N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana

Antonello Calore

Università di Brescia

 

 

“Guerra giusta” tra presente e passato*

 

 

 

Norberto Bobbio, nella Prefazione al suo libro Il problema della guerra e le vie della pace, sostiene la tesi, pienamente condivisa, che la bomba atomica abbia prodotto “una trasformazione radicale” rispetto alla concezione tradizionale della guerra[1].

Il pericolo termonucleare ha così fatto giustizia delle molteplici teorie giustificatrici della “guerra giusta”, della “guerra come male minore”, della “guerra difensiva”; da qui la proposta del filosofo italiano di formare “una coscienza atomica”[2] contro la guerra.

Il superamento della contrapposizione tra i due blocchi dell'Est e dell'Ovest, simbolicamente fissato nelle date del 9 novembre 1989 e 25 dicembre 1991[3], se ha ridotto di molto il rischio di una guerra termonucleare non ha però affatto inciso sul contenimento dei conflitti convenzionali, come stanno a dimostrare, per limitarsi agli esempi più recenti di coinvolgimento dell'Occidente europeo, le vicende del Golfo (1990-1991), dell’area balcanica (Bosnia 1991-1995 e del Kosovo 1999) e, da ultimo, dell’Afghanistan (2001-2002)[4].

In special modo il conflitto armato nel Kosovo (24 marzo -10 giugno 1999) ha sollevato problemi che spostano su un terreno nuovo la riflessione sulla guerra[5].

Il paradigma tradizionale di stampo idealistico[6], per la verità già imperfetto ai fini della comprensione della “guerra fredda”[7], si dimostra vieppiù insufficiente per i successivi conflitti “limitati”, senza rischio atomico.

Gli elementi tipicamente innovativi, che fanno del Kosovo un esempio di conflitto postmoderno, possono sintetizzarsi nei seguenti tre:

Ø                                                 nel Kosovo si è combattuta la prima guerra mossa da un gruppo di Stati, alleati sotto il cartello della NATO e senza mandato dell’ONU, contro “uno stato sovrano reo di violenze politiche interne[8]. L’intervento è stato giustificato con la difesa dei diritti umani fondamentali[9] e, per questo, definito “umanitario”[10];

Ø                                                 il motivo ufficiale del conflitto è stata la necessità di bloccare l’operazione di “pulizia etnica” praticata dal governo serbo di Milosevic contro la minoranza etnica e religiosa albanese. Uno scontro tra etnie, che conferma la tendenza all’aumento di conflitti interculturali dalla conclusione della “guerra fredda”[11], segnando un definitivo allontanamento dalla logica tradizionale della contrapposizione di interessi tra Stati sovrani[12];

Ø                  sono state evidenziate dal conflitto, in modo inequivocabile, una serie di “imperfezioni”[13], quali la mancanza di norme internazionali legittimanti[14], la sproporzione tra fini e mezzi bellici, il significato di “guerra chirurgica” in relazione alla perdita di vite umane tra la popolazione civile[15].

Nonostante tali diversità, il termine ‘giusto’[16] è stato spesso utilizzato per definire lo scontro, quasi a voler indicare nella difesa di diritti primari dell’uomo, universalmente riconosciuti, una necessità, un bisogno prioritario travalicante lo stesso principio di sovranità, “attributo naturale” degli Stati[17]. Si tratta di una motivazione che, sebbene non sia direttamente riconducibile alla classica teoria del “bellum justum” di stampo tomistico, la richiama molto da vicino.

Già in relazione al conflitto del Golfo (1990-1991) si discusse aspramente, non soltanto in Italia, se definire “giusta” l’offensiva militare che gli Stati Uniti e i loro alleati, dietro l’autorizzazione dell’ONU[18], portarono contro l’esercito di Saddam Husseim in seguito all’invasione del Kuwait. La polemica prese spunto da un’intervista al filosofo torinese Norberto Bobbio[19], il quale ai due interrogativi sulla natura della guerra, “se giusta o efficace”, rispose in modo perentorio al primo (“è una guerra giusta perché è fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa”) mentre problematizzò il secondo ponendo tre condizioni (“la guerra sarà efficace … se vincente, rapida e limitata”). L’attenzione dei mass-media e il dibattito che ne seguì furono, però, incentrati esclusivamente sul tema della “guerra giusta”.

Ancora di recente, a proposito dell’azione bellica in Afghanistan dopo l’11 settembre 2001, Oshama Bin Laden e gli ideologi dell’organizzazione terroristica Al Qaeda motivavano la resistenza armata all’attacco militare anglo-americano chiamando in causa la figura religiosa di jihad, la “guerra santa”[20]. Di contro, in un documento[21] a sostegno dell’offensiva americana, sottoscritto da un nutrito gruppo di intellettuali statunitensi, si legge, tra le diverse giustificazioni alla risposta bellica, il richiamo alla “guerra giusta”, in quanto “war not only morally permitted, but morally necessary” [22].

L’espressione “guerra giusta” è, quindi, decisamente presente nel linguaggio attuale, anche se, come ricaviamo dagli stessi esempi qui riportati, i significati ad essa attribuiti non sempre sono identici[23]. Si oscilla da un contenuto strettamente giuridico dell’aggettivo “giusto”, come nell’uso fattone da Bobbio a proposito della guerra del Golfo[24], a quello teologico, secondo cui la guerra è intrapresa per eseguire il comando divino[25], ad uno etico-morale, per cui l’evento bellico sarebbe finalizzato alla difesa di valori umani “universali e pregiuridici”[26].

Nonostante le molteplici sfaccettature, l’aspetto da privilegiare nell’approccio resta quello giuridico, nella misura in cui, come già avvertivo a proposito dell’interpretazione dei conflitti armati dopo lo sfaldamento della contrapposizione tra i due blocchi, nuove regole debbono stabilirsi per le relazioni internazionali[27], tese a riconsiderare il tradizionale principio di sovranità[28], che, dal XVI alla fine del XX secolo, ha connotato il sistema degli Stati-nazione, riducendo la guerra ad un problema interno del singolo Stato[29]. Cresce l’esigenza di una rifondazione del diritto internazionale che abbandoni l’attuale sistema, frammentario e poco efficace, per recuperare una piena giuridicità delle relazioni tra Stati, riducendo le regole consuetudinarie a vantaggio di norme materiali e superare così l’insufficienza dell’apparato sanzionatorio. Si tratterebbe di un rinnovamento che, nell’ambito specifico della gestione dei conflitti, abbandoni – come auspica Bobbio – “criteri puramente morali per stabilire chi ha ragione e chi ha torto e sostituisca ai giudizi morali le regole giuridiche”.[30]

Il terzo millennio è dunque iniziato all’insegna della cifra bellica, quasi a confermare la convinzione di Raymod Aron secondo cui la guerra sarebbe compagna di tutte le civiltà[31]. Non si vuole con ciò sostenere il luogo comune, cinico e immobilista, dell’ineluttabilità della guerra, quanto piuttosto sollecitarne un rinnovato ripensamento convinto, come sono, che una più approfondita comprensione dell’evento bellico possa contribuire alla costruzione della pace[32].

La pace è concetto da tenere sempre presente nell’analisi sulla guerra. Quando pensiamo alla pace, dobbiamo però abbandonare l'idea tradizionale di “non-guerra”, che per secoli l’ha relegata ad un rango subordinato nei confronti della guerra[33], privilegiando invece la concezione di “pace positiva” che - come scrive Bobbio - “consiste nel dominio della giustizia, nell’esistenza di reali condizioni di eguaglianza sociale e di benessere diffuso, nonché nell’assenza di quella ‘violenza strutturale’ che, provocando tensioni e conflitti all’interno del corpo sociale, pone le premesse per l’insorgere di conflitti violenti tra stati”[34].

Nella tensione tra la natura dell’evento bellico e la costruzione di uno stato di pace positiva trova spazio ancora oggi, come abbiamo visto, l’idea di “guerra giusta”, nonostante il tramonto delle situazioni originarie, storiche e culturali, che l’hanno prodotta.

L’espressione “guerra giusta” ha una storia molto lunga dietro di sé, che ne condiziona il significato seppure riferita a episodi recenti. Si tratta di un passato risalente al periodo medievale, quando il pensiero politico-religioso propugnò la dottrina del bellum justum ancorandola alla elaborazione giuridica e filosofica romana dello stesso concetto, che per altro aveva in origine un diverso significato.

Palesare l’uso e l'ambiguo fascino che, ancora oggi, esercita tale sintagma significa da una parte rilevarne le metamorfosi e le contraddizioni di natura strutturale, dall’altra ripercorrerne, a grandi linee, il percorso storico-concettuale risalendo fino al diritto romano, che rappresentò il milieu culturale all’interno del quale l'espressione bellum iustum venne forgiata.

L’uso dell’espressione “guerra giusta” per valutare forme di relazioni tra comunità straniere fu proprio della cultura politico-giuridica dell’antica Roma[35]. Se ne ha testimonianza in Cicerone. Combinando la lettura di alcuni passi di due delle sue opere più mature, il De republica[36] e il De officiis[37], apprendiamo che si aveva bellum iustum quando i Romani muovevano guerra, secondo l’antico rituale posto in essere dai sacerdoti Feziali, ad un popolo straniero qualora esso non avesse provveduto, entro trenta giorni, alla richiesta di soddisfazione per l’eventuale danno subìto o temuto. La “guerra giusta” per il popolo romano consisteva in una procedura rigorosamente fissata dal diritto, a cui, per motivi di ordine giuridico-religioso soprattutto nel lungo periodo della formazione e del consolidamento della civitas (VI-IV sec. a.C.)[38], bisognava attenersi per il buon esito dell’evento bellico. L’aggettivo iustum richiamava, in quel contesto, non un valore etico di giustizia quanto piuttosto rigorosi criteri giuridici[39]. L’espressione bellum iustum, indicava la guerra secondo le regole del diritto: una guerra, diremmo oggi, giuridicamente legittima, cioè tutta interna alla sfera del diritto.

Tale concezione subì una torsione sostanziale sotto la spinta della riflessione di Agostino, il quale, nel tentativo, riuscito, di traghettare la cultura classica romana nel pensiero cristiano, riportò l’elaborazione ciceroniana sulla guerra all’interno della propria visione teologica del mondo. Agostino corresse definitivamente la posizione di “pacifismo assoluto” espressa da Tertulliano un secolo prima per cui il mestiere delle armi era ritenuto illecito[40]. Nella sua opera più importante il De Civitate Dei e in altri suoi scritti[41], la “città degli uomini” gode di uno stato di pace incerta[42] che può essere messo in crisi dalla guerra connessa all’attività umana[43]. Oltre ai conflitti generati dall’esistenza di popoli nemici[44], dalla brama di potere[45] e dalla diffidenza[46], può aversi il caso del bellum iustum[47], a cui il sapiente deve, suo malgrado, partecipare per rispondere all’ingiustizia portata: iniquitatis partis adversae[48]. In questo caso la guerra è ispirata da Dio per punire la corruzione dei popoli e per educare le genti alla vita pacifica[49]. Il termine iustum si riferisce, quindi, alla giustizia divina, unica fonte giustificatrice del conflitto[50]. Sebbene il vescovo di Ippona non esprima una visione sistematica della “guerra giusta”, l’aver introdotto il volere divino come suprema giustificazione del conflitto armato determinò l’inizio della concezione etica della guerra offuscandone la valenza giuridica.

La riflessione agostiniana fu ripresa e codificata da Tommaso d’Aquino nel 1300, il quale, richiamandosi all’autorità di Agostino e facendo tesoro dei contributi della canonistica[51] e civilistica[52] medievale, fissò tre condizioni per il bellum justum: l’auctoritas principis, la guerra doveva essere dichiarata dall’autorità legale; la iusta causa, la guerra doveva essere dettata da una giusta causa; la recta intentio, la guerra doveva perseguire il bene contro il male. Il portato religioso introdotto da S. Agostino, che trasformava la guerra in strumento della volontà divina, venne esaltato ed elevato a regola da S. Tommaso[53]. Erano, dunque, guerre giuste solo quelle dei cristiani contro gli infedeli: è il trionfo del principio teologico.

Un ripensamento strutturale fu introdotto dal De iure belli ac pacis (1623-1625) di Ugo Grozio. Il giurista olandese, forte delle anticipazioni di Francisco de Vitoria (1485-1546)[54] e Alberico Gentili (1552-1608)[55], mette in secondo piano la giustificazione etico-religiosa della guerra, la “vera justitia”, per concentrarsi sulle procedure del combattimento. Il bellum justum doveva essere inteso, alla stregua del testamentum justum o delle justae nuptiae, come bellum solemne, dove la solennità era conferita dalla decisione presa dalle massime autorità istituzionali di muovere guerra e dal rispetto delle ritualità belliche prescritte[56].

Si supera così la concezione universalistica della respublica christiana a vantaggio dello Stato moderno accentrato e unitario territorialmente[57]. Il potere non si fondava più sulla fede bensì sulla politica. Il monopolio della forza legittima – come nota acutamente Weber – si trasferiva agli Stati. Un riscontro della teoria di Grozio, sul piano degli eventi storici, può essere rintracciata nella pace di Vestfalia alla fine della Guerra dei Trentanni (1648-1649), dove le regole di politica internazionale, destinate a restare in auge fino alla I Guerra Mondiale, furono espressione dei singoli Stati-nazione. Da questo momento in poi, per tutta l’età moderna, si affermerà la teoria dello Stato-potenza, per cui la guerra sarà intesa come espressione della sovranità (= imperium) statale, finalizzata al perseguimento degli interessi economici e territoriali del singolo Stato.

L'attenzione di Grozio era rivolta non soltanto alla justa causa quanto piuttosto ai requisiti formali della conduzione del conflitto, attuando quasi un rimando alla lezione più genuina del bellum iustum del diritto romano (come attesta anche il suo stesso argomentare continuamente puntellato da citazioni di documenti testuali giuridici ed extra-giuridici dell’esperienza romana), anche se l’interesse speculativo si spostava decisamente dallo ius ad bellum allo ius in bello.

Fu con l’affermarsi del giuspositivismo che la teoria del bellum justum diventò uno strumento inutile per il diritto internazionale del XIX secolo. Come scrive Bobbio: “il positivismo giuridico, non prendendo in considerazione altro diritto che il diritto positivo, che è il diritto effettivamente osservato in una determinata società, scisse nettamente il giudizio su ciò che è giuridico dal giudizio su ciò che è giusto”[58].

La portata della nuova concezione, applicata al conflitto bellico, determinò un comportamento tra gli Stati “come se non esistesse di fatto alcuna regola comunemente accettata per distinguere guerre giuste da guerre ingiuste. In altre parole, gli stati considerano la guerra come una procedura sempre lecita”[59].

Il principio restò dominante fino alla I Guerra Mondiale, dove si consumò il passaggio dalla ‘legittimità’ alla ‘legalità’ della guerra[60]. Il diritto internazionale bellico non era interessato più alla giustificazione del conflitto quanto piuttosto alla regolamentazione della violenza tra i belligeranti.

In questa direzione, dal 1907 (Convenzioni dell’Aia) in poi, si assiste al graduale intento di codificare, attraverso convenzioni e protocolli, norme consuetudinarie e accordi tra gli Stati in materia di ius in bello. Tale sistematizzazione può essere riassunta in quattro regole generali, per cui l’uso della forza in un conflitto armato deve: essere limitato ai belligeranti e, solo collateralmente, interessare la popolazione civile; essere circoscritto agli obiettivi militari; escludere armi particolarmente insidiose e micidiali; essere delimitato alle zone di guerra[61]. Si tratta di una serie di limitazioni, che hanno indotto all’uso dell'espressione ‘diritto internazionale umanitario’ in sostituzione dell’originario ‘diritto bellico’.

La “guerra giusta”, messa in ombra dal positivismo ottocentesco, riemerse durante e dopo la II Guerra Mondiale come strumento teorico per opporsi alle teorie bellicistiche. Tra i suoi più attenti fautori è da annoverare il giurista austriaco Hans Kelsen, il quale propugnando il primato del diritto internazionale sui singoli ordinamenti statali, riutilizzò l’idea di “guerra giusta” come diretta emanazione dell’ordinamento giuridico mondiale: “la guerra è ammissibile, secondo il diritto internazionale generale, soltanto come reazione contro la violazione del diritto internazionale, cioè contro la violazione degli interessi di uno stato, contro la quale questo stato è autorizzato dal diritto internazionale generale a reagire con la guerra o la rappresaglia. Come quest’ultima, la guerra stessa, se non è una sanzione, è un delitto. Questo è il cosiddetto principio del bellum iustum[62]. Nella visione kelseniana, però, il “giusto” non ha nulla dell’accezione etica del jus ad bellum medievale, essendo collegato al dettato normativo internazionale ma, a ben vedere, non può nemmeno essere ricondotto unicamente al jus in bello della teoria moderna della “guerra giusta”. La categoria rigorosamente giuridica di “guerra giusta”, usata da Kelsen, nasce nella koinè politico-culturale che, dalla fine della I Guerra Mondiale, si è adoperata per bandire l’uso della forza armata dalla risoluzione delle controversie tra gli Stati. Si pensi al Covenant della Società delle Nazione del 1920 o al Patto Briand-Kellogg del 1928; ma è soprattutto la Carta delle Nazione Unite del 1945 che, ponendo come obiettivo prioritario il “vivere in pace l’un con l’altro in rapporto di buon vicinato”, limita a due sole ipotesi l’uso della forza armata: la legittima difesa (art. 51) e il mantenimento della sicurezza internazionale (art. 39 e segg.) A tutt’oggi, ben 191 Stati si sono impegnati a risolvere eventuali controversie in modo pacifico[63], escludendo il ricorso alla guerra se non nelle due eccezioni espressamente prescritte e autorizzate dal Consiglio di Sicurezza.

Si tratta di un’acquisizione di non poco conto rispetto alla precedente filosofia dei rapporti tra Stati-nazione, in base alla quale il ricorso alla guerra nelle controversie internazionali era percepito come un diritto acquisito. La guerra è ripudiata[64], come sancisce la stessa Costituzione italiana[65]. E’ evidente che la diversa considerazione dell’evento bellico non è sufficiente all’edificazione di uno stato di pace permanente, come provano i tanti conflitti che dalla fine della II Guerra Mondiale ad oggi hanno interessato e interessano molte zone del pianeta, ma l’orientamento scelto sembra essere fecondo: non l’utopistica e, forse, nemmeno necessaria[66] eliminazione dei conflitti quanto piuttosto una gestione non violenta degli stessi, sotto il diretto controllo del diritto, ponendo l'accento sul rapporto guerra-diritto che, come già visto, costituisce un punto nevralgico nella teoria della “guerra giusta”.

E’ questo uno degli aspetti teorici e pratici su cui si sono spesso soffermati gli studiosi della guerra e della pace. Lo abbiamo intravisto a proposito del pensiero di Kelsen e potremmo risalire attraverso gli antecedenti al ciceroniano “silent enim leges inter arma[67]. Tuttavia, ai fini della nostra ricerca, è sufficiente richiamarsi ai quattro tipi di rapporto indicati da Bobbio[68]: la guerra come antitesi del diritto; la guerra come mezzo per realizzare il diritto, che è alla base della teoria della “guerra giusta”; la guerra come oggetto del diritto, dove è centrale il problema della regolamentazione della condotta bellica; la guerra come fonte del diritto, per cui la violenza bellica è all’origine di un nuovo ordinamento giuridico.

Soffermiamoci sul primo tipo di rapporto, perché in esso la costruzione dello stato di pace è posto come obiettivo prioritario: il “diritto come insieme di regole ordinate al fine della pace: e la pace è l’eliminazione della guerra”[69].

E' necessario, per meglio comprendere la relazione descritta da Bobbio, chiarire il concetto di guerra, che è qui intesa, giova ricordarlo, come conflitto tra gli Stati e non come guerra civile e/o rivoluzionaria. Bonanate[70] la definisce come “lo scontro volontario di molti che si schierano su due fronti opposti nell'intenzione di piegarsi fisicamente l'un l'altro”[71]. La costrizione violenta di uno dei due belligeranti richiama la più antica definizione di Karl von Clausewitz (1780-1831): “la guerra è dunque un atto di forza che ha per scopo di costringere l'avversario a sottomettersi alla nostra volontà”[72].

E’ la forza, quindi, il tratto predominante del fenomeno bellico. Una forza mortale, violenta: “la specificità della guerra consiste nel mezzo usato: la violenza”[73]. Un uso della forza privo di regole, legibus solutus[74], a cui si contrappone la forza ordinata prodotta dal diritto grazie alla coercibilità delle norme[75]. “Il diritto”, quindi, “non ha a che fare con la guerra, ma ha a che fare con l’elemento costitutivo della medesima, ossia con la forza”[76].

Proprio tale peculiarità consente al diritto di porsi come strumento privilegiato, tra altri, per ridurre gli spazi della guerra favorendo l’espandersi della pace. Una pace, quindi, che è sì assenza della guerra ma in una prospettiva progettuale[77]. E' il problema della “pace positiva” che - come scrive Bobbio - “significa non soltanto cessare dalle ostilità o non fare più la guerra, ma anche instaurare uno stato giuridicamente regolato che tende ad avere una certa stabilità”[78].

La guerra, in quanto forza mortale, è dunque negazione del diritto che, come mezzo di pacificazione, può ritenersi suo antagonista ed essere utilizzato per arginarne l’uso. E’ questa, a mio avviso, la filosofia sottesa nella Carta delle Nazioni Unite anche quando la stessa prevede l’uso della forza armata come exstrema ratio per la legittima difesa e per tutelare la sicurezza internazionale.

Il fine del diritto può essere indirizzato alla riduzione degli spazi occupati dalla guerra, favorendo in questo modo la realizzazione dello stato di pace.

Siamo nel campo d’azione di ciò che Bobbio definisce “pacifismo giuridico”, strettamente collegato all’idea kelseniana della pace attraverso il diritto[79]. Per sottrarre l’uso della forza bellica al libero arbitrio dei singoli Stati-potenza, è necessario rendere efficace la soluzione giuridica delle controversie tra Stati adottata dalla struttura istituzionale sovranazionale. Il tutto necessita di una visione normativa dei rapporti internazionali, che si traduca anche in un potenziamento non solo decisionale ma pure organizzativo-operativo degli organismi. Si pensi, ad esempio, alla costituzione di uno Stato Maggiore dell’ONU, previsto dalla Carta (art. 47), che avrebbe il comando dell’azione di polizia deliberata dalla stessa ONU; all’accettazione dello statuto della Corte penale internazionale (1998) da parte di tutti gli Stati; alla riorganizzazione della NATO da struttura militare difensiva della superata alleanza atlantica a organismo per la sicurezza in Europa.

Si impone una rifondazione delle relazioni internazionali attraverso la codificazione di nuove regole sovranazionali che introducano criteri di valutazione giuridica sull’uso della forza armata. In questa ottica andava inteso lo sforzo di Antonio Cassese di individuare “cinque condizioni ben precise” per una nuova legittimazione nel diritto internazionale dell’uso della forza, partendo dalla non legalità dell’intervento militare nel Kosovo[80].

Bobbio ha parlato, al riguardo, dell’istituzionalizzazione di “un nuovo diritto internazionale”[81], richiamando la tesi di Habermas del passaggio “dalla politica di potenza classica a uno stato di cittadinanza universale”[82].

Il dato incontrovertibile, che emerge dall’analisi, è una forte contrazione del principio di sovranità dello Stato-potenza.

Lo stesso recente fenomeno della globalizzazione neoliberista alimenta tale tendenza, spostando la sfera decisionale dagli Stati al mercato[83]. Ma il mutamento, per essere in qualche modo utile alla formazione di prerequisiti per un piano di pace, non deve essere subito come portato oggettivo di mere leggi economiche quanto piuttosto essere governato da una politica internazionale affronti le disuguaglianze e punti a ridurre la povertà. Che il mercato da solo significhi pace è un'illusione. Il Governo dell'economia globalizzata non può essere lasciato alle istituzioni specializzate come il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio, e alle burocrazie che le guidano. Il compito dell'ONU e delle organizzazioni regionali tra Stati dovrebbe essere quello di rilanciare il ruolo della politica, come fattore di equità: una politica rappresentativa su basi sovranazionali[84].

E' evidente che il progressivo abbandono della guerra tradizionale a favore della costruzione di uno stato di pace in progress presuppone il primato dell'ONU e passa attraverso la concertazione di una molteplicità di strumenti: politici, economici, culturali e diplomatici[85]. Tra questi un ruolo determinante può essere svolto anche dal diritto: l'obiettivo è che gli Stati e tutti i soggetti della politica internazionale prendano sul serio le norme su cui si identifica e si regge la stessa comunità internazionale e che ne garantiscano la effettività[86]. Nel rapporto antitetico tra guerra e diritto, le istituzioni internazionali dovrebbero, in casi rigidamente circoscritti e come extrema ratio, autorizzare e guidare l'uso della forza armata secondo principi universalmente riconosciuti, conformi cioè al sistema normativo internazionale.

Da questo modello scaturisce una concezione della guerra 'giuridicamente lecita', vale a dire corrispondente alla normativa internazionale codificata dalla comunità mondiale, che, per il carattere multilaterale delle proprie scelte, è in grado di imporre criteri di giudizi condivisi. Comunque, è sempre una liceità circoscritta entro limiti rigorosi quella che deriva dalla Carta delle Nazioni Unite. Non si tratta di recuperare antiquate giustificazioni di ordine religioso, morale o etico, quanto piuttosto di valutare, conflitto per conflitto, la conformità giuridica (considerando sia i fini, sia l'estensione e l'offensività dei mezzi impiegati) dell'eventuale uso della forza armata all'ordinamento internazionale.

 

 

 

 



 

* Il testo qui riprodotto introduce, con qualche modifica formale, il volume A. Calore (a cura di), “Guerra giusta”? Le metamorfosi di un concetto antico, ed. Giuffrè, Milano 2003.

 

[1] N. Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, Bologna, 19913, p. 1. Il libro di Bobbio è composto da scritti risalenti al periodo della contrapposizione mondiale in due blocchi, occidentale e orientale, caratterizzato dal costante pericolo della guerra nucleare. Le quattro "Prefazioni" aggiornano il punto di vista del filosofo sull'argomento. I saggi, nonostante risultino datati, restano tuttora di grande stimolo per iniziare un ragionamento sia sul tema della guerra (vedi i primi due saggi) sia su quello della pace e della nonviolenza (vedi gli ultimi due saggi). Il deterrente atomico, da individuarsi nella catastrofe generale dell'umanità senza né vinti né vincitori, generava – secondo Bobbio – la concezione di "una via bloccata" alla guerra sulla terra.

 

[2] N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., p. VII della Prefazione alla quarta edizione.

 

[3] Rispettivamente la caduta del muro di Berlino e la rimozione della bandiera sovietica dal Cremlino.

 

[4] Nel periodo dal 1945 al 1989 i conflitti “tradizionali” sono stati stimati nel numero di 138 (cfr. E. Luttwak, Toward Post-Heroic Warfare, in Foreign Affairs, may-june, 1995); solo nel 1989, fase conclusiva della “guerra fredda”, le guerre in atto furono diciannove (cfr. P. Wallensteen – M. Sollenberg, Armed Conflict and regional Conflict Complexes 1989-1997, in Journal of Peace Research, 35, 1998, n. 5) e tredici nel 1998 (cfr. P. Wallensteen – M. Sollenberg, Armed Conflict and regional Conflict Complexes 1989-1998, in Journal of Peace Research, 36, 1999, n. 5).

 

[5] Per un primo approccio, è sufficiente rinviare agli articoli raccolti nell’opuscolo della rivista Reset dal titolo L’ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, Roma, 1999; ai saggi apparsi su Ragion Pratica, 13, 1999, pp. 11-165; alle riflessioni su Quaderni Costituzionali, 1 e 2, 1999; al quaderno speciale di Limes (supplemento al n. 1/1999) dal titolo Kosovo. L'Italia in guerra.

 

[6] Un modello noto è quello della guerra come “continuazione” della politica, elaborato da Clausewitz (Della guerra (1832), trad. it., Milano, 1970); su cui, tra gli altri, vedi R. Aron, Penser la guerre. Clausewitz, 2 voll., Paris, 1976; P. Paret, Clausewitz and the State, New York & London, 1976; ora L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari, 1998, sp. pp. 9 ss. e P.F. Taboni, Clausewitz. La filosofia fra guerra e rivoluzione, Urbino, 1990.

 

[7] Per N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., pp. 32 ss., il conflitto atomico vanifica il compito della filosofia della storia di giustificare la guerra, perché quest’ultima è diventata “impossibile” e “ingiustificabile”. R. Aron, Pace e guerra tra le nazioni (1962), trad. it., Milano, 1970, infra, pur condividendo il dato centrale della tradizione realista della guerra come mezzo legittimo delle relazioni fra entità politiche, introduce “l’ideologia” e “la diplomazia” come elementi determinanti delle “politiche di potenza” degli Stati (sulla teoria dello studioso francese, vedi A. Panebianco, Introduzione a Raymond Aron, La politica, la guerra, la storia, Bologna, 1992).

 

[8] Cfr. L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, Milano, 2001, p. 5.

 

[9] “Sono ‘diritti fondamentali’ tutti quei diritti soggettivi, che spettano universalmente a ‘tutti’ gli esseri umani in quanto dotati dello status di persone, o di cittadini o di persone capaci di agire; inteso per 'diritto soggettivo' qualunque aspettativa positiva (a prestazioni) o negativa (a non lesioni) ascritta ad un soggetto da una norma giuridica, e per 'status' la condizione di un soggetto prevista anch'essa da una norma giuridica positiva quale presupposto della sua idoneità ad essere titolare di situazioni giuridiche e/o autore degli atti che ne sono esercizio” (L. Ferrajoli, Diritti fondamentali (1998), Roma-Bari, 2001, p. 5. Tale categoria di diritti è stata individuata da Norberto Bobbio (L’età dei diritti, 1990, p. VII) come uno dei tre problemi fondamentali (gli altri due sono la democrazia e la pace) con cui il mondo contemporaneo deve necessariamente confrontarsi.

 

[10] Per una visione sintetica degli "interventi d'umanità" prima del Kosovo, vedi N. Ronzitti, Uso della forza e intervento di umanità, in N. Ronzitti (a cura di), NATO, conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, Milano, 2000, pp. 6-12. Giustifica, con le dovute cautele, l'intervento A. Cassese, 'Ex iniuria ius oritur': Are We Moving towards International Legitimation of Forcible Humanitarian Countermeasures in the World Community?, in European Journal of International Law, 1999, p. 23 ss. Per una “politica dei diritti umani” che superi il riferimento etico a favore di una loro “giuridificazione” vedi J. Habermas, Umanità e bestialità: una guerra ai confini tra diritto e morale, in L’ultima crociata?, cit. p. 83 ss. Per contro, una critica radicale al principio universalistico della protezione dei diritti fondamentali degli uomini, avvertito come l’avvio di “una nuova ideologia occidentale”, è in D. Zolo, “Chi dice umanità”. Guerra, diritto e ordine globale, Torino, 2000. Sulla questione, in relazione alla “ingerenza umanitaria” della NATO nel Balcani, vedi già S. Senese, L’insanabile contraddizione tra guerra e tutela dei diritti umani, in Questione giustizia, 3, 1999, pp. 393-399.

 

[11] Esempi recenti di guerre per l’identità etnica e/o religiosa sono: la guerra civile in Somalia a partire dal 1991; lo scontro Hutu-Tutsi in Rwanda riacutizzatosi dal 1996; il conflitto algerino tra fondamentalisti ed esercito regolare a partire dal 1992.

 

[12] Sarebbe questa, secondo la recente polemologia, la caratteristica delle guerre post-moderne: scontri devastanti con molti morti, animati da etnie diverse per lo più appartenenti allo stesso Stato (insiste unicamente su questo aspetto C. Risé, La guerra postmoderna, Gorizia, 1996, infra, mentre, come scrivo nel testo, possono individuarsi altri elementi peculiari della guerra post-moderna). Mette in guardia dall’uso dell’aggettivo ‘etnico’ per descrivere i fenomeni bellici (‘conflitto’, ‘guerra’, ‘scontro’, ‘pulizia’), C. Marta, Guerre etniche: metafora del nostro tempo?, in Parolechiave, 20/21, 1999, pp. 259-279. Mi servo del termine ‘etnico’ esclusivamente per sottolineare l’inadeguatezza del paradigma moderno che intende la guerra come esclusiva manifestazione degli interessi dello Stato-nazione. Una critica, questa, condivisa dall’autore dell’articolo appena citato.

 

[13] Il termine è usato da G. Bosetti, I lati oscuri della guerra umanitaria, in L’ultima crociata? Ragioni e torti di una guerra giusta, cit., pp. 5-15.

 

[14] Anche chi, in forma molto esplicita, sostenne l’intervento armato nel Kosovo non mancò però di rilevare la distanza dalle limitanti prescrizioni della Carta delle Nazione Unite circa l'uso della forza (vedi, in particolare, A. Cassese, Le cinque regole per una guerra giusta, in L’ultima crociata?, cit., pp. 25-28); anche chi in maniera realistica, come Norberto Bobbio (cfr. gli interventi riportati in L’ultima crociata?, cit., pp. 16-24 e pp. 115-125), non metteva sullo stesso piano la forza militare della NATO e l’esercito serbo, nondimeno giudicava “non lecito” l’intervento sulla base della Carta delle Nazioni Unite (tornerò più avanti sul rapporto tra la normativa delle Nazioni Unite e il ricorso legittimo alla forza armata). Per un sguardo generale sui problemi di diritto costituzionale in relazione al Kosovo, vedi N. Ronzitti (a cura di), NATO, conflitto in Kosovo e Costituzione italiana, cit., in particolare il saggio di Cesare Pinelli (pp. 193-208).

 

[15] Esempi eclatanti: una bomba NATO colpisce, per errore, un treno a Grdelica, , provocando 55 morti tra i civili (12 aprile); un aereo della NATO colpisce, per errore, un autobus di linea vicino Pristina, provocando circa 47 morti tra i civili (1° maggio); l'ospedale civile e il mercato di Nis sono colpiti, 20 i morti tra i civili (7 maggio); l’ambasciata cinese viene bombardata per errore dalla NATO, 3 i morti (8 maggio); l'ospedale di Surdulica è colpito, 20 i morti (31 maggio). Casi questi, che rimandano ai principi di “proporzionalità” e di “discriminazione” (emersi e discussi ampiamente già al tempo della guerra del Golfo), determinanti per la conduzione di una guerra secondo le regole (= ius in bello) e fondanti, insieme ad altre condizioni, per riformulare, a detta di una parte della dottrina, una teoria attuale della “guerra giusta” (cfr. L. Bonanate, La rivoluzione internazionale, in Teoria politica, 1991, 2, pp. 3-20. Riflette in modo critico sull’argomento G. Pontara, Guerre, disobbedienza civile, nonviolenza, Torino, 1996, pp. 44-53).

 

[16] L’espressione “guerra giusta” è stata spesso presente nei mass-media di quel periodo. Alcuni esempi in: La Repubblica del 19 aprile 1999; Corriere della Sera del 20 aprile e 25 maggio 1999; Panorama del 7 maggio e 4 giugno 1999.

 

[17] Il rapporto tra i diritti fondamentali dell’uomo e la sovranità degli Stati, è stato di recente ripensato dalla politica del Vaticano con la teorizzazione, ad opera dello stesso Pontefice, della tesi della “legittimità-doverosità della più diretta ‘ingerenza umanitaria’ che preveda anche l’eventuale uso delle armi”, perché i crimini contro l’umanità non si possono considerare affari interni di una nazione (cfr. C.M. Martini, La guerra moderna e i diritti dell’uomo, in La Repubblica, 13 luglio 2000). Sottolinea l’emersione di “una nuova era in cui la nozione tradizionale di sovranità non riesce più a rendere giustizia ai popoli di ogni parte del mondo che aspirano a conseguire le libertà fondamentali” il segretario generale dell’ONU in un passaggio centrale del testo inviato al Vertice del Millennio a New York (riportato in H. Sonnenfeldt, La pace mondiale a rischio e il vertice del millennio, in La Repubblica, 30 agosto 2000); vedi già Kofi Annan, Two Concepts of Sovereignty, in Economist, 18 settembre 1999.

 

[18] La risoluzione 688 dell’aprile 1991 giustificava l’intervento armato richiamando la “minaccia alla sicurezza internazionale”.

 

[19] N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, Venezia, 1991, pp. 39-40, nel libro sono raccolti i reiterati interventi del filosofo sull’intera questione.

 

[20] Sulla complessità del termine jihad, cfr. in generale J.T. Johnson-J. Kelsay (eds.), Just War and Jihad. Historical and Theoretical Perspectives on War and Peace in Western and Islamic Traditions, New York-London, 1991; R.F. Peters, The Jihad in Classical and Modern Islam, Princeton, 1995. Ho presente la distinzione tra “guerra santa” e “guerra giusta” (N. Bobbio, Una guerra giusta?, cit., pp. 14-15 e 59-65) anche se il confine tende a scomparire nella sostanza quando al termine ‘giusto’ viene attribuito un significato etico-teologico e per niente giuridico (un esempio attuale è riportato alla nt. 26).

 

[21] Il documento, What We're Fighting For, è leggibile via internet al seguente indirizzo http://www.propositionsonline.com/html/fighting_for.html.

 

[22] Cfr. il cap. A Just War? Il documento dei sessanta intellettuali statunitensi vuole essere una giustificazione dell’uso della forza bellica contro il nuovo terrorismo. Non si disconosce la necessità di una risposta ‘forte’, occorre però precisare che, affinché questa sia efficace, le forme della stessa debbono essere idonee allo scopo, riducendo nell’immediato le azioni terroristiche e rimuovendone le cause nel medio-lungo periodo. Al riguardo, il passaggio obbligato, su cui poco si è dibattuto nonostante l’11 settembre, è il modo di intendere questo nuovo terrorismo internazionale. In una recente interpretazione, esso è stato definito “una forma di guerra” a cui “si può rispondere solo con la guerra” (così C. Carr, Terrorismo, Milano, 2002, pp. 7 e 11. Si noti che in precedenza il termine usuale era quello di ‘lotta’). Si può essere d’accordo o meno sull’affermazione dell’opinionista statunitense (non è possibile discutere di ciò in una nota); ritengo però corretta l’impostazione della questione: per dare una risposta efficace alle nuove manifestazioni terroristiche dobbiamo innanzi tutto intenderne la natura (spunti in F. Cardini, La paura e l'arroganza, Roma-Bari, 2002, pp. XXVII ss.) Per limitarci ad un esempio ancora in atto, la guerra “totale” condotta contro l’Afghanistan ha sì prodotto la caduta del regime filo-terrorista dei Talebani ma a prezzo di alti costi umani tra la popolazione civile di quel paese e senza pervenire alla cattura dei capi dell’organizzazione terroristica di Al Qaeda, ritenuta dall’amministrazione Bush l’obiettivo principale dell’intera operazione (la giudica una “risposta sbagliata” S. Senese, Guerra e nuovo ordine mondiale, in Questione giustizia, 2, 2002, p. 472); un pericolo questo, che sembra corrersi di nuovo, con conseguenze ben più tragiche, nella proposta del governo statunitense di muovere una “guerra preventiva” contro l’Iraq, in quanto “Stato canaglia” (rogue state) e per il rapporto stretto tra le reti terroriste e il regime di Saddam Hussein (in verità un rapporto finora non dimostrato).

 

[23] La bibliografia sulla “guerra giusta” è vasta, oltre a quella riportata nei saggi del presente volume, si citano qui i classici L. Le Fur, Guerre juste et juste paix, Paris, 1920; R.H.W. Regout, La doctrine de la guerre juste de Saint Augustin à nous jours, Paris, 1934, rist. Aalen, 1974; il saggio di J.T. DELOS, Sociologie de la guerre moderne et théorie de la guerre juste, in Guerre et Paix, 1953, pp. 201-224; M. Walzer, Guerre giuste e ingiuste (1977), trad. it., Napoli, 1990; e ora il libretto didattico di G. Bacot, La doctrine de la guerre juste, Paris, 1989.

 

[24] Una guerra “giuridicamente lecita”, cioè “conforme alla legge” perché, come scrive più avanti, “fondata su un principio fondamentale del diritto internazionale che è quello che giustifica la legittima difesa” (il riferimento è all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite). Cfr. N. Bobbio, Una guerra giusta? Sul conflitto del Golfo, cit., pp. 10-11 e p. 39.

 

[25] Per il significato di “guerra santa” secondo la religione mussulmana vedi la nt. 20. Il contenuto, però, non si discosta dalla concezione cristiana di “guerra di religione”, che ebbe origine con Agostino.

 

[26] Se ne ha un chiaro esempio nel citato documento degli intellettuali statunitensi, dove vengono indicati quattro generalissimi valori: 1) la convinzione che “all persons posses innate human dignity”; 2) l’esistenza e l’accessibilità per tutti i popoli di “laws of Nature and of Nature’s God”; 3) la possibilità che in caso di disaccordo sui valori si possa avere una “openness to other views, and reasonable argument in pursuit of truth”; 4) “freedom of conscience and freedom of religion”. La difesa di tali “American values”, che poi per un'incomprensibile proprietà transitiva diventano “in fact the shared inheritance of humankid, and therefore a possible basis of hope for a world community based on peace and justice”, può costituire il fondamento per una “just war" a prescindere da ogni valutazione da parte di istituzioni sopranazionali (nel documento l'ONU non viene mai citato e non c'è riferimento alcuno ad altri organismi mondiali). Non deve meravigliare questa “fuga” dal diritto. Il ritorno alla nozione di “guerra giusta” in un’ottica etico-morale è propria di Michel Walzer, uno dei promotori dell’appello, che nel suo libro Just and Unjust Wars (trad. it. dell’edizione del 1977, Guerre giuste e ingiuste, Napoli, 1990) manifesta una grande sfiducia nella capacità del diritto di parlare di guerra: “I giuristi hanno costruito un mondo di carta, incapace di render conto, nei momenti cruciali, del mondo reale in cui viviamo” (p. 5 della trad. it.).

 

[27] L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, cit., p. 21, avanza l’esigenza di un “nuovo paradigma nelle relazioni internazionali”. Una disamina sulla crisi del “sistema internazionale stato-centrico” è ora in G. L. Cecchini, Pace e guerra nel diritto delle relazioni internazionali, Milano, 2000, sp. pp. 9-28.

 

[28] In questo senso, G. Zagrebelsky, Il diritto mite, Torino, 1992, pp. 4-5: “In quell’idea di sovranità – intesa originariamente come situazione efficiente di una forza materiale impegnata nel compito della costruzione e della garanzia della propria unicità e supremazia nella sfera politica – si trova insito, in nuce, il principio dell’esclusione e della belligeranza nei confronti dell’altro da sé. Da ciò deriva – all’interno – la necessità per lo Stato dell’annientamento dei suoi antagonisti e – all’esterno – la tendenza, alimentata dall’economia e dall’ideologia, all’imperialismo e alla ‘cattolicità’, nel senso della teologia politica di Carl Schmitt. Lo Stato sovrano non poteva ammettere concorrenti. Se si fosse aperta una concorrenza, esso avrebbe cessato di essere politicamente ‘tutto’ e avrebbe iniziato a essere semplicemente ‘parte’ di sistemi politici più comprensivi. Inevitabilmente, ciò avrebbe messo in discussione la sovranità e, con ciò, l’essenza stessa della statualità”.

 

[29] Sull’esaurimento del ruolo dello Stato attuale, scrive lucidamente L. Bonanate, op. cit., p. 22: “Sostenere che lo stato tradizionalmente inteso sia in declino, non implica alcunché di catastrofico, ma piuttosto che esso, in cinque secoli, ha sviluppato e consumato tutte le sue potenzialità, dopo essersi esteso a ogni livello di attività e di penetrazione… Ciò non significa che la storia si sia arrestata, ma più semplicemente che lo stadio ‘finale’ dello stato è quello della sua compartecipazione a una società planetaria”.

 

[30] Cfr. l’ultimo intervento del filosofo torinese in L’ultima crociata?, cit., p. 120.

 

[31] R. Aron, La politica, la guerra, la storia, Bologna, 1992, p. 431. La visione dello studioso francese si iscrive, per la verità, nel tradizionale e multiforme filone di pensiero occidentale sulla guerra come principio indispensabile dell’esistenza, risalente alla famosa e antichissima definizione del filosofo greco Eraclito (VI sec. a.C.), per cui la guerra sarebbe il padre di tutte le cose regnando su tutto e facendo emergere la distinzione tra gli dèi e gli uomini, tra gli schiavi e i liberi (cfr. Eraclito fr. 53). Sul frammento, interpretato quale “archetipo culturale” della teoria “dialettica” della guerra nel pensiero filosofico, vedi S. Cotta, Guerra e diritto a confronto, in C. Jean (a cura di), La guerra nel pensiero politico, cit., pp. 135-142. Per il significato eracliteo del termine guerra (Pòlemos), la cui comprensione (attraverso il Lógos) produce la cultura della pace effettiva, vedi R. Gasparotti, Alle origini delle categorie di “guerra” e “pace”, in C. Jean (a cura di), La guerra nel pensiero politico, cit., pp. 154-160; per una sua accezione che trascende la "determinazione esclusivamente storico-politica", cfr. U. Curi, Pólemos, Torino, 2000, sp. pp. 110-122.

 

[32] Sempre seguendo il pensiero di Aron (La politica, la guerra, la storia, cit.), lo studio “sociologico” della guerra, inteso come “studio delle relazioni tra entità tribali o nazionali” (p. 431), condurrebbe alla “natura della collettività” (p. 436) e, quindi, ad una migliore comprensione della realtà.

 

[33] Chiarisce bene il punto N. Bobbio, s.v. Pace, in Dizionario di politica, Milano, 1994, p. 737: “Pace viene definita negativamente come assenza di guerra, più brevemente come non-guerra. Si dice che dei due termini [= Guerra e Pace], il primo è il termine forte, il secondo è il termine debole”.

 

[34] Ibidem.

 

[35] Anche la cultura greca si confrontò con il complesso problema della guerra, lo fece però soprattutto in funzione politico-morale, come attesta la riflessione aristotelica. Per Aristotele (Pol. 7,1333 b 37- 1334 a 10) la guerra è praticabile soltanto se è avallata da tre giuste cause (dìkaios pòlemos): 1) per difendersi da chi vuole assoggettarci; 2) per affermare un’egemonia per il bene degli assoggettati; 3) per ridurre in schiavitù chi merita di essere schiavo (vedi per tutti, V. Ilari, Guerra e diritto nel mondo antico, I, Milano, 1980, sp. pp. 220-237; e la prima parte del libro della S. Clavadetscher-Thürlemann, Pòlemos dìkaios und ‘bellum iustum’. Versuch einer Ideengeschichte, Zürich, 1986).

 

[36] Cic., rep. 3,23,35: Illa iniusta bella sunt, quae sunt sine causa suscepta. <Nam extra ulciscendi aut propulsandorum hostium causam bellum geri iustum nullum potest.> …Nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi de repetitis rebus (sottolineature mie). Il passo appartiene a quella parte del De republica molto lacunosa il cui contenuto si ricostruisce grazie alle citazioni di autori antichi. Nel nostro caso si tratta dell’erudito ecclesiastico del VI-VII sec. d.C. Isidoro di Siviglia, che riporta il testo nelle sue Etimologie (18,1,2-3). La parte tra parentesi, dove si tratta delle “giuste cause” della guerra, è sospettata come non ciceroniana da L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, Napoli, 2001, pp. 27 ss., contrariamente alla totalità dei commentatori.

 

[37] Cic., off. 1,36: Ac belli quidem aequitas sanctissime fetiali populi Romani iure prescripta est. Ex quo intellegi potest nullum bellum esse iustum, nisi quod aut rebus repetitis geratur aut denuntiatum ante sit et indictum (sottolineature mie). Cicerone ricorda le regole, proprie dell’antico ius fetiale, in relazione all’indizione della guerra da parte dei Romani contro altri popoli.

 

[38] La religiosità del popolo romano, anche grazie agli eventi bellici, subì profonde trasformazioni nel corso del III e II secolo a.C.

 

[39] Tale conclusione non trova unanime la dottrina. La quasi totalità della stessa infatti se da una parte ammette, per il periodo arcaico della storia di Roma, l’accezione giuridico-formale di bellum iustum, dall’altra ne individua nella riflessione ciceroniana del I sec. a.C. il punto di svolta, dovuto all’introduzione della iusta causa belli, che avrebbe dato inizio alla concezione etico-sostanziale della “guerra giusta”, sviluppata poi dalla cultura cristiana del medioevo e ancora presente nella moderna polemologia (per alcuni significativi esempi, con sfumature interne, vedi S. Albert, ‘Bellum iustum’. Die Theorie des ‘gerechten Krieges’ und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz, 1980; A. Watson, International Law in Archaic Rome. War and Religion, Baltimore-London, 1993; K.-H. Ziegler, Völkerrechts-geschichte, München, 1994). A tale concezione si oppone ora L. Loreto, Il ‘bellum iustum’ e i suoi equivoci, cit., il quale ritiene, imputando ai più un equivoco reiterato nella lettura di Cicerone, che la nozione di bellum iustum sarebbe stata, nel corso dell’intera esperienza romana, di carattere esclusivamente giuridico formale. Pur condividendo la critica di Loreto alla tesi dominante, non mi convince l’interpretazione della concezione ciceroniana sulla guerra, perché troppo appiattita su quella dei secoli precedenti (VI-IV sec. a.C.) quando le relazioni ‘internazionali’, la situazione di politica interna, il sistema giuridico-religioso di Roma erano profondamente diversi da quelli dell’ultimo secolo della repubblica. E’ mia convinzione che Cicerone sia stato, anche perché ispirato dalla filosofia greca, uno studioso attento dei problemi della pace e della guerra anche se, e in ciò ha ragione Loreto, la sua riflessione sistematizzante si muove tutto all’interno dell’orizzonte giuridico ben lontano da quello etico-religioso che in seguito sarà di S. Agostino.

 

[40] Tert., cor. 11 e sp. pargr. 7: “…etiam militiae ipsius inlicitae”. Vedi pure apol. 37,5 e idol. 19,3.

 

[41] Quaest. in Hept. 6,10; Epist. 138,2,14; Contra Faustum 22,70,74.

 

[42] Civ. 19,5. Nella città celeste, invece la pace è “plaenissima atque certissima” (Civ. 19,10 ma già in 1 praef.)

 

[43] Civ. 7,14: “bellum opus est hominum et optabilius non est”.

 

[44] Civ. 19,7: Quamvis enim non defuerint neque desint hostes exterae nationes, contra quas semper bella gesta sunt et geruntur.

 

[45] La cupiditas dominandi (cfr. Civ. 3,10; 3,14,2; 4,6; 19,7 e 14).

 

[46] Dovuta alla diversitas linguarum (cfr. Civ. 19,7).

 

[47] Quaest. in Hept. 6,10: Iusta autem bella definiri solent, quae ulciscuntur iniuras, si qua gens vel civitas, quae bello petenda est, vel vindicare neglexerit quod a suis improbe factum est, vel reddere quod per iniuras ablatum. Sed etiam hoc genus belli sine dubitatione iustum est, quod Deus imperat, apud quem non est iniquitas et novit quid cuique fieri debeat (sottolineature mie).

 

[48] Civ. 19,7.

 

[49] Civ. 1,1. La funzione positiva della guerra giusta, mandata da Dio, è ribadita da Agostino in Civ. 7,30: “qui (= il Dio cristiano contrapposto agli dèi pagani) bellorum quoque ipsorum, cum sic emendandum et castigandum est genus humanum, exordiis progressibus finibusque moderatur”. Ancora in un altro passo del De Civitate Dei si legge che la divisione terrena tra vincitori e vinti discende dalla volontà divina: “… Dei providentia, in cui potestate est, ut quisque bello aut subiugetur aut subiuget, quidam essent regnis praediti, quidam regnantibus subditi” (Civ. 18,2,1).

 

[50] C’è un testo (Enarr. in ps. Xxxv,16) in cui si coglie bene la tensione di Agostino a conformare la volontà umana alla volontà divina, come giusta directio (da cui ‘diritto’ come ‘giustizia’) della vita quotidiana: “Illa (= volontà di Dio) recta est, sed tu (= volontà di umana) curvus; voluntas tua corrigenda est ad illam, non illa curvanda est ad te: et rectum habebis cor”.

 

[51] Cfr. il Decretum di Graziano (1140-1142), causa XXIII, quaestio II.

 

[52] Cfr. Cino da Pistoia, In codicem et aliquot titulos primi pandectarum tomi id est digesti veteris doctissima commentaria, in D. 1,1,5; e in particolare, nel secolo XIV, Baldo degli Ubaldi, con le sue cinque condizioni (sulla dottrina medievale relativa alla guerra, vedi ora L. Busi, Il problema della guerra nella prima civilistica, in A Ennio Cortese, I, Roma, 2001, pp. 117-151).

 

[53] S. Tommaso, Summa Theologiae, Secunda Secundae, q. 40.

 

[54] F. De Vitoria nelle conclusioni della sua Relectio de iure belli (Corpus Hispanorum de Pace, vol. VI, Madrid, 1981) indica tre “regulae belligerandi” generali, a metà strada tra lo ius ad bellum e lo ius in bello. La prima è che il principe, munito dell’autorità di muovere la guerra, deve ricorrere ad essa soltanto come extrema ratio, sforzandosi invece di vivere in pace (“Suppositio quod principes habent auctoritatem gerendi bellum, primum omnium debent non quaerere occasiones et causas belli sed, si fieri potest, cum omnibus cupiant pacem habere”); la seconda è che la guerra giusta sia finalizzata non allo sterminio del nemico ma alla pace e alla sicurezza dopo aver ripristinato il diritto leso e difeso la patria (“Conflato iam ex iustis causis bello, oportet illud gerere non ad perniciem gentis contra quam bellandum est, sed ad consecutionem iuris sui et defensionem patriae, ut ex illo bello pax aliquando et securitas consequatur”); la terza è che, conseguita la vittoria, il principe si comporti come un giudice che, con equità e misura, dia soddisfazione alla parte lesa e punisca il colpevole non oltre la misura (“Parta victoria et completo bello… oportet victorem existimare se iudicem sedere inter duas respublicas: alteram, quae laesa est, alteram quae iniuriam fecit, ut non tanquam accusator sententiam ferat, sed tanquam iudex satisfaciat quidem laesae. Sed quantum fieri poterit sine calamitate reipublicae nocentis”).

 

[55] Per Gentili il jus belli deve valere inter gentes, cioè anche per il nemico (Commentatio de jure belli, lib. I, cap. 1). Il diritto sopravanza così la morale. Da qui la famosa frase gentiliana: “Silete theologi in munere alieno” (op. cit., lib. I, cap. 3).

 

[56] H. Grotius, De jure belli ac pacis, lib. I, cap. 3, § 4: Ut bellum solenne sit ex jure gentium, duo requiruntur; primum ut geratur utrique auctore eo, qui summam potestatem habeat in civitate; deinde, ut ritus quidam adsint, de quibus agemus suo loco (= lib. III, cap. 3, §§ 4-5). Per avere una “guerra giusta” occorre che: sia proclamata da soggetti muniti di imperium, inteso quest'ultimo come ‘sovranità’ (cfr. lib. I, cap. 3, § 17. Per cui i combattenti devono essere hostes giuridicamente riconosciuti: lib. III, cap. 1, §§ 1-2); sia indetta da un publice decretum e dichiarata pubblicamente, mediante denuntiatio (lib. III, cap. 3, § 5).

 

[57] Per una visione di sintesi della formazione dello “Stato moderno” vedi P. Schiera, s.v. ‘Stato moderno’, in Dizionario di politica, Milano, 1990, pp. 1128-1134.

 

[58] N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., p. 62.

 

[59] Id., op. cit., p. 63.

 

[60] Il significato che attribuisco alla distinzione è quella prospettata da Bobbio (op. ult. cit., ma già Guerra e diritto (1966) ora in N. Bobbio, Teoria generale della politica, a cura di M. Bovero, Torino, 1999, pp. 520-521), secondo il quale “il giudizio di legittimità della guerra riguarda il giusto titolo (la iusta causa) per cui è intrapresa; il giudizio di legalità riguarda esclusivamente l’esercizio o la condotta della guerra” (p. 64; vedi pure a p. 103).

 

[61] Cfr. N. Bobbio, Il problema della guerra, cit., p. 65. Possono vedersi, a titolo esemplificativo, gli artt. 48, 51 e 57 del I Protocollo aggiuntivo del 1977 alle Convenzioni di Ginevra del 1949.

 

[62] H. Kelsen, La dottrina pura del diritto (1960), trad. it., Torino, 19753, p. 354

 

[63] Art. 33 della Carta: “le parti di una controversia, la cui continuazione sia suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguire una soluzione mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato, regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali, od altri mezzi pacifici di loro scelta”.

 

[64] “Lo Statuto delle nazioni Unite [] si discosta dal Covenant [= Patto della Società delle Nazioni] in quanto interdice, mediante il divieto generale dell’uso o della minaccia della forza (art. 2 n. 4), ogni forma di guerra” (A. Curti Gialdino, s.v. Guerra (Dir. Intern.), in EdD, p. 871.

 

[65] Art. 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…”. Il nostro Stato-comunità, quindi, rinuncia ad usare il ‘fatto’ bellico contro altri popoli, anche se ciò non significa affermazione del pacifismo assoluto, perché, sempre nella Costituzione, è prevista la guerra di difesa (artt. 52 c. 1; 78 e 87 c. 9). Sulla dibattuta quaestio, anche in relazione all'intervento italiano in Kosovo, vedi le suggestioni in M. Dogliani-S. Sicardi (a cura di), Diritti umani e uso della forza, Torino, 1999.

 

[66] Sulla inevitabilità dei conflitti, cfr. l’interessante libro di I. Eibl-Eibesfeldt, Etologia della guerra (1998), trad. it., Torino, 1999.

 

[67] Cic., Mil. 4,11. La frase è pronunziata l’8 aprile del 52 a.C. da Cicerone durante l’arringa volta a scagionare il capo degli optimates Annio Milone dall’accusa di aver ucciso premeditatamente l’avversario politico, nonché capo dei populares, Clodio. Si invoca la legittima difesa (potestas defendendi): Milone avrebbe ucciso in funzione preventiva Clodio, che stava per assassinarlo. L’avvocato di Arpino argomenta che, in particolari situazioni, la necessità impone di respingere la violenza con la forza (“verum etiam cum vi vis illata defenditur”) senza attendere (“exspectare”) l’autorizzazione delle leggi, che potrebbe essere tardiva per evitare il danno ingiusto (“iniusta poena”). Dunque, in questi casi, “il diritto cede il passo alla guerra”.

 

[68] Vedi in particolare gli scritti del 1966, 1967, 1983 tutti ripubblicati in N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., pp. 520-535; e, ancora, Id., Il problema della pace e della guerra, cit., pp. 99-118.

 

[69] N. Bobbio, Teoria generale della politica, cit., p. 525.

 

[70] Per una breve ma puntuale panoramica su 'tipi', 'modi', e 'fini' della guerra rimando alle pagine di L. Bonanate, La guerra, Roma-Bari, 1998, pp. 5-10.

 

[71] L. Bonanate, La guerra, cit., p. 10.

 

[72] K. von Clausewitz, Della guerra, cit., p. 19.

 

[73] R. Aron, La politica, la guerra, la storia, Bologna, 1992, p. 85. Per F. Armao, Capire la guerra, Milano, 1994, p. 17, "la terza condizione [della guerra, dopo l'agire intenzionale e collettivo] sarà che l'agire sia violento”.

 

[74] E’ sempre Bobbio, Guerra e diritto, cit., p. 525, a sottolineare, nell’antitesi guerra-diritto, l’aspetto peculiare della guerra “al di sopra di ogni possibilità di controllo giuridico”. La guerra è sempre diretta a "sovvertire un ordine" (F. Armao, Capire la guerra, cit., p. 18).

 

[75] Cfr. N. Bobbio, Contributi ad un dizionario giuridico, Torino, 1994, pp. 59-87: “il carattere specifico dell’ordinamento normativo del diritto rispetto alle altre forme di ordinamenti normativi consiste nel fatto che il diritto ricorre in ultima istanza alla forza fisica per ottenere il rispetto delle norme, per rendere, come si dice, effettivo o efficace l’ordinamento nel suo complesso…” (p. 79, sottolineature mie). L'esercizio del 'potere' per la realizzazione di interessi individuali leciti nell'ambito del diritto privato è colta lucidamente da E. Betti, Istituzioni di diritto romano, I, Padova, 19472, p. 2, a proposito del “problema pratico della norma giuridica” in relazione a problemi di “organizzazione” della vita collettiva e, soprattutto, di “composizione” dei possibili conflitti di interessi: “Il conflitto d’interesse viene così composto: l’interesse ritenuto degno di prevalere viene tutelato con la subordinazione dell’interesse opposto, ossia con l’imporre a chi abbia quest’ultimo interesse un vincolo munito di una sanzione coattiva, che consiste nella possibilità dell’uso della forza per la sua osservanza o per la riparazione dell’inosservanza”.

 

[76] L’interessante spunto è in M. Pedrazza Gorlero, Il diritto la guerra e la costituzione, in Bollettino della Società Letteraria di Verona, Verona, 2000, pp. 33 ss.

 

[77] Tradizionalmente la "pace viene definita negativamente come assenza di guerra, più brevemente come non-guerra (vedi quanto già detto alla nt. 33). Il termine pax deriverebbe da "due radici distinte che nel corso della loro storia, all'interno delle singole tradizioni linguistiche non si esclude che abbiano potuto avere contatti reciproci". La radice *PAG-/P$G-, che ha il significato di "piantare", "conficcare", da cui "costituire"; la radice *PAK-/P$K-, il cui primo significato è "unire", "legare", "congiungere" (cfr. M.L. Porzio Gernia, Considerazioni linguistiche sulla famiglia del latino 'pax', 'paciscor', ecc., in I. Lana (a cura di), Le concezioni della pace a Roma, Torino, 1987, p. 208). Già Ulpiano, giurista romano del III sec. d.C., coglieva nel termine pax un collegamento con pactio e quindi con pactum, che indica l'atto di concludere un accordo. D. 2,14,1,1-2 (Ulpianus, libro quarto ad edictum): Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorm pluriumve in idem placitum et consensus. (trad.: "Il termine patto deriva da 'pactio' (da cui anche il significato di pace); la 'pactio' consiste nel consenso di due o più individui sullo stesso scopo". Sottolineature mie). Si tratterebbe di una "definizione (etimologicamente) persuasiva", come scrive A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli, 1966, p. 410. Vedi, di recente, F. Sini, ‘Bellum nefandum’, Sassari, 1991, pp. 244 ss. Da qui il verbo primitivo pacere, presente nelle XII Tavole col senso di 'concludere un accordo' (cfr. G. Semerano, s.v. 'pax', in Diz. etim. ling. lat.) Il termine latino pax significa "il presupposto e la premessa di un contenuto", al contrario del greco eiréne che invece indica "il contenuto e i frutti del tempo di pace" (I. Lana, L'idea di pace nell'antichità, cit., p. 56. Altra bibliografia in F. Sini, ‘Bellum nefandum’, cit., pp. 246-247). In conclusione, lo stato di pace sarebbe una conquista dell’umanità e non uno stadio, cui perviene meccanicamente l’evoluzione dell’umanità (si pensi alla “pace perpetua” propugnata da Kant).

 

[78] Cfr. N. Bobbio, s.v. pace, in Dizionario di Politica, cit., p. 739, dove la “pace negativa”, consistente nella semplice assenza di guerre, è distinta dalla “pace positiva”.

 

[79] Il concetto è descritto da N. BOBBIO, Il problema della guerra e le vie della pace, cit., pp. 65-66, all'interno della più vasta riflessione sulla guerra termonucleare: "dopo essere stata considerata, ora come un mezzo per attuare il diritto (teoria della guerra giusta), ora come oggetto di regolamentazione giuridica (nell'evoluzione del ius belli), la guerra ritorna ad essere, come nella raffigurazione hobbesiana dello stato di natura, l'antitesi del diritto", cui si contrappone il "pacifismo attivo" articolato in tre forme: "il primo strumentale, ovvero la pace attraverso il disarmo e la nonviolenza, il secondo istituzionale, ovvero la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace attraverso l'educazione morale" (per le varie forme di "pacifismo" storicamente determinato, vedi la breve ma chiara esposizione di N. BOBBIO, s.v. Pacifismo, in Dizionario della Politica, cit., pp. 745-747). Per un’esplicitazione del collegamento stretto tra la proposta del “pacifismo istituzionale” di Bobbio e la linea di un ordinamento giuridico come mezzo per garantire una pace stabile e universale di Kelsen, cfr. D. Zolo, I signori della pace, Roma, 1998, in particolare il saggio n. 4.

 

[80] A. Cassese, Le cinque regole per una guerra giusta, in L’ultima crociata?, cit., p. 28: "1) lo Stato contro cui si usa la forza ha violato in modo gravissimo, massiccio e ripetuto i diritti umani fondamentali; 2) il Consiglio di sicurezza ha ripetutamente invitato quello Stato a porre termine ai massacri; 3) è stata tentata ogni possibile soluzione diplomatica e pacifica; 4) l’uso della forza è sostenuto da un gruppo di Stati e non da una singola potenza e la maggioranza degli Stati dell’ONU non è contraria a tale uso; 5) il ricorso alla guerra non ha alternative rispetto alla prosecuzione dei massacri da parte dello Stato responsabile”.

 

[81] N. Bobbio, Gli intellettuali tra deprecazione e realismo, in L’ultima crociata?, cit., p. 119. L’idea era già presente nella riflessione del filosofoso torinese, come si evince dall’espressione “tappa della tappa” in Una guerra giusta, cit., p. 23.

 

[82] Cfr. J. Habermas, Umanità e bestialità: una guerra ai confini tra diritto e morale, cit. p. 86. Il filosofo tedesco ha insistito molto sull’instaurarsi di un nuovo paradigma nelle relazioni internazionali, vedi in modo particolare J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Milano, 1998 e La costellazione postnazionale, Milano, 1999.

 

[83] Per un’analisi degli effetti che il processo di globalizzazione in atto produce in ambito istituzionale e giuridico, vedi ora M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione (Diritto e diritti nella società transnazionale), Bologna, 2000.

 

[84] Sul terreno istituzionale, una conquista importante sarebbe la democratizzazione della società planetaria, su cui vedi L. Bonanate, Democrazia tra le nazioni, cit.

 

[85] Ha posto l’accento su tale aspetto specifico, il rapporto stretto tra la diplomazia e la guerra, Raymond Aron (La politica, la guerra, la storia, cit., p. 431), per il quale “gli uomini di stato hanno sempre considerato la guerra come risorsa estrema della diplomazia” (p. 412).

 

[86] Una crescita di normazioni e giurisdizioni internazionali dovrebbe far fronte alla perdita del primato legislativo dei singoli Stati (vedi M.R. Ferrarese, Le istituzioni della globalizzazione, cit., spec. pp. 101-158; altri spunti nei saggi di A. Cassese, L. Bonanate e F. Cerutti in F. Cerutti (a cura di), Gli occhi sul mondo (Le relazioni internazionali in prospettiva interdisciplinare), Roma, 2000).