N° 1 - Maggio 2002 - Memorie

 

Mario Da Passano

Università di Sassari

 

Echi parlamentari di una polemica scientifica (e accademica)

 

 

1.      Lucchini, Ferri, Nocito e il codice Zanardelli.

 

Nella seconda metà dell’Ottocento, oltre a quello del comunismo, un altro spettro si aggira per l’Europa: quello dei recidivi, «biechi militi dell’armée du crime»[1], una moltitudine di incorreggibili delinquenti incalliti, sempre pronti, appena usciti di prigione, a commettere nuovi reati, in particolare contro la proprietà, una folla che turba i sonni di benpensanti, antropologi, giuristi e legislatori. Anche in Italia, come altrove, si studiano mezzi idonei ad affrontare il problema e nel 1899, nel quadro delle misure eccezionali proposte nel corso della crisi di fine secolo[2], il ministro di Grazia e giustizia e dei Culti Finocchiaro Aprile, d’intesa col presidente del Consiglio e ministro dell’Interno Pelloux, raccogliendo un precedente invito di Giolitti[3], presenta anche un progetto di legge su questa materia, in parte ispirato alla legge francese del 1885, ma caratterizzato pure da evidenti finalità poltiche[4]. Si tratta di un testo abbastanza breve, 16 articoli in tutto, che per per alcune categorie di recidivi prevede  il bando dallo Stato o la relegazione «a tempo indeterminato o temporanea», con l’esclusione dalla liberazione condizionale e da scontarsi «nelle isole o nelle colonie penitenziarie che verranno all’uopo determinate con apposito regolamento»[5], e autorizza il governo a pubblicare con decreto «il regolamento per l’esecuzione della presente legge e gli altri regolamenti che fossero richiesti per l’esecuzione di disposizioni speciali contenute nella medesima». Quando viene discusso alla Camera, il progetto, che non avrà seguito anche per l’ostruzionismo dell’opposizione di sinistra, dà luogo ad una vivace discussione, tecnica e politica[6], ma, per quello che in questo momento ci interessa maggiormente, costituisce anche l’occasione di uno scontro polemico fra due deputati d’eccezione, peraltro entrambi contrari al disegno di legge governativo anche se da posizioni diverse[7]: Luigi Lucchini, uno dei principali artefici del codice Zanardelli, ed Enrico Ferri, uno dei massimi esponenti della scuola positiva.

A dare fuoco alle polveri è Lucchini. Egli nel suo primo intervento si propone di criticare il disegno di legge «dal punto di vista esclusivamente tecnico, in relazione cioè con lo scopo apparente e in ogni modo primario che si propone nei riguardi della pubblica sicurezza e della difesa sociale» (p. 2672). In questo quadro, sostiene fra l’altro che, stando alle statistiche, nell’ultimo ventennio si è registrata in Italia una diminuzione della «maggiore criminalità» e il tasso di recidive si è mantenuto relativamente basso (p. 2673); il problema quindi è meno grave di quanto si dice, ma soprattutto i mezzi proposti per risolverlo sono «empirici ed erronei, perché mirano a sopprimere gli effetti senza toccare alle cause, come quei popoli selvaggi che credono di liberarsi da una epidemia, ammazzando coloro che ne sono colpiti»: non ci si deve porre l’obbiettivo di «sterminare i recidivi», ma occorre piuttosto «far fronte più che sia possibile alla recidiva», ricorrendo a

 

«svariati mezzi e provvedimenti, quali d’indole preventiva, e quali d’indole repressiva, quali destinati ad agire direttamente e quali ad agire indirettamente, quali che consistono in nuovi istituti suggeriti dalla scienza e dalla civiltà, e già provvidamente attuati in altri paesi, e quali nel modo di funzionare degli istituti esistenti» (pp. 2678 s.).

 

In particolare Lucchini, riprendendo un tema più volte sollevato da lui stesso[8], ma anche da altri, sia pure non sempre con lo stesso fine[9], afferma che, anche per combattere la recidività, piuttosto che escogitare nuovi provvedimenti legislativi, andrebbe anzitutto data piena attuazione alle norme del codice penale vigente e rileva con profondo rammarico che esse, dopo un decennio dalla promulgazione, sovente sono rimaste ancora pure e semplici enunciazioni di principio, in particolare per quanto riguarda l’esecuzione delle pena e la sua personalizzazione, anche a causa della mancata attuazione della riforma penitenziaria:

 

«come volete mai che la pena, con tanto accorgimento regolata nel codice, ottenga il salutare effetto di rattenere il colpevole dal commettere nuovi reati e di emendarlo, almeno nei casi in cui tutti consentono che possa avere efficacia riformatrice, quando nella sua attuazione pratica è così diversa e contraria al precetto legislativo, quando le nostre carceri e i nostri stabilimenti penali sono sentine di ozio e di tutti i vizi; quando non funzionano le celle di segregazione, né di giorno né di notte, né per i delinquenti primari, né per i recidivi, non il lavoro normale, non gli stabilimenti intermedi, non la classificazione dei condannati, e nemmeno la separazione dei minorenni dagli adulti, non la distinzione fra le diverse pene restrittive, non i varî stabilimenti speciali istituiti dal codice; quando non una quasi delle istituzioni escogitate dal legislatore, per adattare la pena alle singole esigenze individuali, dopo un decennio, ebbe ancora applicazione, non la casa di lavoro, non la prestazione d’opera, non l’arresto in casa, non la malleveria di buona condotta, non l’oblazione volontaria? … E come volete che un delinquente primario o quello cosiddetto occasionale, sia stimolato, dopo una prima condanna a cambiar vita e ad astenersi da nuovi reati, se nulla si fa per incoraggiarvelo e tutto converge a distogliernelo? Tutte le porte si chiudono in faccia a un liberato dal carcere, il patronato non funziona affatto, la vigilanza speciale della polizia lo perseguita e lo opprime con tutte le sue insidie e pastoie, e a ogni pié sospinto trova la polizia in agguato pronta ad avvolgerlo nelle sue spire e ad appioppargli l’ammonizione e il domicilio coatto?» (p. 2679).

 

Del resto, nel prosieguo della discussione, anche Salvatore Barzilai, che pure non manca di criticare le tesi di Lucchini, conferma che sino ad allora poco o nulla si è fatto «per migliorare questo ambiente sociale in mezzo al quale nascono i recidivi», per cui «è a dubitarsi se, senza aver fatto prima l’esperimento dei mezzi normali, si possa venire a questo esperimento solenne di mezzi anormali, eliminativi», e sostiene che

 

«certo la nostra riforma penale, salutata con tanto calore di entusiasmo da molti, e della quale il deputato Lucchini è stato non piccola parte, si è risoluta per gran parte in una grandissima delusione; perché dopo aver scritto la ricetta, l’articolo di legge, non ci siamo dati pensiero del farmaco e della dosatura di questo farmaco, che credevamo di applicare alla malattia sociale. Noi abbiamo fatto un Codice penale bellissimo dal punto di vista teorico, il quale stabilisce una quantità di pene graduate in vari modi: eppoi? Eppoi non abbiamo creato uno solo degli organi i quali valgano alla applicazione delle disposizioni del Codice stesso. L’onorevole ministro sa che noi abbiamo fatto una legge per ridere, come pur troppo se ne fanno tante, per stabilire che si dovesse procedere in Italia alla riforma penitenziaria … Ci troviamo insomma in una condizione per la quale questa legge scritta è una ironia quotidiana di fronte alla pratica applicazione» (p. 2711).

 

Tornando a Lucchini, egli non perde però l’occasione per fare anche dell’ironia sull’iniziatore della “nuova scuola”. Infatti, ribadendo la sua posizione favorevole alle colonie penali agricole all’interno del Paese, racconta un episodio, peraltro già reso noto alcuni anni prima da Pietro Nocito, anche se in termini un po’ diversi, ma pur sempre sarcastici[10]: siamo nel 1882 e la commissione per la statistica giudiziaria, composta da illustri personaggi, si reca a far visita alla colonia delle Tre Fontane in attività alle porte di Roma, creata nel 1880 soprattutto per volere del direttore generale delle carceri, Martino Beltrani Scalia, col duplice scopo di favorire un incremento dei lavori all’aperto dei condannati e di contribuire a dare soluzioni concrete all’annosa e irrisolta questione della bonifica dell’Agro Romano[11]. E, secondo la narrazione di Lucchini,

 

«fra gli altri c’era il professor Lombroso, il celebre taumaturgo della cosiddetta e da lui creata antropologia criminale, le cui opere cominciavano allora a fare il giro del mondo; e tutti noi andavamo eccitandolo a diagnosticare dai caratteri fisionomici e somatici di quella gente messa in rango per l’occasione la specie di delitto commesso. A farlo apposta non ne imbroccava uno su dieci! E noi tutti sorridevamo sapendo che la quasi totalità di quei disgraziati era stata presa fra i rei di omicidio o di gravi lesioni personali, condannati a pena perpetua o di lunga durata, che scheletricamente e fisionomicamente non sogliono presentare caratteri apprezzabili» (pp. 2676 s.).

 

Nella discussione interviene poco dopo Ferri, che aveva preso parte alla visita e che ora respinge indignato i sarcasmi di Lucchini nei confronti di Lombroso:

 

«giacché si è creduto di venire qui a raccontare qualche aneddoto assolutamente leggendario per dire che il delinquente nato non esiste, forse perché il Lombroso, che è creatore di una scienza (lo studio dell’uomo delinquente per conoscere le cause di questa pericolosa malattia della criminalità di fronte alle divagazioni politiche e metafisiche della scuola classica criminale), il Lombroso non l’ha indovinato alle Tre Fontane … Il delinquente congenito, si dice da questi nostri colleghi, che non esiste, perché essi non hanno avuto la pazienza di andarlo a studiare nei manicomi o sulle tavole anatomiche come hanno fatto altri; e quando poi entrando nel carcere hanno visto che tutti i delinquenti hanno un naso e due occhi come gli altri uomini, hanno detto che non esiste delinquente nato, perché si illudevano che tutti i delinquenti nati avessero due nasi e quattro occhi e che tutti li potessero vedere a prima vista. Ma evidentemente bisogna fare studi di clinica organica e psicologica e […] lo studio dell’uomo delinquente è una disciplina difficile e che non si può improvvisare come i sillogismi di un trattato» (p. 2722).

 

Ma Ferri non si limita certo a questa replica risentita e sviluppa invece un discorso di carattere generale: infatti approfitta a sua volta dell’occasione per portare un pesante attacco al codice Zanardelli e alla “scuola classica” che l’ha prodotto; in particolare i suoi strali sono rivolti a Lucchini, «che di quel progetto è stato uno dei più assidui manipolatori» (p. 2717)[12], ma anche a Nocito che lo interrompe contestando le sue affermazioni[13]; le argomentazioni da lui usate sono in gran parte quelle già proposte all’attenzione dei deputati e del governo nella discussione sul progetto Zanardelli, ma i toni sono certo molto più aspri di quelli usati oltre dieci anni prima, quando ancora sperava che almeno qualcuno dei suoi suggerimenti venisse accolto[14].

Secondo Ferri, tralasciando per il momento «la parte politica», il progetto in discussione, di cui approva «il concetto ispiratore […] positivo ed esatto», non è infatti che

 

«un puntello che la necessità delle cose ha imposto al legislatore italiano di mettere a quell’edificio che accademicamente si è soliti di lodare molto, ma che, nella pratica dei tribunali e dovunque, si critica da tutti: voglio dire l’edificio del Codice penale. E’ soltanto perché il Codice penale del 1890 è dottrinario, e non ha avuto corrispondenza con la realtà della vita italiana, che noi siamo obbligati a rappezzarlo e a puntellarlo oggi di fronte agli effetti che la sua applicazione ha portato o non ha saputo evitare nella criminalità del paese italiano» (p. 2717).

 

La presentazione del progetto è quindi per Ferri una diretta conseguenza dei difetti del codice Zanardelli[15], che altro non è se non «un trattato accademico diviso per numeri ed articoli invece che […] per capitoli e paragrafi», e per di più astratto e unilaterale[16]:

 

«se voi chiudete la copertina del nostro Codice penale, non ci trovate nulla dentro che vi possa indicare essere questo un Codice destinato piuttosto all’Italia, che alla Grecia, alla Norvegia o all’America del Sud; perché è stato fatto con le forbici e con la gomma (Mormorio), pigliando e impastando gli articoli degli altri Codici, senza tener conto delle condizioni speciali vive e palpitanti della vita italiana per la quale doveva esser fatto un Codice penale, approfittando del tesoro immenso di scienza e di ricerche positive che in Italia era stato dato al doloroso tema della delinquenza» (p. 2717).

 

E ancora, il progetto in discussione è «una necessità imposta dalle condizioni che si sono verificate nella vita reale», in conseguenza degli errori di fondo di un codice «ispirato a due concetti fondamentali di difesa sociale contro la criminalità», l’adozione di «pene brevi, ma intense» e di un «sistema assolutamente accademico» (e costoso), fondato sulla pena carceraria «a dosatura fissa» da scontarsi in stabilimenti cellulari[17]. Ora, secondo Ferri, il primo principio è

 

«doppiamente assurdo, perché, per ciò che ha tratto alla intensità, è un ritorno barbarico fare in modo che la pena debba essere un supplizio pel condannato, mentre noi crediamo che la società di fronte al condannato, abbia l’obbligo solo di segregarlo dal consorzio civile senza sottoporlo a torture ed a supplizi, ciò che è inevitabile quando nella applicazione della pena si vuole applicare il principio che la relazione del Codice chiamava appunto della intensità penale. Seconda assurdità, che io pure rilevai fin dal 1888, quando si dice pena breve e intensa. Si fa presto ad applicare la prima parte: basta scrivere nel Codice che invece di 10 anni se ne danno cinque: ma quando siamo alla applicazione della seconda, cioè alla intensità della pena, bisogna costruire carceri appositi; vale a dire che per ottenere la intensità della pena la quale, secondo voi, deve compensare la brevità della condanna, bisognerebbe avere a propria disposizione un minimo di 60 milioni per costruire carceri monumentali cellulari, la cui mancata costruzione è stata, secondo me, una delle poche fortune che siano capitate all’Italia contemporanea»[18] (pp. 2717 s.)

 

Il risultato di tutto ciò è stato un aumento della criminalità (verificatosi peraltro in Italia come altrove), negare il quale, come fa Lucchini, «vuol dire, come si dice in Toscana, negare il paiuolo in capo». A questo si aggiunga che in Italia

 

«gli organi della difesa sociale contro la criminalità, sono completamente disgregati ed estranei fra loro; questi tre grandi organi, che sono: la polizia giudiziaria, la magistratura giudicante e l’amministrazione carceraria, lavorano ognuno per proprio conto, senza solidarietà e senza intesa comune … E’ come se contro un esercito nemico si avessero tre frazioni di un esercito di cui i generali non andassero d’accordo fra loro sul piano di battaglia o intorno alla strategia contro il nemico» (pp. 2719 s.).

 

Quanto al secondo principio, per cui, nonostante il tentativo di distinguere diversi tipi di pena, «in pratica è sempre il carcere la panacea unica per i delitti … non solo, ma la pena è a dosatura fissa», si tratta di «un meccanismo accademico di difesa contro la criminalità», che fa del codice un’«opera platonica, accademica ed inefficace», mentre «occorre invece  qualche cosa di più pratico, di più umano, di più positivo»; di fatto i mezzi a disposizione di polizia e magistratura si riducono appunto al carcere e sono del tutto inadeguati di fronte ai progressi della delinquenza[19], per cui si rende necessario intervenire sulle norme vigenti almeno con delle integrazioni correttive; in sostanza dice Ferri,

 

«sarebbe come se un medico si mettesse alla porta di un ospedale e dicesse: io ho una medicina sola per tutte le malattie e questa medicina stabilisco a dosi predeterminate: voi ad esempio avete tale malattia? Prenderete un litro e mezzo della mia medicina e starete all’ospedale un mese. Il malato dice: ma se sarò guarito prima? Non importa: ci starete lo stesso. E se dopo passato il mese io non sono guarito? Non importa, vi metteremo fuori perché, scaduto il mese dovrete andar fuori. Quell’altro ha un’altra malattia: ebbene ne prenderà due litri con lo stesso termine fisso … E c’è tutto un sistema logismografico nel nostro Codice penale, onde si vedono sentenze barocche nelle quali i giudici fanno computi aritmetici, e si vedono tirar via il sesto, aggiungere il terzo, diminuire il quarto od il quinto della pena, per arrivare a dire ad un uomo, non so con quanta serietà: la pena proporzionata al vostro delitto sono due anni, sette mesi e quattordici giorni; niente di più e niente di meno. E, molte volte, se sbagliano il conto, la Cassazione deve rifare le operazioni aritmetiche, per vedere se i giudici abbiano calcolato bene i giorni ed i mesi» (p. 2721).

 

E invece occorrerebbe distinguere il trattamento da riservare ai delinquenti occasionali e a quelli abituali (usando verso questi ultimi pene di durata indeterminata) e in tal senso è apprezzabile il concetto ispiratore del progetto in discussione, che, da questo punto di vista, rimedierebbe ad uno dei difetti del codice[20]:

 

«bisogna ammettere legislativamente […] che la grande schiera dei delinquenti si divide in due categorie fondamentali: da una parte quella più numerosa, dei delinquenti occasionali, poco temibili, poco pericolosi; dall’altra parte, quella meno numerosa, ma più pericolosa, dei delinquenti così detti abituali; abituali o per tendenza congenita od ereditaria, o per abitudine acquisita; abitudine acquisita che, in gran parte, è frutto delle cattive condizioni sociali» (p. 2721).

 

Nel seguito della discussione interviene poi anche Nocito che, criticando aspramente il disegno di legge, «ingiusto nella sua parte tecnica, non necessario nel suo principio costitutivo, inapplicabile nella sua esecuzione» (p. 2752), non manca a sua volta di contestare le idee di Ferri in merito alla funzione della pena (e quindi all’opportunità di introdurre pene di durata indeterminata) e la validità del paragone con la medicina:

 

«si è detto che la pena è una medicina, e che il medico non può permettere che l’ammalato lasci il letto se non in quanto è guarito, a meno che non lo si voglia mandare a qualche ospedale degli incurabili, quando sia perduta la speranza della guarigione. Comprendo che questa sarà la logica dei medici, ma non può essere certamente la logica dei giuristi; perché la pena non è altro che un dolore, un’afflizione, un tormento per mezzo della privazione del diritto della libertà o d’altro diritto. Essa non s’incarica punto di guarire moralmente l’individuo, o meglio non ha come scopo il ravvedimento morale, sebbene debba cercare di agevolarlo, perché questa benedetta guarigione non può avere un termometro che la misuri e l’accerti. Come si può vedere se un individuo è guarito o no nell’ambito di una cella o in mezzo ad una piccola società di compagni reclusi, sotto la guardia dei custodi e del direttore? Tutte queste cose non possono riguardare il magistrato che punisce. La pena è una medicina, in quanto la sua applicazione produce un freno nel condannato con l’esperimento della minaccia della legge, che gli impedisce la ricaduta. Il sapere se egli sia guarito non è, e non può essere, che una semplice presunzione di ravvedimento per effetto del dolore o della afflizione che la pena porta al colpevole. Ma chi sa dire se, pur piegato il corpo, l’animo rimane ribelle e pronto a ritentare la prova? Quando invece si somministrano le medicine, si tratta di valutare gli effetti fisiologici d’un farmaco ingerito nell’organismo; si tratta di tastare il polso per vedere se la febbre è cessata, e non può l’uomo per un puro atto di volontà divenire febbricitante quando il chinino gli ha troncato la febbre. Nessuno può dire invece con sicurezza se il condannato è guarito, cioè si sia ravveduto, e solo quando il colpevole ha pagato la pena stabilita dalla legge, la società deve credere che egli sia già sostenuto abbastanza per non scivolare un’altra volta nel pendio del delitto. Laonde se egli ricasca un’altra volta nel delitto, sarà il caso di dargli una dose maggiore di rimedio e di pena, ma non già di sottoporlo a pena senza termine» (pp. 2753 s.).

 

Inoltre sempre Nocito ribadisce che i dati statistici dimostrano una stazionarietà della recidiva (oltre ad un calo delle forme più gravi di criminalità) e che quindi non esiste «quello stato allarmante della delinquenza, che può spingere un Governo a ricorrere a provvedimenti eccezionali» (p. 2756); difende il sistema cellulare, sostenendo che

 

«tutti si sono mostrati poco propensi al concetto della comunanza dei condannati, perché essa costituisce appunto l’insegnamento mutuo e professionale, direi quasi, del delitto. S’impone perciò di conseguenza, nel modo più assoluto, il sistema cellulare non per fare dei condannati tanti San Giovanni stillititi isolati sopra una colonnetta, o relegati come eremiti in qualche antro o caverna. La cella non significa segregazione assoluta e continua, come qui si è voluto far credere: la cella è prima di tutto per la segregazione notturna, e non c’è scuola positiva o non positiva che possa sostenere che i condannati debbano stare a dormire in comune in tempo di notte (Interruzione dell’onorevole Ferri). La cella serve inoltre come espiazione del primo periodo della pena … Questo periodo di solitudine è necessario per far sentire al condannato la gravità del fallo commesso e per fargli apprezzare il beneficio della sorveglianza sociale … La cella adunque non è nel nostro sistema penitenziario una panacea, ma un periodo di transizione» (p. 2759 s.);

 

e infine accusa Ferri di astrattezza, per aver suggerito più volte una misura impossibile da attuare come l’impiego generalizzato dei condannati in lavori agricoli, e di incoerenza, per aver fatto ora «una bellissima dimostrazione contro la deportazione», mentre nel 1888 ne aveva caldeggiato l’introduzione (p. 2760).

 

 

2.      Di un concorso universitario e d’altro

 

Ferri non si limita però a svolgere la sua critica radicale al codice penale vigente, ma, pur senza nominarlo direttamente, sferra anche un violento attacco personale a Lucchini (e a Nocito); egli dichiara infatti di essere contrario al progetto in discussione, ma di condividerne tuttavia «i due concetti informatori […] la distinzione di delinquenti occasionali e di delinquenti abituali con la segregazione per questi a tempo indeterminato»,

 

«perché sono il riconoscimento implicito di quella realizzazione positiva dei portati della nuova scienza criminale che altri vuole, molte volte con procedimenti camorristici, bandire dalle cattedre delle nostre università, ma che ha per sé la realtà delle cose della vita e perciò s’impone a chiunque voglia provvedere efficacemente alla difesa sociale».

 

E, interrotto da Nocito («Ma che procedimenti camorristici? Dice a me?»), aggiunge:

 

«non dico a lei, dico a coloro che, avendo in mano le commissioni universitarie, hanno negata la eleggibilità e l’approvazione a bravissimi giovani criminalisti nostri, come Sighele, Florian, Majno, sol perché appartenevano alla scuola positiva, portandone innanzi altri che altro non fanno che ruminare i vostri trattati e i vostri codici. Comunque sia, io, per conto mio, fui bocciato cinque volte ai concorsi universitari e poi fui nominato per l’articolo 69 della legge Casati; sono rimasto indifferente così alle bocciatura come alla nomina tanto lusinghiera. Ho sempre spiegato il mio amore per la scienza pagando qualche volta davvero di persona e facendo studi minuti negli ospedali, nelle carceri e nelle sale anatomiche, mentre coloro che decidevano e decidono delle cattedre nostre, tenendone lontani dei giovani che sono gloria ed illustrazione della scienza italiana sol perché hanno idee eterodosse; questi signori, non fanno ora più niente per la scienza italiana e si vantano solo di aver compilato un Codice penale, che, secondo me, rappresenta una vera disgrazia legislativa per il nostro paese» (p. 2723).

 

Il riferimento, che Ferri renderà poi del tutto esplicito, è al concorso del 1897 (del quale sono stati commissari sia Lucchini sia Nocito) per la cattedra di diritto e procedura penale nell’università di Padova, a cui è stato nominato il primo degli eleggibili, Pasquale Tuozzi, prima professore straordinario a Siena, un concorso i cui esiti hanno già dato luogo ad un’accesa polemica[21]. Appena terminato il concorso, Ferri infatti ha pubblicato sulla «Scuola positiva» una nota in proposito, in cui criticava aspramente sia la commissione giudicatrice per la graduatoria stilata, ma soprattutto per il giudizio di ineleggibilità nei confronti di Sighele e Florian, sia il Consiglio superiore, per aver accolto tale esclusione[22]:

 

«malgrado il voto del Consiglio Superiore, che raccomandava la nomina di qualche antropologo e sociologo criminalista nelle Commissioni per concorsi di diritto penale, la cattedra di professore ordinario all’università di Padova fu recentemente aggiudicata da una Commissione composta dei professori Pessina, Nocito, Faranda, Impallomeni, Lucchini. E il risultato del giudizio è troppo eloquente, come altro documento della camorra accademica, che ci delizia, perché non dobbiamo qui riferirlo per intero … il Consiglio Superiore ha tuttavia confermato il giudizio di ineleggibilità che la sullodata camorra accademica ha emesso contro Sighele e Florian: al quale ultimo, poi, mentre aveva ottenuto per titoli la libera docenza presso l’Università di Padova, il Consiglio Superiore la negò, a motivo appunto di questa camorristica ineleggibilità. Ora, a parte l’incontestato valore del Berenini, altro colpito per le sue idee eterodosse, noi troviamo cretinesco il giudizio che per es. antepone certo Civoli all’Alimena e questo pospone perfino al Carnevale, che non sa far altro che componimenti liceali di revisione micrografica sui lavori altrui. E così il giudizio che ci gabella per criminalisti degli illustri sconosciuti come Ramella, Semmola (che non è l’autore del libro sulla pubblica censura), Leto, Negri e simili ruminanti della scienza altrui. Senza dire che il capofila Tuozzi simboleggia magnificamente la potenza scientifica, a cui si sono ridotti i ruderi della scuola classica nell’anno di grazia 1897. Ma è appunto perché non hanno più potenza intellettuale per combattere gli eterodossi, che codesti classici camorristi cercano di assicurare la greppia ortodossa a coloro che si limitano a ruminare le teorie ortodosse, mentre sperano di domare con la fame l’energia eretica dei positivisti, come cercarono di fare con me quindici o vent’anni fa, negandomi più volte l’eleggibilità o mettendomi VII ed VIII fra i concorrenti. E con me, anche, poiché ero il primo, potevano illudersi che questi mezzi camorristici fossero efficaci a soffocare l’eresia scientifica che era ai suoi albori. Ma, adesso! adesso la camorra si fodera di cretinismo. A parte il giudizio ingiusto contro lo Stoppato, che, per quanto intinto di pece metafisica, è certamente il più forte fra i classici ruminanti o i belanti eclettici della lista sopra esposta; ma ciò che dà il senso della nausea è l’esclusione del Sighele e ancora più del Florian. Perché del Sighele si può anche ammettere che i titoli tecnicamente giuridici e di procedura non siano pari ai lavori di psicologia e sociologia criminale; sebbene sia supremamente ridicolo il voler far credere al colto e all’inclita che per conoscere il Codice penale o di procedura o per diluire gli elementi del Paoli o ruminare il programma del Carrara, ci voglia un afflato speciale di genio giuridico, di cui la Commissione vide effondersi i raggi dalla testa dei Civoli ed altri simili Carnevale. Ma che si neghi la eleggibilità al Florian, che proprio nel campo giuridico ha dimostrato di essere il più forte di tutti quelli che presero parte al concorso, da Tuozzi in giù: il Florian che coi volumi sulle diffamazioni e sui reati contro l’onore e sui moventi a delinquere e ora colla recente magnifica opera sui vagabondi, ha provato di conoscere le dottrine classiche e positiviste, la legislazione comparata e la giurisprudenza, certo assai più che non le conoscano i 2/5 della Commissione giudicatrice; questo è veramente un atto, non dico di intolleranza, ma di camorra accademica, per il quale, come per i suoi autori, io non posso esprimere che la nausea più sincera. E forse, ripensandoci, più che la nausea suscitano compassione: perché si illudono con queste meschinità intellettuali e morali di impedire l’avanzarsi delle dottrine eterodosse, ciechi e sordi a tutto il movimento di loro espansione, non pure sulle cattedre, ma nelle legislazioni più recenti dei popoli più civili … Ma o compassione o nausea, certo è che questo episodio accademico va messo e ricordato fra i sintomi, purtroppo quotidiani, della putrefazione sociale e della tirannide amministrativa, che ci ammorbano, ma dalle quali noi ci sforzeremo di affrettare l’uscita, raddoppiando la lena del nostro lavoro».

 

Nella Cronaca della «Giustizia penale» è apparsa poi una precisazione sul dissenso di Impallomeni rispetto ad alcune delle decisioni assunte dalla commissione[23] e nella Cronaca della «Rivista penale» probabilmente lo stesso Lucchini ha infine risposto, dando la notizia del concorso padovano e delle nomine a straordinario di Alessandro Stoppato a Bologna, di Cesare Civoli a Siena, di Pietro Lanza a Cagliari, e giustificando le esclusioni concorsuali con l’inesistente preparazione giuridica dei candidati bocciati[24]:

 

«noi ci felicitiamo vivamente coi nostri valorosi amici e collaboratori per il ben meritato successo e ci felicitiamo con le Università italiane per l’acquisto di sì dotti giuristi e docenti. Naturalmente le nostre felicitazioni e compiacenze non saranno divise dai maestri e seguaci della “scuola”, che anzi son già venuti a gridare contro l’intolleranza scientifica della Commissione che à giudicato nel concorso di Padova, come avevano fatto per ogni concorso che non portò a galla qualcuno dei loro; i quali pretenderebbero, si capisce, che con la scusa della tolleranza si mettesse in cattedra di diritto penale, quelli, e per ciò solo, che ne insegnano … il rovescio, ossia che ne vorrebbero scalzare i cardini e caposaldi, far della propaganda politica e socialista e occuparsi di tutt’altro. Mentre le Commissioni giudicatrici, per quanto abbiano potuto errare, come suol avvenire, nella classificazione degli eleggibili, fra i quali, e talvolta in prima linea, collocò i più ribelli alle dottrine dominanti (come il Berenini), non crediamo che non potesse fare altrimenti che mettere fuori di combattimento quei candidati, che, pur valentissimi e anche rinomati in altre discipline, non avevano lavori e titoli scientifici e didattici nel diritto e nella procedura penale. E il Consiglio Superiore, da ultimo rincarò la dose, esludendone altri che, per iscrupolo di coscienza, la Commissione vi aveva incluso».

 

Tornando alla nostra discussione alla Camera, Lucchini evidentemente non può ignorare le accuse che gli vengono mosse da Ferri e chiede la parola per fatto personale: dopo aver precisato di non voler intervenire per difendere dalle critiche il codice penale, che del resto non ne ha bisogno[25], ma per rettificare alcune opinioni che gli sono state attribuite e per rispondere sulla questione dei concorsi universitari, in sostanza ammette implicitamente quanto gli viene addebitato su quest’ultimo punto, anzi in qualche modo se ne fa un vanto, perché ritiene che le teorie della “nuova scuola” non abbiano dignità scientifica in campo giuridico e che quindi chi le professa vada escluso dall’insegnamento universitario del diritto e della procedura penale; non solo, ma a sua volta ricorda a Ferri che nel 1894 è stato allontanato dall’insegnamento a Pisa per assenteismo[26]:

 

«io non rispondo che alla mia coscienza dei giudizi che proferisco o come magistrato o come giudice nei concorsi. Però gli [a Ferri] potrei dire francamente che a chi si proponesse di insegnare il Codice penale come egli ieri lo dilaniava con noi, io non sarei affatto disposto a dargli una cattedra di diritto penale (Si ride); come direi francamente al mio amico e collega Venturi, che, con tutta la stima che ho per lui, neppure a lui vorrei dare una cattedra in diritto penale, perché insegnasse le dottrine, che, ieri ci ha ammannite, deliziandoci con la sua brillante e originale orazione[27] (Si ride). Ma l’intolleranza scientifica, a cui alluse l’onorevole collega Ferri, è spesso una bandiera sotto la quale si vuol far passare una merce avariata; come sotto quella dell’intolleranza politica qualche professore cercò di far passare il ben servito ricevuto da intere Facoltà universitarie, per la ragione che non faceva scuola» (pp. 2767 s.).

 

E ancora Lucchini contesta l’analisi che Ferri fa dei dati statistici sulla delinquenza ritenendola strumentale[28] e la sua affermazione che il codice in vigore abbia prodotto un aumento della criminalità[29] e per finire lo accusa di aver sostenuto «che mezzo opportuno e provvido contro la recidiva sia la castrazione», citando brani di un suo recentissimo articolo (Les anormaux) apparso sulla «Revue des Revues» (p. 2769).

Ovviamente Ferri chiede a sua volta di parlare per fatto personale e con il suo intervento si chiude anche la discussione sul progetto di legge. Egli risponde anzitutto a Nocito, rivendicando come un merito la capacità di rivedere le proprie posizioni sulla base dei dati forniti dall’osservazione della realtà:

 

«la differenza fra l’onorevole Nocito e me è questa, che io da buon positivista cambio quando i fatti mi obbligano a riconoscere il mio errore, mentre i rappresentanti della scuola classica preferiscono contemplarsi l’ombelico scientifico e non veggono altro».

 

Quanto poi alle affermazioni di Lucchini, vero padre del Codice[30] e quindi diretto responsabile delle sue conseguenze, Ferri precisa che nel recente articolo da lui citato egli esponeva in realtà una proposta di legge di un deputato americano, facendo in proposito le sue riserve, e aggiunge:

 

«del resto si tranquillizzi l’onorevole Lucchini, se egli ha paura che io voglia proporre in Italia questa misura: non so se i miei studi mi ci porteranno; ad ogni modo gli prometto fin d’ora che non l’applicherò a lui, perché lo credo assolutamente innocuo (Viva ilarità)» (p. 2776);

 

sostiene poi che le dichiarazioni sui concorsi dimostrano quanto poco reale sia il preteso liberalismo del suo avversario:

 

«veda la Camera qual’è il liberalismo scientifico di questo sedicente liberale! Egli vuole anatemizzare e togliere la cattedra a coloro, che non la pensano come lui! E tutto questo in nome della libertà del pensiero, e per rispondere all’accusa, che io appunto a lui faceva, che, essendo membro di una Commissione universitaria, un anno fa ha negato l’eleggibilità in diritto penale a giovani studiosissimi, che sono gloria e speranza del pensiero scientifico italiano, come Florian, come Majno, come Sighele […] ai quali è stata negata l’eleggibilità solo perché appartengono alla scuola positiva moderna e non alla scuola classica dell’ombelico scientifico»;

 

infine circa il suo allontanamento dalla cattedra pisana, Ferri, suscitando questa volta la reazione di Codacci Pisanelli, suo collega all’epoca del fatto[31], afferma che l’assenteismo era stato soltanto un falso pretesto per mascherare delle ragioni politiche, come aveva riconosciuto lo stesso ministro Guido Baccelli l’anno seguente:

 

«[Lucchini] ha detto che vi sono professori ai quali fu tolta la cattedra perché non facevano lezione; se egli ha voluto alludere a me, che nel 1894 ho visto togliermi la cattedra dell’università di Pisa, conquistata coi miei lavori, rispondo che la mancanza delle lezioni è stato un pretesto dichiarato falso dai libretti delle mie lezioni … Io ho fatto 25 lezioni all’anno, di un’ora e mezza l’una; (Oh! Oh! – Rumori). E’ noto alla Camera che io a Pisa ero professore senza stipendio, per l’incompatibiulità parlamentare: nonostante che fossi senza stipendio, mi assumevo le spese di viaggio e di albergo … Voci. Di viaggio no! … per andare a far lezione. Altri deputati prendono lo stipendio e non fanno alcuna lezione. (Oh! Oh!) Voci. Fanno male! Debbo dire, a cagion d’onore per l’onorevole Baccelli, che, quando egli fu ministro della pubblica istruzione nel 1895, riconobbe che la cattedra m’era stata tolta per un’ingiustizia, e me la riofferse; ma egli può attestare alla Camera che io ho preferito di rinunziare allo stipendio della cattedra governativa per restar libero docente. Perché io la libertà, onorevole Lucchini, la applico agli altri e la voglio per me stesso; la libertà di pensiero poi la voglio sia nella mia vita privata, sia nella cattedra, sia per giudicare la sufficienza intellettuale dei miei avversari (Bravo! Bene! All’estrema sinistra – Commenti – Interruzioni)» (pp. 2776 s.)

 

 

3.      Conclusioni

 

Come si vede, in quest’occasione, come del resto in molte altre, fra Lucchini (e Nocito) e Ferri la polemica è aspra e lo scontro feroce, sino ai limiti delle offese personali, e nella disputa si delineano posizioni radicalmente contrapposte anche sulla valutazione del codice penale in vigore da una decina d’anni: per gli uni una soluzione eccellente che andrebbe però attuata in ogni sua parte, cosa che sinora non è stata fatta, per l’altro un lavoro astratto e dottrinario, inadeguato, sbagliato nei suoi presupposti, che, anziché offrire soluzioni al problema della criminalità, lo ha ulteriormente aggravato.

Ma per cercare di trarre qualche conclusione, devo anch’io «ruminare», come avrebbe detto Ferri, quanto in questi ultimi anni è andato scrivendo Mario Sbriccoli su questi temi, perché il riferimento è d’obbligo, visto che è quello che se n’è occupato in maniera più approfondita (ed acuta), e perché sono assolutamente d’accordo con quanto sostiene.

La seconda metà dell’Ottocento è stato certo un periodo particolarmente felice e fecondo per la penalistica italiana: la necessità di dare al nuovo Regno un codice penale unitario (peraltro non da tutti condivisa) ha prodotto infatti un notevole sviluppo degli studi nel settore, contribuendo non poco a far progredire e a sprovincializzare l’elaborazione dottrinale[32]; nonostante ciò e nonostante emergesse sempre più nettamente la centralità del problema penale, era occorso un trentennio per giungere all’unificazione legislativa, in conseguenza delle vicende belliche e parlamentari, ma anche della gravità dei problemi scientifici e politici da risolvere, primo fra tutti, almeno nella fase iniziale, quello della pena di morte[33]. Finalmente nel 1889 Zanardelli (soprattutto grazie a Lucchini ed altri per quel che riguarda la preparazione scientifica) è riuscito nell’intento e il suo codice rappresenta in larga misura il risultato più consistente delle elaborazioni teoriche di quella che verrà poi detta la “scuola classica”, o meglio di quella che appunto Mario Sbriccoli ha definito la “penalistica civile” di orientamento liberale[34].

Ma l’ispirazione e l’impostazione del codice Zanardelli, «un codice liberale per un’Italia che lo era ben poco»[35], hanno cominciato subito ad essere oggetto di critiche non solo da parte di reazionari e conservatori, che, more solito, temevano che l’abbassamento delle pene inducesse un incremento esponenziale della criminalità, ma anche dal punto di vista dottrinale; secondo alcuni l’unificazione legislativa era tutt’altro che indispensabile e il trentennio trascorso dall’unificazione politica dell’Italia era un tempo troppo breve, si sarebbe dovuto attendere ancora per consentire una preparazione scientificamente più adeguata e in linea con i tempi: Troppo presto è intitolato significativamente il saggio che Lombroso dedicava al progetto del nuovo codice, troppo presto (oltre che per una serie di altri motivi) perché le teorie della “nuova scuola” non si erano ancora potute affermare in modo tale da informare di sé la prima legge penale del Regno[36]; ma va tuttavia segnalato che Ferri si era in qualche misura differenziato da queste posizioni[37] e aveva offerto il suo assenso all’approvazione del progetto Zanardelli, sia pure ponendo delle condizioni, in quanto convinto della necessità politica di giungere all’unificazione[38].

A partire dagli anni Settanta infatti, soprattutto con Cesare Lombroso, Enrico Ferri e Raffaele Garofalo, si è venuta sviluppando in Italia, dapprima timidamente e poi con crescente successo, una nuova tendenza, che, applicando il positivismo al diritto penale, operava un rovesciamento di prospettiva e proponeva linee di politica penale profondamente diverse[39]; il mutamento rispetto alla tradizione dottrinale dominante era radicale e portò inevitabilmente ad una netta contrapposizione con essa.

E però in realtà la cosiddetta “scuola classica”, contro cui si sviluppa la critica dei positivisti, non era affatto una scuola, ma è stato invece il tipo di scontro, spesso aspro, imposto dalla scuola positiva, a ridurre ad un’unità apparente posizioni anche molto diverse fra di loro, accomunate solo dalla condivisione di alcuni principi fondamentali e dall’essere proprie di giuristi non appartenenti al “nuovo” indirizzo; e del resto anche fra i seguaci della scuola positiva (a cominciare dai tre padri fondatori) le differenze non mancavano e non tardarono anzi ad accentuarsi. La visione manichea e la virulenza polemica hanno finito poi coll’imporre anche a livello di ricostruzione storiografica lo schema semplificante e semplicistico della contrapposizione fra due scuole, rappresentate come due plotoni compatti e l’un contro l’altro irriducibilmente armati[40], che è fuorviante perché annulla le diversità all’interno dei due schieramenti, che invece esistono e sono talora consistenti, e fa scomparire «le omologie di fondo che la penalistica italiana continua ad avere, malgrado le divisioni e gli scontri di superficie»[41].

E la vicenda qui ricostruita credo che possa costituire un ulteriore e significativo esempio di quello scontro «durissimo, clamoroso e non sempre di buona lega»[42], che è stato appunto all’origine di questa schematizzazione poi tradizionalmente accettata, sino a divenire una sorta di vulgata della storia della storia della penalistica italiana fra Otto e Novecento.

 



[1] Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. Documenti (d’ora in poi APCD), legisl. XX, 2a sess. 1888-89, n. 145, Disegno di legge presentato dal ministro di Grazia e giustizia e dei Culti (Finocchiaro Aprile) di concerto col presidente del Consiglio, ministro dell’Interno (Pelloux). Sui delinquenti recidivi. Seduta del 4 febbraio 1899, p. 5.

[2] Cfr. U. Levra, Il colpo di stato della borghesia. La crisi politica di fine secolo in Italia. 1896-1900, Milano, 1975; Id., Il Parlamento nella crisi di fine secolo, in Storia d’Italia. Annali, 17, L. Violante e F. Piazza, a cura di, Il Parlamento, Torino, 2001, pp. 163 ss.

[3] Atti Parlamentari. Camera dei Deputati. Discussioni (d’ora in poi APC), legisl. XX, sess. 1a, pp. 6858 s., 12 luglio 1898; il suggerimento di Giolitti, appoggiato anche da Ferri, viene avanzato nel corso della discussione preliminare sui «provvedimenti urgenti e temporanei in difesa dell’ordine pubblico» già proposti da Di Rudinì e ripresi da Pelloux.

[4] Come dice espressamente Finocciaro Aprile nelle relazione al disegno di legge «… [il nostro legislatore] ha dovuto pure anche esso successivamente persuadersi che qualche provvedimento speciale doveva adottarsi per costoro, che costituiscono il basso fondo delle notre popolazioni urbane ed agricole e che in ogni caso di tumulto o di rivolta si trovano sempre nelle prime file. Infatti in occasione dei tumulti del 1894 il Governo sentì la necessità di estendere gli effetti del domicilio coatto oltre i casi previsti dalla legge di pubblica sicurezza: successivamente presentava al Senato apposito progetto di legge, che veniva dall’alto consesso approvato in seduta del 12 aprile 1897, e dopo i tumulti del maggio 1898 faceva rivivere le disposizioni occasionali sul domicilio coatto del 1894. Se queste disposizioni avevano in parte per iscopo di premunire la società contro le trame della setta anarchica, miravano altresì, a dar modo al Governo di assicurarsi contro il pericolo di quei delinquenti abituali, che avevano fatto e fanno del delitto una professione. Tali provvedimenti però non potevano essere che transitori, e come tali non potevano provvedere convenientemente al pericolo sociale che deriva dalla permanenza in seno alla società, e specialmente a contatto colla parte più povera e bisognosa delle popolazioni, di quegli esseri corrotti ed ammaestrati al delitto0 bisognava provvederre a qualche cosa di più stabile e razionale nei nostri ordinamenti penali, accogliere, in quella parte che è suffragata dall’esperienza e dall’esempio delle altre nazioni, gli insegnamenti degli studiosi della scienza penale ed assicurare anche il paese nostro, (che non va purtroppo annoverato fra i migliori in fatto di criminalità) contro quel pericolo …» » (APCD, legisl. XX, 2a sess. 1888-89, n. 145, cit., pp. 1 s.).

[5] Nella sua relazione smpre Finocchiaro Aprile afferma in proposito: «… Per quanto riguarda la pena da applicarsi ai recidivi non si poteva ricorrere, come fece la Francia, alla deportazione, sia perché l’Italia manca di territori suoi adatti allo scopo, sia perché la deportazione non ha dato neppure in Francia ed in Inghilterra quei risultati che se ne ripromettevano. Si è creduto miglior partito di ricorrere alla relegazione, di cui si ha ricordo nelle nostre passate leggi, e che può subire tutte quelle modificazioni e quei miglioramenti che lo studio dei sistemi penitenziari può suggerire e le condizioni della finanza possono consentire. Le disposizioni che regolano la relegazione sono riservate secondo il progetto ad un regolamento speciale,ma è opportuno di dichiarare tosto che la relegazione secondo le idee del Governo, comprende la facoltà in lui di concentrare i recidivi in date località all’uopo destinate, come sono le isole, di internarli nella colonia Eritrea, e di assegnarli a colonie agricole e industriali. Si provvederà con regolamento a stabilire una classificazione di simili luoghi, tenuto conto dei maggiori o minori vantaggi che presentano, sia in rapporto ai lavori da compiervi, sia in riguardo alle condizioni di clima, sicurezza, ecc. … Come pure si fisseranno mediante regolamento le norme di disciplina e su ciò, con opportuni emendamenti, potrebbe accogliersi il regime del domicilio coatto … » (APCD, legisl. XX, 2a sess. 1888-89, n. 145, cit., pp. 3 s.).

[6] Su tutta la vicenda (e più in generale sul problema della recidiva) v. P. Marchetti, Teoria e repressione della recidiva nel XIX secolo in Italia, in «Università di Macerata. Annali della facoltà di Giurisprudenza», n. s., 1995-99 (Diritto in trasformazione. Giuristi giudici legislatori), pp. 110 ss.

[7] Come dice lo stesso Ferri, «la differenza fra l’onorevole Lucchini e me, nel giudizio che diamo del presente disegno di legge, è questa: l’onorevole Lucchini dice il disegno di legge essere la cattiva applicazione di un cattivo concetto, io invece lo reputo la cattiva applicazione di un buon concetto. Questa la differenza delle nostre opinioni; nella conclusione pratica siamo però d’accordo, perché dichiaro subito che darò il mio voto contrario al passaggio alla seconda lettura. Perché se un’altra legge verrà fuori che applichi meno male il concetto della difesa contro i delinquenti abituali, quella legge io voterò e cercherò di emendarla. Questa legge però, secondo noi, è assolutamente non emendabile, per tutti gli errori e le possibili insidie che contiene; sicché noi soli dovremmo votare contro questa legge, pur approvando il concetto ispiratore. Questo disegno di legge infatti mi ha fatto ricordare ancora una volta il precetto: che di buone intenzioni è selciata la via dell’inferno; per quanto buono sia stato il concetto direttivo in chi ha proposto questa legge, infelice ne è stata l’applicazione, infelicissimo il momento della presentazione»: APC, legisl. XX, 2a sess., 7 marzo 1899, p. 2728 (d’ora in poi le citazioni con indicato solo il numero della pagina si riferiscono al resoconto di questa discussione, svoltasi nei giorni 7, 8 e 9 marzo 1899 e chiusa il 10 con l’approvazione del passaggio del progetto alla seconda lettura, con 196 voti favorevoli e 38 contrari).

[8] «Il Codice penale si trova oramai in attuazione da ben tre anni, e la riforma penitenziaria, quella che doveva render pratica questa attuazione per ciò che riguarda il sistema delle pene carcerarie, fu sanzionata da maggior tempo ancora, da ben tre anni e mezzo. Ma che cosa mai si è compiuto in questo frattempo?»: APC, legisl. XVIII, sess. 1a, 12 dicembre 1892, pp. 405 ss.; «i magistrati continuano a infliggere la reclusione, la detenzione, l’arresto; i condannati a pene pecuniarie e insolventi crescono ogni giorno di più; crescono purtroppo ogni giorno i recidivi, questa punta più acuta della delinquenza; e non accennano a diminuire i minorenni delinquenti. E non vi è modo di far scontare né la reclusione nelle sue varie modalità, né la detenzione, né l’arresto giusta le disposizioni del Codice; non vi sono celle, non vi sono cubicoli che bastino per la segregazione continua o notturna dei condannati; non funzionano le Commissioni di sorveglianza, istituite con la legge 1° dicembre 1890; non funziona la libertà condizionale, non funziona il patronato per i liberati dal carcere, indispensabili complementi del sistema penitenziario; è come non fosse scritta la prestazione d’opera, surrogato dell’arresto e delle pene pecuniarie; per i recidivi non c’è modo di applicare i provvidi rigori stabiliti verso di essi. Infine noi sappiamo in quali condizioni versino i riformatori … A tutto ciò formano come substrato, sono comuni denominatori, da una parte, l’ozio, cui è abbandonato il maggior numero dei condannati, e, dall’altra parte, la promiscuità degli adulti coi minorenni, dei condannati alla detenzione coi condannati alla reclusione, degli imputati coi condannati. Né può dirsi che la difficoltà precipua di applicare il nuovo sistema penale dipenda dalla sua complessità … La vera pena normale, comminata alla universalità dei delitti e dei delinquenti, la pena tipo è la reclusione. E quindi il sistema carcerario del Codice si risolve in conclusione in una sola pena … certa difficoltà s’incontra, è vero, nel provvedere alle varie modalità che accompagnano questa pena della reclusione … Ed è, appunto, in queste modalità che più difficilmente riesce di attuare questo sistema, cosidetto progressivo, o graduale, o irlandese, d’altronde così logico e razionale, del nuovo Codice penale. Però sono il primo a riconoscere quanto malagevole dovesse essere questa attuazione, massime in presenza dello stato miserando dei nostri stabilimenti penali; come sono il primo a riconoscere che […] è il risultamento di cause complesse, è il risultamento di una inerzia e di un marasma generale che affliggono le nostre amministrazioni, è una responsabilità che ricade su diversi Ministeri che si sono succeduti al potere e hanno lasciato andar l’acqua per la china, senza curarsi più che tanto del disordine conseguente»: APC, legisl. XVIII, sess. 1a, 5 giugno 1893, pp. 4290 s.

[9] V. ad es. gli interventi in sede di discussione del bilancio dell’Interno di Barzilai («il Codice penale è la ricetta; ma se noi non abbiamo il farmaco, la possibilità della dosatura del farmaco, è ricetta che resta completamente lettera morta») e del sottosegretario Rosano («questi problemi si riducono a questo, che è il problema principale: quando e come si intende togliere la grande distinzione, che oggi esiste, fra la legge scritta e la legge applicata; vale a dire, quando s’intende por mano alla riforma del sistema penitenziario»): APC, legisl. XVIII, sess. 1a, 12 dicembre 1892, pp. 405 ss. e 411 ss. Anche il senatore Boccardo utilizza l’argomento, ma per sostenere una posizione molto più critica nei confronti delle previsioni normative del codice Zanardelli, che ritiene utopistiche e scarsamente aderenti alla realtà: «Una delle buone abitudini nostre, almeno per mia opinione, è quella di creare e di campare spesso nell’aria progetti di riforma, che non abbiano il loro substrato nella natura e nella condizione reale delle cose. E per questo malvezzo è avvenuto che in Italia siasi compita una grande riforma nella nostra legislazione penale; riforma che, in grado eminente, appartiene appunto a quelle categorie di riforme che io mi permettevo di segnalare poc’anzi. Si ideava un nuovo sistema carcerario, dall’imo al fastigio rinnovellato, il quale supponeva la preesistenza della carcere nuova, che viceversa l’Italia non aveva, puisque pour faire un civet de lièvre, il faut avant tout avoir le lièvre»: APS, legisl. XVIII, sess. 1a, 28 giugno 1894, pp. 3176 s. Ancora nel 1900 il ministro della Giustizia Emanuele Gianturco, presentando alla Camera il suo progetto di legge sull’impiego dei condannati in lavori dissodamento e di bonifica dei terreni incolti e malsani, inizia la sua relazione affermando che «il Codice penale italiano, entrato in vigore fino dal 1° gennaio 1890, non ha potuto avere ancora la sua completa attuazione nella parte che si riferisce al modo onde le diverse pene restrittive della libertà personale devono essere scontate. E ciò per due gravi ragioni: la mancanza presso che totale di stabilimenti carcerarii adatti, e la difficoltà quasi insuperabile di provvedere i condannati del lavoro a cui dovrebbero essere obbligati … s’impone pertanto la necessità di trovare un rimedio ad una così anormale condizione di cose, la quale non importa solamente una diseguaglianza di trattamento fra i detenuti, che non deve perdurare, ma contraddice al principio fondamentale del sistema penitenziario accolto nel nostro Codice penale, che cioè il lavoro debb’essere l’elemento precipuo della espiazione di ogni pena restrittiva della libertà personale, la cui efficacia consiste meno nella durata che nel modo di espiarla» APCD, legisl. XXI, sess. 1a, n. 87, pp.1 s.

[10] P. Nocito, Una escursione alla colonia penale delle Tre Fontane, in «Nuova antologia», LXV (s. II, XXV), 1882, p. 272, così descrive l’arrivo dei visitatori: «Giunti che fummo al monastero si aprì un cancello di ferro, ed eccoci innanzi monsignor Franchino, con in mano un rozzo cappello di paglia a larghe tese, il quale ci accolse con una cortesia di modi che pareva una pianta esotica in quei luoghi tristi ed abbandonati. Erano già messi in fila nell’atrio del convento un manipolo di venti o trenta condannati con le giubbe rosse ed il berretto in mano. Lombroso, in cerca di tipi criminali, prese ad interrogare parecchi di quegli infelici toccando loro la testa e le braccia come un medico farebbe coi suoi ammalati».

[11] Cfr. in proposito M. Calzolari, M. Da Passano, Il lavoro dei condannati all’aperto: l’esperimento della colonia delle Tre Fontane (1880-1895), in Le colonie penali nell’Europa dell’Ottocento, in corso di stampa.

[12] Lucchini risponderà in proposito attribuendo modestamente tutto il merito di aver fatto il codice a Zanardelli: «se in questo ci fosse fatto personale, certamente non riguarderebbe me, ma l’uomo insigne che ha presieduto ai lavori del Codice e di cui questo porta il nome, e il Parlamento medesimo che lo ha discusso ed approvato » (p. 2767). Lucchini aveva cominciato a lavorare con Zanardelli già in occasione della preparazione del progetto del 1883, occupandosi inizialmente del III libro dedicato alle contravvenzioni, con Casorati e Canonico, poi anche della revisione del I libro, con Casorati, quando Zanardelli, che inizialmente pensava di mantenere inalterato il testo del progetto Mancini, aveva cambiato parere, e infine, sempre con Casorati, a quella della relazione al progetto abbozzata da Paoli; aveva quindi fatto parte della commissione della Camera incaricata dell’esame del progetto Savelli, poi emendato da Pessina; dopo il ritorno al ministero di Zanardelli, questi lo aveva incaricato di preparare un nuovo schema, compito che aveva portato a termine, in soli due mesi, nell’agosto del 1887; ne aveva poi discusso con Mancini e con Nocito ed altri, scrivendo quindi la relazione, annotata da Pincherle e Perla e rivista dallo stesso Zanardelli; membro della commissione della Camera incaricata dell’esame del progetto, aveva collaborato con Villa nella stesura della relazione, in particolare sull’imputabilità; aveva fatto parte, come relatore, della commissione per la revisione e il coordinamento del testo e della sottocommissione incaricata di raccogliere i materiali e le proposte; aveva infine lavorato con altri all’ultimo riesame e, con Eula, alla redazione definitiva: cfr. G. Crivellari, Il codice penale per il Regno d’Italia, I, Torino, 1890, p. CCXIV; V. Manzini, Codice penale, in Il Digesto italiano, VII-2, Torino, 1897-1902, pp. 506 ss.

[13] «Nocito. Ma parliamo della legge! Ferri. Eh! capisco che vi scotti quello che io dico del Codice penale, ma non potete impedirmi di accennare a quelle condizioni, che sono state la ragione determinante della presentazione di questa legge. Perché, se aveste fatto il Codice penale più rispondente alle necessità della vita italiana, non ci sarebbe stato forse bisogno di puntellarlo con questa legge. Nocito. E’ stato preso a modello da tutti i paesi d’Europa. Ferri. Io studio sempre le legislazioni penali e non ho trovato alcun paese che abbia preso a modello il nostro Codice penale. Presidente. Non interrompano! Nocito. L’hanno tradotto in Russia, in Francia ed in altri paesi. Ferri. Ma tradurre, non vuol dire prendere a modello! E del resto capisco il suo sentimento di parziale paternità del Codice penale, onorevole Nocito, ma sono dolente di dovere offendere quella particella di paternità (Ilarità). Nocito. Ed io capisco la sua avversità. Presidente. Non interrompa!» (p. 2718). Effettivamente anche Nocito aveva svolto un ruolo non secondario nell’elaborazione del codice Zanardelli: infatti aveva fatto parte della commissione della Camera incaricata di riferire sui progetti Savelli e Pessina; aveva partecipato alla discussione sullo schema di Lucchini del 1887; come membro della commissione della Camera si era occupato dei titoli VI e VII del libro II; infine era stato membro della commissione di revisione e di coordinamento: Crivellari, Il codice cit., pp. CLIX e CCXIV; Manzini, Codice cit., pp. 508 ss.

[14] Nella sua replica finale Ferri aveva persino affermato, fra l’altro, che i positivisti definivano classiche le teorie tradizionali «a cagion d’onore e non per dileggio»: APC, legisl. XVI, sess. 2a, p. 3390 ss., 8 giugno 1888.

[15] Una parte dell’intervento di Ferri del 1888 era stata proprio dedicata a criticare in particolare (e dettagliatamente) le norme del progetto Zanardelli sulla «piaga cancrenosa»  della recidiva, valutate come «una delle [parti] meno felicemente ideate»: APC, legisl. XVI, sess. 2a, p. 2991 ss., 28 maggio 1888.

[16] Già nella discussione sul progetto Zanardelli, Ferri aveva sostenuto  che «un Codice penale non è un trattato di diritto criminale, ridotto ad articoli, ma non deve e non può essere, come può essere un volume scientifico, il trionfo e la consacrazione di una scuola piuttosto che di un’altra … all’infuori di ogni teoria, di ogni preconcetto teorico, il Codice penale nella Camera, deve essere guardato da questo solo, positivo punto di vista: la organizzazione legale della difesa degli individui onesti contro i delinquenti» e ancora che «questo Codice, se voi ne levate la intestazione, può valere a vostro piacimento per la Francia o per la Svezia, come per la Grecia o per l’Italia; nulla vi è in esso che si adatti specialmente alle condizioni della criminalità italiana» (APC, legisl. XVI, sess. 2a, pp. 2979 e 2989, 26 e 28 maggio 1888).

[17] Da tempo Ferri si oppone alla reclusione cellulare (secondo lui opportuna e necessaria soltanto per le carceri giudiziarie) e sostiene invece l’opportunità del più ampio impiego possibile dei condannati in lavori agricoli: E. Brusa, Il terzo congresso internazionale penitenziario e quello antropologico criminale, in «Rivista Penale», XXIII, 1886, pp. 233 ss.; E. Ferri, Lavoro e celle dei condannati, Roma, 1886; APC, legisl. XVI, sess. 2a, p. 2992, 28 maggio 1888; E. Ferri, Sociologia criminale, Torino, 1892, pp. 734 ss. Anche Nocito lo sottolinea ironcamente nel suo intervento: «E’ un’idea bellissima in astratto, della quale io mi felicito, e che egli ha sviluppata tante volte: prima la espose in una conferenza sul “Lavoro e cella”; e poi ne faceva una seconda edizione nel 1888 col discorso pronunziato alla Camera a proposito del Codice penale. Ferri. Precisamente, sono un recidivo! Nocito. Ed anche oggi, poiché la Camera d’oggi non è più quella del 1888, è tornato a fare una terza edizione del suo opuscolo, ed una seconda edizione del suo discorso sul Codice penale del 1888» (p. 2760). In occasione della discussione sul progetto Zanardelli, Ferri aveva sostenuto anche l’opportunità di far precedere quel testo normativo dal codice di rito («il Codice penale è il Codice per i birbanti: il Codice di procedura penale è il Codice di garanzia per gli onesti che sono sottoposti a processo, e che non sono ancora riconosciuti birbanti. Quindi io credo che per un paese libero ha molto maggiore importanza politica il complesso delle garanzie stabilite nel Codice di procedura penale») e dall’ordinamento carcerario («c’è questa grande differenza, che per fare un Codice penale, bastano l’ingegno del Guardasigilli e dei suoi cooperatori, l’inchiostro e la carta per scrivere gli articoli del Codice stesso, ma per fare un ordinamento carcerario che risponda a questi ultimi progressi che voi stabilite nelle formule dei vostri articoli, occorrono dei milioni soprattutto»), ed era stato buon (e facile) profeta nel prevedere che «la questione finanziazia […] ritarderà di molto quelle riforme penitenziarie sopra le quali, del resto, si dice che il progetto del Codice penale fonda una delle sue maggiori ragioni per portare un rimedio allo stato anormale della criminalità nel nostro paese»: APC, legisl. XVI, sess. 2a, pp. 2980 s., 26 maggio 1888.

[18] Anche qui ritornano temi già esposti da Ferri nel 1888: «Un altro criterio fondamentale cui s’inspira […] tutto il sistema penale proposto nel progetto è questo: “la pena temporanea ottenga efficacia, più per la intensità che per la lunga durata”. Quindi in tutto il progetto pene brevi ma intense. Ora, io non accetto, anzi apertamente combatto, questo criterio fondamentale, perché ritengo che l’intensità, o non è mantenuta, o diventa una inutile sevizia contro il condannato. Quello che preme di più agli onesti, al consorzio civile, è la lunga durata della segregazione di quest’uomo, che si è mostrato pericoloso alla società; importa alla società che per lungo tempo esso non possa ripetere i suoi attacchi criminosi» (APC, legisl. XVI, sess. 2a, p. 2991, 26 maggio 1888).

[19] «Ora tutto questo è un meccanismo accademico di difesa contro la criminalità, e che mi ricorda uno di quegli avvisi réclame per le biciclette, in cui l’arte moderna si è così genialmente sfogata. La nostra polizia e la nostra autorità giudiziaria vanno con la vettura di Negri, mentre i delinquenti si perfezionano con la civiltà ed usano l’elettricità e i treni a vapore. Come nell’avviso delle biciclette, c’è il gendarme con i suoi stivaloni, che vuole raggiungere il biciclista che ha commesso una contravvenzione, ma il biciclista lo saluta, perché ha a sua disposizione mezzi di velocità, tali che il rappresentante della difesa sociale non lo può raggiungere. Così abbiamo la polizia ed i tribunali nostri, i quali, con la pena del carcere, credono di diminuire la piaga dolorosissima della criminalità italiana» (p. 2721).

[20] Anche questa critica era già stata avanzata da Ferri nella discussione sul progetto Zanardelli: «Si deve essere rigoristi con i delinquenti che le scienze psichiatriche e biologiche moderne irrefutabilmente stabiliscono (perché il buon senso e l’osservazione quotidiana lo ha stabilito prima della scienza, che è venuta dopo) che sono esseri anormali fin dalla nascita, aventi quelle tendenze più o meno spiccate, che quando sono esagerate danno dei veri mostri, le belve dalla faccia umana, e quando sono meno esagerate producono i delinquenti abituali che ricadono nel delitto […] qualunque sia la delicatezza del sistema penitenziario che voi immaginiate. Si deve invece essere non rigoristi per quei delinquenti, che io chiamo non pericolosi, d’occasione, i quali appunto sono coloro che danno il massimo numero delle emende, quelli cioè che caduti una volta per forza della tentazione, dell’ambiente, se ne rilevano di poi. Ora se il legislatore non fa questa distinzione assoluta […], allora va incontro ad un’ingiustizia, ad un pericolo sociale; perché esso, non potendo dividere, e dimostrerò che il Codice non divide, secondo la realtà delle cose le due categorie di delinquenti, deve fare una media fra il delinquente non pericoloso e quello pericoloso, media che riesce per quest’ultimo un beneficio gratuito ed immorale, e per il delinquente non pericoloso riesce un aggravamento di pena … moltissima parte delle disposizioni di questo Codice sono ispirate piuttosto alle teorie astratte che ai bisogni pratici, e perciò in molti casi sono troppo rigorose pei delinquenti meno pericolosi, e sono invece nella generalità dei casi troppo miti, troppo dolci, troppo sentimentali per la caterva dei delinquenti pericolosi o volgari» (APC, legisl. XVI, sess. 2a, p. 2983 e 2989, 26 e 28 maggio 1888).

[21] La graduatoria stilata dalla commissione era stata la seguente: 1° Tuozzi, 42/50; 2° Stoppato, 42; 3° Benevolo, 41; 4° Civoli, 39; 5° Lanza, 38; 6° Carnevale, 38; 7° G. Orano, 37; 8° Alimena, 37; 9° Berenini, 37; 10° Castori, 37; 11° Semmola, 36; 12° Conti, 35; 13° Ramella, 35; 14° Magri, 35; 15° Leto, 34; 16° Scherma, Vaccaro e Negri, 34; il Consiglio superiore aveva poi annullato il giudizio di eleggibilità per Ramella, Scherma, Vaccaro e Negri, secondo Ferri tutti «illustri incogniti», salvo Vaccaro «conosciuto come sociologo», mentre Benevolo («che come procedurista era un monocolo nel regno dei ciechi») nel frattempo era morto: E. Ferri, La camorra accademica nel concorso di diritto penale a Padova, in «La scuola positiva nella giurisprudenza penale», VII, 1897, p. 744.

[22] Ferri, La camorra cit., pp. 744 ss.

[23] Rettifica, in «La giustizia penale», IV, 1898, col. 288: «Teniamo a dichiarare […] che il professor Impallomeni, membro della commissione, presentò al Ministro della P. I., le sue particolari osservazioni, aggiunte a quelle della relazione del professor Faranda, nelle quali egli combatteva le conclusioni della maggioranza per la ineleggibilità del Florian e del Sighele, e dimostrava ingiustificata la precedenza data al Civoli sugli altri concorrenti, Carnevale, Lanza, Magri ed altri. Il professor Impallomeni ebbe a rivendicare la scientificità del metodo positivo dei lavori del Florian e del Sighele, e a mettere specialmente in rilievo la competenza dimostrata dal Florian in linea di diritto positivo: e ciò con gli stessi criteri con i quali precedentemente egli aveva protestato avverso la maggioranza della commissione nel concorso per la cattedra di Parma. E importa tanto più che non si equivochi, di buona o di mala fede, sul giudizio e sui criteri del professor Impallomeni, in quanto che egli ebbe recentemente occasione di dar parere favorevole alla nomina del Sighele a professore straordinario di diritto penale nella università di uno Stato straniero». In seguito a questa nota, Ferri si scusa poi con Impallomeni («io non sapevo – ed ora mi rallegro di sapere – che il prof. Impallomeni non fu tra i camorristi di quella Commissione») e sollecita la «Rivista Penale» a rispondere alle sue accuse; E. Ferri, Unicuique suum, in «La scuola positiva nella giurisprudenza penale», VIII, 1898, p. 192.

[24] Nuovi professori, in «Rivista penale», XLVII-IV, 1898, pp. 429 ss.

[25] «Sono assuefatto a sentirne dir male da lui sin da quando esso era in progetto, e l’onorevole Ferri rimase convinto che in esso non avrebbero avuto influenza le sue dottrine … non ostante i tristi presagi dell’onorevole Ferri e dei suoi correligionari scientifici, il Codice ebbe, appena attuato, l’applicazione più serena, salda e sicura, per l’opera intelligente della curia e della magistratura; e, dopo dieci anni dalla sua applicazione, nessuna critica seria e positiva io conosco su di esso, e nessuna riforma è venuta innanzi al Parlamento, in dieci anni, diversamente da ciò che toccò ad altri Codici» (p. 2767).

[26] Anche in questo caso l’attacco è gia stato anticipato nella nota sul concorso a cattedra padovano pubblicata sulla «Rivista Penale» (Nuovi Professori cit., p. 431): «il curioso si è che, essendo poi riescito taluno di questi signori a salire in cattedra, come il Ferri (ordinario) a Pisa e il Majno (incaricato) a Pavia, in mezzo al largo suffragio che si procacciavano il loro ingegno e la fosforescenza delle dottrine, finirono poi col buscarsi il benservito da quella stessa Facoltà – senza ingerenza di Commissioni tecniche – che loro avevano aperte volonterosamente le porte».

[27] Silvio Venturi, direttore di manicomio e professore di psichiatria, positivista, era intervenuto il giorno prima (pp. 2731 ss.), sostenendo il progetto di legge ed anzi auspicandone un ampliamento: «inizia un sistema di legislazione, che ha per principio la prevenzione del delitto, e che la scienza non può non approvare. Io dico soltanto che questa legge sarebbe stato necessario ampliarla, per quanto per la scienza ancora la diagnosi della delinquenza sia immatura, e credo che vi sarebbe stato modo di allargarne il concetto, ritenendo meritevoli di una speciale custodia, non soltanto coloro che delinquenti sono stati bollati da una condanna, ma pure altri individui che assolutamente sono presunti delinquenti con enorme approssimazione di giudizio. Vi sono fra questi gli alcoolisti, i vagabondi, gl’immorali, e certi inabili e refrattari alla società ed al lavoro sociale, dopo condanne avute e dopo altre prove d’incongruenza ». Lo stesso Venturi aveva affermato, fra l’altro, che «il sistema attuale carcerario, punitivo, crea per sé stesso i delinquenti, e crea specialmente i recidivi, […] perché non è assolutamente possibile, oggidì che vediamo le cose da un punto di vista positivo, che sia scritto sul banco delle Corti d’Assise che la legge sia eguale per tutti. Ciò fu originato da un concetto ideologico, che supponeva un principio trionfante di uguaglianza morale, che poi non è stato raggiunto»; nello stesso discorso, suscitando l’ilarità dell’uditorio, si era anche confermato favorevole al ripristino della pena di morte «scientificamente», come «antropologo criminalista», ma contrario come «uomo politico», e, per porre fine «alla disgraziata fase ideologica del nostro progresso», aveva proposto una revisione del codice penale ogni dieci o venti anni anni, come «unico sistema per non creare una civiltà a sbalzi, e per entrare nel vero modo scientifico e positivo di fare le leggi, cioè nel sistema sperimentale», perché «colla rapidità, che abbiamo ora di procedere, con l’enorme differenziazione di uomini e di funzioni e di modi, non è assolutamente possibile che venga un Codice il quale provveda a tutte le esigenze del momento».

[28] «La differenza fra me e l’onorevole Ferri sta in questo (Interruzione del deputato Ferri) che io non ammetto altra statistica della delinquenza se non per categorie e specie di reati, mentre egli, per comodità di tesi, la vuol considerare tutta in complesso, e così comprese le contravvenzioni e trasgressioni a leggi speciali, che sono il contingente maggiore di quella delinquenza che ogni giorno va crescendo» (p. 2768).

[29] «A provare poi come l’accusa dell’onorevole Ferri, che il Codice penale abbia influito sull’aumento della delinquenza, [sia infondata] sta il fatto che due fra le specie di delitti che sono in maggior incremento, le diffamazioni e ingiurie e i furti, non hanno trovato nel nuovo Codice che più severe sanzioni. Presidente. Questa mi pare una polemica di scuole e non un fatto personale!» (p. 2768).

[30] «pur sapendo che in Italia una legge vieta la la ricerca della paternità, ha voluto parlare per fatto personale quando io disssi del Codice penale quello, che del resto tutti sanno, e che non c’è bisogno di venire a negare qui; perché magistrati, avvocati, uomini politici, sanno perfettamente quali sono le condizioni disgraziate della criminalità italiana e gli effetti della nostra legislazione penale» (p. 2776).

[31] «Avendo avuto l’onore di far parte della Facoltà giuridica dell’Università di Pisa, allorché fu deliberato sul fatto dell’onorevole Ferri, protesto contro le sue parole. Ricordo che tutta la facoltà unanime sottoscrisse una dichiarazione, che fu anche pubblicata sui giornali (Rumori all’estrema sinistra)» (p. 2777).

[32] Cfr. in proposito M. Sbriccoli, Il diritto penale liberale. La «Rivista Penale» di Luigi Lucchini (1874-1900), in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 16 (1987), Riviste giuridiche italiane (1865-1945), pp. 105 ss.; Id., La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia unita, in A. Schiavone, a cura di, Stato e cultura giuridica in Italia dall’Unità alla Repubblica, Roma-Bari, 1990, pp. 148 ss.; Id., Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano (1860-1990), in Storia d’Italia. Annali, 14, L. Violante, a cura di, Legge Diritto Giustizia, Torino, 1998, pp. 487 ss.

[33] R. Canosa, La pena di morte in Italia: una rassegna storica, «Critica del diritto», VIII-25/26, 1982, pp. 29 ss.; M. Da Passano, La pena di morte nel Regno d’Italia (1859-1889), «Materiali per una storia della cultura giuridica», XXII-2, 1992, pp. 341 ss.; Sbriccoli, La penalistica civile cit., pp. 163 ss.

[34] M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale, «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 2, 1973, pp. 637 ss.; Id., La penalistica civile, pp. 193 s.; Id., Caratteri originari, pp. 507 ss.

[35] Sbriccoli, La penalistica civile cit., pp. 189 ss.

[36] C. Lombroso, Troppo presto, in Appunti al nuovo progetto di codice penale, Torino 18892, che, dopo aver elencato le diverse ragioni di quel titolo, si conclude con queste parole (p. 70): «Gli antropologi, a priori, deplorano l’eterna smania dei popoli latini di fare e disfare leggi, che una sola meta raggiungono, quella della sfiducia e della indisciplina, perché anche le mutazioni più razionali, se improvvise, riescono improvvide; essi sanno che, quando un’idea non è fatta carne delle nostre carni, se anche imposta sotto forma di legge, vi resta lettera morta … Ma se non ci crediamo abbastanza forti per imporre alle masse e a chi le rappresenta, le nostre opinioni, crediamo però di esserlo abbastanza per chiedere, che: una volta una riforma si debba fare, si aspetti a farla; provvedendo intanto per le grandi urgenze con una legge sulle carceri e sulla polizia: aspettando che le nostre conclusioni siensi potute discutere e giudicare. Se è vero quanto queste portano, che l’emenda dei rei è una eccezione, la recidiva la regola, e la cella poco utile, oh! non va cambiato da cima a fondo tutto questo Progetto, che partì dall’emenda e dalla cella come base d’ogni misura penale? Oh! non è vero che con quello si contribuirebbe, per quel poco a cui le leggi possono contribuire (le leggi essendo spesso impotenti anche nel male) ad aumentare quella piaga che volevasi medicare?».

[37] Forse non a caso negli Appunti cit. non appare alcun contributo originale di Ferri, ma soltanto dei Frammenti dei discorsi pronunciati alla Camera dei Deputati nelle tornate 26, 28 maggio e 8 giugno 1888 (pp. 97 ss.); e Lombroso nella sua Prefazione alla seconda edizione, p. XVI, scrive esplicitamente: «anche il Ferri, secondo me, sbaglia quando, cedendo forse, in parte, alle inevitabili esigenze dell’ambiente parlamentare, afferma che preferisce un Codice unificato, perché così quando sarà riconosciuto difettoso si potrà più facilmente correggere; poiché dalla coesistenza di molti Codici si possono cavare applicazioni e correzioni più facilmente che non da quello di uno solo»; Lombroso dedica poi un intero capitolo del suo saggio (pp. 62 ss.) a dimostrare che «l’Italia è unita, non unificata» e di conseguenza la «nessuna necessità della unificazione», per evitare che questa resti, «assolutamente, lettera morta», e pubblica nello stesso volume anche un saggio di Virgilio Rossi su Il regionalismo in Italia (pp. 85 ss.).

[38] «Io mi sono iscritto a favore fra gli oratori, che parleranno in quest’aula, perché io sono sostanzialmente favorevole alla unificazione delle leggi penali italiane, e sono a questa unificazione favorevole quantunque altri possa credre che il momento attuale di lotta tra varie correnti scientifiche, sia forse il meno opportuno per cristallizzare una data corrente in un’opera legislativa, che deve restare. Io sono favorevole perché qui dentro le ragioni politiche prevalgono, e sono pienamente convinto che le ragioni politiche di unificare le leggi penali non consentano indugi. Io però metto questa condizione, che la lunga discussione odierna mi ha dimostrata anche più necessaria. Se il guardasigilli darà assicurazioni e garanzie che la nostra discussione non sarà accademia inutile, ma potrà essere opera di un corpo, che non è solo consultivo, ma anzi è un vero e proprio corpo deliberativo, se io avrò assicurazioni, che i maggiori inconvenienti, che, secondo me, si trovano nel Codice penale saranno tolti, io voterò in favore, appunto perché queste ragioni politiche sorpassano tutte le minori questioni, nelle quali io, personalmente, potrei desiderare una migliore redazione del Codice stesso. Ma se anche per questi maggiori inconvenienti non avessi sufficienti assicurazioni, io dichiaro, fino da ora, che dovrei votare contro, perché, di fronte alle ragioni politiche generali di avere un Codice penale unico, quando io fossi convinto nella mia scienza e coscienza, che gli inconvenienti pratici, cui si andrebbe incontro, sarebbero maggiori di quelli della legislazione attuale, mi vi crederei obbligato, malgrado il dispiacere, di votare contro l’opera di Giuseppe Zanardelli»: APC, legisl. XVI, sess. 2a, p. 2980, 26 maggio 1888. Poiché la votazione finale si svolge a scrutinio segreto, non risulta quale sia stato poi il voto di Ferri, ma la conclusione del suo ultimo intervento («io mi auguro che, pure approvandolo, il disegno di Codice penale non rimanga quale è») e il fatto che egli, in funzione del raggiungimento dell’unificazione legislativa penale, accolga l’invito del presidente a non formalizzare le sue proposte mantenendole solo «come voti suoi personali, […] [che] rimarranno come parte di tutto questo lavoro», fanno ritenere che sia stato favorevole (ibid., pp. 3390 e 3410, 8 e 9 giugno 1888).

[39] Cfr. in proposito G. Neppi Modona, Diritto penale e positivismo, in R. Papa, a cura di, Il positivismo e la cultura italiana, Milano, 1985, p. 54 ss.

[40] In tal senso v. da ultimo C. F. Grosso, Il pensiero penalistico italiano tra Ottocento e Novecento, in Storia d’Italia. Annali, 13, L. Violante, a cura di, La criminalità, Torino, 1997, pp. 7 ss.

[41] Sbriccoli, La penalistica civile cit., p. 197.

[42] Ibidem.