N° 1 - Maggio 2002 - Strumenti - Rassegne

 

Diritto romano

 

 

La responsabilità nel diritto privato romano (*)

 

Rassegna di Maria Rosa Cimma

 

(*) Studi Romani XLV (1-2), 1997.

 

 

Sull'argomento sono state pubblicate negli ultimi anni tre monografie che, affrontando il tema da diversi punti di vista, offrono un quadro delle tendenze attuali della romanistica su di un tema sicuramente non semplice e da sempre assai dibattuto.

C. A. Cannata (Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano (Materiali per un corso di diritto romano), Libreria editrice Torre, Catania 1996), pur non tralasciando, ovviamente, la prospettiva storica, pone particolare cura nel precisare i termini dogmatici della questione.

L'A. prende le mosse dalla considerazione che nel diritto della compilazione giustinianea il sistema della responsabilità risulta fondato sui concetti di dolo e di colpa, e quindi su criteri soggettivi, salvo alcune attribuzioni oggettive di rischio, per lo più eccezionali. In realtà, aggiunge il Cannata, il criterio fondamentale risulta essere quello della colpa, essendo limitati i casi in cui si risponde solo per dolo.

La critica interpolazionistica, tuttavia, sulla strada della nozione di custodia tecnica elaborata dal Baron alla fine del secolo scorso, giunse a ribaltare questo quadro, e ad affarmare che “per i giuristi classici il sistema della responsabilità avrebbe conosciuto il solo dolo come criterio soggettivo di responsabilità; il resto era ridotto alla responsabilità oggettiva, con un perno nella responsabilità per custodia”.

La letteratura successiva, reagendo ai metodi e alle conclusioni cui la critica interpolazionistica era pervenuta, è giunta ora di nuovo a ribaltare la prospettiva, ritenendo classico il sistema che fonda la responsabilità contrattuale sui criteri soggettivi di dolo e colpa.

Prima di passare ad esaminare i singoli criteri di responsabilità e l'evoluzione storica risultante dalle fonti a noi pervenute, l'A., ai fini di una maggiore chiarezza, espone il quadro dogmatico di riferimento di ciò che andrà ad esporre, nonché le proprie osservazioni intorno alla perspicuità della classificazione dei criteri di imputazione in soggettivi ed oggettivi.

In primo luogo, quindi, alcune puntualizzazioni intorno al concetto di responsabilità nel diritto privato. Quando un soggetto vanti nei confronti di un altro una pretesa protetta da azione, tale pretesa, cui corrisponde la responsabilità dell'altro, sorge sempre da un fatto che ha causato un danno sofferto dallo stesso titolare della pretesa. Si parla di responsabilità contrattuale quando il fatto dannoso sottrae al primo soggetto un vantaggio che gli sarebbe dovuto derivare dall'adempimento di un'obbligazione che già il secondo soggetto aveva nei confronti del primo: responsabilità "contrattuale", poiché nella maggior parte dei casi tale obbligazione deriva da contratto. Abbiamo quindi un fatto lecito che genera l'obbligazione, la cui violazione rappresenta il fatto illecito da cui deriva la responsabilità. Quando invece il fatto dannoso di un soggetto viola il diritto di un altro indipendentemente da un rapporto preesistente tra i due, l'obbligazione nasce dal fatto dannoso stesso, “o meglio, l'obbligazione nasce come rapporto di responsabilità”: in questi casi si parla di responsabilità extra-contrattuale, o anche di responsabilità aquiliana, con riferimento alle diverse ipotesi di danneggiamento previste nel primo e nel terzo capo della lex Aquilia. Nel diritto romano le azioni per la responsabilità extra-contrattuale erano azioni penali private, e la sanzione aveva un carattere punitivo, ma tendeva anche ad assumere funzione risarcitoria.

Pertanto da un fatto illecito extra-contrattuale nasce direttamente la responsabilità del debitore, mentre dal contratto nasce il dovere del debitore alla prestazione, e tale situazione permane, anche in caso di inadempienza, sin tanto che la prestazione rimane possibile. Nella seconda ipotesi, quindi, la responsabilità nasce in capo al debitore insolvente quando la prestazione sia divenuta impossibile, oppure quando, pur essendo ancora la prestazione in tutto o in parte possibile, il comportamento del debitore ha causato alla controparte danni irreversibili: la casistica illustrata dall'A. al proposito è molto ricca e dettagliata.

Nella responsabilità contrattuale, si è detto, il fatto da cui sorge la responsabilità è il fatto che ha causato l'impossibilità della prestazione: sia in questa ipotesi, sia nell'ipotesi di responsabilità extra-contrattuale, tuttavia, per potersi parlare di responsabilità di un soggetto verso un altro, è necessario che il fatto, da cui sorge la responsabilità, sia ascrivibile al primo soggetto. Trattandosi di responsabilità extra-contrattuale bisogna innanzi tutto decidere se il danno sia materialmente attribuibile al fatto del soggetto (problema del nesso di causalità), ed in secondo luogo stabilire se ad esso sia imputabile (problema della colpevolezza). Nella responsabilità contrattuale il problema del nesso di causalità non si pone in modo autonomo, mentre è centrale il problema dell'imputabilità al debitore dell'inadempimento. Anch'esso può essere risolto utilizzando i criteri della colpevolezza (dolo o colpa), ma a questi se ne possono aggiungere altri, che prescindono dall'indagine sulla colpevolezza: “per la responsabilità contrattuale non c'è una vera regola generale: il criterio di imputazione varia secondo il tipo di rapporto in gioco o secondo il regime che al negozio, cui si connette la responsabilità, è stato stabilito dalle parti. Si può solo individuare la gamma dei criteri possibili, ed indicare i principi che ne determinano, nella tipologia dell'inadempimento contrattuale, l'impiego”.

Con riferimento ai criteri di imputazione del fatto dannoso la dottrina romanistica fa ricorso con frequenza ad una classificazione che, come si è detto, il Cannata ritiene assai poco perspicua. Si parla infatti di criteri oggettivi e soggettivi di imputazione,  di responsabilità oggettiva e di responsabilità soggettiva, nel senso di qualificare oggettiva una responsabilità senza colpa (e - ovviamente - senza dolo). Ma lo stesso criterio  della colpa, come ha dimostrato il Marton sin dal 1949, veniva utilizzato valutando il comportamento dell'obbligato sulla base di modelli astratti, per cui la nozione di colpa può essere costruita in senso oggettivo, mentre profili soggettivi ritornano nella nozione di culpae capax. D'altro canto, se è fuori discussione il carattere soggettivo del criterio del dolo, non mancano nelle fonti esempi di dolo tipizzato, e quindi valutato in modo oggettivo. Lo stesso discorso vale per la custodia, criterio oggettivo nel cui utilizzo non mancano profili soggettivi: da tutto ciò l'A. conclude che “voler classificare come soggettivi od oggettivi i criteri di imputazione significa solo costringere in una schema artificiale un metodo di analisi insieme flessibile e rigoroso, quale l'avrebbero potuto concepire solo dei giuristi ad un tempo adusi all'analisi casistica ed alla costruzione dommatica”.

Per l'esame dei diversi criteri di responsabilità l'A. prende le mosse da un famoso passo, posto nel titolo de diversis regulis iuris antiqui del Digesto (D.50.17.23), nel quale Ulpiano elenca come criteri di responsabilità il dolo, la colpa e la diligenza (manca la menzione della custodia), e come limite la forza maggiore.

Il criterio della colpa serve a valutare il comportamento negligente (colpa commissiva), mentre il criterio della diligenza serve a imputare un pregiudizio causato da una colpa omissiva: in ambedue le ipotesi il comportamento dell'agente viene valutato sulla base di un modello astratto, la cui configurazione dipende dal tipo di contratto posto in essere tra le parti. Il modello concreto della diligentia quam suis, detta anche dagli interpreti culpa in concreto, nell'età classica verrà utilizzato per valutare il comportamento di chi amministra beni o affari altrui in una gestione a carattere familiare. La colpa-imperizia, poi, “si riferisce unicamente alle prestazioni tecniche dovute dal contraente artifex”: anche in questo caso il parametro è rappresentato da un modello astratto, le cui caratteristiche sono determinate dalle regole dell'ars in questione. Infine, “esiste un tipo autonomo di colpa, non riducibile né alla negligenza né all'imperizia, che si concreta nella violazione di un limite contrattualmente previsto per il contegno di una parte”: ciò può dipendere da un patto espresso o risultare implicitamente dagli accordi fra le parti.

La custodia, intesa come attività dovuta dal debitore diretta ad evitare la perdita o il danneggiamento della cosa (che andrà restituita al creditore) da parte di terzi, viene configurata nelle fonti talvolta come responsabilità senza colpa, talvolta come diligentia in custodiendo. Nel primo caso si parla di custodiam praestare, il che significa “rispondere per il furto della cosa, il suo danneggiamento cagionato da un terzo o da animali di cui il custode non sia proprietario e per la fuga degli schiavi custodiendi, tutto ciò con il limite della forza maggiore”. È questa la costruzione classica, in base alla quale i problemi della custodia e della colpa sono tenuti nettamenti distinti. Non così per la diligentia in custodiendo, criterio elaborato in età epiclassica e recepito dai compilatori giustinianei, nella cui costruzione la responsabilità per custodia viene ricondotta alla responsabilità per colpa. Come avverte l'A., tuttavia, “la costruzione della custodia come responsabilità senza colpa e quella della custodia come diligentia in custodiendo non corrispondono a due regimi pratici diversi: si tratta di due costruzioni dommatiche diverse - profondamente diverse - ma dello stesso criterio sostanziale di responsabilità”.

In tema di periculum l'A. sottolinea che ovviamente il rischio non rientra fra i criteri di responsabilità, ma vi è connesso, in quanto “anche i criteri (positivi) di imputazione possono contenere un'attribuzione di rischio, e in effetti la contengono, ove non vengano concepiti come criteri puramente soggettivi”. Inoltre l'esame delle fonti in particolare in tema di periculum emptoris e di periculum locatoris dimostra da un lato che non esiste priorità logica del problema dell'imputabilità rispetto a quello dell'attribuzione del rischio, d'altro lato che caso per caso il problema può e deve essere impostato ora nell'uno ora nell'altro modo per giungere alla soluzione più semplice e più corretta.

Passando a trattare dell'evoluzione storica l'A. evidenzia il fatto che il punto di partenza dell'elaborazione giurisprudenziale in tema di responsabilità va ricercato nell'interpretazione del termine iniuria, contenuto nella lex Aquilia (metà del II sec. a.C.). Per iniuria si intese il comportamento dannoso illecito attuato mediante culpa, “e cioè individuato come fatto colpevole”: dal concetto di colpa aquiliana (all'origine sostanzialmente colpa commissiva) deriva l'idea della colpa contrattuale, risolta dai veteres per i casi di obbligazione a dare una cosa certa (da stipulatio o da legatum per damnationem) attraverso la costruzione dommatica della perpetuatio obligationis. Ciò significa che il giudice, qualora l'adempimento del debitore risultasse impossibile per evento a lui imputabile, doveva considerare la sua obbligazione non estinta, e condannarlo ugualmente: “con il dogma della perpetuatio obligationis i veteres hanno [...] creato la nozione di responsabilità (contrattuale), che viene ad identificarsi con un nuovo e diverso stato dello stesso rapporto obbligatorio che precedentemente si configurava come rapporto di debito”. Ancora ai veteres si deve, grazie alla riflessione sulle obbligazioni di fare e sui giudizi di buona fede - riflessione i cui risultati vennero poi utilizzati per affrontare anche i problemi relativi ai rapporti ancora sanzionati con un iudicium strictum -, l'emersione dell'uso tecnico del verbo praestare, sia nel senso di “eseguire una prestazione”, sia in un senso diverso e più specifico, “che gli attribuisce funzione diversa da quella spettante a dare e facere”. Già nel senso tecnico di “eseguire una prestazione” il verbo praestare assume un significato complesso, indicando non solo la necessità di “realizzare l'attività o il risultato materiali che concretano la soddisfazione del creditore”, ma comprendendo anche l'idea di “garantire il creditore con la propria rispondenza che accadrà tutto ciò che serve ad assicurare al creditore la propria soddisfazione”. Da qui il significato autonomo rispetto al dare e al facere: praestare come indicativo dei “doveri sussidiari, che corrispondono a modalità o criteri necessari per l'apprezzamento dell'esecuzione dei doveri di dare e facere ovvero per decidere della responsabilità per la loro inesecuzione”. Il verbo assume questo significato quando i criteri di responsabilità sono costruiti come suoi oggetti, in espressioni del tipo dolum, culpam, custodiam, casus, periculum praestare.

Dopo avere tratteggiato “gli apporti attribuibili ai singoli giuristi” dell'età classica, il Cannata esamina le fonti epiclassiche e postclassiche, sottolineando come la trasformazione più evidente rispetto alla costruzione classica sia rappresentata dalla interpretazione della custodia nei termini di diligentia in custodiendo. Ciò avvenne attraverso una costruzione dommatica che, assumendo il criterio della colpa/diligenza come criterio centrale, induceva a valutare - in caso di perdita della cosa dovuta - il comportamento del debitore e non, come avveniva in epoca classica, le modalità della perdita in se stessa. “E questo è lo stato delle cose ancora nella compilazione di Giustiniano”.

 

La ricostruzione del pensiero della giurisprudenza romana in materia di responsabilità contrattuale nell'arco di tempo che va dal II sec. a.C. al II sec. d.C. costituisce la parte centrale dell'opera di R. Cardilli, L'obbligazione di "praestare" e la responsabilità contrattuale in diritto romano (II sec. a.C.-II sec. d.C.), Giuffrè, Milano 1995.

Nell'Introduzione l'A. dapprima tratteggia - come egli stesso indica nel titolo del primo paragrafo - “il progressivo mutamento del significato del praestare nella tradizione romanistica: da oggetto dell'obligatio, accanto al dare e al facere nella giurisprudenza classica, alla 'responsabilità' dei moderni”, per passare poi ad illustrare i contributi più significativi della romanistica moderna, evidenziando come il dibattito sia stato a lungo condizionato da una presunta contrapposizione fra i criteri di valutazione della responsabilità contrattuale elaborati dalla giurisprudenza classica, criteri oggettivi basati sul concetto di custodia, e quelli adottati in età giustinianea, imperniati sul concetto di culpa. Divenuta questa l'opinione dominante nei primi decenni del nostro secolo, il dibattito successivo si è svolto infatti nei termini di "responsabilità oggettiva" e "responsabilità soggettiva", e solo negli studi più recenti si riscontra il tentativo di abbandonare questa dicotomia, per arrivare a comprendere la ricchezza degli apporti della giurisprudenza preclassica e classica in materia di inadempimento. In quest'ottica l'A. esamina in modo analitico le testimonianze a noi pervenute dal II sec. a.C. al II d.C., alla scopo di “verificare il contributo dato dai singoli giuristi preclassici e classici alla formulazione dei contenuti del praestare, cercando di capire il loro fondamento e abbandonando la distinzione tra 'responsabilità oggettiva' e 'soggettiva', e ciò al fine di capire le radici (e gli eventuali modelli che da questa differiscono) della regula di D.50.17.23, e su cui è costruita la moderna concezione della 'responsabilità' contrattuale”.

Dopo aver esaminato i formulari di vendita e di locazione del de agricoltura di Catone, i quali rappresentano una sorta di termine post quem, poiché essi presentano contenuti complessi dei rapporti obbligatori regolati, senza che venga fatta menzione di un praestare, l'A. passa ad illustrare l'emersione nel linguaggio tecnico-giuridico del II sec. a.C. del verbo praestare nel senso di stare praes, che compare per la prima volta per indicare l'assunzione delle conseguenze processuali di un determinato modo di essere della cosa venduta. Con il tempo a questo primo significato viene a sovrapporsi un significato più ampio, e cioè l'assunzione della garanzia dell'esistenza di determinate qualità della cosa o l'assenza di determinati vizi. Il praestare diviene quindi “espressione di una particolare prestazione”, che non rientra nel dare facere della formula, e che “permette di unificare sotto una prospettiva omogenea le garanzie che si sostanziano esclusivamente in situazioni inerenti la res venduta, e che quindi, indipendentemente dal comportamento del promittente, impongono in ogni caso uno stare praes, uno 'star garante', dello stesso”.

Ancora all'attività interpretativa della giurisprudenza del II-I sec. a.C. si deve poi l'emersione di un significato ulteriore del verbo in questione, attraverso il riconoscimento di un praestari del contraente come contenuto implicito dell'obbligazione assunta: “In sostanza, in base all'individuazione di alcuni presupposti considerati necessari per questo riconoscimento (dolus, culpa o custodia), il contraente, che si impegna contrattualmente a dare facere o a reddere, può assumere implicitamente il praestari, che esprime l'obbligo di 'stare garanti' del mancato adempimento”.

In questo contesto vengono riportate al concetto di culpa le “condotte commissive ritenute riprovevoli”, nonché “le condotte che per le loro modalità concrete vengano giudicate, sebbene non intenzionali, di fatto riprovevoli”. In un periodo di poco successivo, grazie all'attività interpretativa di Q. Mucio (giurista attivo tra la fine del II sec. a.C. e l'inizio del I) intorno ai rapporti obbligatori fondati sulla fides bona, il concetto di culpa si allarga a ricomprendere “anche quei contegni commissivi ed omissivi che vengono giudicati negativamente in base ad una loro difformità da un modello comportamentale, quello dell'uomo diligente, a cui si pretende debbano conformarsi”. Inoltre la colpa, così come il dolo, la diligentia ed il periculum, vengono ormai indicati direttamente come contenuto del praestare, in quanto complementi oggetto di questo, ed il verbo passa quindi dalla forma passiva alla forma attiva.

Nei responsi di Servio Sulpicio Rufo e dei giuristi della scuola serviana (I se. a.C.) troviamo un'innovazione consistente nel superamento della valutazione della condotta del debitore in termini di colpa e dolo, attraverso il ricorso a concetti come vis e vitium: “In particolare, questi nuovi ambiti di riconoscimento del praestare si collegano ad un'interpretazione innovativa del 'quidquid dare facere oportere ex fide bona', in relazione a mutate e più complesse applicazioni dei nuovi contratti del ius civile”. L'idea di fondo che guida le soluzioni di Servio e dei suoi auditores è rappresentata dall'impossibilità di estendere il praestare del debitore non dominus ai perimenti dovuti alla vis, mentre per contro viene delineata la possibilità di uno stare praes del contraente dominus anche per eventi dovuti alla vis.

Con Labeone siamo di fronte ad un tentativo di superare il concetto che, a seguito dell'inadempimento, il praestare rappresentasse l'unico fondamento dell'actione teneri. Il giurista augusteo, infatti, superando il modello serviano, individua nell'"iniziativa negoziale" del debitore non dominus il criterio per attribuire a costui una serie di "pericoli" che fondano un'actione teneri del debitore, pur in assenza di colpa o dolo. Ne risulta così un modello “complesso e articolato, potenzialmente aperto ad una infinita serie di nuove soluzioni, attraverso le quali si può riconoscere virtualmente anche un teneri illimitato del debitore in base ad una valutazione attenta delle ragioni dell'inadempimento e dell'attività che ci si impegna a svolgere per contratto o degli interessi sottintesi alla conclusione del contratto stesso”. Sulla stessa linea si muove Proculo, il quale tuttavia pone di nuovo il praestare quale unico fondamento dell'actione teneri conseguente all'inadempimento, forzandone però il contenuto, sino a ricomprendere le ipotesi di attribuzione del periculum elaborate da Labeone.

La strada intrapresa da Labeone e Proculo verrà però abbandonata dai giuristi delle generazioni successive, i quali preferiranno avvalersi dei concetti ormai fissati dalla tradizione per costruire modelli capaci di mantenere una certa dinamicità di contenuti del praestare, ma nel contempo atti a fornire regole certe da applicare ai singoli tipi contrattuali. Infatti “nell'età che va da Tiberio ad Adriano [...] il modello di Labeone viene fortemente ridimensionato, evidenziandosi mano a mano un processo di 'cristallizzazione' del problema, come un problema di riconoscimento del praestare, in base ai concetti di dolo, di colpa, nel senso di diligenza, imperizia e imprudenza, e di custodia, dai quali si esclude sempre e comunque il casus. Questo processo è già concluso [...] con Celso e Giuliano, ed è il modello dogmatico che, con alcune trasformazioni, sarà ripreso prima da Ulpiano nei suoi libri ad Sabinum e poi dai compilatori come regula principe del Corpus Iuris Civilis”.

 

I problemi della responsabilità contrattuale vengono impostati da un punto di vista processuale, “specie per quel che riguarda il giuoco delle eccezioni liberatorie e delle controeccezioni neutralizzatrici”, da F. M. De Robertis (La responsabilità contrattuale nel diritto romano dalle origini a tutta l'età postclassica, Cacucci, Bari 1994), il quale, come impostazione generale, si pone nella scia di quella dottrina che contrappone la concezione classica, basata su criteri di imputazione essenzialmente obiettivi, alla concezione postclassica e giustinianea, basata su criteri soggettivi.

L'A. prende lo spunto da un passo di Seneca (De beneficiis VII.16.3-4) e da un testo di Paolo contenuto in D.45.1.91.3, da lui ritenuto interpolato, per affermare che sino alla metà del I sec. a.C. il debitore inadempiente non poteva sfuggire alla condanna, qualsiasi fosse stata la causa dell'inadempimento. “Tale impostazione ebbe ad informare di sé tutti i successivi sviluppi della materia fino all'età postclassica, chè, pur quando si fu addivenuti alla previsione di cause liberatorie, queste ultime sono state sempre concepite come incidenti non sul processo di formazione della responsabilità - sul ius, in altri termini, fatto valere dall'attore - ma come interruttive del cursus processuale diretto alla condanna: esse infatti non si sarebbero potute far valere che mediante eccezione, cioè come mezzo operante in sede processuale e come condizione negativa della condanna”.

La prima apertura alle ragioni del debitore si ebbe ad opera di Labeone, attraverso la concessione di eccezioni liberatorie aequitatis ratione: questo nuovo corso venne accettato dalla successiva elaborazione giurisprudenziale, dapprima solo con riferimento ai giudizi di buona fede, ma poi, grazie anche ad interventi imperiali, anche nell'ambito dei iudicia stricti iuris. Tutto ciò non senza qualche resistenza, della quale tuttavia ci è pervenuto soltanto “qualche esiguo labile ricordo”, soprattutto a causa del “ben diverso indirizzo adottato in materia da Giustiniano”.

Secondo l'A., infatti, la concezione classica era fondata sull'automatismo dell'imputazione a seguito del mancato adempimento, salva la possibilità di opporre eccezioni liberatorie, mentre nel sistema giustinianeo a fondamento della responsabilità veniva posto “lo scorretto comportamento del debitore nella causazione dell'inadempimento”. Questo contrasto condiziona i più diversi aspetti del “momento processuale”: così in tema di onere della prova “il discorso sulla ammissibilità o meno dell'inadempiente alla prova liberatoria su eventuali iustae causae di scusa caratterizza la impostazione della questione di responsabilità nel pensiero dei giuristi classici: e ciò in speculare contrasto con l'indirizzo della grande Compilazione, che punta invece sulla prova 'costitutiva', a carico del creditore, in ordine al dolo o alla colpa dell'obbligato nella causazione dell'inadempimento”. Per quanto attiene poi alla legittimazione ad agire, per i giuristi classici condizione necessaria e sufficiente era l'inadempimento, mentre Giustiniano per la procedibilità dell'azione chiedeva anche la prova del dolo o della colpa del debitore. Infine, in relazione alle cause esoneranti, che sul piano processuale si traducevano in eccezioni liberatorie, l'A. afferma che nella compilazione giustinianea esse si ponevano unicamente come elementi di prova contraria alle presunzioni di dolo o di colpa, “mentre nel diritto classico operavano come mezzo di prova in ordine al corretto comportamento dell'obbligato”. In ogni caso l'eccessiva apertura determinata dall'ammissione delle eccezioni liberatorie venne temperata, ancora in età classica, oltre che dall'assunzione convenzionale del rischio da parte del debitore, dalla possibilità di opporre alle eccezioni del debitore le controeccezioni (replicationes) del creditore, dirette a far emergere il dolo, e talvolta anche la colpa, della controparte.

Data la ferma convinzione dell'A. che in età classica la responsabilità contrattuale fosse valutata sulla base di criteri rigorosamente obiettivi, in contrapposizione con la prospettiva di tipo soggettivo dei giustinianei, egli ritiene che, sempre per l'età classica, il criterio di imputazione della responsabilità contrattuale fosse normalmente quello obiettivo del rischio (periculum), mentre il criterio subiettivo del dolo sarebbe stato introdotto in via autoritativa dal pretore, e solo per casi eccezionali. Subordinare la concessione dell'azione alla dolosità dell'inadempimento significava però mettere il creditore in una posizione particolarmente difficile dal punto di vista probatorio, per cui la giurisprudenza reagì elaborando una “vera e propria praesumptio iuris”, che ammetteva la prova contraria, “per l'accertamento speditivo del dolo sulla base del semplice fatto obbiettivo del mancato adempimento”.

Dopo aver esposto il modo attraverso il quale si articolavano nel processo le affermazioni dell'attore, le eccezioni del convenuto e le eventuali repliche del primo, l'A. passa ad illustrare come, a suo avviso, “l'impegno speculativo tutt'altro che univoco della giurisprudenza classica” in tema di causae excusationis avesse finito per “creare un tale caos di discordi sententiae, da rendere quanto mai incerta e opinabile la disciplina della materia”, un tempo tanto semplice e lineare.

Ad eliminare tanta incertezza, cui ancora in età classica ponevano rimedio la prassi negoziale e la prassi giudiziaria, provvide la normativa postclassica che, “avendo elevato la colpa a criterio principe di imputazione, spazzò via, quale inutile ciarpame, gli antichi motivi di incertezza e di confusione, restituendo così de plano coerenza e organicità al sistema”. Nei pochi decenni che intercorrono da Domizio Ulpiano ad Erennio Modestino, e da Alessandro Severo a Gordiano III si sarebbe quindi realizzata una “grande svolta”, “caratterizzata dalla riconversione delle causae replicationum (compendiabili nelle nozioni di dolo e di colpa) in criterii diretti di imputazione”.

“È il trionfo del momento subbiettivo, con la conseguente relegazione del fatto obbiettivo dell'inadempimento da criterio diretto di imputazione al ruolo secondario di semplice presupposto per l'apertura della questione di responsabilità: tale orientamento trovò il suo assetto definitivo nella grande Compilazione, con la conseguente sostituzione, nei testi classici utilizzati, dei richiami originarii alla fides e alla diligentia, con i nuovi (ovviamente emblematici) al dolo e alla colpa”.