N° 2 - Marzo 2003 – Lavori in corso – Contributi

 

La situazione dell'alieno nel dār al-Islām e negli Stati della Chiesa

 

Vincenzo Poggi S.I.

Pontificio Istituto Orientale - Roma

 

 

            Sommario: 1. Il caso Mortara. - 2.Devshirme e "pagani necandi". - 3. Dār al-islām e dār al-harb. - 4. Fitra. - 5. Nemici. - 6. Stadio intermedio e pluralismo. - 7. Membri della stessa società. - 8. Ghetto. - 9. Predica coattiva. - 10. Meglio sotto i Musulmani. - 11. Due mondi differenti. - 12. Aggiornamento.

 

1. Il caso Mortara

Leggo nel libro di un professore universitario americano un singolare racconto. La sera del 20 giugno 1858, nella città di Bologna, si presentano i gendarmi pontifici alla casa del commerciante israelita Momolo Mortara. Lui non è in casa e sua moglie, sette figli e la domestica, sono sgomenti alla vista dei militari. Quando il padre, Momolo, torna con il figlio maggiore, tredicenne, è sbigottito alla vista dei soldati. Perché sono venuti? Vogliono identificare i membri della famiglia, come si trattasse di un censimento. E quando all'appello, pronunciato il nome di Edgardo, viene loro indicato il piccolo addormentato su un divano, i militari dicono che lo devono portare via per ordine dell'inquisitore di Santa Romana Chiesa. Il padre allora vuole subito recarsi dall'inquisitore bolognese per sciogliere l'equivoco e sventare quel piano di sequestro di minore. Il Padre Pier Gaetano Feletti O.P. riceve il genitore come già aspettasse quella reazione. Concede in via eccezionale una dilazione di 24 ore, ma non transige altrimenti. L'Inquisizione ha saputo che il bimbo ebreo è stato battezzato in pericolo di vita da una domestica cristiana. Ha fatto con zelo tutte le indagini e gli interrogatori. Non c'è alternativa. Bisogna sottrarre il piccolo cristiano al contesto familiare israelita. Il piano, architettato nei particolari, prevede l'immediata sottrazione del bimbo alla famiglia, il suo trasferimento a Roma, alla Casa dei Catecumeni e la sua educazione in quell'istituto secondo i dettami cristiani. E tutto si svolge a puntino, conforme alle regole. Dopo quella compassionevole dilazione, per allontanare madre e fratellini, il giorno dopo, Momolo Mortara assiste impotente alla partenza del figlioletto Edoardo, che si allontana nella carrozza chiusa, scortata dai militari, alla volta di Roma[1].

Il cosiddetto "caso Mortara"[2] suscita un'eco internazionale, non solo presso gli Ebrei d'Europa[3] e d'America, ma anche nell'opinione pubblica mondiale e perfino tra i capi di stato. Napoleone III deplora il "caso" come gravemente lesivo dei sacrosanti diritti dei genitori. Sir Moses Montefiore si reca a Roma nel 1859 per ottenere il ritorno del fanciullo alla casa paterna. Moritz Daniel Oppenheim, detto "il pittore dei Rotschilds", dipinge un quadro che si intitola, il rapimento di Edgardo Mortara. Sembra che l'Alliance Israélite Internationale, nata nel 1860 a difesa dei diritti degli Ebrei, cioè due anni dopo che il piccolo Edgardo è sottratto alla sua famiglia, sia in parte frutto della reazione al caso Mortara. A tutte le proteste e suppliche, Pio IX resta irremovibile. All'età di quindici anni Edoardo Mortara recita dei versi davanti al papa[4]. Non torna in famiglia, ma appena raggiunta l'età entra tra i Canonici Regolari Lateranensi. Muore nell'abbazia di Bouhay in Belgio nel 1940[5].

 

2. Devshirme e "pagani necandi"

Un fatto di questo tipo, capitato a un piccolo ebreo suddito del Papa Re, è pensabile per un piccolo non-musulmano in una società musulmana? Ci viene subito in mente a questo proposito il fenomeno del devshirme o tributo di sangue secondo il quale il governo ottomano prelevava periodicamente ragazzi cristiani per farne giannizzeri o funzionari nel palazzo sultaniale e nell'amministrazione governativa. Infatti il devshirme rendeva addirittura collettiva e ricorrente la sottrazione di minori, strappati a famiglie non musulmane. In realtà, quest'uso del devshirme  fu introdotto alla fine del secolo XIV, provocando proteste cristiane. Gli stessi giuristi islamici sono in difficoltà nel metterlo d'accordo con la shari´a o legge canonica[6]. Cercano di giustificarlo adducendo una sentenza shafi'ita che afferma attuarsi con popoli divenuti cristiani dopo l'epoca del Profeta, ai quali perciò non possono concedersi i diritti dei dimmi o protetti. La prospettiva sarebbe dunque del bellum iustum. Di fatto il devshirme è in vigore nell'impero ottomano durante i secoli XV e XVI, cessando all'inizio del secolo XVII. Non solo, ma il devshirme non ha mai prelevato bambini ebrei[7].

Si tratta dell'importante discorso dell'altro, all'interno di una data società. E tale discorso costituisce di per sé un terreno sul quale è possibile un paragone tra società cristiana e società musulmana come tali. A proposito delle due religioni, cristianesimo e islam, viene spontanea la domanda se il rapporto fra società cristiana ed Ebrei non sia paragonabile al rapporto fra società musulmana e ahl al-kitâb, quelli del Libro, Vecchio e Nuovo Testamento, ovvero Ebrei e Cristiani. Infatti, se nel cristianesimo il Nuovo Testamento si presenta in continuità con il Vecchio («non veni solvere sed adimplere» Mt 5.17) nell'Islam il Corano riconosce Turah (Antico Testamento) e Ingil (Nuovo Testamento) anzi venera molti personaggi dell'uno e dell'altro, da Abramo a Mosè, da Gesù a Maria sua madre[8]. 

Un'altra considerazione storica fattuale, di comunità ebraiche mantenutesi attraverso secoli all'interno della società cristiana, sembrerebbe confermare la somiglianza del comportamento delle due società cristiana e islamica nei confronti dell'altro.

Data e non concessa la giustificazione addotta dai Musulmani al devshirme, anche l'atteggiamento di Bernardo di Chiaravalle nei confronti dei musulmani è da porsi nella prospettiva del bellum iustum. Ecco infatti le espressioni di Bernardo nel suo Libro ai Templari o dell'elogio della nuova milizia. «In morte pagani christianus gloriatur, quia Christus glorificatur». Il cristiano si gloria della morte del pagano in quanto Cristo in tal modo è glorificato. «Non quidem vel pagani necandi essent, si quo modo aliter possent a nimia infestatione seu oppressione fidelium cohiberi». I pagani non sarebbero da uccidere, se soltanto si potessero altrimenti impedire dall'opprimere i cristiani. «Nunc autem melius est ut occidantur, quam certe relinquatur virga peccatorum super sortem iustorum, ne forte extendant iusti ad iniquitatem manus suas»[9]. È minor male che loro siano uccisi piuttosto che l'arma dei peccatori continui a minacciare la sorte dei giusti, cosicché non rischino i giusti di stendere le loro mani verso l'iniquità. Nella concezione di Bernardo non datur tertium, ma soltanto cristiani e non cristiani, i "nostri" e gli "altri", che sono nemici, cosiddetti pagani o politeisti, benché l'Islam, lungi dall'essere politeista, si glori del titolo del più puro monoteismo mai esistito.

 

3. Dār al-islām e dār al-harb

Messa da parte la questione del devshirme, non perché irrilevante o perché limitata nel tempo e nello spazio, ma per l'obiezione sollevata dai musulmani, quasi riguardi non l'ambito di dār al-islām o casa dell'Islam, ma di dār al-harb o casa della guerra, cioè il resto del mondo, atteniamoci strettamente a quello che avvenga in una società musulmana in quanto tale o dār al-islām, paragonando con quanto avveniva al piccolo ebreo membro della società del Papa Re. Un fenomeno come quello capitato alla famiglia Mortara non è pensabile all'interno della società islamica. Non solo perché l'Islam non ha nulla che corrisponda al battesimo, che può essere ricevuto validamente anche prima dell'uso di ragione. L'ingresso nell'Islam di uno che non sia nato in famiglia musulmana coincide con la sua professione di fede islamica, ovvero al suo proclamare pubblicamente che non c'è altro dio che Dio e che Muhammad è il profeta di Dio. Il che non è ammissibile per un infante prima dell'età di ragione. Ma c'è inoltre un principio giuridico affermato dal Corano:

 

«L'Islam - scrive il musulmano Yūsuf al-Qaradāwī - non costringe nessuno ad abbandonare la sua religione e non giustifica indebite pressioni perché uno si converta. Il fondamento di ciò è la stessa parola di Dio: 'nessuna violenza in religione. La via diritta si distingue ormai bene dall'errore'»[10]. Così pure: 'Se il tuo Signore volesse, tutti coloro che sono sulla terra sarebbero credenti. Tocca forse a te costringere gli uomini a essere credenti?'[11]. «La prima libertà umana - continua Qaradāwī - consiste nel lasciare a ciascuno la sua religione e il suo rito»[12].

 

I bambini di una famiglia dimmi, cioè di non-musulmani protetti, sono considerati appartenenti alla religione dei loro genitori.

 

4. Fitra

C'è infatti la tradizione o hadīt in cui il Profeta dice:

 

«Ogni bambino nasce secondo la fitra, cioè in conformità al piano salvifico di Dio. Sono i suoi genitori che ne fanno un ebreo, un cristiano o un mazdeo».

Ora è opinione accreditata presso gli specialisti di fiqh o diritto islamico che si possa dedurre da questa tradizione che la fitra dell'Encyclopédie de l'Islam,

 

«Quant à la religion légale de l'enfant, elle est par le fait même celle de ses parents, bien qu'en réalité il n'embrasse cette religion que quand sa raison a mûri»[13].

 

Nessun militare inviato da governo islamico si introdurrà pertanto all'interno di una casa cristiana a dire che il piccolo bambino addormentato non appartiene più a quella famiglia ma appartiene alla ummah cioè alla comunità dei credenti islamici. Il modo di reagire nei confronti dell'altro è diverso nelle due società, cioè in quella cristiana e in quella musulmana. La differenza sta a monte, cioè nella maniera di concepire la società cristiana e la società musulmana. Non è nella situazione privilegiata che ha la religione cristiana negli Stati della Chiesa e la religione musulmana nel dār al-Islām. In questo le due religioni monoteistiche vogliono ambedue uno statuto privilegiato di priorità, trattandosi in ambedue i casi di religioni che hanno, per dirla con G. Mensching, lo stesso "Absolutheitseinspruch", cioè l'affermazione esclusiva della propria assolutezza[14]. Ambedue le società, cristiana e musulmana, subiscono la tentazione di praticare la discriminazione giuridica, l'una fra cristiano e non-cristiano e l'altra fra musulmano e non-musulmano. Al contrario, nella società politeistica in cui aveva avuto origine il diritto romano, questa tentazione non c'era.

 

«La religione non rappresenta nel più antico diritto romano una causa modificatrice della capacità giuridica... Così si spiega che l'estendersi dell'impero abbia fatto accogliere nel mondo romano un numero sempre maggiore di dei e di culti, a cominciare dalla ricezione delle divinità greche fino alla vera e propria invasione di culti asiatici che si verificò in epoca imperiale e sotto i Severi specialmente... È noto d'altronde che le persecuzioni non furono suscitate da motivi puramente religiosi, anzi dal conflitto insanabile fra l'insegnamento di Cristo e la concezione romana dell'impero e, come espressione pratica di questo conflitto dal rifiuto pertinace che i cristiani opposero di sacrificare all'imperatore e di giurare sulla sua maestà. In ogni modo, neanche in questo periodo l'aspra lotta contro la religione ebbe riflessi sulla capacità giuridica. Questi si ebbero invece dopo il trionfo del Cristianesimo, sancito dall'editto di Costantino del 313. Nel diritto giustinianeo i cittadini che per motivi religiosi sono posti in condizioni inferiori si distinguono in tre gruppi: i pagani e gli ebrei; gli apostati e gli eretici; da ultimi, i più gravemente colpiti, i manichei»[15].

 

5. Nemici

«A partire dal IV secolo - scrive Giuseppe Ruggieri nell'opera collettiva da lui curata, I nemici della cristianità, - il cristianesimo ... accettando di configurarsi come religione civile fu costretto a modificare la propria immagine del nemico... Questi nemici  nel decreto di Graziano sono di fatto appartenenti a tre gruppi: i giudei, gli eretici, gli infedeli»[16]. Possibile che non ci sia alternativa al vedere nell'alieno un nemico, sia esterno che interno alla società? «La res publica christiana - conferma Maria Isabel Mendez Romano nella stessa opera collettiva - acquista una coscienza di sé e una identità propria, contrapponendosi al diverso, al differenziato, agli "altri", sia esterni ad essa, gli infedeli, sia interni, gli eretici e gli ebrei». E la stessa autrice cita due famosi monaci, Pietro il Venerabile e Bernardo di Chiaravalle. Il primo dei due, Pietro il Venerabile, denuncia il paradosso già menzionato da Guibert de Nogent - andare a combattere gli infedeli in terre lontane, quando i peggiori nemici di Cristo, dei cristiani e della fede cristiana, bestemmiatori, increduli, assassini di Cristo, ancora più detestabili dei saraceni, gli Ebrei, li abbiamo in casa nostra! Pietro il Venerabile infatti scrive un'opera esplicitamente antigiudaica, Adversus iudeorum inveteratam duritiem e manifesta i propri dubbi circa l'umanità degli ebrei, data l'evidente mancanza di razionalità nel non riconoscere Cristo. Bernardo esprime opinioni simili a quelle di Pietro di Cluny detto il Venerabile. È vero che a differenza degli infedeli da uccidere, pagani sunt necandi, proibisce di uccidere gli Ebrei e di usare la forza per la loro conversione, ma soltanto perché devono continuare a vivere in una condizione di dispersione, miserabile e umiliata, affinché in tal modo paghino per il loro delitto. In conclusione, tanto l'uno che l'altro, negano la soppressione degli ebrei ma ne vogliono la sopravvivenza in condizione miserabile. Rappresentano emblematicamente la posizione teorica e pratica della Chiesa del loro tempo verso gli Ebrei, paradossale binomio di 'protezione e sottomissione'[17]. A questo punto qualcuno troverà un'ulteriore somiglianza fra il modo nel quale i Cristiani hanno trattato gli Ebrei e il modo nel quale i Musulmani hanno trattato i dimmī o protetti. Anche per i dimmī si verificò nella società musulmana una condizione di sottomissione umiliante, collegata con le parole della sura nona, o del pentimento, «Combattete coloro cui fu data la Scrittura, che non s'attengono alla religione della verità. Combatteteli finché non paghino il tributo, uno per uno, umiliati»[18].

Il libro curato da Ruggieri sui Nemici ha un altro rilievo interessante: Nel secolo XVI la scoperta al di là dell'Atlantico di un mondo che ignora il Vangelo mette in crisi l'identificazione del "totus orbis" con la cristianità e provoca Francisco de Vitoria O.P. a riconoscere un diritto dei popoli. Ma se il Cristianesimo non  applica all'indio americano  l'antica concezione di "nemico", la conserva nei confronti del turco, contro il quale c'è un "bellum perpetuum"[19].

 

6. Stadio intermedio e pluralismo

Comunque, pure ammessa la somiglianza tra la situazione degli Ebrei nella società cristiana e dei dimmi nella società musulmana, a cosa si deve la diversità che la storia testimonia?

L'Islam ha fatta ben presto la distinzione di dār al-Islām e dār al-harb. Nel dār al-Islām entrano di diritto i non musulmani che, appartenendo alla famiglia biblica, ahl al-kitâb, Ebrei, Cristiani e assimilati, si arrendono condizionatamente all'Islam vincitore. Il "protetto" o dimm non appartiene alla religione privilegiata, cioè l'Islam, ma non  è "nemico", perché inserito quale membro nella società islamica. Il dār al-Islām considera nemici i kāfirūn o infedeli, ma riconosce la figura intermedia degli appartenenti alla famiglia della Bibbia che, pur non identificandosi con i musulmani, non sono da equipararsi ai miscredenti o kāfirūn. Con questa distinzione, il dār al-Islām nutre al suo interno un pluralismo, per così dire, istituzionale.

Muhammad Ra'fat ´Utmân, scrivendo sui rapporti dei musulmani con i dimmī riferisce l'opinione di giuristi shafi'iti.

 

«Con il passaggio di territori sotto autorità musulmana, a condizione che vi rimangano quanti si sono sottomessi, salvo a pagarne la tassa, è altrettanto concesso di stipulare in loro favore, il mantenimento delle loro chiese e sinagoghe riservate al loro culto. Infatti se è lecito concludere un armistizio, a fortiori è lecito lasciare ai vinti parte del territorio conquistato»[20].

Lo stesso autore aggiunge:

 

«Quanto a chiese in territori che i musulmani hanno conquistato in seguito ad armistizio, preferiamo seguire l'opinione dei giuristi Shafi'iti che la terra rimanga dei dimmī dietro pagamento della tassa. Hanno diritto a costruire e a conservare le loro chiese e luoghi di culto in base alle clausole dell'armistizio»[21].

 

L'islamologa Biancamaria Scarcia Amoretti scrive in un libro recente:

 

«Il dimmī acquisisce il diritto di una relativa libertà di culto e soprattutto quella di essere difeso nella persona e nei beni... Nell'insieme l'integrazione di cristiani e di ebrei è stata più forte di quanto ci si potesse aspettare. Si conoscono ministri e funzionari di religione cristiana o giudaica, non costretti a convertirsi per accedere o mantenere la loro posizione. Il fenomeno continua nel tempo. Infatti, stati che non rinnegano la loro prioritaria identità musulmana, come l'Egitto, registrano oggi, come ieri, la presenza di cristiani nelle alte sfere del potere. Comunità cristiane sono ininterrottamente testimoniate fino ad oggi nell'area siro-palestinese... così quelle giudaiche, almeno fino alla fondazione dello stato di Israele»[22].

 

7. Membri della stessa società

Scrive ancora Yūsuf al-Qaradāwī:

 

«I protetti hanno diritto ad accedere alle cariche dello stato come i musulmani, salvo quelle cariche che sono piuttosto di ordine religioso, come l'imamato, la presidenza dello stato, il comando dell'esercito, l'esercizio della giustizia nei riguardi dei musulmani, l'amministrazione dell'elemosina legale prescritta dal Corano. A parte queste speciali cariche, tutte le altre funzioni statali possono affidarsi ai protetti, nella misura in cui verificano le condizioni indispensabili di competenza, di onestà e dedizione»[23].

 

Altri musulmani sottolineano ulteriormente il pluralismo della società musulmana, per  esempio, Fahmī Huwaydī:

 

«Se alcuni musulmani dubitano, come alcuni orientalisti, della uguaglianza legale di dimmī e musulmani nella società islamica, non mancano testimonianze che provano tale parità. Per es. i versetti coranici sulla dignità umana. Così pure l'esortazione del Corano a esser giusti con quelli che non hanno resistito con le armi»[24].

 

Fahmī Huwaydī cita pure la tradizione che ammonisce di ricompensare adeguatamente l'alleato, altrimenti il Profeta ne patrocinerà i diritti a riparazione dei torti subiti. È interessante notare come questo musulmano odierno citi anche, quale argomento a favore della parità legale dei dimmī, la costituzione di Medina, benché quell'accordo stipulato dal Profeta non continui sotto i Califfi nella penisola arabica. Infatti, non soltanto gli occidentali approfonditi nella conoscenza delle origini islamiche, per es. Kister e Serjeant, ma anche studiosi musulmani ritengono che l'esclusione  di non musulmani dalla penisola arabica non corrisponda alla tradizione genuina della sirat al-nabi o vita del Profeta, ma provenga piuttosto da tempi successivi alla fitna, crisi susseguente alla morte di Muhammad, cioè ai tempi dei califfi[25]. Il Profeta aveva detto a Medina:

 

«Se qualcuno degli ebrei ci segue, ha diritto agli stessi sussidi dei credenti. Infatti gli ebrei sostengono, come i credenti il peso della guerra. Gli ebrei abbiano pure la loro religione e i musulmani la loro, ma gli ebrei danno il loro contributo, così come i musulmani il loro. Da loro viene la solidarietà nell'opporsi ai comuni nemici e l'amicizia sincera senza tradimento».

 

E il musulmano odierno commenta:

 

«Altrimenti che senso hanno le parole dell'imām ´Alī b. Abī Tālib e di tutti i giuristi musulmani che autorizzano i musulmani a difendere anche con le armi i loro protetti, se poi li privano di qualcuno dei loro diritti? A monte del patto con i dimmī c'è il patto dei musulmani con Dio l'Altissimo per realizzare l'equità sulla terra. E la difesa della dignità dell'uomo è dovere fondamentale della società islamica... I non musulmani sono autentici partners nei territori musulmani... Se gli Shafi'iti hanno sostenuto che la giziyyah è compenso simbolico dei padroni di casa e se Māwardī l'ha detta canone d'affitto per rimanere nel territorio conquistato, tali parole sono private interpretazioni di un dato periodo, di una pagina ormai voltata. Le terre musulmane sono proprietà di musulmani e non musulmani, senza diritti o precedenza degli uni sugli altri, dal momento che l'uomo non ha altra superiorità sul suo simile che quella della sua fedeltà e della sua buona condotta»[26].

 

8. Ghetto

Nell'Islam non ci fu mai una legislazione discriminante dei non musulmani come quella del codice teodosiano nei confronti degli Ebrei, esclusi tassativamente dalla vita pubblica:

 

«In omne aevum lege sancimus neminem Judaeum ad honores et dignitates accedere; nulli administrationem patere civilis obsequii nec defensionis saltem officio»[27].

 

Il Corano e la Tradizione, basi costitutive della shari`ah o legge divina dell'Islam, sono normative anche quanto all'accoglienza di ebrei e cristiani all'interno della società musulmana, sull'esempio di Muhammad nei confronti della comunità cristiana di Najran, nel meridione dell'Arabia. Infatti il musulmano ha sempre distinto ebrei e cristiani dai kafirūn o miscredenti. Non li ha neppure relegati in un ghetto come ha fatto invece il cristianesimo con gli Ebrei.  In realtà negli stati della Chiesa gli Ebrei subivano discriminazioni che non trovano riscontro nel trattamento dei non musulmani in terra islamica, benché anche l'Islam abbia imposto talvolta ai non musulmani restrizioni e divieti nel vestiario, nell'abitazione e nella cavalcatura, come pure esosità fiscali e le cosiddette avanie. L'atteggiamento del Papa nei confronti degli Ebrei dei suoi stati si fa più duro quando Paolo III emana la bolla Cupientes Judaeos del 21 marzo 1542, che promuove e favorisce in vario modo la loro conversione al Cristianesimo[28]. Ancora più severa si leva contro di loro la voce di Paolo IV, istituendo il ghetto romano il 14 luglio 1555, con la bolla Cum nimis absurdum.

 

«È' oltremodo assurdo e disdicevole che gli ebrei, condannati per propria colpa a perenne schiavitù, sotto il pretesto che la pietà dei cristiani li riceve, accettando di convivere con loro, siano poi così ingrati verso i cristiani da ripagarli della loro benignità con offese, pretendendo dominarli, mentre devono servirli»[29].

 

Il documento impone agli ebrei di abitare separati dai cristiani, tutti insieme nello stesso luogo, poi chiamato ghetto.

 

«Volendo salutarmente provvedere di conseguenza, stabiliamo con questa nostra bolla di validità perpetua, che in Roma, o in altri centri o località della Chiesa, gli Ebrei abitino tutti assolutamente nello stesso luogo, o in due o tre luoghi, se uno solo non può contenerli tutti. Tali luoghi saranno designati da noi tramite i nostri magistrati, saranno totalmente separati dai luoghi dove abitano i Cristiani e unici ne saranno ingresso e uscita»[30].

 

La stessa bolla proibisce che ci siano due sinagoghe nella stessa località, impone che gli Ebrei abbiano come segno distintivo un berretto di colore azzurro, se uomini, o un capo di vestiario dello stesso colore, se donne. Vieta agli ebrei le nutrici e i domestici cristiani; di lavorare pubblicamente la domenica, di far contratti con i cristiani, di trattare o giocare d'azzardo con loro; di stampare libri in ebraico, di esercitare il commercio, con la sola eccezione del mestiere dello straccivendolo e del venditore di generi alimentari di prima necessità, come frumento e orzo; se sono medici, non è loro permesso di curare cristiani. Non possono farsi chiamare padroni da cristiani, né servirsi del mese lunare di 28 giorni per computare i loro crediti, ma devono adeguarsi in questo al mese solare di trenta giorni[31].

 

9. Predica coattiva

Per gli Ebrei negli Stati della Chiesa, il libro di Kertzer cita l'editto su di loro, emanato nel giugno 1733 dall'arcivescovo di Bologna, il cardinale Prospero Lambertini, futuro papa Benedetto XIV. L'editto specifica che non possono lasciare di notte il loro quartiere, che non possono leggere il Talmud, né alcun altro libro proibito, non possono mangiare o bere con i cristiani o intrattener qualunque rapporto con loro. L'A. osserva che un ghetto vero e proprio a Bologna nel 1858, anno del "caso Mortara", non c'è più e che tali direttive sono quelle del ghetto di Roma, i cui abitanti addirittura sono obbligati ad ascoltare, nella chiesa vicina, S. Angelo in Pescheria, la predica che li esorta alla conversione. Allora, gli ascoltatori forzati, portano con sé un lavoro manuale per occupare quel tempo e si tappano le orecchie con la bambagia per non essere disturbati dalle perorazioni del frate. C'è una croce sulla facciata della chiesa con il versetto di Isaia 65,2, in ebraico e in latino. «Ho teso la mano ogni giorno a un popolo ribelle; essi andavano per una strada non buona seguendo i loro capricci». Più tardi la croce è distrutta e qualcuno pensa di riprodurne la scritta sulla facciata della chiesa di fronte al ghetto, della Madonna della Divina Pietà. La scritta è rimasta e chi sa l'ebraico può leggerla tuttora. Questa "predica coattiva", per convincere gli Ebrei ad abbandonare la propria religione, è forma di violenza spirituale sconosciuta al mondo islamico, dove tutt'al più la voce del muezzin rintrona in orecchie cristiane ed ebraiche.

 

 

10. Meglio sotto i Musulmani

Giorgio Levi della Vida scrive nel 1924:

 

«Salvo casi isolati non vi fu mai un divieto assoluto e generale del culto ebraico, che poté così mantenersi fino ai nostri giorni. In alcuni periodi e in alcune età gli Ebrei godettero anzi di una relativa libertà e poterono raggiungere grande prosperità economica e intellettuale... soprattutto in Spagna dove al tempo del dominio musulmano ebbero una splendida fioritura letteraria e scientifica (in genere gli Ebrei vennero trattati meglio dai Musulmani che non dai Cristiani), ma donde vennero espulsi nel 1492 dal re Ferdinando il Cattolico»[32].

 

Quello che dice Levi della Vida confrontando la situazione degli Ebrei sotto i Musulmani e sotto i Cristiani in Spagna, dove i Musulmani fanno migliore figura che i Cristiani, è giudizio  fondato sulla storia. Quando gli Ebrei sono espulsi dalla Spagna nel 1492, molti di loro raggiungono il territorio ottomano, dove vengono bene accolti e si sistemano adeguatamente. Un passo di Elijah Capsali, nel Seder Eliyahu Zuta, commisera il re di Spagna per la dabbenaggine con la quale arricchisce i Turchi di gente colta e dinamica e ne priva invece il suo regno[33]. La miglior situazione degli Ebrei in terra musulmana piuttosto che in terra cristiana è confermata dal parallelo con il trattamento di certi cristiani in terra musulmana e in terra cristiana. Per esempio, cristiani assiri o della Chiesa di Oriente, i cosiddetti Nestoriani, ebbero vita più facile sotto i califfi abbasidi, che, precedentemente, nei territori bizantini sotto Giustiniano. Lo stesso si può dire dei cosiddetti Giacobiti, o Sirortodossi, divergenti dalla cristologia imperiale calcedonese e per questo perseguitati in terra bizantina, mentre hanno lo stesso trattamento dei cristiani melkiti o imperiali nelle terre islamiche.

 

11. Due mondi differenti

Pietra di paragone per la situazione degli alieni nelle società cristiana e musulmana sono le Crociate. J. Prawer, specialista della storia del regno crociato di Gerusalemme, afferma che le comunità ebraiche di Palestina devono bere il calice dell'amarezza fino alla feccia, durante i primi anni del dominio franco[34]. I Crociati infatti massacrano la popolazione musulmana ed ebrea di Gerusalemme[35]. Soltanto in seguito cambia gradualmente l'atteggiamento dei Crociati, che si accorgono di aver bisogno della popolazione locale[36]. Ma negano agli Ebrei di risiedere a Gerusalemme finché non sono sconfitti da Saladino[37].

È recente l'opera di un grande specialista, il francese Jean Richard, che in una sintesi magistrale mette in evidenza il mutuo scambio fra Oriente e Occidente che si verifica nelle Crociate, dopo un lungo periodo di isolamento e di incomprensione fra le due parti del mondo[38]. Ho letto con interesse quel libro. Ma non mi ha fatto dimenticare l'opera di un altro grande specialista, Claude Cahen, che ha dedicato gran parte della sua produzione letteraria allo stesso fenomeno storico delle Crociate.

Claude Cahen[39], dopo aver descritto l'Oriente, in particolare il cosiddetto Levante e l'Africa nordoccidentale, prima delle Crociate, li studia ambedue nel corso delle singole Crociate e negli insediamenti orientali latini, attraverso gli eventi bellici, gli edifici, il commercio e le trasformazioni culturali, le istituzioni, i personaggi, per es. Saladino, i periodi ayyubide e mongolo. Con il suo procedere chiaro e ben documentato, Cahen giunge a conclusioni critiche smitizzanti. Secondo lui, i due mondi, orientale e occidentale, sono diversi prima delle Crociate e si mantengono tali anche dopo e nonostante l'attività e la presenza latina in Oriente. Il mondo dell'Oriente è pluriconfessionale. Il mondo cristiano di Occidente non riesce, meno che mai in Sicilia, dopo la seconda generazione normanna, o in Spagna, con la reconquista, a realizzare una pluriconfessionalità. Se non si possono negare influssi e contraccolpi crociati sull'Oriente, bisogna circoscrivere questi effetti a livello locale e regionale e qualificarli di segno negativo. È quindi errata la tendenza di storici occidentali a magnificare gli effetti delle Crociate sull'Oriente. Quanto alla cultura, non vi è alcuna prova che il Rinascimento siriaco e la fioritura spirituale caratterizzanti nella stessa epoca vaste zone del Vicino Oriente, siano dovute all'influsso crociato. Nessuno è riuscito a provare in questo caso un influsso spirituale concreto dell'Occidente sull'Oriente. Quanto poi al commercio del Levante, la Crociata ha secondo Cahen un influsso soltanto secondario. D'altra parte, non è neppure giustificato il tentativo fatto da alcuni di situare le Crociate in una prospettiva di storia comparata della colonizzazione. La colonizzazione condotta dall'Europa durante l'età moderna è tutt'altra cosa.

Cahen deve essere preso in seria considerazione non solo per aver cominciato la sua attività orientalistica con La Syrie du Nord à l'époque des Croisades (1940) ma per essersi occupato spesso, lungo la sua lunga vita, di Crociate. Nella voce Croisades  dell'Encyclopédie de l'Islam cita alcuni suoi scritti che preannunciano già una simile critica negativa. Lo stesso fatto che le reazioni islamiche alle Crociate, spesso indirette, siano relativamente ridotte, confermerebbe il giudizio del Cahen. L'Oriente aveva colto la sua sostanziale differenza dall'Occidente. Non soltanto lo aveva capito l'emiro musulmano fatto prigioniero dei Crociati, Usāma ibn Munqid, che nell'autobiografia scritta una volta riscattato dalla prigionia, commisera i limiti morali e spirituali degli Occidentali[40]. Ma lo hanno capito i Ciprioti che fieri della loro autocefalia consacrata dal concilio di Efeso nel 431, erano caduti nel 1191 sotto il dominio crociato e avevano visto come l'arcivescovo e i vescovi latini di Nicosia, di Limassol, di Famagosta e di Baffo trattavano i vescovi greci dell'isola. Avevano poi conosciuto il dominio veneziano, anch'esso di ispirazione latina e non meno duro con gli Ortodossi. Fino a che nel 1571, proprio l'anno di Lepanto, i Turchi avevano tolto Cipro a Venezia. Due libri recenti sui Latini a Cipro affermano che Latini e Greci erano distanti gli uni dagli altri sulla stessa isola a differenza della fusione e della parità che si ebbe fra Turchi e Greci dopo la conquista ottomana[41]. La durezza dei Latini con i Greci di Cipro doveva esser giunta anche agli orecchi dei Greci di Costantinopoli i quali, all'arrivo dei Turchi si consolarono in quei giorni terribili dicendosi, «meglio il turbante turco che la tiara latina!». Difatti, un altro libro su Cipro, questa volta al tempo del dominio ottomano sull'isola, permette di paragonare la situazione, descritta dai due libri menzionati, degli Ortodossi sotto i Latini, con la situazione degli stessi Ortodossi sotto i Turchi, con il risultato che quella sotto i Turchi era migliore[42].

 

12. Aggiornamento

Quando dico che la situazione degli Ebrei nella società islamica è migliore di quella degli Ebrei nella società cristiana, intendo parlare di società cristiana e di società islamica come tali. Ma oggi, data la secolarizzazione, non c'è più una società cristiana come tale, mentre c'è ancora una società islamica come tale e, forse proprio per questo, la situazione dell'alieno oggi è migliore nel mondo cosiddetto cristiano che non nel dâr al-islâm, benché il mondo cosiddetto cristiano debba fare molto cammino nel dialogo con i Musulmani, sempre più numerosi nel suo territorio.

L'affermazione, che in un dato periodo della storia la situazione dell'alieno fosse migliore presso i Musulmani che presso i Cristiani, non deve, per così dire, far riposare sugli allori i Musulmani, a rischio di mantenere immutato un sistema che invece esige un aggiornamento. Tanto più che questo aggiornamento è auspicato da alcuni musulmani che vogliono un profondo cambio della loro società tradizionale.

Il giurista tunisino Muhammad Charfi si augura che la società islamica separi diritto e religione. Non vuole separare la moschea dallo stato, come ha fatto il laicismo turco, ma la religione dal diritto.

 

«La religione islamica è tollerante, conforme al principio coranico là ikrà fi al-din, non si può indurre nessuno sul retto cammino con la violenza[43]. Nel passato questo aspetto dell'Islam ha costituito un progresso rispetto alle antiche pratiche di violenza religiosa. Questo però oggi non basta. I non-musulmani della casa dell'Islam non accettano più di essere semplicemente tollerati e rivendicano giustamente un pieno e integro statuto di cittadini»[44].

 

Muhammad Talbi, storico e islamologo tunisino di chiara fama, che nel 1997 ha ricevuto il premio Senatore Giovanni Agnelli, fa eco a Charfi.

 

«Tolleranza è insieme condanna, degradazione, condiscendenza più o meno sprezzante, emarginazione, esclusione e solo nel migliore caso carità e generosità. Dire che si tollerano i cittadini è un non senso. Non hanno bisogno di essere tollerati. Per tutte queste ragioni alla tolleranza io preferisco il rispetto: il rispetto è un diritto. Ogni essere umano ha diritto al rispetto che si deve di diritto alla dignità umana. A me non piace essere tollerato. Ogni essere umano ha diritto di esigere il rispetto per sé, tale quale egli è e quale desidera essere»[45].

Talbi cita il confronto fra Ebrei e Arabi fatto da uomo di cultura nordafricano.

 

«Lo scrittore algerino Habib Tengur, rattristato per ciò che accade nel suo paese, si interroga sul perché il mondo arabo, oggi, non conti un solo pensatore di portata universale e fa notare: gli ebrei non hanno tappeto volante di sorta, né il molle fasto degli abbasidi, ma destano ammirazione nel mondo intero. E sono nostri cugini. Certamente sono nostri cugini, benché ciò sia stato spesso dimenticato. Dobbiamo perciò cercare le ragioni del loro successo e delle nostre sconfitte. Perché i nostri cugini sono liberi, mentre dovunque nel mondo arabo-musulmano liberato dal colonialismo non si è fatto altro che cambiare gogna - mediocre consolazione - più o meno pesante da un luogo all'altro. Questa è la verità nella sua nudità. Quando si rompono le penne non rimangono che i coltelli. Poche restano le scelte: il silenzio... In simile contesto, sognare un pensatore arabo-musulmano di portata universale è evidentemente assurdo»[46].

 

A questa emulazione fraterna, o per lo meno cuginesca, fra Musulmani ed Ebrei, formulata da un Musulmano algerino, così come al superamento della sola tolleranza, auspicato da intellettuali musulmani, unisco l'auspicio che l'Occidente prenda sempre più coscienza del suo dovere di gestire la terra - come dice il musulmano Muhammad Talbi - non contro gli altri (l'alieno non deve identificarsi con il nemico come  abbiamo fatto spesso anche noi Cristiani) ma insieme agli altri. Lo propone un vescovo cattolico in terra musulmana, dopo aver rammentato con lucidità le difficoltà del dialogo e averne sollecitato il rinnovamento. La sua proposta rivolta a Cristiani e Musulmani è valida anche per gli Ebrei e per tutti i credenti:

 

«Il ne faut pas minimiser l'entreprise du dialogue. Cependant la tâche doit être poursuivie, car il n'y a d'avenir, ni pour la religion ni pour l'humanité, si les croyants ne deviennent pas des hommes de paix, et leurs responsables des hommes du dialogue»[47].



[1] DAVID I. KERTZER, Prigioniero del Papa re. Storia di Edgardo Mortara, ebreo, rapito all'età di sei anni da Santa Romana Chiesa nella Bologna del 1858, Milano, Rizzoli 1996, pp.11-22.

 

[2] GIAN LUDOVICO MASETTI ZANNINI, "Nuovi documenti sul caso Mortara", Rivista della Storia della Chiesa in Italia 13 (1959); G. MARTINA S.J., Pio IX (1851-1866), Roma, Editrice Pontificia Università Gregoriana 1986, pp. 31-35.

 

[3] ANDRÉ VINCENT DELACOUTURE, Roma e l'opinione pubblica d'Europa nel fatto Mortara, Torino 1859.

 

[4] PIO EDGARDO MORTARA, Stanze recitate alla presenza della Santità di Nostro Signore papa Pio IX da Edgardo Mortara in S. Agnese fuori le Mura il dì 12 aprile 1866, s.d. et l.  

 

[5] GIORGIO ROMANO, "Mortara Case", Encyclopaedia Judaica 12 (1996) 354-355.

 

[6] V. L. MÉNAGE, "Devshirme", EIsl. II (1965) 217-219; P. WITTEK, "Devshirme and sharī`a", BSOAS 17 (1955) 271-278.

 

[7] BASILIKE D. PAPOULIA, Ursprung und Wesen der 'Knabenlese' im osmanischen Reich, München, Oldenbourg 1963, pp. 44-45; P. WITTEK, "Devshirme and sharī`a", BSOAS 17 (1955) 271-278, qui 278.

 

[8] J. JOMIER, Bible et Coran, Paris 1959.

 

[9] BERNARD de CLAIRVAUX, Éloge de la nouvelle chevalerie, SC 367 (1990) 60.

 

[10] Corano, sura 2 o della vacca, v. 256.

 

[11] Corano, sura 10 o di Giona, v. 99.

 

[12] YÛSUF AL- QARADĀWĪ, Ghayr al-muslimīn fī mugtama' l-islāmī, Beyrouth 1983, 9-42. Études Arabes, Dossiers, 80-81 (Rome, Inst. Pont. d'Études Arabes, 1991) 37-39.

 

[13] EIsl. II (1965) 954.

 

[14] G. MENSCHING, Zum Phänomen des Absolutheitsanspruches in Christentum und in Islam, in Der Orient in der Forschung, Festschrift für Otto Spies zum 8. April 1966, Hgbn von Hoenerbach, Wiesbaden 1967, pp. 444-452.

 

[15] V. ARANGIO-RUIZ, Corso di istituzioni di Diritto Romano, Napoli 1921, pp. 54-55.

 

[16] G. RUGGIERI (a c. di), I nemici della Cristianità, Bologna, Il Mulino 1997, p. 18.

 

[17] M. I. MENDEZ ROMANO, "La Cristianità, gli ebrei e Pietro Abelardo. Il nemico nell'etica abelardiana", in G. RUGGIERI (a cura di), I nemici della Cristianità, op. cit., pp. 124-132.

 

[18] Corano, sura IX o del pentimento, v. 29.

 

[19] G. RUGGIERI, "Bellum perpetuum. La difficile fine della cristianità di Francisco de Vitoria", in G. RUGGIERI (a c. di), I nemici della Cristianità, op. cit., pp. 205-223.

 

[20] MUHAMMAD RA'FAT UTMĀN, "Alāqat al-muslimīn bi-ahl al-dimmah", Magallat al-Azhar 45 (1973) 361-373, 446-454; Études Arabes, Dossiers 80/81, (Rome, IPEA 1991) 71.

 

[21] Id., "Alaqat al-muslimīn bi-ahl al-dimmah", Magallat al-Azhar 45 (1973); Études Arabes, Dossiers 80/81, 85.

 

[22] Il mondo musulmano. Quindici secoli di storia, Roma, Carocci 1998, pp. 32-33.

 

[23] YŪSUF AL-QARADĀWI, Ghayr al-muslimīn fī l-mugtama` l-islā, Beyrouth 1983, 9-42; Études Arabes, Dossiers, 80/81, 45.

 

[24] FAHMĪ HUWAYDĪ, Muwātinūn lā dimmiyyūn, Beyrouth 1985, 117-127; Études Arabes, Dossiers 80/81 1991, 249.

 

[25] HICHEM DJAÏT, La grande discorde, Religion et politique dans l'Islam des origines, Gallimard 1989.

 

[26] FAHMĪ HUWAYDĪ, Muwātinūn lā dimmiyyūn, Beyrouth 1985, pp. 117-127; Études Arabes, Dossiers 80/81 1991, 249-255.

 

[27] Nov. Theod. 3 (Cfr L. de GIOVANNI, Chiesa e stato nel Codice teodosiano, Napoli 1980; G. G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli 1976, p. 69),

 

[28] Paulus III, Bulla, Cupientes Judaeos, in Bullarium Diplomatum et Privilegiorum, Tomus VI, Augustae Taurinorum, Franco et Henrico Dalmazzo Editoribus 1860, 336-337.

 

[29] Paulus IV, Bulla, Cum nimis absurdum, in Bullarium Diplomatum et Privilegiorum, Tomus VI, 498.

 

[30] Ibid. 499.

 

[31] Ibid. 499-500.

 

[32] G. LEVI della VIDA, Gli Ebrei, Storia, Religione, Civiltà, Messina, Principato 1924, p. 100.

 

[33] J. MANN, Texts and Studies in Jewish History and Literature, Philadelphia 1935, vol. 2, pp. 302-315, cit. da M. A. EPSTEIN,"The Leadership of the Ottoman Jews in the XVth and XVIth C.s", in B. Braude & B. Lewis (editors), Christians and Jews in the Ottoman Empire, New York-London, Holmes & Meier 1982, vol. I, pp. 101-115, qui 105.

 

[34] J. PRAWER, Histoire du Royaume Latin de Jérusalem, tr. par G. Nahon revu et complété par l'A., Paris, Éditions du CNRS 1969, I, p. 528.

 

[35] Ibid. 530.

 

[36] Ibid. 531.

 

[37] Ibid. 532.

 

[38] J. RICHARD, Histoire des Croisades, Paris, Fayard 1996.

 

[39] Cl. CAHEN, Orient et Occident au temps des Croisades, Paris 1983.

 

[40] Scoperto in un manoscritto dell'Escurial da H. DEREMBOURG, pubblicato e tradotto da lui, Ousâma Ibn Mounqid. Un émir syrien au premier siècle des Croisades(1095-1188), Paris, Leroux 1886, 1889, ebbe una versione tedesca a Innsbruck nel 1905, una russa nel 1922, una inglese nel 1927 e un'altra tedesca nel 1978. Non c'è finora alcuna versione italiana.

 

[41] NICHOLAS COUREAS, The Latin Church in Cyprus, 1195-1312, Aldershot GB- Brookfield USA, Ashgate Publ. C. 1997; NICHOLAS COUREAS and CHRISTOPHER SCHABEL (Editors), The Cartulary of the Cathedral of Holy Wisdom of Nicosia, (= Texts and Studies in the History of Cyprus, XXV), Nicosia, Cyprus Research Centre 1997.

 

[42] RONALD C. JENNINGS, Christians and Muslims in Ottoman Cyprus and the Mediterranean World 1571-1640, New York 1997.

 

[43] Corano, sura 2 o della vacca, v. 256.

 

[44] MUHAMMAD CHARFĪ, "L'influence de la religion dans le droit international privé des mays musulmans", Académie de droit international, Recueil des Cours 1987, III 321-454, qui 433. Cfr V. POGGI S.J., "Non-musulmani nella società musulmana", in Il diritto romano canonico quale diritto proprio delle comunità cristiane dell'Orente mediterraneo, IX Colloquio internazionale romanistico canonistico, Roma, Libreria Ed. Lateranense 1994, 553-566.

 

[45] MOHAMED TALBI, "Gestire insieme la terra. Dialogo, tolleranza, bioetica", Un'urgenza dei tempi moderni: il dialogo fra gli universi culturali; Documenti del Premio Senatore Giovanni Agnelli, Torino, Edizioni Fondazione Giovanni Agnelli 1997, 19-32, qui 24-25.

 

[46] Ibid, pp. 29-30.

 

[47] HENRI TESSIER, "Pour un renouveau du dialogue islamo-chrétien", Islamochristiana 15 (1989) 95-107, 106.