N° 1 - Maggio 2002 - Memorie

 

Luisa Bussi

Università di Sassari

 

i diritti d'uso pubblico nella dottrina di mancaleoni fra interpretazione e creazione del giurista

 

 

 

Gentili Signore e Signori, illustri Colleghi,

Desidero anzitutto ringraziare l'amico Francesco Sini perché, invitandomi a partecipare a questo Convegno, mi ha sollecitato a guardare da un altro punto di osservazione un tema che mi ha molto intrigato e impegnato in passato. E mi ha indotto a farlo appuntando l'attenzione su di uno studioso, Flaminio Mancaleoni, della generazione di quei maestri con cui si ha qualche remora a misurarsi, maestri di cui mi parlava mio padre, e la cui fama circolava proprio durante i suoi anni di Università (ho trovato frequenti citazioni di Mancaleoni nei testi della sua biblioteca: Perozzi, Pacchioni, Costa, per citarne solo alcuni).

            Poco più di un secolo ci divide ormai da quando Mancaleoni fu chiamato quale professore straordinario di diritto romano in questo Ateneo.

            Da allora la nostra scienza è stata investita da qualcosa di simile a un vento di tempesta. Con un giuoco di parole si potrebbe dire che lo storicismo non ha giovato alle scienze storiche, le quali si sono trovate, come Alice, impigliate nel gioco di specchi di un relativismo di cui l'affinamento stesso della loro metodologia ha contribuito a moltiplicare gli effetti.

E non minore crisi ha attraversato e sta attraversando il mondo del diritto, coinvolto nella profonda trasformazione della società la cui vita è teso a regolare. Secondo le pessimistiche previsioni del Savigny, l'aureo sistema della codificazione è praticamente andato in frantumi. Si sono appannati i lineamenti degli istituti che da millenni ne costituivano il fondamento del diritto privato (la proprietà, la famiglia). E stiamo assistendo nello sconcerto generale allo sfumare interno e internazionale di quella che consideravamo la sua fonte di produzione: la sovranità dello Stato. Sicchè quel tempo, quel tempo a noi vicino si è fatto già lontano, è divenuto oggetto di storia, si lascia avvicinare da noi attraverso lo stesso filtro metodologico necessario per qualunque altro tempo. A un tale avvicinamento per la verità, io mi propongo di contribuire nei limiti di un aspetto molto particolare dell'attività dello studioso per ricostruire il cui itinerario scientifico siamo qui riuniti: le servitù d'uso pubblico. Su questo tema è incentrato uno degli ultimi studi di Mancaleoni, comparso negli “Studi sassaresi” del 1923, con il titolo Sulla natura dei diritti d'uso pubblico in relazione ai modi d'acquisto, e visibilmente collegato con una controversia che opponeva ad un privato il comune di Sennori, delle cui ragioni il Mancaleoni fu vittoriosamente avvocato sia in appello che in cassazione.

A dare lo spunto all'articolo è la pubblicazione del Corso di diritto civile del Bianchi, ove non si teneva conto dei nuovi orientamenti della suprema Corte in tema di modi d'acquisto dei diritti d'uso pubblico. Di tali nuovi orientamenti il Mancaleoni rivendicava la paternità, per cui si era sentito spinto, come egli scrive - "a esporre, richiudendole in conciso ragionamento" le considerazioni che gli parevano decisive in materia.

Un tale genere di approccio di per sè attira subito la nostra attenzione. Perché si lega al delicato rapporto della dottrina con la produzione del diritto. Una produzione che dai trionfi della communis opinio, la serrata dello Stato moderno, suggellata dalla Rivoluzione Francese, aveva formalmente ridotto al rigido monopolio dello Stato. Quelli di Mancaleoni erano gli anni - come nota  Grossi - di uno Stato garantista e controllore, gli anni della onnipotenza della Legge, arbitro per definizione neutrale del vivere civile.

Da questo punto di vista, l'apertura dell'articolo è sorprendente: Mancaleoni sembra parlare invece di un diritto che va oltre il puro testo della legge, un diritto che abbisogna di una particolare opera maieutica che non si confonde con la sola interpretatio del giudice e che fa già vacillare il primato della statualità.

E’ naturale a questo punto essere indotti a rivolgere la nostra attenzione al caso che ha fornito lo spunto allo studio di cui si tratta. Come si è accennato, questo vede opporsi da un lato il comune di Sennori, dall'altro il proprietario di un fondo, sito nel territorio dello stesso Comune, in contrada Crabiolu, fondo nel quale esisteva una fonte cui da tempo i cittadini del Comune usavano attingere acqua. Il proprietario del fondo aveva cinto con un muro il terreno, incorporando la fonte e impedendo così ai cittadini di usarne. Il Comune di Sennori aveva assunto la difesa del diritto dei suoi cittadini, sostenendo che la fonte era soggetta alla servitù d'uso pubblico, e quindi il proprietario del fondo era tenuto a garantirvi l’accesso. Gli interessi contrapposti si inserivano, come si può intuire, in un contesto spinoso.

Sul piano concreto, il rapporto con il suolo rappresentava ancora nel nostro Paese la più importante fonte di ricchezza. Sul piano del diritto, bisogna tenere conto del fatto che all'epoca della formazione del codice francese, sul quale si modellò il nostro, la risistemazione normativa e teorica della proprietà (che si volle concepire come le pouvoir juridique le plus complet d'une personne sur une chose) trascinò con sè la profonda modificazione dell'istituto delle servitù, che conobbero un drastico dimagrimento. E' appena il caso di ricordare che l' ancien regime  aveva ereditato dall'età di mezzo un ben altro tipo di proprietà: a parte la distinzione fra fondi nobili e fondi plebei, il diritto faceva largo spazio a oneri reali che gravavano i proprietari dei fondi. Ovunque le popolazioni del contado cercavano di trarre qualche vantaggio dal fondo del signore spigolandovi, cogliendovi erba o legna o portandovi le greggi a pascolare.

"Quae consuetudo  - scriveva il De Luca - videtur fere universalis per Europam ipsi iuri naturae, seu naturali rationi innixa et quodammodo necessaria ne cives et incolae inermem vitam ducant".

 

Questi diritti - che oggi qualifichiamo come usi civici - dalla dottrina  di diritto comune erano stati collocati fra le servitù, poichè quella dottrina utilizzava, il più delle volte deformandole, le figurae del diritto romano. Grande però era stato lo sforzo per individuarne la specificità. La scuola del diritto naturale aveva addirittura fatto sorgere una presunzione di esistenza di usi civici, presunzione che aveva contribuito non poco a renderli invisi e a trascinarli nel generale rifiuto di tutto quanto avesse il vecchio sapore del feudalesimo, anche quando ciò si scontrava con le reali esigenze della società. Erano ancora vivi, in Sardegna, i segni lasciati dalla c.d. legge delle chiudende. L'odio per qualunque onere reale che gravasse la proprietà affiora ancora nei lavori preparatori del Codice del 1865, perché la Commissione bocciò con sei voti su quattro l'art. 633 del progetto Cassinis che ammetteva si potesse stabilire un diritto d'uso a carico di una proprietà privata e a favore di una collettività.

La lite per la fonte Crabiolu rimbalzò con una rapidità per oggi purtroppo impensabile (ma per la procedura civile del tempo, padrone della lite erano le parti) per vari gradi di giudizio. Il Tribunale rigettò la domanda del Comune, la Corte d'appello l'accolse dichiarando essere la fonte sottoposta all'uso pubblico per prescrizione ultratrentennale. Ma la corte di Cassazione di Roma, nel 1915, ritenne fondate le obiezioni  del proprietario del fondo. Quali erano queste obiezioni? A parte alcuni rilievi di specie (non avere il Comune accertato se gli abitanti di Sennori esercitavano la servitù in questione uti singuli o uti cives) aveva posto una questione giuridica di indole generale: che il concetto della servitù, come era fornito dal Codice civile non si attagliava ai diritti di uso pubblico di una proprietà privata, dal momento che della servitù mancava l’elemento essenziale, il fondo dominante, a meno che non si volesse concepire che il fondo dominante fosse il pubblico. Tali diritti d'uso, a ben vedere, erano dei veri diritti in re aliena: per essi non occorreva il fondo dominante, nè si estinguevano come le servitù personali, giacchè interessavano intere popolazioni. Perciò in tali diritti, comunque denominati, doveva ritenersi sempre prevalente il concetto della proprietà privata, mentre d’altro lato, pur non essendo specificamente previsti dal codice, e non trovandosi nella legislazione dei regolamenti speciali, essi dovevano attingere per la loro regolamentazione alla figura giuridica che loro si avvicinava di più, cioè quella delle servitù prediali. Ma se così era, bisognava tenere conto del fatto che tali diritti d’uso erano discontinui e dunque era inammissibile per essi l’acquisto per prescrizione.

Va a questo punto ricordato che in tema di servitù il codice del 1865 conosceva una partizione teorica e generale fra servitù continue e discontinue (art. 617). Quanto poi alla loro costituzione l'art. 630 recitava testualmente:

 

"Le servitù continue non apparenti e le servitù discontinue, siano o meno apparenti, non possono stabilirsi che mediante un titolo. Il possesso, benchè immemorabile, non basta a stabilirle".

 

Le radici della norma risalivano all'art. 691 del Codice del Regno d'Italia, recepito poi  dall' art. 649 del Codice per gli Stati di S. Maestà il Re di Sardegna

Il secondo comma di quest'ultimo era in quello del 1865 divenuto materia dell’art.21 delle disp. transitorie per l’attuazione del codice civile, che stabiliva  che le servitù le quali al giorno dell’attuazione fossero state acquistate col possesso secondo le leggi anteriori venivano conservate”.

La regola per distinguere l’una dall’altra categoria veniva vista in ciò che il contenuto delle servitù continue implicasse sempre uno stato di fatto, mentre il contenuto delle discontinue si esaurisse in una attività del titolare. In sostanza venivano ritenute continue o discontinue le servitù, a seconda che fosse o meno necessario, pel loro esercizio, il fatto attuale dell’uomo.

            La servitù di attingere acqua da una fonte posta in fondo altrui  o nel corso perenne che vi trascorra (servitus haustus) era una figura giuridica che discendeva da quel diritto romano di cui Mancaleoni era maestro. L' aquae haustus si distingue dall'acquedotto perché consiste nel diritto di estrarre acqua dal fondo serviente andando ad attingerla, così che nell' haustus è compreso l'iter. Secondo i romanisti del tempo, tale figura giuridica si doveva ritenere sopraggiunta a lato di quelle che avrebbero rappresentato svolgimenti e concrete applicazioni del primitivo aquaeductus. I problemi sorgevano riguardo alla sua costituzione. Come di norma, anche nelle servitù prediali si distingueva in proposito fra diritto classico e diritto giustinianeo; e nel diritto classico fra fondi italici e fondi provinciali.  Ma dei diversi possibili modi di acquisto, l’usucapione era il più problematico. Presente nel diritto più antico, proprio per le servitù rustiche, secondo l'opinione oggi dominante, era stato poi abolito da una lex Scribonia della fine della Repubblica. Alcuni ammettevano che già in epoca classica  fosse stato riammesso, ma i testi che ne facevano menzione erano stati contestati proprio in forza di quel metodo interpolazionistico cui Mancaleoni fu uno dei primi ad aderire. Certamente l’usucapione delle servitù tornò in vigore in periodo giustinianeo, perché ad esse venne estesa la praescriptio longi temporis.

Il tema - oggi superato- venne molto discusso in dottrina, a partire da Ascoli, Bonfante, Perozzi , Albertario. Minori discussioni  suscitava invece ormai, sul piano storiografico, la distinzione fra servitù continue e servitù discontinue, che la critica testuale aveva dimostrato non avere le sue radici nel diritto romano.

            La partinzione, in realtà, era sorta per opera dei giuristi dell’età intermedia (già Azzone distingue, a proposito del termine necessario per l’usucapione, fra le servitù che hanno continuam causam e le altre), e si  era affermata in forza dell’interpretazione della lex foramen,(D. VIII, 2, 28) che in realtà richiedeva che la servitù rispondesse ad una esigenza destinata a durare nel tempo. Si trattava, cioè, di una creazione del diritto comune, che come si sa fu un diritto di formazione sapienziale. Stravolgendo le leggi romane per farle seguire ai bisogni di una diversa società, quel diritto ci addita quali fossero tali bisogni, con tanta maggior evidenza quanto  più evidente è la stortura.

E’ soprattutto da Bartolo in poi che le servitù vengono distinte in base al loro modo di acquisto e alla loro perdita: quindi in continuae et apparentes e discontinuae et non apparentes. Qual’era il fondamento della distinzione secondo Bartolo?

 

qualiter autem cognoscens utrum servitutis habeat causam continuam aut non, do tibi regulam infallibilem. Si quidem ad usum servitutis requiratur factum hominis numquam dicitur habere causam continuam; quam homo non potest operari continue. Si vero non requiritur factum hominis dicitur habere causam continuam vel quasi ut l.28 D., 8, 2. Ex hoc apparet quod servitus viae et itineris non habent causam continuam quia non potest homo semper ire: servitus vere aquaeductus potest habere causam continuam cum semper aqua fluat vel apta fluere”.

 

Secondo tale teoria quindi, le sole servitù continue erano soggette alla prescrizione acquisitiva di dieci o venti anni (fra presenti o fra assenti) potendosi invece le discontinue acquistare solo con il possesso immemorabile, il quale, come è noto, presenta dei caratteri che lo distinguono nettamente dalla usucapione.  Sul punto si era affermata una solida opinio communis. Ancora Gotofredo, commentando D. 8,1,4 notava:

            "Servitutes non habentes perpetuam causam, vel quasi, non usucapiuntur neque praescribuntur nisi tanto tempore cuius non extat memoria" .

 

Nella dottrina di impronta umanistica, che applicava anche allo studio del diritto gli strumenti offerti dalla critica testuale, la concezione di Azzone e di Bartolo perse come si può ben capire terreno. Donello parla di vulgaris error.   Come Donello, anche Duareno,  Pothier e la dottrina successiva ragionano in termini di prescrittibilità di tutte indistintamente le servitù, suscettibili o non suscettibili di continuo e ininterrotto esercizio di fatto..

Ma  nei Paesi con una forte impronta del mos italicus si continuò a seguire prevalentemente la dottrina dei giuristi medievali e, con riferimento alla distinzione fra servitù continue e discontinue si affermò che mentre le prime necessitavano della praescriptio longi temporis cui si doveva unire la scientia e patientia del proprietario del fondo servente, le seconde si acquistavano con l'immemorabile; e così pure accadde  nell'ambito dell' usus modernus (in Germania principalmente).

Anche nella prassi dei nostri tribunali, quindi, la distinzione aveva mantenuto un predominio pressocchè indisturbato, probabilmente perché a tale soluzione veniva riconosciuto un contenuto di ordine sociale che giustificava tale diverso trattamento. Come attestano Pecchio, Cepolla, De Luca, Richeri, la distinzione era universalmente accolta dalla curia. E d'altra parte, la stessa cosa è da dirsi della prassi dei tribunali francesi, come ci attesta il prezioso Repertorio del Merlin. Qui, sia nei paesi di diritto scritto che in quelli di diritto consuetudinario si continuò generalmente a mantenere la distinzione e a richiedere l’immemorabile per le servitù discontinue.

            Si potrebbe dunque pensare che con la sentenza della Corte di Cassazione del 1915 la causa per la fonte Crabiolu fosse decisa., ma così non fu. La sentenza in realtà si allontanava da un orientamento che si andava affermando nella Suprema Corte romana teso a tornare a dare rilievo, all’interno delle servitù prediali, ai diritti d’uso esercitati da una comunità e che si dovesse distinguere questi da quelli che venivano esercitati da un privato.

"Liberati ormai dal pregiudizio che niuna forma di proprietà collettiva sia utile, dobbiamo invece salvarne le reliquie, ricostituire i demani comunali, educare gli individui al godimento sociale dei beni"

 

Così, nel 1914, scriveva Brugi nelle sue Istituzioni di diritto civile.

Fondamentale a tal fine era stata la vertenza che aveva opposto al Principe Borghese il popolo di Roma a proposito dell'uso di quest'ultimo di passeggiare per la Villa Borghese. In una celebre comparsa, poi pubblicata, Pasquale Stanislao Mancini, avvocato del Comune di Roma, aveva polverizzato l'obiezione che o si trattava d'uso del passeggio, che non poteva che essere personale - e quindi mancava la necessaria perpetuità, o si trattava di servitù prediale e quindi mancava la coesistenza dei fondi, avanzando l'idea che si trattasse di un diritto diverso: non si tratta - aveva argomentato il Mancini - di servitù privata, ma del possesso, più che notorio di un uso pubblico a favore della universalità degli abitanti di una città intera, che è di affatto differente natura, sia che si qualifichi uso civico e diritto reale sui generis, sia che si qualifichi servitù non di diritto privato, ma di utilità pubblica.  Pur ammettendo la carenza, nel codice vigente, di norme atte a regolare tale specie di diritti, si era potuto affermare che questo ne contemplava però l'esistenza rinvenendovi le pur non frequenti ricorrenze dell'espressione "uso pubblico", e richiamando l’istituto degli usi civici per invocare lo ius civitatis che essi implicavano. Era stato egualmente merito del Mancini l'avere suggerito che la regolamentazione di questa nuova categoria di diritti non andasse cercata nel diritto privato ma nel pubblico.

L'opinione dominante, a questo punto, rispecchiava l'esigenza che simili diritti nati a favore della cittadinanza per soddisfare bisogni materiali o anche artistici e culturali venissero assicurati nella maniera più efficace. Essi venivano qualificati dal Giorgi come usi civici che non consistevano in una partecipazione ai prodotti del fondo, bensì “nella servitù di passo pubblico, nella facloltà di prendere acqua, aria, giocare, passeggiare in qualche fondo privato; nell’accesso pubblico in qualche biblioteca, galleria o museo privato per goderne i tesori artistici che vi stanno rinchiusi. La questione era come costituirli ex novo. Per l'uso di passeggiare per la Villa Borghese del popolo di Roma, il Mancini aveva potuto invocare l'immemorabile. E una parte autorevole della dottrina - capeggiata dal Venezian - negava che tali diritti differissero dalle servitù irregolari, se non per il fatto che queste venivano costituite a favore di una persona singola, mentre quelli sono a favore di persone collettive; mentre il Fadda - che come si sa fu maestro di Mancaleoni - proponeva una teoria ingegnosa, che attribuiva al complesso degli abitanti di un determinato territorio la qualità di fondo dominante.

            E’ a queste argomentazioni che Mancaleoni si riconnette per ottenere ragione sia nel giudizio di rinvio (che ha tutta l’aria di aver utilizzato in larga misura le sue argomentazioni), sia nella definitiva sentenza della Cassazione a sezioni unite del 1917: egli sostiene qui che le servitù d’uso pubblico sono diritti reali sui generis dettati da speciali contingenze della vita sociale. in armonia con i principi generali del diritto. Ma sostiene anche che in mancanza di norme specifiche non era dato disciplinare tali servitù altrimenti che valendosi delle norme fornite dall’art. 3 delle disposizioni preliminari del codice c. (del 1865) ricorrendo cioè all’analogia. Ma questa analogia andava cercata non già nella norma che vietava l’acquisto per usucapione delle servitù non continue (norma da considerarsi eccezionale) bensì nel principio generale  per cui la prescrizione trentennale era riconosciuta come mezzo di acquisto per tutti i diritti tanto reali quanto personali.

La sentenza della Cassazione a sezioni unite che seguì riprese questa linea di pensiero e la sviluppò al punto da volgere al contrario le stesse argomentazioni che due anni prima erano state efficacemente usate dalla parte avversa a Mancaleoni: il diritto in esame  non poteva classificarsi nè fra le servitù prediali nè fra quelle personali, e doveva considerarsi come un diritto autonomo di natura particolare, appartenente in gran parte al diritto pubblico. Perciò era ai “recenti progressi di tale diritto” che si doveva guardare senza cercare di trarre dal diritto privato la disciplina di istituti che appartenevano ad un altro ramo della scienza giuridica. Perciò non poteva applicarsi la regolamentazione delle servitù e in particolare del famigerato art. 630, ma semmai il 542, il quale pur trovandosi nel Capo II - delle servitù prediali - bisognava ritenere creasse un diritto d’uso pubblico senza predialità e fosse lì allocata solo perché richiamata dall’occasione di determinare l’estensione dei poteri di un proprietario di una fonte. 

Si veniva così delineando una categoria teorica che per la sua natura collettiva serviva da un lato a riconoscere ai diritti d’uso pubblico una  natura giuridica propria e differenziata rispetto alle servitù prediali, dall'altro ad escludere l'applicabilità di norme a carattere cogente come il già citato art. 630. La giurisprudenza in sostanza andava così riconoscendo che al di là dei rapporti interprivati sussistevano situazioni reali improntate a collettività che perciò solo prescindevano dalle strettoie poste dal diritto moderno agli iura in re aliena.

            Sul punto, venne poi ritenuto che la norma di carattere generale che consentiva questo tipo di operazione fosse l'art. 2 (art. 11 del cod. vigente) laddove disponeva che "i comuni ...godono dei diritti civili secondo le leggi e gli usi osservati come diritto pubblico. Attraverso il richiamo di questa norma veniva ad essere legittimato un principio che era di pura elaborazione giurisprudenziale, un principio secondo il quale le comunità di abitanti acquistano diritti collettivi a carattere reale su beni privati in virtù dell'uso protratto nel tempo (necessario ad usucapire) senza essere soggette alle norme limitative poste dal codice in materia di diritti reali.

Nell’articolo pubblicato successivamente, Mancaleoni ribadisce questo concetto: si deve abbandonare l’attribuzione dei diritti d’uso pubblico alla categoria di quei diritti che in diritto privato si chiamano tradizionalmente servitù personali, giacchè si tratta di diritti che escono dalla sfera del diritto privato, e se pure gravano sopra una cosa di proprietà privata, la gravano come una limitazione pubblica. Dunque - egli conclude - si tratta di diritti reali di demanio pubblico su cosa altrui.

Il Mancaleoni contribuiva così insieme al Mancini, il Giorgi, il Ranelletti e altri alla creazione di una categoria giuridica speciale, le cui coordinate si distaccano dalle servitù come ne erano stati staccati gli usi civici ormai in via di estinzione, con i quali condivide il carattere collettivo dell'imputazione. Ma mentre gli usi civici estendono il loro contenuto ad utilitates di frui  della cosa e non ammettono costituzioni ex novo, gli usi pubblici vengono a riguardare solo il frui, e grazie all'accoglimento della teoria di Mancaleoni possono essere usucapiti. E se la categoria degli usi civici, aveva ormai perso l'interesse della dottrina, se si eccettua il Venezian che le aveva dedicato il discorso inaugurale per l’anno accademico 1887 nella Università di Camerino, quella degli usi pubblici mostrava una vitalità e una tendenza definitoria straordinarie, tanto da far pensare che fosse proprio a questi modelli che Mancaleoni pensava scrivendo di evoluzione regressiva degli istituti giuridici. Per Mancaleoni l’istituto regressivo è in rapporto dialettico con l’istituto progressivo. “Bisogna - egli scrive - cercare di non confondere gli elementi decadenti e quelli ascendenti soprattutto per valutare l’importanza che essi hanno nella interpretazione analogica e nella estensione della norma come di ius comune o di ius singolare” 

Attraverso vicende come queste, la visione borghese di un diritto "neutrale" pura silloge di testi normativi, si frantuma già di fronte alle pressioni dell'esperienza concreta e al riconoscimento del carattere normativo della fattualità filtrata dalla dottrina. Come nota Grossi, "Demitizzati il codice e il diritto romano, resta una sola salvaguardia per l'ordine giuridico, ed è l'interpretazione". L'interprete si porrà sempre di più come un mediatore fra la legge immobile e la società in corsa, e tenderà a tornare un protagonista.

Di questa funzione il Mancaleoni era acutamente consapevole. Nella prolusione al corso di Diritto Romano tenuta a Napoli il 5 febbraio 1920, accennando alla frattura lasciata dall’appena conclusa guerra, egli lamentava che si fosse “perduta la via larga e si tentano i viottoli per riprendere il cammini dell’Umanità.

E i viottoli sono le ideologie e gli apriorismi, le fedi mistiche nelle instaurazioni arbitrarie della giustizia e del diritto, che trascurano i procedimenti storici di adattamento e di modificazione graduale, perché il presente carico di nebbie fumiganti toglie non solo la conoscenza esatta dello stato attuale, ma ha cancellato la visione del passato, e sembra a moltissimi che il presente sia esso stesso inizio di cose nuove senza precedenti e non continuazione di cose vecchie che si rinnovano e devono rinnovarsi secondo le leggi delle trasformazioni storiche.

Ricondurre le menti a queste leggi è togliere le aberrazioni e ridare calma agli animi, riprendere la sicura coscienza di sé e delle condizioni nelle quali si è vissuto, si vive e si vivrà”.

Parole profetiche e più che mai valide ancor oggi.