N° 1 - Maggio 2002 - Strumenti - Rassegne

 

Diritto romano

 

Successioni

 

Rassegna di Cristiana Rinolfi

 

(*) Studi Romani" XLIX (1-2), 2001.

 

 

         Dedicato all’antico diritto ereditario romano è il Saggio sulla ‘heredis institutio’. Problemi di origine, di M. d’Orta, pubblicato dalla Giappichelli, Torino 1996. Nella Premessa si indica come scopo primario della ricerca il restituire prospettiva «a una materia così complessa, permeata da ‘arcana’ potenza». L’A. riconosce la presenza di inevitabili lacune ed omissioni nel suo lavoro, ma sua intenzione è quella di mostrare «una linea di riflessione che abbia qualche forza suggestiva, ed evocatrice di questioni non secondarie».

         Nel primo capitolo, che tratta Il tema: “heredis institutio” e “testamentum”, si sottolinea come i giuristi romani, «a compimento di un intenso percorso analitico, durato alcuni secoli», vedessero nella istituzione d’erede «l’essenza del testamento». Il d’Orta è del parere che tale «saldatura logica» debba essere ricondotta a sviluppi che mutarono le esigenze e i valori nella società nell’età medio repubblicana, periodo, in cui «al graduale ‘occultamento’ dei valori antichi, di identità nazionale, si oppone la tendenza a favorire le aspirazioni individuali e la corsa alla ricchezza», così che «anche l’eredità, acquistando rilievo i contenuti economici e patrimoniali delle situazioni giuridiche, si sarebbe inevitabilmente scissa dalla successione».

         L’A. poi offre un quadro sullo stato della dottrina, la cui discussione si è articolata intorno al problema della natura materiale e patrimoniale oppure politica del testamento più antico, ed intorno alla figura di un testamento-adozione proposta da una posizione storiografica che affermava la risalenza dell’heredis institutio quale essenza del testamento romano. Tale tesi «attinge a una precisa tradizione giurisprudenziale che perviene, infine, a Gaio ... Tuttavia, non è l’unica prospettiva condivisa dalla giurisprudenza». Il d’Orta sottolinea come «in definitiva, la scientia iuris si presenta tutt’altro che monolitica».

         Il capitolo successivo, Le vicende e i problemi. Dai “mores” arcaici alla giurisprudenza tardo-repubblicana, offre un quadro del regime ereditario nelle dodici Tavole, le quali «traducono il tentativo di offrire alla città del V secolo un diritto che fosse meno controverso, meno discrezionalmente orientato dai pontefici. In definitiva, meno patrizio». La legislazione decemvirale ratifica il diritto successorio regolato dai mores. Tuttavia, la Tab. 5.3 «impone una svolta al regime successorio dei mores. Vi si connette il fascino di una primogenitura, e il suo valore simbolico non sarà smarrito nel tempo». Tale precetto consente al civis «di gestire la sua res con discrezionalità». Risulta «sintomatico» il non riferimento alle gentes ed all’adgnatio: «conforta l’intento di demandare al singolo, al civis, ogni decisione sul proprio, in piena e assoluta discrezionalità. Si trattava di rescindere i legami dell’individuo con gli assetti personali allargati (parentali e paraparentali) all’interno della civitas». Tuttavia, «il recupero della dimensione ‘solidaristica’» è presente nella Tab. 5.4, che regolamenta la successione ab intestato: «si tratta di reazione a un’età in cui ogni pretesa parentale (e gentilizia) veniva impietosamente frustrata». In tal modo le XII Tavole fan sì che la familia si possa acquisire «prescindendo dal meccanismo della successio. Deve immaginarsi un processo di enucleazione dall’hereditas di quanto è prevalentemente economico, traducibile in ricchezza materiale; dunque, la familia può rendersi autonoma dall’hereditas». Le sorti della familia vengono seguite dai sacra, che in tal modo sopravvivono. Dunque, non si rileva nella legislazione decemvirale l’intenzione di «penalizzare il sacrum, e i sacra», ma si cerca di rendere compatibili la sfera laica e quella sacra: «prevale la scelta di ‘diluire’ il sacro all’interno della stessa legge. In questo modo, si consegue un duplice risultato: la presenza non ostentata del sacro nella legge, e il vantaggio di non dover apprestare un’apposita regolamentazione a tutela dei sacra; ossia, un apparato di regole che manifestamente avrebbe contraddetto lo spirito della legislazione decemvirale. I decemviri, in definitiva, devono aver ritenuto che vi era chi fosse tenuto ad assumersi l’onere dei sacra mancando l’erede: non altri, che l’adgnatus proximus». Il progetto pontificale di tenere collegati la religione e il diritto resiste fino al periodo tardo repubblicano. In tale assetto questione difficile, sulla quale si erano cimentati Tiberio Coruncanio prima e poi Q. Mucio Scevola, era lo stabilire il soggetto che avrebbe dovuto garantire i sacra. L’interpretazione dei pontefici, tesa a considerare necessaria l’esistenza di un erede testamentario, «avrebbe impresso una spinta potente ai processi che volgevano nella direzione di una ‘unità di senso’ del fenomeno testamentario». La stessa usucapio pro herede prova come «tra il maggior male - l’estinzione dei sacra -, e il male minore - la continuazione dei culti da parte dell’estraneo -, i pontefici senz’altro optano per la seconda soluzione».

La Tab. 5.3 rafforza l’arbitrio e l’individualismo del pater, per cui i giuristi introdussero dei correttivi a tale situazione: si afferma la regola secondo cui «sui heredes vel instituendi sunt vel exheredandi»; tale principio «denunzia la presenza dell’heredis institutio. L’heredis institutio si è già ‘impadronita’ del testamentum». Negli ultimi secoli del periodo repubblicano si impongono limitazioni alla libertà di testare, e si regola il legare attraverso plebiscita (Furio, Voconio), ma con scarsi successi: per ottenere risultati giuridici maggiori si dovette attendere più di un secolo la lex Falcidia.

         Il terzo capitolo è dedicato a I percorsi della “civitas”. “Adrogatio” e “vetera testamenta”. L’A. sottolinea come per un lungo periodo, almeno sino alla fine del VI sec. «stabilità e cogenza del modello giuridico quiritario sarebbero stati caratteri imposti dall’alto di un potere, patrizio e autocratico, che resta pertinacemente immune da critiche e da sfide». Con il passare del tempo l’organizzazione gentilizia regredisce, la plebs acquista identità di ceto, e si va a costituire una civitas patrizio-plebea. Nelle sue Institutiones Gaio tratteggia la storia del testamento ricordandone il principium rappresentato dal testamentum calatis comitiis e da quello in procinctu (il quale rispetto al primo era strumento anche dei plebei); «dopo, vi sarà il testamentum per aes et libram. E si realizzerà il perfectum». Il giurista all’interno del suo excursus inserisce la mancipatio familiae ritenendola pars dei genera testamentorum. Ma secondo il d’Orta l’istituto non è un testamento, ma ne è propedeutico: «Configura una sorta di espediente atto realizzare un trasferimento patrimoniale inter vivos, se pure ad efficacia traslata a dopo la morte del mancipio dans». La mancipatio familiae «individuava il tentativo dei pontefici, mal riuscito, di far ‘vivere’ la figura dell’heres ... presi da timore a causa del sempre meno frequente ricorso al testamentum calatis comitiis». Nonostante l’analogia con il testamentum calatis comitiis l’istituto dell’adrogatio non è genus testamenti ma è, secondo Gaio, ma non per Gellio, species adoptionis.

         Oggetto del quarto capitolo è La tendenza sistematrice. I “genera testamentorum” da Q. Mucio a Gaio. La materia ereditaria apre la trattazione dei libri iuris civilis di Q. Mucio Scevola, il quale apporta una modifica nell’adrogatio. Sul finire dell’età repubblicana l’istituto era in declino a causa del «diffondersi, nella civitas, di modi e di comportamenti sempre più estranei ai valori antichi». Il giurista introduce nella formula dell’istituto il giuramento dell’adrogator quale «prova della sua lealtà». Q. Mucio rifletterà, e il caso dell’adrogatio ne mostra le difficoltà, su problemi che sono per il suo periodo «palesemente variati rispetto al loro originario porsi». La stessa definizione di hereditas delineata da Cicerone nei Topica risulta «sintomaticamente coerente ai modi della riflessione di Q. Mucio ... Il taglio analitico della definitio denunzia un lungo riflettere della giurisprudenza. Nel I secolo l’interpretatio riconosce all’hereditas stabile connotazione di pecunia: l’hereditas, ora, è ‘perfetto sistema’ di assetti economici». Ma se l’oratore considera l’hereditas come pecunia «non dimentica ... di tratteggiare la figura dell’heres ribadendo che questi è certamente titolare di un patrimonio, ma anche è responsabile dei sacra, dei sepolcri, del patronato, dei debiti del defunto». Q. Mucio si occupò a fondo dei genera testamentorum, e a tal proposito v’è da rilevare che «il quadro dei valori che connota l’uso sociale del testare, e distingue la propensione individuale a far testamento, si arricchisce, in età tardo-repubblicana, di motivi ulteriori. Il ricorso al testamento risponde a un intimo ed estremo desiderio di libertà … Ed è così forte, da riuscire persino a prevalere rispetto alle antitesi che il fenomeno stesso produce: in primo luogo di natura etica, considerato che la libera devoluzione dei beni per testamento favorisce inevitabilmente fenomeni di dinasticismo, incentiva il ricorso ai circuiti extrafamiliari di circolazione della ricchezza, verifica un tendenziale atteggiamento di disinteresse verso la famiglia. Tutte ragioni valide a suggerire un maggiore rigore, una più efficace disciplina. Di qui, il pregio della sistemazione di Q. Mucio». Lelio Felice, Pomponio e Gaio commenteranno l’interpretatio muciana ma «nell’“Index Florentinus” resterà traccia della sola opera pomponiana».

         Nella Appendice, Dato semantico e precisazioni analitiche: “testamentum”. “Heredis institutio” e “testamentum”, dopo aver indicato le linee dell’iter semantico del termine “testamentum”, lessema di derivazione dall’osco, che sottende a «un intenso processo di stratificazione linguistica», l’A. sottolinea l’affinità della «suprema contestatio del testamento librale con le formule solenni del testamentum calatis comitiis e del testamentum in procinctu. Il richiamo ai Quirites evoca un tempo della civitas in cui i valori familiari e le situazioni personali distinguevano l’ontologia del ius; e in cui i cives guardavano alla religione, ai suoi riti, come a un assetto di valori che intensamente segnavano l’identità nazionale. Un’epoca lontana. Il prevalere delle ragioni economiche avrebbe snaturato quella originaria identità e l’ordine antico, costretto il ius a percorsi di patrimonializzazione, e i sacra a legarsi alla pecunia».

 

         È stata pubblicata in Polonia per la casa editrice Liber (Warszawa 1997) la traduzione italiana del lavoro di F. Longchamps de Bérier, Il fedecommesso universale nel diritto romano classico, lavoro che si incentra sull’istituto del fideicommissum hereditatis con il quale il testatore chiedeva all’erede di trasmettere a terzi l’intera eredità o una sua quota.

         Il primo capitolo, Gli inizi dei fedecomessi, è dedicato allo sviluppo storico dell’istituto, nato come fenomeno sociale. Dallo studio delle fonti (Cicerone, de fin. 2.55; 2.58; Verr. II 1.123-124; Valerio Massimo 4.2.7) emerge come nell’ultimo secolo della repubblica non esistessero strumenti legali per costringere gli eredi a realizzare un fedecommesso, ma ci si appellava alla fides. Tuttavia, a causa della limitata fiducia nell’onestà degli eredi e dei legatari, l’appello alla fides nelle disposizioni mortis causa non era frequente. Nonostante l’assenza di un riconoscimento giuridico del fedecommesso, fin da tale periodo andavano a delinearsi nitidamente due caratteristiche. In primo luogo il fideicommissum nasceva sulla base di una rogatio del testatore; in secondo luogo, gli ereditandi rafforzavano l’obbligazione morale fondata sulla fides con «una sanzione aggiuntiva sotto forma di una pressione sociale oppure esigendo dagli eredi un opportuno giuramento». I fedecommessi, da meri fenomeni sociali, si trasformarono sotto Augusto in istituti giuridici ed ottennero una piena tutela giuridica, costituita dalla prima cognitio extra ordinem. Tale riconoscimento giuridico derivò, secondo l’A., da una prima concessione della tutela ai fedecommessi universali a beneficio degli stranieri.

         Nel capitolo seguente, Il fedecommesso universale nelle fonti del diritto classico, sulla base dell’esegesi delle fonti, si mostrano i termini usati per la costituzione del fideicommissum hereditatis in età classica. Da principio, la volontà dell’ereditando di obbligare il proprio erede doveva essere manifestata in maniera adeguata attraverso espressioni tipiche che non costituivano una lista chiusa di verba fideicommissi. Solo a partire dalla seconda metà del II sec. d.C. i giuristi prestarono maggior attenzione alle disposizioni mortis causa contenenti l’intenzione dell’ereditando a costituire un fedecommesso universale.

         Il terzo capitolo, La struttura dogmatica del fedecommesso universale, chiarisce i successivi sviluppi dell’istituto e la sua costruzione dogmatica. Tale costruzione si formò nel I sec. d.C. sulla base del senatoconsulto Trebelliano e di quello Pegasiano. Con il primo si rese possibile in capo al fedecommisario universale sia la legittimazione attiva e passiva per le azioni ereditarie, sia il trasferimento dei debiti e dei crediti ereditari. Con tale provvedimento, quindi, la restitutio hereditatis non consisteva più in un adempimento dell’obbligo da parte dell’heres, ma in un trasferimento reale delle successioni, realizzato attraverso l’intermediazione dell’erede.

         Con il senatoconsulto Pegasiano, a circa vent’anni di distanza dal primo, si introdusse una procedura che rendeva possibile costringere l’erede ad effettuare l’aditio dell’eredità. Tuttavia, per incoraggiare l’adizione volontaria, si introdussero dei regolamenti che assicuravano all’heres un quarto dell’eredità. Questa attribuzione in forza di legge, però, si poneva in contrasto con la volontà del de cuius, perciò, «il senatoconsulto Pegasiano costituisce - afferma l’A. - un ulteriore esempio nella storia del diritto di come una equa, d’altronde, iniziativa legislativa, invece di sistemare e migliorare i regolamenti esistenti, abbia introdotto confusione ed abbia ostacolato notevolmente l’uso del diritto, solo perché non era stata ponderata sufficientemente».

         Nell’ultimo capitolo, Il fedecommesso universale e la libertà di disporre del patrimonio “mortis causa”, si è illustrata l’influenza dell’istituto nel diritto ereditario. Grazie al fideicommissum hereditatis gli ereditandi raggiunsero una serie di scopi, come la nomina a successori universali di soggetti (municipi, civitates, Latini Iuniani, donne che venivano ricomprese dalla legge Voconia, incertae personae, ecc.) che in base al diritto civile erano incapaci di accettare le disposizioni mortis causa. Sotto Antonino Pio i senatoconsulti Trebelliano e Pegasiano furono estesi anche ai fedecommessi universali nelle successioni intestate, e ciò serviva a proteggere le disposizioni dal procedimento contra tabulas. Inoltre, con l’introdotta possibilità di aggiungere all’istituto condizioni e termini, si ampliò l’influsso dell’ereditando sul futuro dell’eredità. Con il fedecommesso universale, quindi, «si poterono eliminare gli ostacoli esistenti, creati dalle vecchie norme nonché adeguare correntemente il diritto esistente alle nuove esigenze che continuavano a manifestarsi».

 

         Pubblicato nel 1991 a Valladolid, in Spagna, dal Secretariado de Publicaciones Universidad de Valladolid, il libro di M. L. Blanco Rodríguez è dedicato al Testamentum parentum inter liberos. La partición de la herencia en derecho romano.

         Nella Introducción l’A. sottolinea la mancanza di recenti studi approfonditi in materia di testamentum parentis inter liberos e di divisio parentis inter liberos, istituti romani che hanno avuto riflessi sia nella Compilación de Derecho Civil de Cataluña, sia nell’art. 1056 del Código Civil spagnolo. Anche se l’opera si circoscrive al diritto romano, la Blanco Rodríguez non scarta l’ipotesi di realizzare in futuro una ricerca che tratti approfonditamente la ricezione di tali figure nella storia del diritto spagnolo e nella sua attuale regolamentazione.

         Nel Titolo I, Aspectos generales de la “hereditas” y división de la herencia, si tratta del problema dell’esistenza del nomen iuris dell’hereditas, e al proposito l’A. accetta l’ipotesi di A. Torrent secondo cui nella legislazione decemvirale non è presente la nozione tecnica. Il concetto giuridico astratto di hereditas si delineerà sul finire della repubblica, quando andò a disgregarsi la forte coesione familiare, dando al padre la facoltà di designare un erede e di disporre così, in maniera totale, del suo patrimonio. In epoca arcaica, dunque, non esiste testamento, e lo stesso testamentum calatis comitiis è una adrogatio, un espediente cioè che procura un suus heres al pater. Infatti, nell’economia di tipo agricolo dell’epoca arcaica il padre non poteva disporre dei beni fondamentali per tale economia, che venivano acquistati automaticamente alla sua morte dai discendenti, i quali costituivano il consortium ercto non cito; aveva così attuazione un latente diritto di proprietà che esisteva già mentre il padre era in vita. Nella costituzione del consortium non si teneva conto della voluntas dei frates, mentre tale elemento volontaristico si ritrova nella decisione di continuare a tenere in vita la comunità familiare.

La comunione ereditaria aveva luogo sia nella successione testamentaria (quando il testatore istituiva genericamente gli eredi, o divideva per parti determinati beni), sia nella successio ab intestatio. Attraverso la divisio si acquistava il dominio delle singole cose. Questa poteva essere volontaria, oppure si procedeva giudizialmente attraverso l’actio familiae erciscundae. In base alla facultas testandi si poteva dividere il proprio as con atti di ultima volontà: attraverso il testamento (con la praeceptio, la quale si presenta in tempi più antichi come l’unico mezzo possibile per attribuire cose concrete all’erede a titolo di legato; o tramite l’institutio ex re certa quando il disponente procede a segnalare la assegnazione dei singoli beni senza anteporre l’istituzione in quota: tale istituto si convertirà in epoca giustinianea in prelegato), il codicillo e la divisio parentis inter liberos, che risale al periodo postclassico. Quest’ultimo istituto è un atto che non attiene all’istituzione come eredi di figli, ma bensì alla semplice divisione del patrimonio fra di essi; la divisio presuppone una chiamata che può essere sia ab intestatio, sia testamentaria.

         Il Titolo II, Origen de las disposiciones “inter liberos”, tratta delle origini delle disposizioni inter liberos. Intorno alla materia non si è raggiunto un accordo unanime in dottrina, dovuto al fatto soprattutto che la terminologia che designa gli istituti è moderna. Secondo la Blanco Rodríguez l’origine del testamentum inter liberos sta in una costituzione di Costantino del 324 (CTh. 2.24.1), mentre le prime tracce della divisio parentis inter liberos si ritrovano già in epoca classica.

         Il Titolo seguente, Testamentum parentis inter liberos, si apre con il capitolo dedicato ai soggetti, in cui l’A. sottolinea come il termine liberi comprenda tra gli eredi necessari anche i figli emancipati. Costantino circoscrisse la redazione di questo testamento speciale esclusivamente agli ascendenti paterni, i soli muniti di patria potestas. Tuttavia, già a partire da Teodosio II (Nov. Theod. 16.5) poterono essere soggetti attivi gli ascendenti di ambo i sessi.

         Il capitolo successivo tratta della Forma la cui regolamentazione definitiva fu data dalla Nov. 107 del 541. In tale occasione Giustiniano volle regolare definitivamente la materia stabilendone i requisiti formali, sebbene le solennità richieste fossero minori. Come condizioni base si prescrisse che gli ascendenti, che potevano essere di entrambi i sessi, dovessero sapere e poter scrivere. Soggetti passivi oltre ai figli legittimi potevano essere anche gli adottivi, i legittimati, e i naturali.

Il testatore doveva scrivere di proprio pugno la data all’inizio della disposizione, e il nome dei figli; si dovevano inoltre indicare le quote che venivano assegnate a ciascun discendente. Prima della riforma giustinianea le disposizioni in favore di terzi (legati e fedecommessi) si consideravano come non apposte, mentre con Nov. 107 la situazione mutò. Il testatore doveva però scrivere di proprio pugno la disposizione, e si richiedeva anche la presenza di testimoni, sebbene non se ne indicasse il numero.

         Il terzo capitolo tratta dell’oggetto del testamento inter liberos, che se considerato un vero testamento e non un codicillo, può contenere tutte le disposizioni contenute in un testamento ordinario.

         Segue il capitolo Revocación y efectos, dove si sottolinea che sia in epoca postclassica, sia in età giustinianea, anche se la Nov. 107 non dice nulla a riguardo, un testamentum parentis inter liberos può revocare un testamento solenne precedente. Lo stesso testamentum parentis inter liberos è a sua volta revocabile, in base a Nov. 107.2, tramite dichiarazione espressa di fronte a sette testimoni e redazione di un testamento efficace. Effetto principale di tale testamento privilegiato è di dar luogo ad una successione iure testamenti producendo così tutti gli effetti di un testamento ordinario, compresa la possibilità per i figli di esercitare tutte le azioni testamentarie.

         Il Titolo IV tratta della Divisio parentis inter liberos, figura già conosciuta dal diritto egiziano e recepita dal diritto greco, che appare nel diritto romano sul finire dell’età classica. Tale istituto, atto mortis causa o inter vivos, si configura come una operazione distributiva nella quale l’ascendente procede a ripartire il proprio patrimonio tra i figli. Parallelamente al titolo precedente il primo capitolo riguarda i soggetti: attivi sono sempre i genitori, anche se non hanno la potestà sui figli; soggetti passivi sono i figli, inclusi gli emancipati, i legittimati, gli adrogati e gli adottati. In epoca classica sono esclusi i figli naturali, ma a partire dal 327 (CTh. 2.24.2) potranno essere inclusi nella divisio ab intestatio della madre, e nella divisio inter liberos tramite un testamentum parentis inter liberos materna a partire dal 439 (C. 6.23.21.3). Con Giustiniano (Nov. 89.12) i figli naturali saranno ammessi quando non concorressero con i figli e la moglie legittimi del padre.

         Il capitolo secondo tratta degli aspetti formali della divisio parentis inter liberos, la quale non è soggetta a prescrizioni di forma determinata. Può avere luogo con mezzi differenti, in quanto si basa sul dato di fatto di essere il padre colui che meglio conosce il valore dei suoi beni e le necessità e le attitudini dei figli. Per ciò che attiene all’epoca classica circa gli atti mortis causa non si contempla alcuna forma privilegiata o particolare, mentre la figura autonoma appare come atto inter vivos a partire da una decisione di Papiniano (D. 10.2.20.3) che non la considera come donazione, ma come divisione. Il regime di libertà di forme si mantiene anche in epoca postclassica, e sarà Giustiniano a stabilire una forma definitiva nel 536 con la Nov. 18.7, nella quale stabilì una formalità attenuata capace di evitare litigi e controversie. La norma prescrive la forma scritta pena la nullità. La divisio poteva essere fatta in un testamento, in un codicillo con l’intervento di testimoni, o in un atto scritto in riferimento alla successione ab intestato. L’imperatore ritornerà sull’argomento con Nov. 107.3 del 541, senza apportare alcuna rilevante innovazione alla materia, secondo la Blanco Rodríguez con l’intenzione di raggruppare in un’unica norma le disposizioni inter liberos.

         Nel terzo capitolo l’A. si occupa dell’oggetto della divisio inter liberos, sottolineando che il padre si sostituisce all’arbiter familiae erciscundae. L’istituto non può considerarsi un testamento, ma semplice distribuzione di beni, tanto che era possibile una divisione parziale. Essa inoltre poteva riguardare sia l’attivo, sia le passività. Le quote potevano essere diverse, l’unico limite imposto era il rispetto per la legittima.

         Nel capitolo finale, Revocación y efectos, si afferma che la divisio poteva essere revocata dal padre in qualsiasi momento, attraverso una divisio parentis inter liberos posteriore, o tramite un testamento ordinario o inter liberos. L’effetto principale stava nel fatto di vincolare il giudice della divisione a rispettare la distribuzione realizzata dal disponente.

 

Si occupa di particolari aspetti dell’istituto tutelare la ricerca pubblicata a Madrid nel 1995 per la Dykinson di F. F. de Buján, Contribución al estudio de la tutela testamentaria plural en Derecho Romano. Nel primo capitolo, Propósito y método, si sottolinea come il tema della ricerca non sia stato oggetto di particolare interesse da parte della romanistica. Proposito dell’A. è di approfondire l’argomento sulla base dell’analisi e dell’esegesi delle fonti, oltre al sostegno dei necessari appoggi dottrinali. I testi giurisprudenziali in materia di tutela testamentaria plurale sono innumerevoli e riflettono una certa conflittualità dell’istituto; ma è necessario studiare anche i benefici della tutela testamentaria plurale.

         Segue poi Estado de la cuestión in cui si fa il punto dello stato della dottrina, mentre nel capitolo terzo, El orden expositivo, si specifica che per tutela plurale si intende la fattispecie in cui, originariamente o per cause sopravvenute, risultano chiamate, nominate o designate - a seconda che la tutela sia legittima, testamentaria o magistratuale - più di una persona in qualità di tutore per disimpegnare il carico della tutela, e ciò indipendentemente dal fatto che tutti i chiamati esercitino in maniera effettiva gli atti di amministrazione tutelare. Dunque, ci si può trovare in presenza di una situazione di pluralità non solo al momento di costituzione della tutela, ma anche in un momento successivo, in quanto la tutela singolare si può convertire in istituto plurale. Nello straordinario disordine delle fonti il de Buján propone una classificazione che si basa su tre situazioni possibili: 1) che tra i diversi tutori nominati solo uno amministri la tutela; 2) che si effettui con piena efficacia giuridica una divisione dell’amministrazione del patrimonio pupillare la quale genera singole amministrazioni distinte e indipendenti; 3) che si produca una situazione di cotutela.

         In Consideraciones generales sobre la tutela testamentaria l’A. sintetizza le posizioni della dottrina in materia di tutela testamentaria, dicendosi concorde con la tesi maggioritaria secondo cui la tutela legittima precede nel tempo quella testamentaria, la quale probabilmente apparve con la comparsa del testamentum per aes et libram. Dunque, in assenza di una nomina testamentaria espressa tutti i chiamati all’eredità, nel momento in cui acquistano il patrimonio familiare, si vedono obbligati congiuntamente ad assumere la tutela degli impuberi e delle donne che si trovavano in potestà del de cuius al momento della sua morte.

         Nel quinto capitolo, La tutela testamentaria plural como supuesto frecuente en las fuentes, si rileva come nel processo di progressiva patrimonializzazione dell’hereditas, intorno al II sec. d.C., si arriva alla nomina espressa del tutore nel testamento.

La designazione testamentaria di varie persone per disimpegnare il carico del tutore rafforza la volontà del testatore in modo che sia lui e non la legge ad indicare i soggetti che tutelano gli interessi pupillari. Infatti, la designazione plurale impedisce che alla morte di uno dei designati si passi alla chiamata legittima, dando la precedenza a ciò che dispone il de cuius che essendo normalmente il padre è la persona più idonea ad indicare chi può tutelare il patrimonio pupillare. Il favore riposto a Roma in tutte le epoche per la tutela testamentaria rispetto a quella legittima, da ricondurre al generale favore per la successione testamentaria rispetto a quella ab intestato, va ad aumentare nel caso di nomina plurale dei tutori nel testamento. Questa è una delle ragioni della frequenza della nomina di diversi tutori testamentari. Un testo di Scevola, D. 26.2.34, conferma la pratica comune nella tutela testamentaria di nominare diverse persone per esercitare simultaneamente le funzioni di tutore. In epoca giustinianea la tendenza del periodo classico di nominare più di una persona per la tutela testamentaria si conferma ancor di più, come emerge dal fatto che C. 6.38.4 del 531 Giustiniano va a trasformare con la sua interpretazione una chiamata alternativa in una designazione plurale. Il de Buján passa poi nei capitoli successivi, El régimen de administración unipersonal en los supuestos de tutela testamentaria plural; El régimen de administración dividida en los casos de pluralidad de tutores testamentarios; El régimen de administración conjunta: la cotutela testamentaria, ad analizzare le tre differenti situazioni da lui prospettate nelle quali si può articolare una tutela testamentaria plurale con riferimento all’amministrazione del patrimonio del tutelato.

 

         In materia di tutela e di curatela segnaliamo lo studio di L. Desanti, De confirmando tutore vel curatore, Giuffrè, Milano 1995. Nella Introduzione, l’A. sottolinea che l’analisi riguarda «la conferma del tutore e del curatore, designati irregolarmente con atto di ultima volontà». La materia è attuale per differenti motivi, fra cui la mancanza in dottrina di una ricerca completa: «Gli spunti e le suggestioni di maggiore momento provengono forse dagli interpreti più antichi, dai Glossatori ai Pandettisti. Ma questo patrimonio di pensiero, ancorché limitato a singoli aspetti, appare singolarmente negletto dalla moderna letteratura e riportarlo alla luce è di per sé cosa utile». Inoltre, la materia della tutela e della curatela è stata campo «privilegiato» della critica interpolazionistica, «ma recenti studi, più ‘conservativi’, ne hanno in parte ribaltato le conclusioni».

         Il capitolo primo si occupa de La conferma del tutore e del curatore: struttura e origini degli istituti, conferma che rappresenta un istituto dotato di proprie caratteristiche, anche se nelle fonti esso viene descritto con il verbo confirmare piuttosto che con il sostantivo confirmatio. Fine ultimo della conferma è quello di rispettare la scelta del defunto, ma non si tratta di semplice sanatoria: «la tutela confermata non si configura come una tutela testamentaria-confermata, ma come un genus tutelae, per diversi profili provvisto di una disciplina propria. Le stesse osservazioni valgono anche per la cura confermata».

Questi istituti «presentano una formazione progressiva, per così dire ‘alluvionale’, attribuibile all’apporto di diversi fattori: decisioni imperiali, provvedimenti magistratuali, responsi dei giuristi». Nel sesto libro excusationum di Modestino si trova «la prima trattazione sistematica dedicata alla materia». La Desanti rileva che «né la legislazione, né le opere giurisprudenziali del basso impero hanno dedicato particolare rilievo alla conferma. Anche la produzione legislativa di Giustiniano in materia risulta essersi limitata ad una singola costituzione, in C. 5, 29, 4, relativa alla conferma del tutore designato dal padre al figlio naturale. Tuttavia, è plausibile che il contributo dei compilatori sia andato oltre».

         Nei cinque capitoli che seguono, Tutore dato da chi non può darlo: madre, parenti, patrono, estraneo; Conferma del tutore dato a chi non può riceverlo; Conferma del tutore dato in modo non dovuto; Conferma del tutore dato con atto non idoneo; Conferma dei tutori che non dovevano essere dati, si studiano i casi in cui si applica la conferma in quanto la tutela testamentaria risulta non regolare. Solamente l’avente potestà poteva designare il tutore testamentario, ma interventi normativi fecero confermare i tutori nominati anche da coloro che fossero legati da un particolare vincolo con l’impubere, e, forse, fin dall’epoca classica, si confermano i tutori dati da estranei. Alle volte la tutela testamentaria era nulla in quanto rivolta a figli impuberi che non erano sotto la potestà del testatore. L’A. sottolinea come «non siamo in grado di stabilire se la conferma sia stata accordata, dapprima, per il tutore dato dal padre al figlio emancipato o per il tutore dato da persone diverse dal padre: madre, patrono estraneo, ecc. In ogni caso, la possibilità di convalidare la designazione, in tutte queste ipotesi, obbedisce alla medesima esigenza di separare, progressivamente, patria potestas e datio tutelae testamentaria». Il tutore testamentario doveva essere nominato con precise modalità: in caso contrario solo alcune irregolarità potevano essere sanate mediante conferma, come ad es. la nomina di un curatore al posto di un tutore. Inoltre la datio tutelae si poteva confermare quando era compiuta con atto non idoneo, come nel caso di espressione in codicilli non confermati.

         Il settimo capitolo analizza La procedura di conferma del tutore. La confirmatio del tutore testamentario irregolarmente nominato avveniva tramite il magistrato che la disponeva con decreto, traducendosi in una tutoris datio magistratuale. Tale potere fu attribuito inizialmente ai consoli, ma in seguito la competenza venne estesa ad altri magistrati capaci di dare tutori. La procedura poteva essere ex inquisitione e sine inquisitione, ma in ogni caso si doveva contemperare la volontà del de cuius e l’utilitas pupillorum; infatti, anche se il tutore nominato dal pater era confermato sine inquisitione, vi era un minimo accertamento.

         Nel capitolo successivo si esamina La tutela confermata e le altre tutele. Il rapporto tra i tutori confermati e quelli testamentari, legittimi e dativi, tocca due problemi: «Ci si è domandati, anzitutto, se il designato non iure con il testamento fosse preferito, o meno, ad eventuali tutori legittimi o dativi. Va premesso che le fonti non forniscono risposte particolarmente esplicite. È però ragionevole supporre che il tutore dato dal pater prevalesse sull’agnato prossimo, e potesse essere confermato nonostante la presenza di quest’ultimo: altrimenti l’istituto – assai scarsamente applicato – avrebbe perduto di significato»; in secondo luogo «si è a lungo discusso se la tutela confermata fosse assimilabile alla tutela testamentaria o alla tutela dativa; e le oscillazioni degli interpreti, in effetti, trovano riscontro nelle fonti».

Si occupano della confirmatio della cura i due capitoli seguenti La conferma del curatore del minore e La conferma del “curator ventris”, del “curator furiosi”, del “curator prodigi”. Secondo la Desanti «diverse attestazioni mostrano che la disciplina della conferma, probabilmente applicata, in origine, alla tutela degli impuberi, si è … estesa alla cura», e tale estensione deve aver avuto inizio all’età del principato.

         Nell’ultimo capitolo, Fedecommesso, protezione degli incapaci e conferma del tutore, si mette in evidenza «che lo scopo di salvaguardare soggetti incapaci – impuberi, minori, donne, malati di mente – era talvolta raggiunto non già attraverso la regolare costituzione di un tutore o di un curatore, ma mediante la disposizione di schemi cautelari alternativi».

 

         Inserito nel più vasto tema del formalismo negoziale, con ampio spazio per l’istituto della mancipatio familiae, è il recente lavoro di S. Randazzo, ‘Leges mancipii’. Contributo allo studio dei limiti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, edito dalla Giuffrè, Milano 1998, nel quale, in una prospettiva tendenzialmente unitaria, si esaminano in modo trasversale diversi istituti privatistici di diritto romano.

         Nel primo capitolo è affrontato Il problema delle ‘leges mancipii’ nel quadro del dibattito sul formalismo arcaico da Jhering ad oggi. L’esame delle differenti posizioni scientifiche, anche di quelle più risalenti, infatti, risulta essere un’utile premessa per la completa comprensione della nozione ormai consolidata che identifica la lex mancipii con «una clausola - di norma identificata con la nuncupatio - che accede ad una mancipatio e che appare funzionalmente volta a specificare l’assetto degli interessi formalizzato nel solenne atto negoziale, circoscrivendolo o ampliandolo in vario modo». L’impostazione metodologica prevalente ha affermato, senza alcuna giustificazione, l’assimilazione delle clausole accessorie della mancipatio (dicta in mancipio) alle leges mancipii, rendendo artificialmente unitario un vasto oggetto di indagine. Inoltre, secondo l’A., si percepisce come l’affermata identità tra nuncupatio e lex mancipii «abbia avuto l’effetto indotto di considerare ‘automaticamente’ risolto il problema dell’esatta determinazione dei caratteri e delle finalità delle leges mancipii. Ciò per la semplice ragione che, una volta valutato e risolto il problema dei caratteri e dei limiti formali della nuncupatio, questi risultati sono stati applicati senz’altro alla lex mancipio dicta, laddove ritenuta identificabile con la stessa nuncupatio». Pur considerando necessario e propedeutico l’esame sia del nuncupare, sia delle nuncupationes, si deve, sulla base di una analisi delle fonti, porre luce sulle peculiarità giuridiche delle clausole ‘aggiunte’ alla mancipazione rispetto agli altri fenomeni giuridici «soprattutto, per cercare di intravederne l’eventuale ruolo - laddove un tale ruolo vi sia stato - nell’emersione di elementi di rilevanza del consenso nell’ambito del formalismo della mancipatio».

In tale prospettiva di indagine il Randazzo analizza la nuncupatio nel secondo capitolo, Il formalismo della mancipatio, affermando che il negozio librale, nonostante la sua generale portata, per adattarsi a particolari finalità che non si potevano realizzare diversamente, si diversificò in formulari specifici tramite dichiarazioni speciali delle parti; «in tal modo l’assetto formale dell’atto si modificava parzialmente e la solenne rigidità del gestum veniva, in una certa misura, ‘alterata’ dalla stessa flessibilità funzionale dello schema tipico». Chiaro esempio di questo uso dell’atto librale, è l’istituto della mancipatio familiae, con cui si trasferiva un patrimonio inter vivos per attuare la voluntas testandi. Nel rituale si innestò una solenne dichiarazione che divenne nel tempo una nuncupatio testamenti pronunciata dal testatore e che, per motivi di segretezza, si trasformò in un atto confermativo delle tabulae testamentarie. L’utilizzo del modulo formale della mancipatio per la realizzazione di specifici effetti tramite adattamenti risale al periodo arcaico, ed è il risultato di due contrapposte esigenze: «Da un lato, la resistenza ‘conservativa’ nei confronti della possibilità di adattare la struttura formale originaria del gestum per aes et libram, di certo fortemente avvertita in un’epoca in cui le forme erano espressione primaria non soltanto del diritto ma anche della religione e della realtà quotidiana dei cives … e, dall’altro, la emergente necessità di rendere il sistema delle ‘forme’ idoneo alla realizzazione di risultati giuridici particolari, rispondenti ad esigenze specifiche ed irrinunciabili delle parti». Da queste premesse l’A. passa alla ricostruzione storica della nuncupatio, negando per l’età arcaica, sulla base delle fonti, che l’istituto fosse un fenomeno unitario, in quanto esistevano due diverse accezioni, una più ampia che comprendeva tutte le dichiarazioni formali ed un’altra, nell’ambito del formalismo degli atti giuridici solenni, che conteneva le dichiarazioni pubbliche dalla forma vincolata. Le nuncupationes si presentano con un «carattere costitutivo e ‘strutturale’ in senso pieno, dimensionando l’atto che viene così ad assumere una sua specificità formale», come ad esempio nella mancipatio familiae e nella coemptio. Questo specifico carattere costitutivo il Randazzo non lo rinviene nelle leges mancipii: infatti, nel terzo capitolo (‘Dicta in mancipio’ e ‘leges mancipii’) dopo aver isolato, tra le ipotesi che la romanistica considera leges mancipii, i casi certi, o altamente probabili, egli arriva alla conclusione che in tali fattispecie si ritrova un «carattere accessorio rispetto al gestum» che non andava a modificare lo schema tipico della mancipatio. Inoltre le nuncupationes possedevano un formalismo più rigoroso rispetto alle leges mancipii, per le quali si può parlare di ‘formalismo attenuato’.

Nell’ultimo capitolo, Il ‘formalismo attenuato’ delle leges mancipii ed i profili di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, si offre una giustificazione storica alla diversità delle forme tra le leges mancipii e le nuncupationes, vedendo nella laicizzazione della giurisprudenza il momento discriminante. Infatti, attraverso le nuncupationes i pontifices creavano, sulla base di formule presenti, dei nuovi moduli formali al fine di produrre specifici effetti giuridici. Con la decadenza del monopolio pontificale i prudentes laici, non avendo «il potere di formulare dicta idonei a dimensionare globalmente la struttura degli atti formali», utilizzarono formule, le leges mancipii, che non potevano stravolgere la forma del gestum, e che non si sostituirono ma si aggiunsero ai precedenti formulari dei pontefici. Un’altra differenza «forse non ancora opportunamente valutata dalla dottrina» è l’associazione frequente nelle fonti delle leges mancipii con la scrittura. Esse, dunque, si presentano anche come scriptae, mentre la nuncupatio era un atto eminentemente orale. L’oralità era propria dell’età arcaica, con la laicizzazione della giurisprudenza la trasmissione orale di formule fisse ed immutabili venne attenuata con il venir meno di un unitario indirizzo giurisprudenziale.

In tale ricostruzione storica è chiaro che le leges mancipii, essendo in qualche maniera disgiunte dal formalismo della mancipatio, producessero effetti obbligatori. Effetti validi erga omnes, infatti, potevano scaturire solo da formule solenni e immutabili, predisposte dalla giurisprudenza pontificale e recitate davanti a testimoni.