N° 1 - Maggio 2002 - Memorie

 

Paolo GARBARINO

Università del Piemonte Orientale

 

Mancaleoni interpolazionista

 

 

Credo che parlare di Mancaleoni interpolazionista significhi, al di là dei risultati e delle prospettive aperte dai suoi lavori, porre l'accento sul momento del tutto peculiare della storia degli studi romanistici, in cui egli si trovò a operare negli anni giovanili, quando dedicò le sue energie all'attività di ricerca. La sua produzione si colloca, per lo più, tra l'ultimo decennio dell' '800 e il primo del '900 (con qualche punta negli anni '20). Si tratta di un periodo cruciale, che vede nei nostri studi l'affermarsi sempre più deciso della critica interpolazionistica - nell'ambito di un approccio più marcatamente storicistico al diritto romano - e il progressivo, ma ancora non totale declino dell'impostazione dommatica, legata all'esperienza pandettistica. Sullo sfondo sta, pare ovvio osservarlo, l'entrata in vigore del BGB il 1 gennaio del 1900, che sancì il definitivo abbandono in Europa (a parte marginalissime eccezioni) della concreta vigenza del diritto romano.

            Mario Talamanca ha giudicato cruciali gli anni 90 del XIX secolo, "perché - cito testualmente - si venne a fissare la cornice nella quale si sarebbe svolta, per circa un cinquantennio, la ricerca sulle fonti romanistiche e sui loro contenuti giusprivatistici"[La romanistica italiana tra ottocento e novecento, Index 1995], notando come in quegli anni emergesse una sorta di bipolarismo tra diritto classico e diritto giustinianeo, quest'ultimo inteso come diritto della compilazione, con la conseguenza di lasciare nell'ombra tutto il diritto tardoantico - diciamo, grosso modo, da Diocleziano sino ai confini dell'età giustinianea, e, in parte, anche il diritto delle novelle -. Il metodo interpolazionistico aveva dunque soprattutto la funzione di ricostruire il diritto c.d. classico, distinguendolo da quello giustinianeo (e, per lo più, solo da quello, almeno in questa fase dei nostri studi), con un generale appiattimento (o, se si vuole, concentrazione) dei dati storico-giuridici su questi due poli,  senza tenere in adeguata considerazione i segni del più articolato sviluppo degli istituti e del pensiero giurisprudenziale che pure sono presenti nelle fonti.

            A fronte di questa tendenza, per così dire, nuova, a cavallo dei due secoli permane - oserei dire almeno in parte quasi per inerzia - l'influenza della cultura pandettistica, che, per esempio, si manifesta in Italia, tra l'altro, nelle traduzioni, accompagnate da ricche note di commento, dei grandi trattati tedeschi (vedremo subito come alla traduzione del Commentario alle Pandette di Glück collabori lo stesso Mancaleoni). Un segno che si tratta di un periodo di transizione, in cui l'esperienza culturale e la metodologia di approccio alle fonti che avevano caratterizzato il recente passato continuava a giocare un ruolo (invero, nel lungo periodo, sempre meno centrale e propositivo). Questo, forse, com'è stato notato, va collegato con una certa persistenza di un'autonoma attenzione al diritto giustinianeo - soprattutto a livello didattico (si pensi per esempio, alle Istituzioni di Perozzi) -, o, meglio, al 'sistema giustinianeo', attenzione che, secondo Talamanca, dovrebbe leggersi come "perpetuazione, seppure in forme diverse, della vecchia tradizione di 'ius commune'".

            Ora, l'opera di Flaminio Mancaleoni mi pare che rispecchi entrambe le impostazioni di metodo (o, se si vuole, culturali) che - sia pure a costo di qualche semplificazione - ho cercato di riassumere e che mi paiono caratterizzare la romanistica italiana del periodo a cavallo dei due secoli: apertura verso l’interpolazionismo da un lato, persistenza della prospettiva dommatica e sistematica, di matrice anche pandettistica, dall’altro lato.

            Vorrei in primo luogo sottolineare gli interessi dommatici di Mancaleoni: egli, come già detto, collaborò alla traduzione delle Pandette di Glück - di cui erano direttori Pietro Cogliolo e, soprattutto, Carlo Fadda, il suo maestro -; a lui è dovuta, in particolare la traduzione del titolo De nautico foenere, apparsa nel libro XXII dell'opera, pubblicato nel 1906. Le sue note di commento, a parte eccezioni del tutto secondarie, non danno spazio a particolari problemi interpolazionistici, né l'opera, mi sembra, era idonea a questo scopo. Semmai si può osservare come non manchi il confronto con il diritto vigente - nell'ottica del resto dei propositi apertamente dichiarati dagli ideatori e curatori dell'impresa editoriale (tanto che in copertina dei volumi si precisa che il Commentario alle Pandette è arricchito di copiose note e confronti col Codice civile del regno d'Italia) -, che si sostanzia, in particolare, in una lunga nota (pag. 184 n. gg) dedicata al contratto di assicurazione marittima secondo il diritto italiano allora vigente.

            La partecipazione alla traduzione del Commentario di Glück, al di là dei motivi contingenti che possono averla suggerita, mi pare sia del tutto coerente con gli interessi scientifici di Mancaleoni, il quale in tutti i suoi lavori non manca mai di instaurare un confronto sempre attento e costante con la dottrina tedesca del recente e meno recente passato, ivi compresi i pandettisti. Alcuni suoi lavori, in particolare, sono caratterizzati da ampie discussioni sulle posizioni della dottrina: a titolo di esempio si possono ricordare il saggio apparso nel 1898 sull'Archivio Giuridico in tema di mandato (Esame esegetico-critico del fr. 49 D. mandati 17.1) o quello pubblicato nel 1899 su Il Filangieri dal titolo La in rem versio nel diritto giustinianeo, in cui si trovano vere e proprie rassegne delle opinioni espresse dalla dottrina tedesca in merito ai passi sottoposti a esame, con citazioni che vanno, tra gli altri, da Savigny, Jhering, Karlowa da un lato a Glück, Vangerow, Arndt-Serafini, dall'altro lato; mi pare che ciò denoti un interesse scientifico che coinvolge sullo stesso piano sia i lavori di pandettisti in senso stretto, sia quelli di grandi studiosi che avevano privilegiato un apporto più storicamente orientato. Il dato è comune ad altri romanisti italiani che scrivevano a fine '800. Mi pare però di un certo interesse averlo rilevato, in quanto colora in una certa direzione l'approccio interpolazionistico di Mancaleoni. [Ancora una notazione, sia pure marginale, sull'attenzione che Mancaleoni mostra verso la cultura giuridica tedesca: essa non sembra limitata al solo utilizzo delle opere dei giuristi d'oltralpe nel lavoro scientifico; vi è qualche traccia, ancora tutta da controllare, che lascia intuire come egli avesse rapporti epistolari con gli studiosi tedeschi e dunque che la discussione scientifica in taluni casi assumesse la veste di un rapporto interpersonale]. Mi sembra dunque che egli parta da una forte base dommatica e solo alla luce di essa introduca il discorso interpolazionista. L'interpolationeniagd appare - almeno credo - non esclusivamente fine a se stessa, ma radicata su un impianto interpretativo dommatico di tipo tradizionale, con scelta culturale che sarà poi, almeno in parte, abbandonata dai successivi sviluppi della scienza romanistica nei momenti di massimo fulgore del metodo interpolazionistico. Noto subito, per tornare in seguito su questo aspetto, che in taluni casi Mancaleoni, dopo una parte centrale dedicata alla esegesi delle fonti in cui sviluppa la sua critica interpolazionistica, ritorna alla fine dei suoi lavori alla prospettiva dommatica, proponendo una ricostruzione sistematica dell'istituto o del problema trattato.

            Quanto all'aspetto della ricostruzione storica, le ricerche di Mancaleoni sono in linea con la già rilevata polarizzazione dell'esperienza giuridica romana nei due grandi contenitori, in qualche misura contrapposti, ma in sé esaustivi, del diritto classico e del diritto giustinianeo. Solo in pochissimi casi egli, di fronte a posizioni contrastanti di giuristi, suppone uno sviluppo interno al dibattito giurisprudenziale per così dire classico. Uno di questi è rintracciabile nell'opera che egli pubblicò nel 1896 per l'aggregazione nella facoltà giuridica sassarese, Studi sull'acquisto dei frutti in forza di diritti reali sulla cosa fruttifera - un'opera forse ancora un po' acerba (ma l'A. accenna, nella premessa, alle ragioni concorsuali, che imponendogli dei termini ristretti, non gli avevano consentito di estendere oltre l'indagine), ma comunque ricca di spunti - , ove si sostiene (pag. 65 ss.) la tesi che l'obbligazione del possessore di buona fede di restituire i frutti esistenti - prevista da una costituzione dioclezianea (C.3,32,22) - sia stata introdotta dalla giurisprudenza "negli ultimi anni del diritto classico". Egli cerca in tal modo di di spiegare alcune contraddizioni che emergono dai testi conservati in materia nel Digesto, ricorrendo all’ipotesi di uno sviluppo interno alla riflessione giurisprudenziale e non già all'ipotesi, per lui più usuale, dell’intervento compilatorio (pur senza rinunciare però a proposte interpolazionistiche per superare le pretese incongruità di alcuni passi). Si tratta però di un'eccezione. La categoria del ius controversum o quella di un pensiero giurisprudenziale che muta nel corso dell’età c.d. classica, sembrano, a parte limitate eccezioni - come quella segnalata -, piuttosto lontane dalla sensibilità storico-giuridica di Mancaleoni, come del resto lo erano per gran parte dei romanisti dell'epoca.

            Veniamo ora a esaminare un poco più da vicino, pur senza pretese di completezza, quello che possiamo definire il laboratorio intrepolazionistico di Mancaleoni: quali sono state le tecniche da lui usate nell’analisi dei testi e quale, più in generale, l’approccio esegetico.

            Occorre in primo luogo dire che egli non è alieno da considerazioni di carattere puramente formale, relative allo ‘stile’ dei passi esaminati o a ‘stilemi’ in essi contenuti. Si tratta di un metro di giudizio sulla c.d. ‘genuinità’ dei testi già usuale a fine ‘800 (sia in Germania che da noi), ma che forse troverà ancora miglior successo più tardi. Ecco dunque frasi di questo genere: “la forma…del paragrafo è assolutamente indegna del tempo di Diocleziano” (a proposito di C. 4,26,7 in tema di actio utilis de in rem verso – per Mancaleoni tutti i passi in cui si menziona tale actio sono da ritenersi interpolati, perché si tratterebbe di una consapevole innovazione giustinianea-); o, ancora: “non sarà inopportuno rilevare la corrispondenza tribonianea «sed et si – tunc enim» e l’espediente giustificativo del «quasi» così caratteristico” [La donazione tra vivi e la legittima del patrono, pag. 6] a proposito di un passo ulpianeo in tema di successione del patrono al liberto: Ulp. 41 ad ed. D. 38,2,3,18 [Sed et si non mortis causa, donavit libertus patrono, contemplatione tamen debitae portionis donata sunt, idem erit dicendum: tunc enim vel quasi mortis causa imputabuntur vel quasi adgnita repellent patronum a contra tabulas bonorum possessione]. L’esemplificazione potrebbe continuare, ma va detto che questo tipo di approccio, che ai nostri occhi appare piuttosto semplicistico e datato, non è troppo generalizzato nell’opera del Nostro Autore. Egli paga lo scotto a una tecnica interpretativa allora forse già in voga, ma non è affatto l’unica chiave di lettura dei testi da lui impiegata. Vorrei a questo proposito segnalare un caso che mi pare significativo, per il taglio a mio giudizio molto moderno che emerge dall’analisi proposta da Mancaleoni. Si tratta del saggio intitolato Contributo allo studio delle interpolazioni, pubblicato su Il Filangieri nel 1901. Il lavoro è dedicato allo studio della parola pecunia al plurale e vi si sostiene che tale uso, quando non assume un significato collettivo, ma indica “molti oggetti singoli, molte monete”  sia da ascriversi ai giustinianei. Mancaleoni parte da una puntuale disamina lessicale del termine pecunia al singolare, usato in senso collettivo, dando una ricca esemplificazione di testi del Digesto in cui esso ricorre, e procede poi a un controllo, per così dire, quantitativo dell’impiego del termine stesso nel linguaggio giuridico delle costituzioni giustinianee. Egli così nota – cito testualmente – che “su 128 volte che Giustiniano usa la parola ‘pecunia’, la troviamo 83 volte usata al plurale e 45 volte al singolare, mentre su 2076 volte che la parola si trova nel digesto, è usata al plurale solo 69 volte”  e aggiunge: “È dunque notevolissima la sproporzione nei due casi, e ciò non sarebbe stato possibile, se Giustiniano non avesse attribuito un diverso significato alla parola ‘pecunia’”. Da qui si dirama un’articolata lettura, passo per passo, dei 69 frammenti del Digesto in cui pecunia ricorre al plurale, per individuare in essi quelli che a giudizio di Mancaleoni sono da ritenersi interpolati, anche per ulteriori ragioni (queste sì d’ordine talora solo formale, ma tal'altra anche d’ordine sistematico o sostanziale), ragioni che vengono, sia pure succintamente, menzionate. A me pare, al di là dell’affidabilità dei risultati cui Mancaleoni concretamente perviene, che questo tipo di approccio riveli in lui una consapevolezza dei problemi sottesi all’analisi testuale, non sempre presente in autori coevi o anche successivi. Si ricordi che il saggio cui sto facendo riferimento si intitola, genericamente, Contributo allo studio delle interpolazioni; Mancaleoni voleva perciò proporre un lavoro esclusivamente rivolto all’individuazione delle alterazioni dei passi: si trattava di una Interplationenjagd  nel senso più pieno e proprio del termine. L’ancorarsi a dati quantitativi così precisi sembra perciò indizio di una certa qual presa di distanza da un metodo basato esclusivamente su un metro di giudizio invero troppo soggettivo, quale quello che fa leva su non meglio precisate ragioni stilistiche o estetiche del passo.

            Vorrei ora passare a un altro aspetto della metodologia di ricerca di Mancaleoni. Osservavo prima come nelle sue opere non manchi la prospettiva dommatica e insieme sistematica. Aggiungo ora che essa appare non di rado strettamente connessa all’analisi interpolazionistica, tanto da esserne in qualche misura dipendente. Mi spiego subito con un esempio. Nel 1900 Mancaleoni dà alle stampe un saggio dal titolo Contributo alla storia e alla teoria della rei vindicatio utilis; si noti subito, nel titolo, il significativo accostamento della parola ‘storia’ alla parola ‘teoria’: è una chiara allusione, a mio giudizio, a un contenuto che intende essere contemporaneamente proposta di ricostruzione storica e di interpretazione dommatica dell’istituto in esame. Ora, quanto alla ricostruzione storica, ritroviamo qui la bipolarità tra diritto giustinianeo e diritto classico cui alludevo all’inizio. In particolare mi sembra meritevole di essere sottolineato il fatto che il lavoro prenda le mosse dal diritto giustinianeo: Mancaleoni richiama subito una serie di costituzioni di Giustiniano, e segnatamente C. 5,12,30 in tema di dote [ma anche C. 5,13,1,5a in tema di actio rei uxoriae e C. 5,3,15 sulle donazioni obnuziali], che prevede a favore della moglie, per il recupero della dote, l’actio in rem accanto all’actio hipothecaria. Da questa base di partenza l’Autore passa poi a esaminare i frammenti giurisprudenziali o le costituzioni imperiali anteriori a Costantino, che accennano in questa o anche in altre materie (per esempio in tema di accessione), alla concessione di un’actio utilis in rem o rei vindicatio utilis, per giungere alla conclusione che in tutti i casi tale tipo di actio è creazione dovuta ai compilatori giustinianei. Alla fine della sua indagine egli afferma testualmente: “…questo istituto [la utilis reivindicatio] …si deve con moltissima probabilità interamente a Giustiniano ed ai suoi compilatori, e…perciò sarebbe errato andarne a cercare l’origine, gli estremi, lo svolgimento materiale e procedurale nel diritto classico” (pag. 66). Non mi interessa qui discutere la correttezza o meno di questa conclusione [vorrei solo notare, a margine, che nella discussione Mancaleoni non manca di affrontare, con una certa finezza di argomentazione, i problemi del rapporto tra azione reale e azione contrattuale presenti in taluni passi, per esempio quelli gaiani relativi alla tabula picta: Gai. 2,78; Gai. 2 r. cott. D. 41,1,9,2], quanto rilevare come sulla base di essa, terminata la  pars destruens del suo lavoro, Mancaleoni proceda a una “costruzione dommatica” dell’istituto, come egli stesso la definisce, tutta incentrata sul diritto giustinianeo. Egli ritiene, in proposito, che “i casi enumerati [dalle fonti] devono tutti ritenersi come prodotto di ‘ius singulare’, come determinazioni positive prodotte dalla considerazione equitativa di determinati elementi apprezzati dal legislatore” e procede poi a esaminare la legislazione giustinianea da questo particolare angolo visuale, chiedendosi, tra l’altro se l’azione in questione abbia indole reale o personale, per concludere che essa ha carattere reale e giungere alla seguente affermazione riassuntiva della sua ricostruzione dommatica: “la reivindicatio utilis è diretta a dare soddisfazione alla obbligazione che ne è il fondamento, mediante appropriamento dell’oggetto della medesima o della cosa, che la legge gli surroga, purché si trovi nel patrimonio dell’obbligato” (pag. 90) [giacché se non si trova nel patrimonio dell’obbligato soccorre la concorrente azione ipotecaria].

            Mi sono un po’ dilungato su questo saggio, perché mi pare che esso sia in qualche misura esemplare del tipo di lavoro svolto da Mancaleoni sulle fonti in molti dei suoi contributi, o almeno in quelli che a mio giudizi sono i suoi migliori: la ricerca delle interpolazioni non è fine a se stessa, ma è volta allo scopo di ricostruire l’istituto o nel suo momento classico o nel suo momento giustinianeo (come nel caso esaminato). Una volta determinati i profili sostanziali dell’istituto attraverso l’analisi esegetica (cioè, per Mancaleoni, per lo più interpolazionistica), egli passa alla costruzione dommatica, per la quale dipende essenzialmente – io credo - dalla tradizione pandettistica. In quest’ottica le fonti – isolati i due momenti storici attorno ai quali, per così dire, esse si polarizzano - diventano una sorta di grande repertorio normativo, da interpretare secondo schemi astratti e astorici.

Un piccolo e curioso esempio che può forse confermare questa mia ultima affermazione lo si può desumere dall’incipit di un breve articolo apparso su Il Filangieri nel 1898, Il fr. 49. D. de usurpationibus et usucapionibus 41,3 e la reversio ad dominum nel furtum possessionis; l’articolo inizia ex abrupto con un passo di Paolo (54 ad ed. D. 41,3,4,21), riportato il quale Mancaleoni scrive: “conformi Paolo (9  ad Sabinum.) D. 47,2,20,1 e Modestino (10 pandectarum.) D. 41,4,5.Conformi”; sembra di leggere, oggi, un saggio di diritto positivo, che riporti massime giurisprudenziali, appunto tra loro “conformi”.

Tornando all’impiego delle tecniche interpolazionistiche in funzione della ricostruzione dommatica degli istituti, vorrei qui ancora far riferimento allo studio dal titolo Esame esegetico-critico del fr. 49 D. mandati 17.1, uscito nel 1898 su Archivio giuridico. Per quanto ho potuto vedere si tratta - a mio giudizio - di uno dei migliori lavori di Mancaleoni, tutto incentrato sull’analitico esame, condotto con particolare acribia critica, di un famoso e tormentato frammento di Marcello l. 6 dig. D. 17,1,49. Mancaleoni qui si avvale dell’ampia dottrina, in particolare tedesca, che si era in precedenza occupata del frammento. Non è questo il luogo per soffermarsi sui tanti problemi che il passo pone. Sperando di non essere troppo criptico, stante l'oggettiva difficoltà di sintetizzare in poche parole una matassa invero un po' troppo ingarbugliata [basta dare anche solo una rapida lettura al passo per rendersene conto], osservo che molte difficoltà sono dovute alla circostanza che il brano tratta, a quel che sembra, di due distinti casi riconducibili grosso modo al tema dell’errore del rappresentante che alieni una cosa propria, credendola del rappresentato. La complessità dei due casi (in particolare del secondo) e la ritenuta contraddittorietà delle soluzioni prospettate da Marcello con altri passi conservati nel Digesto (per esempio con Ulp. 7 disput. D. 41,1,35), aveva condotto la dottrina precedente a Mancaleoni a un vasto sforzo teso contestualmente sia a trovare un significato plausibile al frammento di Marcello, sia a conciliarlo con gli altri passi con i quali esso sembra, come detto, in contraddizione. Ricordiamo che del problema si era occupato anche Jhering – Mancaleoni parla in proposito di “acutissima costruzione” (pag. 30) -, con un’interpretazione esegetica del frammento molto innovativa e giudicata dallo stesso Mancaleoni ormai accolta dalla dottrina prevalente. Ebbene, Mancaleoni non accetta le precedenti spiegazioni - neppure quella di Jhering - e, attraverso una dimostrazione serrata e analitica, sostiene che il passo è interpolato per una sostanziale incomprensione dei giustinianei: i compilatori avrebbero frainteso il pensiero di Marcello, e per “chiarirlo” in qualche modo lo avrebbero intuilmente complicato e reso ancora più oscuro. In sostanza Marcello non si sarebbe occupato di due distinti casi, come sostenuto in genere dalla dottrina, ma avrebbe presentato “un solo caso giuridico, invertendo semplicemente la posizione rispettiva delle persone che nel negozio giuridico rappresentavano una parte” (pag. 43), utilizzando così un artificio retorico non raro nel linguaggio dei giuristi e presente, almeno con un esempio, nello stesso Marcello (pag. 44: 22 dig. D. 35,2,56,4): il frammento in origine avrebbe perciò avrebbe dovuto riguardare il seguente caso (cito testualmente da Mancaleoni, pag. 47): "Io comprai di buona fede da un terzo uno schiavo di Tizio e lo possedevo: per mio mandato Tizio lo vendette ignorando che fosse suo; o ciò che è lo stesso, io, ignorando che fosse mio, lo vendetti per incarico di lui, che lo possedeva in buona fede, avendolo trovato nella eredità di chi lo aveva comprato da un terzo", a cui sarebbe seguita l'enunciazione della questione giuridica: de iure evictionis et de mandatu quaesitum est, e la risposta che, da un punto di vista dommatico, avrebbe dovuto essere in linea con il seguente ragionamento: essendo la vendita nulla per mancanza della volontà, viziata da errore, e inefficace il conseguente trasferimento di proprietà, Io avrà la rei vindicatio per recuperare la cosa e non sorgerà azione nei confronti del mandatario, essendo parimenti il mandato nullo "per la stessa ragione dell'assenza di volontà" (pag. 26 s.). Noto anche che Mancaleoni non tenta una ricostruzione letterale di quello che avrebbe veramente detto (o potuto dire) Marcello, ma si limita a proporre il senso complessivo della risposta che secondo lui il giurista avrebbe dato.

Non posso qui né ripercorrere l’ampia argomentazione dell’Autore, né segnalare le minuziose osservazioni testuali da lui avanzate, né discutere o saggiare la bontà delle sue conclusioni, che oggi lascerebbero indubbiamente molto perplessi. Mi preme solo porre in evidenza alcuni punti:

-       l’esegesi è condotta spesso alla luce di considerazioni logico-giuridiche; l’interpolazione è cioè sostenuta non soltanto sulla base di criteri linguistico-formali;

-       non di rado Mancaleoni si riporta perciò alle costruzioni dommatiche degli istituti in gioco per formulare un’interpretazione del passo; per esempio egli sostiene, come ho già anticipato, che il frammento di Marcello contrasti con i princìpi relativi alle conseguenze della mancanza di volontà dei negozi giuridici, princìpi in base ai quali – cito testualmente – “…l’errore del rappresentante che aliena la cosa propria credendola del rappresentato, producendo l’assenza della volontà, esclude la validità del negozio giuridico; e quindi la vendita fatta in tali condizioni è nulla e come tale non è titolo sufficiente al trasferimento della proprietà…”;

-       l’esame linguistico-formale del passo si avvale di una serie di confronti, in primo luogo stilistici, con altri frammenti attribuibili allo stesso Marcello o anche con frammenti di altri giuristi; non mancano rilievi sul ductus retorico del passo, sempre confrontato con altri esempi; è posto nel dovuto risalto (pag. 47) il tipo particolare di opera (i Digesta) da cui il frammento è stato tratto [in proposito Mancaleoni (ivi) ricorda che i Digesta di Marcello sono “di esposizione parte dommatica e parte casuistica, e quest’ultima conserva in moltissimi casi la forma delle ‘quaestiones’ donde ha avuto origine. Non vi può essere dubbio, per chi abbia presente alla mente la forma classica delle ‘quaestiones’, che il frammento 49 si presenti con la forma tipica di esse. Ed è pure risaputo, come in quella forma di produzione scientifica si rispettasse sempre la esatta corrispondenza delle risposte al quesito proposto. Ciò d’altra parte è riconoscibile anche in tutti i frammenti di Marcello citati in nota”].

Queste sintetiche indicazioni mi pare che mostrino comunque - astraendo volutamente dall'esattezza e condivisibilità delle conclusioni cui egli giunge - l’acribia critica con cui Mancaleoni si muove in questo caso per dare un fondamento alla sua ipotesi interpolazionistica. Direi che sono un segno non solo e non tanto della sua onestà intellettuale, quanto soprattutto del suo gusto per la ricerca storico-giuridica e della sua capacità indubbia di conciliare le recenti metodologie esegetiche con gli aspetti più strettamente o, se volete, tradizionalmente dommatici della ricerca romanistica del suo tempo.

Credo, per concludere, che da questa rapida e incompleta carrellata su Mancaleoni interpolazionista sia emersa la figura di un giurista a tutto tondo, che non si adagia piattamente sulle ultime novità metodologiche che si affacciano nel campo delle sue ricerche, ma cerca di conciliare la lezione del passato, anche recente – intendo l’impostazione dommatica degli studi di diritto romano – , con quelle novità che costituivano, senza dubbio, all'epoca, ‘un altro modo di leggere le fonti’. Egli partecipa dunque a pieno titolo al dibattito culturale che caratterizzò la romanistica non solo italiana, ma europea, a cavallo dei due secoli, dando un apporto che mi pare ancora oggi significativo e degno di attenzione.