N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

 

La responsabilità da reato degli enti collettivi: criteri di imputazione e tipologia delle sanzioni[1]

 

 

Adriana Cosseddu

Università di Sassari

 

 

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Profilo storico. – 3. Profilo costituzionale. – 4. Criteri di imputazione. – 5. «Modelli organizzativi». 6. Tipologia delle sanzioniBibliografia: Fonti. – Profili storico teorici. – Profili penali e costituzionali. – Disciplina della «responsabilità amministrativa» degli «enti» (D.lg. 8.6.2001, n. 231).

 

 

1. – Premessa

La complessità del tema ed i profili di disciplina, contenuti nel d.lg. n. 231/2001, richiedono una preliminare, quanto doverosa, puntualizzazione: anzitutto, rispetto ad una pretesa completezza di contenuti, è possibile in questa sede soffermarsi unicamente sugli aspetti più significativi ed innovativi introdotti all’interno del sistema; rispetto ai riflessi applicativi della disciplina, ci si dovrà necessariamente limitare a tracciare le linee, che sul piano sanzionatorio maggiore incidenza acquistano sulla vita dell’“ente collettivo”. Lo stesso titolo del Convegno, con lungimiranza riterrei, evidenzia già sul piano terminologico, un binomio opportunamente delineato, oserei dire, nella sua essenzialità: “responsabilità” degli enti collettivi, da un lato, e «reato», dall’altro. La sintesi è densa di significato: l’illecito penale al suo verificarsi, in conformità alle previsioni contenute nel d.lg. 231/2001, diviene «fonte di addebito» per gli «enti forniti di personalità giuridica» (id. enti a soggettività privata ma anche enti pubblici economici) – pur se non mancano ipotesi problematiche, incluse dallo stesso Relatore in una «zona d’ombra» – ma fonte di addebito anche per «società e associazioni», prive di personalità giuridica (art. 1). Si può a questo punto provare a tratteggiare sul tema un duplice approccio: in retrospettiva, nella sua prima fase, ed in prospettiva in una seconda. Emerge, infatti, già dalla Relazione illustrativa del decreto il richiamo a teorizzazioni e principi, le cui radici penetrano sia la storia del diritto, come storia dei popoli e dei loro ordinamenti, sia, ed ancor più, la storia di una «democrazia», la nostra, che prende vita in una Costituzione che ne ispira o dovrebbe ispirarne le scelte.

 

 

2. – Profilo storico

Brevissimo vuol essere lo sguardo retrospettivo, ma non eludibile, posto il costante richiamo, in dottrina e giurisprudenza, al noto brocardo «Societas delinquere non potest», diversamente tradotto oggi da autorevoli esponenti della dottrina nella formulazione opposta: «Societas delinquere et puniri potest». È la prima, in estrema sintesi, la formulazione con cui, in modo incontrovertibile fino a qualche tempo fa, si escludeva dall’ordinamento una “responsabilità penale” in capo alle persone giuridiche. Una tradizione antica, ma non costante lungo i secoli, vede emergere dal diritto romano, attraverso le sue fonti, l’uso del termine persona riferito esclusivamente all’uomo singolo. Ma anche quando si delinea un concetto di “persona giuridica”, ad indicare una capacità di diritto privato riconosciuta ad enti non persone fisiche – così nella costituzione dei municipia – si esclude pur sempre un’azione di responsabilità sotto il profilo penalistico: «quid enim municipes dolo facere possunt?» (D. 4.3.15.1; Ulp. 11 ad ed.). È quanto si evince in un frammento di Ulpiano riportato nel quarto libro del Digesto, terzo titolo De dolo malo. Sarà tuttavia l’influenza dei popoli germanici, che conoscevano l’esistenza di libere associazioni, peraltro non distinte dai propri membri (Genossenschaften, Gilden), a dar vita, anche in materia penale, alla “responsabilità collettiva”, conseguenza dell’identificazione operata tra associazioni e membri persone fisiche. Permarrà ancora, in epoca medievale, e al di là dei tentativi di sistemazione teorica operati dai Glossatori, il rilievo negli enti associativi della componente collettivistica, cui si fa conseguire la capacità dell’universitas di commettere delitti: «universitas delinquere potest», quindi punibile. Che gli enti collettivi potessero commettere reati ed essere puniti era «principio dominante» nella pratica medievale, anche in riferimento al diritto canonico: la responsabilità penale era ascritta non solo alle corporazioni, ma a capitoli e congregazioni. Fu la dottrina elaborata da Sinibaldo dei Fieschi (Papa Innocenzo IV, 1243-1254), in margine alla natura delle corporazioni, ad introdurre il concetto di “persona ficta”, “persona repraesentata”: dalla teoria della “fictio” in tema di persone giuridiche traeva origine una diversa considerazione della responsabilità penale in capo agli enti collettivi: «impossibile est quod universitas delinquat». Non scomparve tuttavia, pur nell’accoglimento del concetto di «finzione», la convinzione che anche la persona giuridica potesse delinquere, tanto da rendere presente nel diritto comune il principio del “delitto corporativo”. L’attenzione all’uomo che, nei secoli successivi (dalla fine del XVI sec.), fu collocato al centro di nuove indagini anche sotto il profilo giuridico, spense il confronto sulla natura degli enti collettivi, ma nel contempo segnò ancor più, per differenza ontologica, le successive ed autorevoli analisi in tema di “persona giuridica”. La “teoria della finzione”, ripresa dal Savigny, trova nella sua autorevole analisi giuridica risvolti anche penalistici, per affermare che i fatti considerati da taluno come delitti delle persone giuridiche non sono che delitti delle persone che le governano, ossia individui singoli, persone naturali. Punire per un reato la persona giuridica «sarebbe un andar contro a un principio fondamentale del diritto penale, quello dell’identità tra condannato e delinquente».

Se, come si afferma, la storia è maestra di vita, si può comprendere come autorevoli esponenti della dottrina abbiano voluto ricercare una teoria fondante la categoria della persona giuridica, così che oggi, anche lo stesso Relatore al decreto legislativo n. 231/2001 richiama, e colloca alla base di una precisa scelta normativa, un’altra fondamentale teoria sviluppata nell’ambito della dottrina tedesca), la «teoria organica». Evidenti i riflessi penalistici: se le persone giuridiche danno vita a «veri organismi naturali», dotati di «volontà propria» come le persone fisiche, diventa possibile in vista di un «rapporto di immedesimazione organica» imputare all’ente non solo gli atti leciti, posti in essere a suo nome da rappresentanti e/o amministratori, ma anche gli atti illeciti. In quest’ottica, già negli anni ’70, si affermava: «Societas delinquere potest» (Pecorella).

 

 

3. – Profilo costituzionale

Limitarsi tuttavia ad un richiamo alle teorie elaborate all’interno della dottrina civilistica significherebbe perdere quella “prospettiva”, di cui si diceva, che colloca, in una seconda fase, il problema della responsabilità delle persone giuridiche in ambito penale in un contesto, che non è più solo quello del codice penale del 1930, ma il sistema più generale che dalla Costituzione prende vita.

Se dovessimo del resto soffermarci unicamente sul dettato del codice penale, l’art. 197, quale novellato successivamente dall’art. 116, l. 24/11/1981, n. 689, «Modifiche al sistema penale», darebbe un’indicazione certa, nel senso di escludere una responsabilità diretta delle persone giuridiche, per disciplinare unicamente una «responsabilità civile sussidiaria», che impegna l’ente allorché, «pronunciata condanna per reato contro chi ne abbia la rappresentanza, o l’amministrazione o sia con essi in rapporto di dipendenza, e si tratti di reato che costituisca violazione degli obblighi inerenti alla qualità rivestita dal colpevole, ovvero sia commesso nell’interesse della persona giuridica», è obbligato, in caso di insolvibilità del condannato, al pagamento di una somma pari all’ammontare della multa o dell’ammenda inflitta. L’acceso dibattito dottrinale tra chi negava una responsabilità penale alle persone giuridiche, posto che, assente una volontà propria, verrebbe meno la capacità rilevante per il diritto penale (Battaglini, Sabatini, Florian), e chi la stessa ammetteva nella configurabilità di una «volontà sociale» (per tutti De Marsico e, in posizione particolare, Longhi), come tale «autonoma e distinta da quelle degli individui componenti», trovava dunque composizione in sede di lavori preparatori al codice. Di più. L’esclusione di una responsabilità penale delle persone giuridiche pareva trovare ulteriore conferma, ed in via definitiva, nel dettato dell’art. 27, co. 1° Cost.: «La responsabilità penale è personale», tradotta, nel suo contenuto minimo, come «responsabilità per fatto proprio» e conseguentemente nel divieto di ogni forma di «responsabilità penale per fatto altrui». La personalità della responsabilità penale si salda dunque con la persona fisica, in ragione delle sue qualità volitive ed intellettive, ed a garanzia del principio «poena debet tenere suos auctores». Non è certo questa la sede per estendere lo sguardo ai “nuovi contenuti”, con cui si è ritenuto di ampliare, negli anni, il fondamentale principio enunciato, così da tradurlo nella richiesta, costituzionalmente sancita, di una dimensione “personale” e “colpevole” della responsabilità in materia penale. Tuttavia, non sono mancate aperture, che nella dottrina, di fronte ad un fenomeno emergente, definito dagli stessi autori «patologia» o «criminalità d’impresa» (da ultimo De Vero), rimettevano da tempo in discussione l’interpretazione dello stesso 1° comma dell’art. 27 Cost., correlato con il 3° comma, circa la previsione delle pene, così da superare un possibile sbarramento costituzionale rispetto ad un coinvolgimento della «societas» in termini di «responsabilità» diretta. Ed è ancora una volta l’accoglimento di una elaborazione teorica, volta a dar contenuto alla fondamentale categoria della “colpevolezza”, a decidere della scelta operata nella stesura del testo legislativo vigente: come si legge nella Relazione al decreto n. 231/2001, l’organo delegato in sede normativa si è voluto collocare al di là di una concezione psicologica della colpevolezza, concezione improntata al legame psicologico tra fatto ed autore, per accogliere l’«idea di una colpevolezza (intesa in senso normativo) come rimproverabilità». Il “paradigma” che ne nasce risulta ancorare lo stesso giudizio di rimproverabilità ad una «colpa d’organizzazione», senza che peraltro, almeno «nominativamente», si giunga a definire in capo all’«ente collettivo» una responsabilità propriamente penale. La maggior cautela emerge nella stessa terminologia, cui è ricorso l’organo delegato: «responsabilità amministrativa» dell’ente, a delineare – si legge nella Relazione – un «tertium genus», ovvero un «modello di illecito amministrativo “parapenale”», che «coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo».

 

 

4. – Criteri di imputazione

In realtà, lo stesso Relatore avverte di talune distinzioni rispetto al settore noto come «amministrativo-punitivo», per sé delineato nei suoi principi generali dalla legge n. 689/81. Occorre tuttavia dar conto di quei criteri che oggi inducono a definire la responsabilità in capo agli enti non solo «punitiva» (Alessandri), o «sanzionatoria», ma «sostanzialmente penale» (da ultimo, Grosso-Neppi Modona-Violante) per la sede prettamente penalistica nella quale nasce: dipende dalla commissione di un reato (lo stesso fungerebbe da presupposto); l’accertamento avviene in sede processuale penale e con le garanzie del processo penale; ad opera dello stesso giudice competente a conoscere il reato. Non si rinuncia da ultimo a sottolineare, come si dirà, il carattere afflittivo del sistema sanzionatorio conseguente.

Nel testo normativo rimane, peraltro, il dato formale di una disciplina che attiene, ai sensi dell’art. 1, co. 1° d.lg. n. 231/2001, alla «responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato», responsabilità successivamente definita all’art. 2 «amministrativa». Anzitutto, è da rilevare che le categorie del «reato-presup­posto» ai fini di un addebito di responsabilità in capo agli enti collettivi non coincidono oggi nel decreto legislativo con quelle previste nella legge delega n. 300/2000, ma attengono, per stralcio, alle ipotesi di malversazione a danno dello Stato, indebita percezione di erogazioni pubbliche, truffa e frode ex artt. 640 bis e ter c.p., se il delitto è commesso in danno dello Stato o altro ente pubblico (art. 24), corruzione e concussione (art. 25), e, a seguito dell’introduzione degli artt. 25 bis e ter, rispettivamente, alla falsità in monete e carte di pubblico credito e reati societari (d.lg. n. 61/2002).

Quanto all’imputazione ed ai “criteri”, con cui tale responsabilità opera, si deve riflettere su un dato precedentemente emerso nella giurisprudenza: il rischio di una trasposizione dal piano dell’«essere», ovvero dell’effettiva rappresentazione dell’evento penalmente rilevante, nella forma limite dell’accettazione del rischio del suo verificarsi – quale ambito proprio del dolo – al piano del «dover essere» (in termini di adempimento ovvero inadempimento dei doveri prescritti), piano su cui diversamente si pone l’addebito per colpa. In proposito, è la stessa dottrina a sottolineare ulteriormente come «il modello del “rischio” si infiltra deformandoli, in istituti tradizionali come la colpa e la causalità» (Alessandri). Ma dall’assiduo impegno, emergente nella prassi giurisprudenziale, volto a «punire nel singolo l’espressione della politica d’impresa», veicolo di illeciti penali, si è pervenuti, passando per un ampliamento della «cerchia dei soggetti» responsabili – ampliamento talora operato su base presuntiva – ad ascrivere in via «autonoma» all’ente o società (art. 8) una responsabilità «per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio», così l’art. 5, d.lg. n. 231/2001.

A questo primo elemento, fondante il criterio d’imputazione sul piano oggettivo, «espressione normativa – spiega il Relatore – del …. rapporto d’immedesimazione organica» tra soggetto autore del reato ed ente, si affianca la categoria delle persone fisiche, che, proprio in quanto soggetti attivi del fatto di reato, «impegnano sul piano sanzionatorio penale-amministrativo la responsabilità della societas». Si tratta di: a) persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, nonché persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso. Quest’ultima previsione, cumulativa e non alternativa, parrebbe escludere i sindaci dalla categoria in esame. Ancora, possono essere: b) persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei predetti soggetti.

Oltre ai criteri oggettivi, per il collegamento tra fatto-reato e persona giuridica o ente, nel cui interesse o vantaggio è commesso il reato stesso, si delineano criteri soggettivi, in considerazione del tipo di rapporto funzionale, che lega l’autore del reato all’ente, rapporto determinante per la configurabilità della stessa responsabilità dell’ente.

Sul punto, è la Relazione al d.lg. n. 231/2001 ad operare il richiamo ai principi propri del diritto penale: tra questi, come accennato, si colloca la colpevolezza, costruita in senso normativo, e definita come «colpevolezza di organizzazione», ovvero – si legge nella Relazione – colpa di organizzazione. Ma proprio sul punto emerge, se così possiamo dire, un elemento ulteriore rispetto ai criteri fissati nella legge delega. La stessa, all’art. 11, lett. e), in margine alla responsabilità degli enti per reati commessi da soggetti con funzione di rappresentanza o di amministrazione o di direzione, ne richiede la previsione: «quando la commissione del reato è stata resa possibile dall’inosservanza degli obblighi connessi a tali funzioni». Spiega sul punto la Relazione al decreto attuativo: «Piuttosto che sancire un generico dovere di vigilanza e di controllo dell’ente sulla falsariga di quanto disposto dalla delega… si è preferito... riempire tale dovere di specifici contenuti: a tale scopo, un modello assai utile è stato fornito dal sistema dei compliance programs da tempo funzionante negli Stati Uniti».

Emerge, dunque, quasi una struttura dualistica del sistema di responsabilità: per reati commessi da soggetti in posizione apicale, si delinea una colpa organizzativa che risulta desumibile, dal contesto normativo, in forma presuntiva; e di «presunzione (empiricamente fondata)» parla lo stesso Relatore. Del resto, tale responsabilità è costruita dall’art. 6 negativamente, ovvero, per il tramite di un’«esimente» per alcuni, o nella previsione di una «scusante» per altri. Si stabilisce infatti, al 1° comma, che l’ente non risponde se prova che: a) sono stati introdotti ed efficacemente attuati, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e gestione con efficacia preventiva;  b) è stato predisposto, con il compito di vigilare sul funzionamento e sull’osservanza dei modelli, anche al fine del loro aggiornamento, «un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo»; c) l’autore del reato ha eluso fraudolentemente i modelli e «non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza» da parte dell’organismo di controllo a ciò preposto. 

La minimizzazione del rischio-reato, quale obiettivo perseguito, e la funzione preventiva ascritta alle disposizioni in esame, emergono in particolare al 2° co. dell’art. 6, che delinea i caratteri essenziali del “modello”, atto a prevenire il rischio-reato: a) occorrerà individuare le sfere di attività, nel cui ambito sussista il rischio-reati; b) si dovranno prevedere «specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni», ai fini della prevenzione del rischio; c) si tratterà di determinare le «modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati»;  d) occorrerà altresì assicurare le informazioni all’organismo di controllo e, nel contempo, dotare di effettività il modello, predisponendo un sistema disciplinare.

Nel prevedere l’adozione di compliance programs il legislatore ha espressamente disposto che i modelli organizzativi vengano adottati sulla base di “codici di comportamento”, redatti dalle associazioni rappresentative degli enti e comunicati al Ministero di giustizia. Si delineano in tal senso veri e propri codici etici, definiti «protocolli organizzativi di categoria», che codificano regole cautelari, la cui violazione costituirà il parametro «colposo» della responsabilità dell’ente (De Simone).

Per i sottoposti, invece, quali autori di reato, dispone, l’art. 7 co. 1°, una responsabilità dell’ente, per inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, così posti a fondamento di una colpa non tipizzata. Tale responsabilità potrà peraltro essere esclusa – questa volta in via indiretta – a fronte dell’adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo, idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi. Tale modello, «efficacemente attuato», porterà ad escludere «l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza», inosservanza come tale posta a fondamento della responsabilità. Si è definita l’ipotesi in esame, per la sua tipologia, una colpevolezza «ipernormativa e oggettivata», equivalente ad una «rimproverabilità della persona giuridica per un deficit di organizzazione o di attività» (De Simone).

Significativo in tal senso il disposto di cui al 2° co. (art. 7): «In ogni caso, è esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza se l’ente, prima della commissione del reato, ha adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione»: ne conseguirebbe che di per sé la commissione del reato non è prova dell’inefficienza del modello.

Ultimo profilo, sempre in riferimento alla categoria dei sottoposti alla direzione o alla vigilanza delle persone incaricate della rappresentanza o della amministrazione dell’ente, è quello che attiene ai collaboratori esterni (figura peraltro ripetutamente richiamata anche nell’ambito delle Linee guida elaborate dalla Confindustria, circa la predisposizione dei modelli organizzativi): da un lato, si tratterà di puntualizzare, ove esistesse, il tipo di prestazione corrisposta all’ente da parte del collaboratore, in ragione dei poteri allo stesso conferiti; dall’altro, risulta evidente l’esigenza di evitare che l’ente sfugga a responsabilità, delegando a collaboratori esterni attività che potrebbero integrare gli estremi di un reato. Di recente peraltro, si è sul punto rilevato, in sede di analisi normativa, pur riferita ai reati societari, che un’interpretazione restrittiva risulterebbe «imposta dal richiamo ad una vigilanza conforme agli “obblighi inerenti alla... carica”», così che non si potrà assumere una «carica societaria» in riferimento ai lavoratori autonomi che non svolgano attività professionale (Conti).

Dalle linee fin qui tracciate, la responsabilità, ai sensi del d.lg. n. 231/2001, risulta evidentemente in sé svincolata dai contenuti “noti” di una responsabilità penale personale, per essere ancorata a standard organizzativi, propri, come tali, di una condotta sostanzialmente antecedente alla commissione del fatto di reato e, per sé, di sapore squisitamente preventivo. Gli stessi parrebbero forse evocare una remota punibilità – in capo alla persona giuridica o ente – ritagliata piuttosto sul “modo d’essere dell’autore”, se – come si legge nella Relazione – il requisito soggettivo di responsabilità dell’ente si intende soddisfatto, in ipotesi di reato commesso da soggetti apicali, in quanto «il vertice esprime e rappresenta la politica dell’ente».

 

 

5. – «Modelli organizzativi»

Si comprende a questo punto, la rilevanza determinante dell’emanazione di codici di comportamento e la tipizzazione interna ai modelli di organizzazione e gestione, idonei a prevenire i reati della specie di quelli verificatisi. In argomento, una notazione sia consentita. Il Progetto Grosso di riforma del codice penale, che immediatamente precede il decreto legislativo n. 231/2001, colloca significativamente il tema della «responsabilità» delle «persone giuridiche» – per sé non qualificata – nella tematica concernente la «responsabilità per omissione». Nel delineare la garanzia dovuta dal «soggetto al “vertice”» (tale colui che «per legge o per statuto, abbia il potere di direzione dell’organizzazione»), la cui «posizione» è volta ad assicurare l’«osservanza dei precetti legali» connessi, si legge nella Relazione: «È qui che la disciplina delle posizioni di garanzia entro l’organizzazione si salda con quella della responsabilità dell’organiz­zazione, là dove costituita in forma di persona giuridica. La garanzia è dovuta innanzitutto dall’organizzazione, e dalle persone fisiche in quanto agenti per essa. La garanzia dovuta dal vertice è di assicurare che il sistema funzioni, secondo un modello organizzativo idoneo alla salvaguardia degli interessi penalmente protetti». Tuttavia si puntualizza: pur essendo il soggetto “al vertice” tenuto ad assicurare l’adozione e l’attuazione del modello, «non potrà essere reso responsabile di ogni e qualsiasi insufficienza del modello stesso, e men che meno di difetti nella sua attuazione, essendo in ogni caso decisiva, ai fini della responsabilità penale, la questione della colpevolezza soggettiva».

L’affermazione evoca, dunque, in quanto indefettibile, quel requisito in altra sede autorevolmente richiamato per ogni fattispecie, che investa forme associative (Conso): l’«effettività», che deve connotare ogni accertamento di responsabilità in materia penale. Ciò varrebbe ad evitare ipotesi, già in precedenza richiamate con preoccupazione da autorevole dottrina, che finirebbero per evocare «responsabilità di posizione». L’addebito all’ente collettivo si salda, pertanto, a seguito del reato commesso a vantaggio o nell’interesse dell’ente medesimo dai soggetti in posizione apicale, con l’adozione ed efficace attuazione di modelli di organizzazione, specie per gli enti a struttura organizzativa complessa.

Tali modelli assurgono ad indici idonei a fondare, «normativamente», la categoria della responsabilità; «di fatto», a fornire alla «societas» l’elemento di prova atto a dimostrare la sua estraneità rispetto al reato commesso dai “vertici”. Se è vero, come si evince sulla base della previsione di cui al 3° comma dell’art. 6 del d.lg. n. 231/2001, che linee guida per i modelli possono essere elaborate «dalle associazioni rappresentative degli enti», si comprende come si intraveda nelle stesse un utile parametro per il giudice nella valutazione del modello.

Basta scorrere le Linee guida elaborate dalla Confindustria (in una prima stesura in data 7 marzo 2002 e successivamente aggiornate nel documento del 3 ottobre 2002 a seguito dell’entrata in vigore del d.lg. n. 61/2002 in riferimento ai reati societari) o dall’ABI o i modelli organizzativi predisposti dall’ENEL, prima tra le società quotate, per comprendere la complessità di un sistema, che non sfugge del resto allo stesso Relatore del decreto. L’adozione, infatti, del modello rende possibile l’inversione dell’onere probatorio fondato, in ultima analisi, sulla dimostrazione da parte dell’ente dell’osservanza del modello stesso. A tali fini il compito di vigilanza è affidato ad «un organismo dell’ente» medesimo. Ed è sul punto che si legge nella Relazione più volte citata: «è ragionevole prevedere che questa prova non sarà mai agevole», per divenire impossibile nel caso di ente a base manageriale ristretta. Preoccupazione ricorrente, se anche autorevole e recente dottrina (Pulitanò) si sofferma sul disposto oggetto del 4° comma dell’art. 6, allorché prevede che negli enti di piccole dimensioni «il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli», curandone altresì l’aggiornamento, possa essere svolto «direttamente dall’organo dirigente». Può l’organo essere controllore di se stesso? Di fronte a tale interrogativo si perviene alla conclusione che la scelta, così attuata, comporterebbe per l’ente, una «rinuncia a priori alla possibilità di esonero totale» da responsabilità.

Ma un’ulteriore formula dubitativa circa una possibile “penalizzazione” che – per così dire – potrebbe gravare sugli enti di piccole dimensioni è sottolineata anche nell’articolato documento predisposto dalla Confindustria: le minori risorse, di cui tali enti dispongono, da «dedicare alla predisposizione di un modello organizzativo ed ai relativi controlli», fanno sì che l’onere derivante dalla istituzione di un organismo di vigilanza ad hoc «potrebbe non essere economicamente sostenibile». Da ciò trarrebbe giustificazione l’indicazione data dal legislatore e la conseguente puntualizzazione contenuta nel documento ora richiamato: le molteplici responsabilità ed attività su cui quotidianamente l’organo dirigente deve applicarsi, rendono «auspicabile» la collaborazione di professionisti esterni, la cui presenza non potrà tuttavia valere ad esonerare l’organo dirigente dalle responsabilità ad esso conferite dalla legge.

Dal complesso normativo emergono, nel merito, almeno due profili: l’uno, che in ragione di una legalità in chiave di prevenzione della commissione di reati nello svolgimento dell’attività dell’ente vede nell’adozione dei modelli preventivi di organizzazione non già un obbligo, ma una scelta rimessa all’ente; dalla scelta, peraltro, dipenderà sostanzialmente l’esonero da responsabilità. L’altro profilo acquista invece rilevanza rispetto al fenomeno associativo come tale: tutelato in via generale, in conformità alle prescrizioni dell’ordinamento dagli artt. 2 e 18 Cost., lo stesso potrebbe trovare proprio nelle società di persone ed associazioni non riconosciute un soggetto per così dire “debole”, per il quale non potrà certo valere il principio «summum ius summa iniuria» (Cic., De officiis, I, 10, 33).

Apparentemente più lineare l’imputazione all’ente per reato commesso da «sottoposti», ovvero dipendenti dell’ente medesimo, imputazione fondata – come detto – sul «mancato adempimento degli obblighi di direzione o vigilanza», quale obbligo generico posto a base della colpa, e la cui inosservanza abbia reso possibile il reato; diversamente, sarà ancora una volta l’adozione del modello, in relazione alle dimensioni e alla natura dell’organizzazione dell’ente, ad escludere l’inosservanza dell’obbligo prescritto. Resta fermo comunque che ogni responsabilità dell’ente è evidentemente esclusa (art. 5, co. 2°), allorché i soggetti autori del reato operino «nell’interesse esclusivo proprio o di terzi».

 

 

6. – Tipologia delle sanzioni

Ultime, ma non certo per importanza, le questioni inerenti al sistema sanzionatorio, con cui si intende colpire l’ente collettivo nella sua capacità patrimoniale e in ragione delle condizioni economiche. La sanzione pecuniaria, quale sanzione amministrativa, principale e obbligatoria, è stata prevista a suo tempo nella delega con un margine da cinquanta milioni a tre miliardi di (vecchie) lire; ma lo stesso Relatore sottolinea come l’entità del minimo edittale nella «somma prevista» sia indicativo di «un eccessivo rigore specie se lo si riferisce alla fitta rete di piccole imprese» operanti in Italia. La scelta dell’organo delegato, nell’art. 10 del decreto, è stata dunque, per diverse ragioni, quella di una commisurazione per «quote», il cui importo per unità di riferimento va da un minimo di 500.000 (€ 258) a un massimo di 3.000.000 di lire (€ 1549) per un fattore moltiplicativo dato da un numero di quote non inferiore a cento e non superiore a mille. La disciplina si completa con il successivo art. 11, che dispone la determinazione del numero delle quote, in considerazione della «gravità del fatto», «grado della responsabilità dell’ente», e attività volta ad eliminare o attenuare le conseguenze del reato. Il quantum della quota terrà conto invece delle condizioni economiche e patrimoniali dell’ente. Significativo tuttavia – (cfr. art. 12 «Casi di riduzione della sanzione pecuniaria» e art. 17 «Riparazione delle conseguenze del reato») – il rilievo ascritto alla attività riparatoria o risarcitoria tenuta dall’ente prima della dichiarazione di apertura del dibattimento; rilievo, vuoi in termini di riduzione della sanzione pecuniaria, vuoi ai fini della evitabilità delle sanzioni interdittive. Queste ultime, sotto il profilo sistematico, differiscono nell’an e nel quomodo dalle sanzioni principali. Esclusa dalle stesse, diversamente dalla legge delega, la chiusura dello stabilimento o sede commerciale, se ne limita comunque la loro applicabilità agli illeciti più gravi e le si prevede, di regola, in via temporanea. Parametro di scelta per il giudice diventa il tipo di attività svolta dall’ente, mentre i criteri di commisurazione saranno quelli oggetto dell’art. 11, a cui peraltro va aggiunto un ulteriore criterio rimesso, in sede applicativa, alla valutazione dell’organo giudicante: l’idoneità delle singole sanzioni a prevenire illeciti del tipo di quello commesso. Significative nella tipologia, tra le altre oggetto dell’art. 9, 2° co., – e qui da rammentare – l’esclusione dell’ente da agevolazioni, finanziamenti, contributi, sussidi; nonché il divieto di contrattare con la P.A., anche modulato per taluni contratti. Tali sanzioni, peraltro, pur previste in via generale con efficacia preventiva nel decreto legislativo n. 231/2001, sono state escluse in ambito di reati societari dal recente d.lg. n. 61/2002.

Dovendo necessariamente omettere alcune previsioni, che significativamente completano il sistema sanzionatorio per “illecito amministrativo” conseguente alla commissione di un reato, come dianzi detto, una notazione conclusiva diventa doverosa in tema di confisca, adottata quale sanzione obbligatoria principale. L’art. 19, infatti, prevede che con la sentenza di condanna sia sempre disposta la confisca del prezzo o del profitto del reato, ovvero, qualora non sia possibile, la confisca «può avere ad oggetto somme di denaro, beni o altre utilità di valore equivalente al prezzo o al profitto del reato». Dalla confisca, «misura di sicurezza» nella previsione del codice penale (art. 240), si perviene alla confisca-sanzione riprodotta nel decreto anche nella forma per «equivalente», la cui applicazione è ulteriormente estesa secondo il disposto dell’ultimo comma dell’art. 6, norma dianzi citata. Sotto tale profilo parrebbe fondato, pur in una più ampia prospettiva, (al di là della mancata previsione, peraltro oggetto della delega, del diritto di recesso per il socio o associato in caso di accertata responsabilità amministrativa dell’ente) il dubbio di un’esposizione o denegata tutela ai soci estranei al fatto vuoi in termini di condotta, vuoi come impossibilità per gli stessi di impedire la realizzazione dell’illecito, se è vero, come è vero, che, in base all’art. 27, d.lg. n. 231/2001: soltanto l’ente risponde «con il suo patrimonio o con il fondo comune» per il pagamento della sanzione pecuniaria.

Avviati i primi procedimenti presso la Procura della Repubblica di Milano, pur in assenza, a quanto risulta, del regolamento d’esecuzione da emanarsi ai sensi dell’art. 85 del decreto, si apre la fase applicativa della disciplina. La stessa, proprio in quanto costituente un ulteriore settore nell’ordinamento, portatore di principi propri e “innovativi” dovrà pur sempre trovare, in forza della comune fonte di legittimazione, qual è la Carta costituzionale, il necessario contemperamento tra tutela della collettività e irrinunciabili diritti dei singoli, onde evitare forme di responsabilità «diffusa». La risposta potrà forse essere ancora una volta rimessa all’equità del giudice.

 

 

 

bibliografia

 

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Enel, Il modello anticrimine, http://www.reatisocietari.it.

 

 

 



 

[1] Relazione presentata al Convegno «La responsabilità da reato degli enti collettivi» (Nule, 30 novembre 2002). Lo scritto è destinato anche alla pubblicazione negli Atti del Convegno.