglio più oltre.

La società americana, forse la più giudiziariamente litigiosa del pianeta, si è insomma accorta che i tribunali non possono più essere sempre i luoghi dove cominciano le soluzioni delle dispute, ma i luoghi dove le dispute vanno eventualmente a finire dopo che sono stati sperimentati altri sistemi di soluzione. Gli operatori giuridici americani si stanno sempre più orientando verso una prospettiva in cui metodi ADR e metodi ‘tradizionali’ convivono senza soluzione di continuità. In cui la “A” di ADR non significa più ‘alternativo’, ma semplicemente ‘adeguato’ alla circostanza e al tipo di conflitto da risolvere.

 

 

6. – Conciliazione come mediazione

 

La mediazione appartiene dunque all'ambito degli istituti conciliativi di giustizia informale che si propongono come alternativa non solo al processo, ma anche al giudizio, in quanto strumenti efficaci, economici, e soprattutto 'etici', di soluzione conflittuale (i processualisti avrebbero forse da ridire, perché tecnicamente solo l’arbitrato e il giudizio risolvono il conflitto: la negoziazione\transazione e la conciliazione\mediazione lo estinguono). Per essere più precisi, abbiamo visto come la mediazione sia il metodo, lo schema procedurale che caratterizza una gran  parte di questi istituti; e in particolare la conciliazione. Potenzialmente, i suoi ambiti di applicazione sono i più diversi: dal civile al penale, dal contenzioso amministrativo alle controversie di lavoro. E anche le figure dei mediatori possono differire notevolmente, sia dal punto di vista della loro formazione tecnica e del reclutamento, sia da quello dell'appartenenza a istituzioni pubbliche oppure a strutture private. Un elemento comune di metodo permane però costante, e consiste soprattutto nel tentativo di prevenire la degenerazione del conflitto in dissidio; e di giungere, se possibile, alla soluzione della controversia attraverso il componimento pacifico e volontariamente concordato delle parti, alla presenza di un terzo, 'maieuta' imparziale. La mediazione si propone dunque come un approccio alla gestione dei conflitti alternativo e in vario modo autonomo rispetto alle procedure legali tradizionali basate sul sistema contraddittorio-accusatorio.

Alcune descrizioni:

«Un processo, quasi sempre informale, attraverso il quale una terza persona neutrale tenta, tramite l'organizzazione di scambi tra le parti, di consentire a queste di confrontare i loro punti di vista e di cercare, con il suo aiuto, una soluzione al conflitto che le oppone»[18].

«L'intervento nell'ambito di una disputa tra due contendenti di una terza persona imparziale e neutrale, gradita a entrambi, che non riveste autorità decisionale, ma li aiuta affinché essi pervengano a una soluzione della vertenza che risulti di reciproca soddisfazione soggettiva e di comune vantaggio oggettivo»[19].

La mediazione è insomma una procedura consensuale nella quale le parti in conflitto presentano i loro punti di vista a una terza parte neutrale, mantenendo tuttavia il controllo del processo e del risultato. Non si garantisce un accordo finale, e il mediatore non ha il potere di prendere una decisione vincolante per le parti in conflitto. è notevole la differenza con l’arbitrato, dove invece i partecipanti convengono di permettere a un terzo neutrale di decidere, in maniera spesso vincolante per le parti, anche il risultato. Mediazione e conciliazione sono infatti strumenti di risoluzione delle controversie che appartengono all’ambito dell’ordine negoziato; l’arbitrato, almeno per alcuni aspetti, a quello dell’ordine imposto.

Sono questi i due grandi insiemi dei metodi di soluzione dei conflitti. Nell’insieme dell’ordine negoziato, le parti mantengono dall’inizio alla fine il controllo sulla procedura e il suo eventuale risultato. La procedura è autonoma, nel senso che volta per volta segue tutte e sole le regole che le parti abbiano stabilito; e informale, nel senso che non segue (almeno apparentemente) prescrizioni e modelli. Nell’insieme dell’ordine imposto, le parti hanno un controllo limitato (o nullo) sulla procedura e il suo esito. Le regole procedurali sono in varia misura poste dall’esterno e in generale non sono disponibili. La procedura è (in varia misura) formale, soprattutto nel senso che non ha interesse per le intenzioni delle parti, ma solo per gli atti di queste formalmente corretti. Le nostre società praticano, spesso dilettantescamente e inconsapevolmente, i metodi dell’ordine negoziato. Mantengono come modello di riferimento culturale soprattutto quelli dell’ordine imposto.

Gli strumenti di mediazione sono pre-giuridici nel duplice senso che esplicano il loro intervento possibilmente prima del ricorso alla giustizia 'ufficiale' (anche se a questa sono variamente collegati, quanto a legittimazione e a conseguenze), e che utilizzano mezzi e perseguono fini notevolmente diversi da quelli delle classiche procedure di aggiudicazione. Come si diceva, non hanno molto in comune con le varie forme di arbitrato, attraverso le quali i privati ricercano dopotutto soltanto quella speditezza giurisdizionale che l'amministrazione pubblica della giustizia spesso non è in grado di offrire. E ben pochi punti di contatto hanno anche con la transazione negoziale, nella misura in cui questa è soltanto la ricerca di un compromesso intorno a posizioni rigide; una contrattazione che verte sulle rispettive pretese, piuttosto che sui reali motivi e interessi sottostanti a ciascuna di esse[20].

A questo punto dovrebbe cominciare a essere chiaro che gli strumenti di mediazione\conciliazione – se correttamente intesi e utilizzati - si presentano come alternativi, anche culturalmente, ai modi e alle forme con cui il diritto viene correntemente inteso e utilizzato nel contesto delle società tecnologicamente avanzate. Per poterne perciò cogliere il significato, bisogna soffermarsi un poco sulle caratteristiche di quest’ultimo; sulle sue possibilità, e sui suoi limiti, in quanto strumento di soluzione dei conflitti.

 

 

7. – Patologicità del tecnico

 

Nella società civile, il modo stesso in cui sorge la lite manifesta quasi sempre la tendenza a esaltare, piuttosto che a sedare, gli aspetti patologici del contrasto.

Vi è intanto un immediato azzeramento della comunicazione interpersonale diretta: l'uno toglie all'altro la parola e, per ritualizzare subito il passaggio alla violenza che potrebbe essere imminente, la trasferisce a esperti capaci di confrontarsi in base a regole formalizzate; questo in sostanza significa «le mando l'avvocato», «farò ricorso al mio legale». Date le premesse, neppure gli avvocati però si parleranno, ma si rivolgeranno a un terzo, arbitro della contesa rituale (il giudice) e si nomineranno l'un l'altro in terza persona. Il loro linguaggio, anch'esso contagiato dalla patologia, non potrà essere onto-centrico e quindi capace di rigenerare una reale comunicazione, ma sarà necessariamente ego-centrico: non si rivolgerà al destinatario diretto per convincerlo e trasformarlo al fine di trovare insieme una soluzione, ma lo presumerà, e lo descriverà, fino a prova contraria bloccato nella volontà di perseguire con ogni mezzo esclusivamente il proprio interesse di parte.

Sembra difficile in effetti contestare che la funzione assegnata agli avvocati nel conflitto tra le parti non sia tanto diretta a salvare un rapporto intersoggettivo fallito - e quindi a riparare con strumenti giuridici delle più o meno gravi lacerazioni del tessuto civile - quanto a trarre fino in fondo le conseguenze del fallimento; è in questo senso che l'intervento del professionista patologo si trasforma esso stesso in fenomeno patologico.

E forse possibile comprendere meglio le cause della degenerazione in senso patologico del ruolo del professionista legale, confrontando tra loro tre semplici forme di gestione conflittuale.

In un primo caso, immaginiamo di trovarci di fronte a una situazione ‘normale’ di negoziazione: le parti mantengono aperta la comunicazione e gestiscono il loro conflitto in modo autonomo e informale; esse hanno il completo controllo della procedura e dei suoi risultati. Ovviamente, il successo non è garantito.

Si può immaginare poi una situazione più complessa. Così tante incomprensioni e ritorsioni, a volte anche violenze, hanno segnato la storia dei rapporti tra le parti, che una comunicazione diretta non è attualmente possibile. Tuttavia le parti devono negoziare, in molti casi perché costrette dalle circostanze: è una situazione tipica, ad esempio, di molte delicate dispute internazionali. Le parti allora si rivolgono a un mediatore, gradito a entrambe, che faccia da portavoce delle rispettive richieste nel tentativo di riaprire un canale di comunicazione.

Infine vi è la tipica conformazione di un conflitto gestito tramite avvocati. La situazione è ancora più complessa: la parte A parla al suo avvocato, il quale parla (o meglio, scrive) all’avvocato della parte B, il quale parla a B; e viceversa. Questa tecnica di gestione dei conflitti è lenta, costosa e spesso sproporzionata rispetto al valore della materia oggetto del contenzioso. Non solo, ma una comunicazione che coinvolge quattro bocche e quattro paia di orecchie, ognuna con la propria parziale interpretazione e percezione del problema, aumenta sicuramente il ‘rumore di fondo’ e diminuisce le possibilità di una reale comprensione. Quest’ultima forma di gestione dei conflitti presenta perciò un’alta probabilità di evolversi nella struttura decisionale ‘standard’, tipica delle nostre società: il processo.

Nel processo-giudizio le parti (o meglio, i loro rappresentanti) prendono atto della rottura comunicativa e si rivolgono a un terzo neutrale: il giudice. Questi è un altro patologo, dotato di potere decisionale. Il suo ‘prodotto’ normale è una sentenza che definisce un vincitore e uno sconfitto. In questa fase finale del conflitto la presenza delle parti è divenuta ormai quasi superflua: si procede in loro assenza; si giudica in contumacia. Il ruolo fondamentale è giocato dai patologi, gli avvocati e il giudice, che dibattono il problema in termini tecnici. La procedura è formale ed eteronoma; la sentenza sfugge al controllo delle parti.

Bisogna dire in proposito che le società contemporanee tendono di fatto a esprimere dei valori diffusamente atti a favorire l'evoluzione del patologo della struttura, in fenomeno a sua volta patologico: esse infatti non compensano adeguatamente, né in termini finanziari né di prestigio, i ‘generici’ della prevenzione (si pensi agli insegnanti), mentre remunerano invece, talvolta lautamente, gli specialisti della patologia; ciò anche perché intervenire su di una crisi ormai in atto è di solito più costoso che prevenirla, oltre a necessitare di competenze tecniche spesso altamente qualificate e differenziate. Si viene cioè a generare un contesto caratterizzato dal netto prevalere degli aspetti di ‘terapia’ su quelli di ‘prevenzione’, e in cui la patologicità della situazione, la specializzazione tecnica e professionale dell'intervento e il compenso pagato dalla società per l'intervento stesso, si amplificano simultaneamente e reciprocamente. Specialmente nel caso della patologia giuridica, la stessa terapia tende poi a spostarsi - soprattutto nell'ottica del giudice - dalla cura del reale contrasto originario, per concentrarsi sugli aspetti formali della violazione dell’ordinamento, allontanando ulteriormente gli operatori dall'oggetto primario del loro intervento.

Consideriamo invece la seconda situazione che abbiamo prima descritto, quella della negoziazione con intermediario. Se l’intermediario ha successo nel ripristinare la comunicazione tra le parti essa può evolversi nella struttura fondamentale, tipica della mediazione: una negoziazione ‘assistita’, in cui il mediatore assume essenzialmente il ruolo di guardiano della comunicazione tra le parti; il suo compito principale è quello di tenere attiva la circolazione comunicativa. Se il mediatore svolge bene il suo ruolo, le parti percepiranno l’eventuale accordo raggiunto come frutto esclusivo delle loro volontà; saranno perciò fortemente indotte a rispettarlo e a conservare in futuro le loro relazioni. Il mediatore è insomma il ‘regista occulto’ dell’accordo: non lo impone, ma lo agevola.

è possibile fare in modo che i conflitti giuridicamente trattabili non si trasformino senz'altro in contese da affrontare per mezzo di processi-giudizi? è possibile immaginare un'opera in tal senso anche da parte del giurista? Porsi questi interrogativi significa inoltrarsi in un territorio veramente ‘estremo’ per la nostra esperienza giuridica: un territorio dove il diritto e i suoi operatori diverrebbero inevitabilmente molto diversi da come li abbiamo conosciuti finora.

 

 

8. - Sulla struttura della mediazione

 

è difficile riuscire a definire in positivo cosa sia ‘mediazione’ e chi sia ‘mediatore’: Eligio Resta, ad esempio, ritiene che “mediatore sia colui che ha fatto la mediazione”. Con questo intendendo significare che ogni tentativo di costringere questo strumento di soluzione conflittuale, e i suoi operatori, in una troppo stretta rete di regole ufficiali, comporterebbe il suo quasi certo annientamento.

La natura della mediazione e dei suoi operatori si comprende meglio per negazione e per contrasto. Non è una transazione negoziale, nella misura in cui questa è soltanto la ricerca di un compromesso intorno a posizioni rigide: una contrattazione che verte sulle rispettive pretese, piuttosto che sui reali motivi e interessi sottostanti a ciascuna di esse. Tanto meno è un giudizio, in cui un potere esterno definisce la vittoria di una parte sull’altra; o un arbitrato, attraverso il quale i privati ricercano dopotutto soltanto quella speditezza giurisdizionale che l'amministrazione pubblica della giustizia spesso non è in grado di offrire. E’ un metodo di risoluzione conflittuale di tipo non ego- ma onto-centrico, basato sulla logica del con-vincere e del riconoscimento; il suo scopo non è quello di recepire un ordine imposto, ma di costruire un ordine negoziale che faccia emergere le vere cause del conflitto, senza fermarsi ai ‘sintomi’ di esso che si manifestano nei rapporti di diritto, o di forza, tra le parti. L’artefice dell’eventuale successo della procedura è il mediatore, terzo neutrale alla disputa che svolge la funzione di catalizzatore della comunicazione tra i soggetti in conflitto[21]. Ai fini del raggiungimento dell’accordo, egli è assolutamente privo di potere, che è tutto nelle mani delle parti. Ma non di autorità. Anzi, la sua autorità dipende proprio dalla sua mancanza di potere: consiste in un saper-fare accrescitore di potenzialità e ideatore di opportunità, messo al servizio degli interessi delle parti.

In generale, per riuscire a comprendere la natura e gli scopi del fenomeno-mediazione, bisogna smettere di chiedersi «Qual’ è la regola?», e cominciare piuttosto a domandarsi: «Con quale problema ci stiamo confrontando e come possiamo scegliere tra le diverse procedure di soluzione ad esso applicabili?».

Secondo L. Fuller[22], gli  elementi di base che caratterizzano la struttura della mediazione sono essenzialmente tre:

1.      Le parti coinvolte sono 2 (formate da singoli o da gruppi).

2.      Si trovano in uno stretto rapporto di dipendenza reciproca, che in qualche misura le  ‘forza’ all’accordo.

3.      L’accordo contiene spesso degli elementi di scambio economico; ma è soprattutto una ‘costituzione’ che regolerà i rapporti futuri delle parti.

Riguardo al primo punto, sembra che il conflitto tra due parti nitidamente individuate sia al tempo stesso quello che ha più bisogno di mediazione e quello dove la mediazione ha più probabilità di successo. Classificando i gruppi in base al numero dei loro componenti, non è difficile notare come il gruppo di 2, la diade, si trovi particolarmente in difficoltà nel gestire i propri conflitti e nel risolvere i problemi di ordine interno. Una triade, ad esempio, può già affrontare le proprie difficoltà ricorrendo apertamente o meno al sistema della maggioranza; oppure un suo membro può offrirsi come mediatore tra gli altri due, proponendosi in posizione neutrale.

è la relazione diadica che ha tipicamente bisogno della mediazione per risolvere i suoi problemi interni. Ci si potrebbe in generale chiedere se la mediazione riesca a gestire i conflitti in gruppi composti da più di due elementi. Di fronte ad A, B e C in contrasto, il mediatore X può avere difficoltà a interpretare il suo ruolo senza farsi coinvolgere nelle manovre interne dei contendenti: se X chiede a A la disponibilità a una soluzione proposta, A può replicare che darà il suo consenso se X si impegnerà a dissuadere B da impegnarsi per una concessione che questi intende fare a C. X diventa così uno strumento nelle mani di coloro che credeva di aiutare. Può trovarsi così di fronte all’alternativa tra conservare il vuoto titolo di mediatore e divenire a pieno titolo il quarto partecipante ai giochi del gruppo. In quest’ultimo caso le possibilità di raggiungere un ordine funzionante vengono ulteriormente ridotte, perché si forma la possibilità di due blocchi di due contro due: la triade si trasforma in una diade e viene anche a perdere l’eventualità di risolvere il suo problema con un voto a maggioranza.

Qualsiasi mediazione multilaterale è estremamente difficile da gestire. Si può immaginare di ‘spezzarla’ in una serie di mediazioni bilaterali, ma i rischi di fraintendimento e di coinvolgimento crescono per il mediatore in maniera esponenziale rispetto al numero delle parti in conflitto.

Riguardo al secondo punto, la mediazione si trova tipicamente a operare in un contesto dove la forte interdipendenza tra le parti insieme genera il conflitto e lo pone in un’ottica particolare: rapporti di lavoro, familiari, di vicinato … . I conflitti tra soggetti culturalmente, economicamente, socialmente distanti, le cui relazioni non sono segnate da interessi preesistenti, sono più facilmente trattabili con sistemi di soluzione delle controversie diversi dalla mediazione. La mediazione presuppone un contesto di relazioni segnato da forti spinte alla coesione: ciò soprattutto quando essa è diretta alla formazione, modificazione o dissoluzione di questo tipo di relazioni.

Coloro che sono interessati più alla struttura dell’autorità che all’analisi dei processi sociali, tendono in genere a domandare non «cosa fa?» il mediatore, ma «da dove deriva la sua capacità o autorità di curarsi dei rapporti altrui?». In quest’ottica si ricerca il fondamento del suo potere: se in un tacito accordo tra le parti, se derivi da qualche qualità carismatica posseduta dal mediatore stesso, in qualche ruolo che gli viene attribuito dalla tradizione o da un’autorità più elevata. Indagine certo non priva di significato, ma che può far dimenticare il fatto che il ‘potere’ del mediatore deriva spesso semplicemente dal suo ‘essere lì’ in quel momento e in quella circostanza: «I passanti che di fronte a un ingorgo inestricabile entrano in mezzo all’incrocio e si mettono a dirigere il traffico, si vedono attribuito il ‘potere’ di selezionare quali macchine sia opportuno fare passare per prime in modo da migliorare l’efficienza della situazione; la loro autorità è solo quella di un suggerimento, e tuttavia viene accettata nella circostanza»[23].

   Uno studio serio sulla mediazione serve a superare la tendenza moderna a ritenere che ogni ordine sociale debba essere imposto da qualche forma di ‘autorità’. Quando vediamo come un mediatore, privo di ‘autorità’, può aiutare le parti a dare ordine e coerenza ai loro rapporti, ci accorgiamo di come queste possano fare a meno dell’ordine imposto, e che l’ordine sociale può talvolta scaturire direttamente dalle interazioni che esso sembra governare e dirigere.

   L’ultima caratteristica della mediazione consiste nell’aspetto ‘costituzionale’ dell’accordo che eventualmente la conclude. L’accordo deve servire di fatto alla creazione di un governo in miniatura che regoli i rapporti futuri tra le parti: si assegnano funzioni, si stabiliscono i metodi per la presentazione di richieste; si possono costituire gli strumenti per risolvere le eventuali dispute future.

   Scrivere un simile documento significa non solo usare un linguaggio accurato e non ambiguo, ma anche riuscire a fondare accordi istituzionali. S’intuisce come la figura di un professionista della prevenzione e della ‘costruzione’, cui prima si accennava, possa al riguardo risultare determinante.

   Il mediatore è un professionista che sa come mediare, ma che sa anche cosa sta mediando. Durante il processo di mediazione, la sua cura è rivolta a far emergere i reali interessi delle parti in funzione del raggiungimento di un accordo gradito a entrambi e capace di tutelare utilmente le loro relazioni future. Riguardo quest’ultimo aspetto, se le parti lo richiedono, entra in gioco la sua competenza tecnica specifica: conclusa con successo la mediazione, il professionista si mette al servizio dell’accordo in veste di ‘esperto in struttura’ che stila il trattato che regolerà le relazioni tra le parti.

   In un certo senso, la mediazione non finisce ma comincia col raggiungimento dell’accordo. Il mediatore può essere chiamato dalle parti a esserne il curatore, specie di fronte alla legge. In quanto ‘terzo istruito’, egli ha una visione oggettiva ed esterna del problema: ha il compito di sapere non solo che cosa i termini dell’accordo significano per le parti, ma anche che cosa questi possano venire a significare per chi all’accordo non ha partecipato. Vedo particolarmente adatto a rivestire questo ruolo, che è quello del giurista in senso pieno, il professionista-avvocato.

Dovrebbe essere a questo punto abbastanza chiaro in che rapporto stia la mediazione con gli altri sistemi sociali di produzione e di restaurazione dell’ordine, in particolare con quelli giuridici. Una delle caratteristiche fondamentali della mediazione è la sua capacità di rimettere in comunicazione le parti non imponendo regole e norme cui adeguarsi, ma aiutandole a conseguire un riconoscimento reciproco che produca una nuova percezione del loro problema. Sembra esistere un’antitesi essenziale tra la mediazione e le procedure legali standard di soluzione conflittuale.

Se andiamo però a vedere il modo in cui concretamente hanno origine le norme che verranno applicate nelle procedure legali, ci accorgiamo che esse sono quasi sempre frutto di un compromesso tra punti di vista contrastanti: il legislatore opera spesso da mediatore nel tentativo di raggiungere questo compromesso. Se procedure assimilabili alla mediazione hanno sicuramente un ruolo a livello della produzione normativa, le cose vanno molto diversamente quando si tratta di applicare la legge. Una volta che una legge è stata prodotta, la sua applicazione è nelle mani dei giudici e dei tribunali; e questi sono stati istituiti non per mediare le dispute, ma per deciderle.

In qualsiasi sistema di civil law, il sistema standard di soluzione dei conflitti sarà sempre il giudizio, non la mediazione. Quando si tratta di accertare se Tizio è passato col rosso, se ha pagato il suo debito o ha dichiarato il vero nella sua denuncia dei redditi, la mediazione serve a poco. Un uso eccessivo e improprio della mediazione può vanificare i punti di riferimento e i confini indispensabili a orientare i comportamenti dei consociati, generando una situazione in cui nessuno riesce più a capire con precisione quale sia il suo posto e cosa gli sia consentito fare. Se il grigio a volte può sembrare un accettabile compromesso tra il bianco e il nero, ci sono circostanze in cui bisogna invece impegnarsi proprio a tenere separate le cose bianche da quelle nere.

Più che a livello di produzione, è a livello di applicazione della legge che sorgono i problemi tra la mediazione e le forme di soluzione mediante decisione e aggiudicazione. Uno dei motivi essenziali di differenza e incompatibilità può essere individuato nel fatto che la mediazione è orientata alle persone, il giudizio ai fatti: alla legge – almeno a quella dotata delle caratteristiche liberal-democratiche di generalità e astrattezza – non interessa chi ha fatto qualcosa, ma cosa è stato fatto; anche questo significa che “la legge è uguale per tutti”. Ci sono ovviamente delle situazioni in cui questa apparentemente nitida differenza lo diventa nella realtà molto meno: si pensi ad esempio al problema di come valutare l’ammissione di un criminale a un programma di alternativa alla pena; o a quando si debba decidere a chi affidare la custodia dei figli tra dei genitori in conflitto. Ma in generale, se si tratta di accertare la responsabilità di un imputato o la violazione di un contratto, gli standards legali di decisione funzionano senza doversi occupare delle qualità o delle intenzioni individuali.

Due criteri potrebbero forse fare da guida per comprendere il ruolo corretto della mediazione in ambito sociale: il primo ci dice quando non dovrebbe essere usata; il secondo quando non può. Il primo riguarda la natura dei rapporti tra le parti; il secondo la natura del problema.

In base al primo criterio ci si deve domandare: i rapporti tra le parti sono tali da risultare meglio regolati per mezzo di norme impersonali rivolte ai soli fatti? Se così, allora la mediazione potrebbe risultare inopportuna o inadeguata allo scopo di creare o modificare le regole tra le parti.

In base al secondo criterio ci si deve chiedere se il problema è gestibile per mezzo della mediazione, ricordandone i limiti essenziali: 1) che funziona bene soprattutto tra due parti nettamente individuate; 2) che presuppone una presenza di interessi comuni alle parti sufficiente a spingerle alla collaborazione nella mediazione.

 

 

9. - Diverse concezioni della mediazione

 

L’ormai più che trentennale esperienza americana intorno alla mediazione e in generale agli strumenti informali di soluzione delle controversie, ci mostra una sequenza di atteggiamenti in cui da un eccesso di ottimismo iniziale si è passati al pessimismo e alla sfiducia, per poi approdare finalmente a un atteggiamento più equilibrato[24]. Come testimoniato anche da grandi associazioni internazionali di studi legali (tipo Lex Mundi; se ne veda il sito Internet), la tendenza è oggi quella di offrire un servizio il più possibile ‘completo’ che preveda l’intera gamma di metodi di soluzione delle controversie, dal processo classico fino alla mediazione, ponendoli a disposizione del cliente. Anche per questo la ‘A’ di ADR negli Stati Uniti significa sempre meno ‘alternativo’ e sempre più ‘adeguato’: l’offerta di un sistema adatto alla circostanza del conflitto e calibrato sui desideri della clientela.

Nel corso delle vicende del ‘movimento’ per la mediazione si sono confrontate visioni notevolmente diverse circa gli scopi e le aspettative collegati all’utilizzo di questo strumento di giustizia informale. Esse possono essere riunite in quattro posizioni principali:

1. La soddisfazione innanzi tutto.

In base a questa concezione, la mediazione è soprattutto un potente strumento per portare alla luce i veri  interessi delle parti in conflitto. Con la sua flessibilità, il suo informalismo e consensualismo, riesce a far emergere tutti gli aspetti del problema che interessa le parti. Non essendo costretta da regole o categorie legali, riesce a ridefinire il contenzioso nei termini di un problema comune. Grazie alle capacità del mediatore di confrontarsi con situazioni di potere sbilanciate, la mediazione riduce le possibilità di manovre sopraffattorie. Ne consegue che la mediazione offre un sistema di soluzione dei problemi collaborativo che si propone come valida alternativa alla transazione sulla base di posizioni contrastanti. Può conseguire dei risultati creativi di ‘vittoria-vittoria’ che si spingono al di là del semplice riconoscimento dei diritti formali, trovando soluzioni che soddisfano le reali necessità delle parti in una data situazione. Il movimento per la mediazione ha usato tutte queste caratteristiche per produrre uno strumento capace di fornire soluzioni di qualità superiore per ogni tipo di disputa.

In confronto con i sistemi formalistici del processo accusatorio, l’informalismo collaborativo della mediazione riduce i costi sia economici che emotivi dell’accordo. Il ricorso alla mediazione può dunque produrre un notevole risparmio per i contendenti; inoltre, evitando il ricorso ai tribunali, la mediazione produce anche un risparmio sulla spesa pubblica. In conclusione, l’uso della mediazione ha portato a un’utilizzazione più efficiente delle risorse sia private che pubbliche nel campo della soluzione dei conflitti, con soddisfazione generalizzata degli utenti del sistema-giustizia.

Ciò si è verificato in tutte le situazioni in cui si è applicata la mediazione. Nella custodia dei figli a seguito di divorzio ha prodotto situazioni migliori di qualsiasi decisione contenziosa. Nelle liti di piccola entità, ha dato soddisfazione alle parti a livello sia di procedura e di risultato, sia del rispetto degli accordi raggiunti. In campo ambientale e amministrativo in generale ha prodotto soluzioni creative e di alto profilo, che hanno risparmiato gli anni di attesa e le enormi spese tipiche del processo in tribunale. Indirettamente la mediazione ha dunque ridotto il carico per la giustizia ordinaria, agevolandone l’efficienza per quei casi che non possono essere risolti senza il suo intervento[25].

2. La mediazione come strumento di giustizia sociale.

Secondo questa visione, la mediazione offre una reale possibilità di organizzare gli individui intorno a interessi comuni e, a partire di qui, di costruire vincoli e strutture sociali più solide. Questo è importante soprattutto perché gli individui isolati e privi di protezione sono particolarmente esposti nelle nostre società allo sfruttamento e all’oppressione. La mediazione può favorire l’organizzazione comunitaria in molti modi. Con le sue capacità di ridefinizione delle richieste e di concentrazione sugli interessi comuni, può aiutare gli individui che si credono avversari a percepire un contesto più vasto in cui essi si trovano insieme a fronteggiare un nemico comune. Di conseguenza la mediazione può rafforzare i deboli aiutandoli a formare alleanze.

Inoltre, aiutando le parti a risolvere da sole i problemi, riduce la dipendenza da poteri distanti e incoraggia l’autonomia, inclusa la formazione di spontanee strutture comunitarie. La mediazione poi considera le norme legali come soltanto uno dei modi possibili di organizzare richieste e risolvere dispute; può dare ai gruppi più mezzi per argomentare i loro interessi di quanto possa darne il processo legale. Il movimento per la mediazione ha usato queste capacità dello strumento per aiutare l’organizzazione di soggetti relativamente deboli in comunità di interessi. Come risultato, gli interessi comuni sono stati meglio perseguiti, aiutando il realizzarsi di una migliore giustizia sociale, e gli individui che hanno partecipato hanno raggiunto un più alto livello di consapevolezza e di coinvolgimento nella vita associata.

Questo quadro si applica in tutti i campi dove viene usata la mediazione. Le mediazioni interpersonali di vicinato hanno ad esempio aiutato i residenti a individuare i loro veri avversari, come i proprietari delle residenze o le agenzie di affari, e a intraprendere azioni comuni per la tutela dei loro veri interessi. La mediazione ambientale ha favorito l’affermarsi di nuove ( e non strettamente legali) pretese di gruppi che hanno avuto successo nell’equilibrare dei poteri eccessivamente sbilanciati a favore degli imprenditori. Nei rapporti tra produttori e consumatori, la mediazione ha aiutato questi ultimi a prendere fiducia nella propria capacità di far valere interessi, e li ha portati ad altre forme di organizzazione autonoma e a un aumento deciso di potere. In breve, la mediazione ha aiutato gli individui a organizzarsi in comunità di interessi nei più diversi contesti[26].

3. La mediazione come strumento di oppressione sociale.

Secondo questa concezione, anche se il movimento cominciò con le migliori intenzioni, la mediazione si è trasformata in un pericoloso strumento per aumentare il potere del più forte a danno del più debole. A causa dell'informalismo e del consensualismo della procedura, e al tempo stesso per l’assenza di regole sia sostanziali che procedurali, la mediazione può amplificare lo squilibrio dei poteri e aprire la porta alla coercizione e alla manipolazione da parte del più forte nel conflitto. Al tempo stesso, la posizione di neutralità solleva il mediatore dal prevenire tutto ciò. Rispetto alle procedure formali-legali, la mediazione ha prodotto risultati ingiusti in quanto sproporzionatamente e ingiustificatamente favorevoli alle parti più forti. Inoltre, date la sua riservatezza e informalità, essa dà ai mediatori ampi poteri strategici sul controllo della discussione, aprendo la strada all’affermarsi dei loro pregiudizi. Questi possono alterare la selezione e la forma dei problemi, il modo di strutturare e di valutare le opzioni, e molti altri elementi che influenzano la soluzione. Di conseguenza la mediazione ha spesso prodotto dei risultati ingiusti.

Inoltre, dal momento che la mediazione gestisce le dispute senza fare riferimento ad altri casi simili e all’interesse pubblico, essa produce una disaggregazione e una privatizzazione dei problemi sia di un gruppo sociale sia pubblici. La conseguenza è che la mediazione ha di fatto aiutato i forti a ‘dividere e comandare’. Le parti più deboli vengono rese incapaci a organizzarsi e l’interesse pubblico viene sottovalutato e ignorato. In definitiva l’effetto complessivo del movimento per la mediazione è stato quello di indebolire le conquista di giustizia sociale ottenute dai movimenti per i diritti civili, delle donne, dei consumatori, per citarne alcuni, e di aiutare a ristabilire la posizione privilegiata delle classi sociali più forti che opprimono quelle più deboli.

Questo quadro di oppressione si ritrova in molte situazioni. La mediazione di divorzio indebolisce garanzie ed espone le donne ad ‘accordi’ coercitivi e manipolatori che producono ingiustizie sia nei diritti di proprietà che in quelli di custodia. La mediazione tra proprietario e conduttore permette al primo di sfuggire ai suoi obblighi di provvedere al minimo di decenza abitativa per il secondo, con danni evidenti per la qualità della vita di questi. La mediazione sulle discriminazioni in ambiente di lavoro spinge le vittime ad accettare buonuscite e permette al razzismo e al sessismo di rimanere indisturbato all’interno del mondo degli affari e delle istituzioni. Anche nei conflitti tra partners commerciali, la mediazione consente alle parti di prendere accordi a porte chiuse che possono svantaggiare i consumatori. In ogni campo, la mediazione è stata utilizzata per rafforzare il potere del più forte e aumentare lo sfruttamento e l’oppressione del più debole[27].

4. Un’opportunità di trasformazione personale.

Secondo questa visione, la vera e sola promessa della mediazione consiste nella sua capacità di trasformare la personalità dei soggetti in conflitto e la società in generale. Grazie al suo informalismo e consensualismo, la mediazione permette alle parti di definire in autonomia i loro problemi e i loro scopi, facendo risaltare l’importanza di essi nelle loro rispettive esistenze. Inoltre la mediazione aiuta le parti a sviluppare l’autodeterminazione nel decidere se e come porre fine a una disputa, e le favorisce nel mobilitare le loro risorse personali a questo scopo. Il movimento per la mediazione ha almeno in parte utilizzato queste caratteristiche della procedura per rafforzare nelle parti le loro stesse capacità di governare circostanze avverse di ogni tipo, attuali ma anche future. Chi partecipa a una mediazione guadagna in genere fiducia, rispetto e considerazione in se stesso. In questo consiste l’effetto di ‘rafforzamento’ della mediazione.

Inoltre il carattere privato e non-giudiziario della mediazione offre alle parti un’opportunità non coattiva di contatto e comunicazione. In questo contesto, alla presenza di mediatori addestrati a favorire la comunicazione interpersonale, le parti spesso scoprono che possono esprimere comprensione e riconoscimento reciproco nonostante il conflitto che le oppone. In questa concezione la procedura di mediazione diventa uno strumento per aiutare gli individui a rafforzare le proprie capacità di relazionarsi intorno a problemi. Anche se le parti esordiscono come fieri avversari, la mediazione può sortire l’effetto di produrre tra loro riconoscimento e interesse reciproco in quanto esseri umani. In questo consiste l’effetto di ‘riconoscimento’ della mediazione.

Gli esiti di rafforzamento e di riconoscimento interindividuale, finora trascurati nell’ambito della mediazione, possono avere significative influenze nel ridefinire gli assetti delle relazioni sociali, passando dall’indifferenza o dall’ostilità alla strutturazione di un gruppo di soggetti alleati.

Questa visione può applicarsi a tutti campi di utilizzo della mediazione. La mediazione tra produttori e consumatori può portare al mutuo riconoscimento dei due ruoli, e trasformare la forma stessa dei modi correnti d’intendere le relazioni commerciali. La mediazione di divorzio può portare al riconoscimento tra gli ex-coniugi. La mediazione in situazioni di reati ‘a querela’, può portare al riconoscimento tra le parti, innescando processi di compensazione sociale che l’intervento della giustizia ufficiale non sarebbe mai in grado di realizzare pienamente[28].

 

 

10. – Il posto della mediazione

 

Si tratta, com’è evidente, di visioni diverse e spesso ideologizzate dello stesso oggetto. La 1. e la 4. più ‘privatistiche’; la 2. e la 3. più ‘pubblicistiche’. Ognuno può identificarsi in esse come meglio crede. E’ comunque chiaro che una mediazione insoddisfacente non produce alcun miglioramento nei rapporti interpersonali, e che in prospettiva può risultare uno strumento di ‘oppressione’. All’opposto, una mediazione riuscita può migliorare e ‘trasformare’ positivamente i soggetti che vi hanno partecipato, e in prospettiva può risultare uno strumento di ‘emancipazione’ sociale.

La mediazione è uno degli strumenti che le società contemporanee hanno a disposizione per cercare di risolvere i loro conflitti. Essa trova il suo posto accanto alla legislazione, al giudizio, ai provvedimenti amministrativi, ai negozi contrattuali, alle regole consuetudinarie (dove riconosciute). Nelle nostre società questi strumenti sono spesso correlati tra loro in modi vari e complessi: si pensi ad esempio alla norma prodotta dal potere legislativo che viene applicata in un provvedimento giudiziario relativo a una controversia intorno a un negozio tra privati. Nelle società di tipo tradizionale queste distinzioni sfumano o risultano del tutto assenti, tanto che in questi contesti è quasi del tutto inutile cercare di discernere ciò che per noi sono ‘legge’ e ‘diritto’ dagli altri sistemi di gestione dei conflitti.

Dal punto di vista di noi moderni, si potrebbe tendere a pensare che la distinzione tra le varie forme di regolazione sociale e tra gli strumenti di soluzione conflittuale sia la conseguenza di un’approfondita discussione tra tecnici competenti circa le loro rispettive funzioni e i modi di applicazione più appropriati. All’opposto, vediamo che l’emergere di un metodo è dovuto al semplice eclissarsi di fatto di un altro.

Le concezioni moderne della società e dello stato vedono da un lato la tendenza a esaltare il ruolo di quest’ultimo come fonte esclusiva di regolazione, dall’altro a considerare la prima come unica vera produttrice normativa: ne sono rappresentanti le contrapposte visioni formalista-imperativista ed effettivista-realista della vigenza del diritto. La legislazione, il giudizio, l’amministrazione non vengono percepiti come momenti diversi, ma integrati, di uno stesso processo regolativo, bensì come distinte emanazioni dirette del potere statale. In quest’ottica, il contratto e il negozio giuridico non costituiscono in sé una fonte autonoma di diritto e di regolazione sociale, ma assumono significato nella misura in cui trovano riconoscimento in una sentenza di tribunale o in una legge dello stato. La consuetudine passa ormai sotto un quasi completo silenzio, a meno che non venga richiamata da una legge (fatti salvi gli usi e costumi…).

Soltanto la mediazione sembra resistere a questa tendenza a ricondurre ogni forma di perseguimento di un ordine sociale sotto le etichette del ‘potere’ o dell’ ’autorità’.

 

 

 

 



 

[1] Si prenda ad esempio la figura del ‘giustiziere’, tanto frequente nella letteratura e nella cinematografia (oltre che nella realtà) americane: una figura ambiguamente liberatoria per la società che forse più di ogni altra ha enfatizzato gli aspetti procedurali-formali del proprio ordinamento. Il giustiziere è coraggioso, rapido, efficiente; è insieme giudice ed esecutore; interviene là dove la giustizia ordinaria (formalista) si è dimostrata pavida, lenta, incapace di punire – come l’ethos richiederebbe – l’evidente colpevole. Di fronte alle sue gesta ci sentiamo intimamente divisi. La ‘neocorteccia’ razionale-procedurale non può non condannarlo: con la sua azione, questa è la ‘massima’, egli si è reso uguale alla sua vittima. L’archetipo sostanzialista invece approva, suscitando nell’immediato un più o meno inconfessabile brivido di piacere.

 

[2] Soprattutto negli Stati Uniti, le prime sperimentazioni sono però assai più risalenti: cfr. c.b. harrington, Delegalization Reform Movements: A Historical Analysis, in r.l. abel (ed.), The Politics of Informal Justice, New York 1982, vol. I, pp. 35 ss.

 

[3] Cfr. in proposito p. nonet e p. selznick, Law and Society in Transition: Toward Responsive Law, New York 1978.

 

[4] r. pound, The Causes of Popular Dissatisfaction with the Administration of Justice, in American Bar Association Reports 29, 1906, p. 406.

 

[5] «Un'istituzione formalista e legalista è mal equipaggiata per comprendere cosa sia realmente in gioco nei conflitti che la coinvolgono. Nell'incapacità di modificare razionalmente i propri metodi superati, è probabile che si limiti ad adattarsi opportunisticamente [...]. L'idea di legalità ha bisogno di essere concepita più ampiamente e di essere curata dal formalismo» (nonet e selznick, Op.cit., pp. 77, 108.

 

[6] V.j. auerbach, Justice without Law?, New York 1983. V. anche G. COSI, Il logos del diritto, Torino 1993, pp. 145 ss..

 

[7] n. rouland, Aux confins du droit, Paris 1991, p. 54.

 

[8] E' infatti per mezzo della divisione e dell'individuazione che l'esperienza normativa tenta di liberare il con-esserci dalle sue contraddittorie potenzialità negative: come uno stato all'interno dei suoi confini, così l'individuo che si senta abbastanza tutelato nel suo spazio di 'sovranità' definito dalla legge, acquista sicurezza nei confronti degli altri. Può perciò cominciare a pensare che per superare la propria indigenza sia meglio cooperare con gli altri, anziché aggredirli; e che forse è anche possibile durare oltre la propria morte per mezzo degli altri, vincendo così la propria contingenza (cfr. in proposito G. COSI, Il logos del diritto, cit., soprattutto Cap.I).

 

[9] O anche dalla transazione, specie se frutto di un mero compromesso intorno a posizioni rigidamente inconciliabili. Quel particolare tipo di transazione che è il patteggiamento nel processo accusatorio, ricorda invece di più un armistizio tra forze impari conseguente alla resa di uno dei contendenti.

 

[10] c. mazzucato, Il logos della pacificazione, in l. lombardi vallauri (ed.), Logos dell'essere, logos della norma, Bari 1999.

 

[11] In proposito cfr. j. morineau, L’esprit de la médiation, Ramonville Saint-Agne 1998, pp. 31 ss.

 

[12] Ricordiamo in proposito la legge n. 192\1998 sul tentativo obbligatorio di conciliazione e di arbitrato in materia di controversie nel campo delle subforniture, e la legge n. 281\1998 che prevede la possibilità di ricorrere alla conciliazione come strumento di tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti. La legge n. 580\1993 affida alle Camere di Commercio la fornitura di questi servizi di giustizia ‘alternativa’.

 

[13] Questo accade ovviamente anche in Italia, ma non siamo abituati a percepirlo con la stessa immediatezza.

 

[14] Si tratta del sistema, generalmente vietato in Europa, secondo cui il compenso del professionista è in parte aleatorio e legato all’esito della causa: in caso di sconfitta, avvocato e cliente ‘perdono’ entrambi; in caso di vittoria, si spartiscono gli utili in una misura che può arrivare fino al 50%.

 

[15] Si calcola che oggi in Italia siano pendenti circa 4 milioni di cause civili: anche ipotizzando che ognuna di queste coinvolga soltanto 2 persone, circa 1 italiano su 7 (compresi i bambini) avrebbe a che fare con la giustizia.

 

[16] Arbitrato e mediazione sono i due modelli base dell’ADR. Intorno a questi, combinandone in vario modo gli elementi fondamentali, sono fioriti molti altri strumenti di soluzione conflittuale, talvolta difficilmente classificabili. Vediamone sommariamente alcuni.

Mediazione\arbitrato (Med\Arb). Si tratta di una procedura in cui le parti cominciano con una mediazione. Il loro accordo prevede però che, in mancanza di soluzione, il conflitto venga comunque risolto da un arbitro con una decisione vincolante. Si tratta di un ‘ibrido’ dove le parti inevitabilmente si trovano a mediare sotto ‘riserva mentale’; se è poi lo stesso mediatore a trasformarsi in arbitro, non è difficile immaginare come la mediazione si riduca di fatto a un’istruttoria dell’arbitrato. Personalmente vedrei se mai con maggior favore l’itinerario inverso: un Arb\Med in cui l’arbitro, qualora ne ravvisi la possibilità, rinvia eventualmente le parti a un mediatore per tentare la conciliazione.

Mini-giudizio (Mini-trial). Si tratta, per così dire, della messa in scena di un processo-giudizio al fine di favorire eventualmente una conciliazione o l’avvio di una mediazione. Le parti stabiliscono preventivamente le caratteristiche di questa procedura, la sua durata, le forme di esibizione delle prove. Lo scopo di questo meccanismo è essenzialmente quello di consentire alle parti di avere un contatto diretto con la controversia e di formarsi così un’opinione fondata intorno alle proprie possibilità di vittoria. La ‘rappresentazione’ serve anche a raffigurarsi realisticamente le difficoltà e i costi cui si andrà incontro nel processo vero e proprio.

Valutazione preventiva neutrale (Early neutral evaluation). Appartiene al gruppo degli strumenti ‘giurisdizionali’; cioè a quelli che intervengono nelle fasi iniziali del processo (citazione in giudizio e simili) al fine di scongiurarne il proseguimento. Ricorda un po’ il parere pro veritate del giureconsulto di diritto comune: il consilium sapientis che il giurista dava alle parti (e anche al giudice) sulle prospettive della contesa. Le parti vengono convocate davanti a un terzo designato dal tribunale, tecnicamente esperto nella materia del contendere. Studiato il caso, questi prepara il suo pronostico sull’esito del processo e lo comunica alle parti solo dopo averle invitate alla conciliazione. Le parti possono eventualmente recedere dal giudizio e rivolgersi allo stesso ‘valutatore’ perché faccia loro da mediatore del conflitto.

 

[17] Così il giudice di Corte d’Appello Federale Irving R. Kaufman: «La regola americana che rende ogni parte nel processo responsabile per le proprie spese legali, incoraggia un abuso strategico delle indagini preliminari […] Nelle mani della parte economicamente più forte, queste divengono spesso un’arma per costringere la controparte alla resa».

 

[18] J.P. Bonafè’-Schmitt, La médiation, une autre justice, Paris 1992.

 

[19] G. Gulotta e G. Santi, Dal conflitto al consenso, Milano 1988.

 

[20] A differenza delle soluzioni raggiunte per via di mediazione o conciliazione, gli accordi di tipo compromissorio derivanti dalla transazione il più delle volte riflettono soltanto quanto le parti hanno perso in relazione alle rispettive condizioni di partenza.

 

[21] «La mediazione è tutta processo e niente struttura. […]

La mediazione non è diretta a convincere le parti a uniformarsi alle norme preesistenti, ma alla creazione delle stesse norme utili alle parti. Questo accade ogni volta che il mediatore assiste le parti nell’elaborare i termini di un contratto che definisce i loro rispettivi diritti e doveri. In questi casi non c’è una struttura preesistente che guida la mediazione; è il processo mediazionale che genera la struttura.

Si potrebbe suggerire che la mediazione è sempre diretta a promuovere delle relazioni più armoniose tra le parti, sia questo ottenuto attraverso un accordo esplicito, attraverso una reciproca accettazione delle ‘norme sociali’ rilevanti per il loro rapporto, o semplicemente perché le parti sono state aiutate a sviluppare una nuova e migliore comprensione degli altrui problemi. Il fatto che nel linguaggio ordinario ‘mediazione’ e ‘conciliazione’ siano spesso intercambiabili, rinforza questa interpretazione»: l. fuller, Mediation – Its Forms and Functions, in id., The Principles of Social Order, Duke University Press 1981, p. 128.

 

[22] Cfr. Op. cit..

 

[23] T.C. Schelling, The Strategy of Conflict, Harvard University Press, 1960, p. 144.

 

[24] Per un approfondimento in proposito, rinviamo a G. Cosi, La responsabilità del giurista, cit., pp. 355 ss.

 

[25] Così ad es. r. fisher e w. ury, Getting to Yes, Boston 1981.

 

[26] Così ad es. p. wahrhaftig, An Overview of Community-Oriented Citizen Dispute Resolution Program in the United States, in r. abel (ed.), The Politics of Informal Justice, cit., Vol. I.

 

[27] Così soprattutto r.l. abel, The politics of Informal Justice, cit.

 

[28] Così ad es. r.a. baruch bush e j.p. folger, The Promise of Mediation, San Francisco 1994.