N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana

Francesco Sini

Università di Sassari

 

 

Dai documenti dei sacerdoti romani: dinamiche dell’universalismo nella religione e nel diritto pubblico di Roma antica

 

 

 

Sommario: 1. – Urbs auspicato inauguratoque condita (Livius 5.52.2). – 2. Una religio per la pax deorum. – 3. Tensioni universalistiche della religione romana. – 4. Dai documenti dei sacerdoti romani (“aperture” cultuali e “procedure operative” dell’universalismo religioso). – 5. La tradizione documentaria dei collegi sacerdotali come “memoria” delle istituzioni giuridiche e politiche.

 

 

 

1. – Urbs auspicato inauguratoque condita (Livius 5.52.2)

 

Nei libri ab urbe condita di Tito Livio si registra di norma una convinta adesione – forse anche influenzata dalla coeva restaurazione religiosa di Augusto – alla “teologia” della storia propria dei collegi sacerdotali romani; i quali, fin dalle prime elaborazioni teologiche e giuridiche rilevabili nei loro documenti, teorizzarono un rapporto di imprescindibile causalità con la religio[1] per la vita e l’imperium del Popolo romano[2].

Nell’opera liviana, infatti, traspare più volte la convinzione che la storia dei Romani costituisse la prova più inconfutabile di come nelle vicende umane «omnia prospera evenisse sequentibus deos»[3]; unitamente ad un altro convincimento profondo: la pietas e la fides[4] avevano costituito (e costituivano) gli elementi essenziali per la legittimazione divina dell’imperium dei Romani. A suo avviso, gli Dèi si sarebbero mostrati, in ogni circostanza, assai più ben disposti verso coloro i quali avessero osservato la pietas ed onorato la fides («favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit»)[5].

Per il tema che intendo trattare in questa comunicazione, appare rilevante un altro passo di Tito Livio[6], peraltro assai conosciuto, tratto dal quinto dei suoi ab urbe condita libri (Liv. 5.52.1-3). In questo testo, relativo alla narrazione degli eventi appena successivi alla distruzione dell’Urbe ad opera dei Celti, il grande annalista, con un discorso attribuito a Furio Camillo, ha voluto caratterizzare la città di Roma come il luogo massimamente votato alla religione[7]:

 

Titus Livius 5.52: [1] Haec culti neglectique numinis tanta monumenta in rebus humanis cernentes ecquid sentitis, Quirites, quantum uixdum e naufragiis prioris culpae cladisque emergentes paremus nefas? [2] Vrbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant. [3] Hos omnes deos publicos priuatosque, Quirites, deserturi estis?.

[Tito Livio 5.52.1-3: Vedendo queste così grandi prove dell’importanza che ha nelle cose umane il rispetto degli Dèi, non avvertite, o Quiriti. Quale empietà ci prepariamo a commettere, appena scampati dal naufragio della colpa e della rovina precedente? Abbiamo una città fondata con regolari auspici e augurii, dove non vi è luogo che non sia pieno di cose sacre e di dèi; per i sacrifici solenni, nonché i giorni, sono stati fissati anche i luoghi in cui devono compiersi. Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi Dèi, pubblici e privati?]

 

La valenza religiosa di questo testo liviano era stata già colta assai bene da Huguette Fugier nelle sue «ricerche sulle espressioni del sacro nella lingua latina»[8]; del resto il testo di Livio è molto esplicito: con buone argomentazioni, tutte svolte sul filo della teologia e dello ius sacrum, Camillo sosteneva che il Popolo romano sarebbe perito qualora avesse abbandonato il sito dell’Urbs Roma, dove peraltro «nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus»; cioè l’unico luogo che aveva determinato (al momento della fondazione) e poteva assicurare (nel tempo) l’identità religiosa e giuridica del Popolo romano, in quanto fondato da Romolo con un atto inaugurale seguendo il volere degli Dèi.

Detto in altre parole, il pensiero di Camillo è che non si potesse conservare la pax deorum al di fuori del solo ambito locale (la Urbs Roma) adatto a contenere i riti e i sacrifici che ordinariamente assicuravano al Popolo romano la conservazione della pax deorum.

Anzi nella parte finale del testo, si confondono volutamente i luoghi con gli Dèi onorati in quei luoghi: Tito Livio, infatti, fa dire a Camillo che l’abbandono del sito di Roma corrisponderebbe all’abbandono degli Dèi romani: «Volete abbandonare, o Quiriti, tutti questi Dèi, pubblici e privati?»

Questo imprescindibile legame tra Dèi e luoghi deputati al loro culto, di cui la Urbs Roma rappresenta un esempio tanto significativo, non deve far dimenticare, tuttavia, che la religione politeista romana, proprio perché finalizzata alla conservazione della pax deorum, fu sempre caratterizzata da forti tensioni universalistiche e da costanti “aperture” cultuali verso l’esterno. Di questo tratterò nella mia comunicazione.

 

 

2. – Una religio per la pax deorum

 

La sapientia (teologica e giuridica) dei sacerdoti romani, mediante la definizione del ne-fas – che è bene ricordare riguardava tempo e spazio, (sia tempora sia loca) – rivolgeva le sue prime e maggiori cautele ai rapporti tra uomini e Dèi; con lo scopo precipuo di preservare la pax deorum, che riposava sulla perfetta conoscenza di tutto ciò che potesse turbarla; degli atti che mai dovevano essere compiuti; delle parole che mai dovevano essere pronunciate[9].

Nell'antitesi fas/nefas[10], fondata in particolar modo sulla concezione teologica che spazio e tempo appartenessero agli Dèi, si manifestava compiutamente la peculiarità dei rapporti tra uomini e divinità nel sistema giuridico-religioso romano[11].

Come si è già accennato, la teologia e lo ius divinum dei sacerdoti romani rappresentavano la vita e la storia del Popolo romano in rapporto di imprescindibile causalità con la religio: la volontà degli Dèi aveva concorso a determinare il luogo (e il tempo) della fondazione dell’Urbs Roma[12]; ne aveva sostenuto la prodigiosa “crescita” del numero dei cittadini (civitas augescens)[13]; infine, presiedeva all’incomparabile fortuna dell’imperium populi Romani e garantiva la sua estensione sine fine[14].

I sacerdoti romani avevano postulato, dunque, fin dalle prime attestazioni della loro memoria storica e documentaria, il legame indissolubile della Urbs Roma con il culto degli Dèi e della vita del Popolo romano con la sua religioreligione, id est cultu deorum»)[15]; al fine di conseguire e conservare, mediante i riti e i culti della religione politeista, la pax deorum[16] («pace degli Dèi», ma da intendere nel senso di «pace con gli Dèi»)[17].

Per la vita del Popolo romano si riteneva indispensabile il permanere di una situazione di amicizia nei rapporti tra uomini e Dèi[18], considerati anch’essi una delle parti del sistema giuridico-religioso; certo la più importante, in ragione dell’intrinseca potenza che si riconosceva alle divinità[19].

Dal punto di vista umano (cioè dello ius sacrum e dello ius publicum), il «legalismo religioso» (l’espressione è di Pasquale Voci)[20] dei sacerdoti romani configurava la pax deorum come un insieme di atti e comportamenti, ai quali collettività e individui dovevano necessariamente attenersi per poter conservare il favore degli Dèi. In questa prospettiva, può ben comprendersi la ragione per cui la conservazione della pax deorum costituisse il fondamento teologico dell'intero rituale romano[21]. Oggetto, quindi, dello ius del Popolo romano (ius publicum), non a caso tripartito in sacra, sacerdotes, magistratus[22].

 

 

3. – Tensioni universalistiche della religione romana

 

Riguardo all’universalismo della religione romana, sarà bene partire da un dato quasi ovvio: per i popoli che non credevano all’esistenza di un unico dio, non c’erano falsi dèi.

Le basi dell’universalismo religioso romano poggiavano proprio su questa concezioni politeistica e multireligiosa, propugnata dalla teologia e dallo ius sacrum dei sacerdoti romani; concezione ben sintetizzata da Cicerone in un passo dell’orazione Pro Flacco:

 

Sua cuique civitati religio, Laeli, est, nostra nobis[23].

 

Per quanto gli Dèi delle diverse popolazioni non fossero ritenuti tutti egualmente potenti, tutti però erano ritenuti veri in eguale maniera. I pontefici romani aggiornavano costantemente, per includervi nuovi Dèi, le liste delle divinità conosciute[24], i nomina deorum dei libri pontificum[25]. Grazie a questi scrupoli religiosi verso tutti gli Dèi, la religione politeista romana ignorava, quasi del tutto, il proselitismo e l’intolleranza[26].

Questo spiega anche la condotta tenuta dai Romani nei confronti delle religioni straniere nel corso della conquista dell’Impero: non distruggevano i templi, né proscrivevano le divinità dei popoli sottomessi; la religio consigliava di onorarle in maniera adeguata, volgendo in tal modo anche la loro potenza a favore dell’imperium populi Romani[27].

A questo punto, va detto con chiarezza che riguardo alla religione politeista romana risultano del tutto inadeguati – e forse anche un poco fuorvianti  – i concetti moderni di «libertà individuale»[28], «isolamento» e «laicizzazione»[29]. Costituirebbe ugualmente un grave errore metodologico, assumere come parametro categorie quali «tolleranza» o «intolleranza», per quanto l’immagine della religione romana come religione tollerante costituisca un motivo ormai accettato, in maniera quasi unanime, dalla dottrina più recente[30].

La prospettiva dei sacerdoti romani era piuttosto quella di tutelare i diritti degli Dèi, mossi dalla preoccupazione di non violare, seppure inconsapevolmente, aliquid divini iuris: si voleva salvaguardare, insomma, soprattutto il diritto degli Dèi di essere adorati come essi stessi avevano prescritto; da qui traeva legittimità il diritto del singolo di adorare la divinità secondo la propria coscienza, cioè nella forma che a lui sembrava più necessaria.

Grazie a questa peculiare concezione della pax deorum, la religione politeista romana, nel corso di una storia millenaria, fu sempre in grado di far coesistere nel suo ambito le esigenze cultuali particolaristiche del Popolo romano e la tensione universalistica della sua teologia e del suo diritto (divino e umano).

Del resto, le fonti antiche attestano in maniera non equivoca una religione cittadina, affatto esclusivista fin dalla sua fase primordiale[31]; anzi, a ben vedere, questa apertura originaria della religione romana si ricava dalla stessa memoria storica dei pontefici romani, i quali presentavano la coesistenza di culti patrii e peregrini[32] – regolamentata naturalmente dalla scienza sacerdotale –, quale dato originario, e fra i più caratteristici, della riforma religiosa di Numa Pompilio[33].

Altre prove di questa originaria “apertura” cultuale dell’antichissima religione romana sono costituite sia dal carattere assai risalente dell'influenza greca[34], sia da quegli «italische Einflüsse», magistralmente studiati da Kurt Latte nel suo manuale sulla religione romana[35].

 

 

4. – Dai documenti dei sacerdoti romani (“aperture” cultuali come “procedure operative” dell’universalismo religioso)

 

Abbiamo già visto che una costante apertura religiosa verso l’esterno era fortemente connaturata alla stessa concezione romana di pax deorum. La religione politeista romana, nell'intero arco del suo sviluppo storico, appare caratterizzata dalla costante esigenza (e preoccupazione) di integrare l’ “alieno" (divino o umano): dalle divinità dei vicini fino alle divinità dei nemici[36], in cerchi concentrici sempre più larghi, che potenzialmente abbracciavano l'intero spazio terrestre e, quindi, tutto il genere umano.

Dai documenti sacerdotali emergono numerose testimonianze e frammenti delle “procedure operative” che hanno permesso ai sacerdoti di dare corpo a questa vocazione universalistica. Per ragioni di brevità, in questa sede, mi limiterò a segnalare solo alcuni esempi.

 

1.

Varro, De ling. Lat. 5.33: Ut nostri augures pubblici dixerunt, agrorum sunt genera quinque: Romanus, Gabinus, peregrinus, hosticus, incertus. Romanus dictus unde Roma ab Rom<ul>o; Gabinus ab oppido Gabis; peregrinus ager pacatus, qui extra Romanum et Gabinum, quod uno modo in his servantur auspicia; dictus peregrinus a pergendo, id est a progrediendo: eo [quod] enim ex agro Romano primum progrediebantur. Quocirca Gabinus quoque peregrinus, sed quod auspicia habet singularia, ab reliquo discretus; hosticus dictus ab hostibus; incertus is, qui de his quattuor qui sit ignoratur[37].

 

Il questa citazione varroniana di documenti sacerdotali attiene alla distinzione dei genera agrorum elaborata dalla disciplina augurale[38]; distinzione che possiamo leggere in un passo del quinto libro De lingua Latina di M. Terenzio Varrone.

La divisione dello spazio in cinque agrorum genera rappresenta un mirabile esempio della semplicità, dell’efficacia interpretativa e delle potenzialità universalistiche della scienza sacerdotale. Pur salvaguardando la centralità dell’ager romanus (anche verso gli Dèi), la classificazione dei genera agrorum mostra una fortissima propensione teologica e giuridica ad instaurare rapporti – tanto reali quanto potenziali – con la molteplicità degli spazi terrestri; con gli homines che hanno relazioni a vario titolo con questi spazi; con gli innumerevoli Dèi che quegli spazi (e quanti li abitano) presiedono e tutelano.

 

2

Cicero, De nat. deor. 1.84: At primum, quot hominum linguae, tot nomina deorum; non enim ut tu Velleius, quocumque veneris, sic idem in Italia Volcanus, idem in Africa, idem in Hispania. Deinde nominum non magnus numerus ne in pontificiis quidem nostris, deorum autem innumerabilis[39].

 

3

Servius Dan., in Verg. Georg. 1.21: dique deaeque omnes post specialem invocationem transit ad generalitatem, ne quod numen praetereat, more pontificum, (per) quos ritu veteri in omnibus sacris post speciales deos, quos ad ipsum sacrum, quod fiebat, necesse erat invocari, generaliter omnia numina invocabantur[40].

 

I testi 2 (Cicero, De nat. deor. 1.84) e 3 (Servius Dan., in Verg. Georg. 1.21) si riferiscono, invece, al collegio dei pontefici. In De nat. deor. 1.84, Cicerone attesta la rigorosa propensione dei pontefici romani a determinare, con la maggiore certezza possibile, i nomina deorum; divinità di cui tuttavia sfuggiva alla conoscenza umana il dato numerico quantitativo.

Il testo n. 3 si presenta in logica connessione col passo di Cicerone. Servio Danielino riferisce ad un antico mos pontificum la cautela rituale osservata nelle solenni formule di preghiera rivolte agli Dèi: quasi ad esorcizzare l'umana impossibilità di conoscere il numero degli Dèi, i pontefici romani prescrivevano al fedele di rivolgersi sempre ad generalitatem, ne quod numen praetereat, una volta pronunciata l'invocazione alle divinità particolari onorate nella cerimonia.

Non senza ragione, proprio in questo antico mos pontificum delle preghiere può ravvisarsi la potenzialità universalistica della religione politeista romana e la sua propensione ad operare, fin dai primordia civitatis, «una “apertura” illimitata» verso tutti gli Dèi»[41].

 

4

Festus, De verb. sign., v. Peregrina sacra, p. 268 L.: Peregrina sacra appellantur, quae aut evocatis dis in oppugnandis urbibus Romam sunt † conata † [conlata Gothofr.; coacta Augustin.], aut quae ob quasdam religiones per pacem sunt petita, ut ex Phrygia Matris Magnae, ex Graecia Cereris, Epidauro Aesculapi: quae coluntur eorum more, a quibus sunt accepta[42].

 

Il quarto testo citato, anch’esso riferibile al collegio dei pontefici, attiene al significato teologico e cultuale, nonché alla concreta procedura operativa, dell'interpretatio Romana. è stato autorevolmente dimostrato da J.-L. Girard[43] che fu proprio tale interpretatio a permettere ai sacerdoti romani di conciliare l’assoluta fedeltà alla religione nazionale, con la propensione all’apertura potenzialmente illimitata verso i culti stranieri[44]. Proprio grazie alla concreta procedura operativa dell’interpretatio Romana, i culti stranieri potevano di norma essere integrati nel rituale romano, come ha sottolineato Sesto Pompeo Festo nella definizione di peregrina sacra che si legge nel De verborum significatu.

A fondamento dell’interpretatio Romana stava un senso “cosmico” e “politico” della religione, che si traduceva, secondo J. Bayet, nei concetti di pax deorum e religio[45]. La propensione ad allargare la sfera degli dèi, e quindi dei rapporti umani, all'infinito fu una caratteristica congenita della religione politeista romana; ciò determinava, necessariamente, un rapporto inscindibile tra «polythéisme et pluralisme cultuel», come ha scritto in un suo recente saggio Robert Turcan: «Le polythéisme est foncièrement étranger à l’esprit d’une “religion d’Etat”, puisqu’il implique la possibilité d’un élargissement du panthéon à l’infini»[46].

 

5

Titus Livius 5.21.3: Te simul, Iuno regina, quae nunc Veios colis, precor ut nos victores in nostram tuamque mox futuram urbem sequare, ubi te dignum amplitudine tua templum accipiat[47].

 

6

Macrobius, Sat. 3.9.6-9: Nam repperi in libro quinto rerum reconditarum Sammonici Sereni utrumque carmen, quod ille se in cuiusdam Furii vetustissimo libro repperisse professus est. Est autem carmen huius modi quo di evocantur cum oppugnatione civitas cingitur: “Si deus, si dea est, cui populus civitasque Carthaginiensis est in tutela, teque maxime, ille qui urbis huius populique tutelam recepisti, precor venerorque, veniamque a vobis peto ut vos populum civitatemque Carthaginiensem deseratis, loca templa sacra urbemque eorum relinquatis, absque his abeatis eique populo civitatique metum formidinem oblivionem iniciatis, propitiique Romam ad me meosque veniatis, nostraque vobis loca templa sacra urbs acceptior probatiorque sit, mihique populoque Romano militibusque meis propitii sitis. Si <haec> ita faceritis ut sciamus intellegamusque, voveo vobis templa ludosque facturum”. In eadem verba hostias fieri oportet, auctoritatemque videri extorum, ut ea promittant futura[48].

 

Gli ultimi due frammenti proposti riguardano gli esempi più conosciuti di evocationes degli Dèi del nemico[49]: si tratta delle formule solenni concepite dai sacerdoti romani per l’evocatio delle divinità che proteggevano due mortali nemici di Roma, quali la città etrusca di Veio e la metropoli africana dell’impero dei Fenici d’Occidente, Cartagine[50].

Non posso certo discutere, qui e ora, le implicazioni teologiche e giuridiche della formula e del rito delle evocationes degli Dèi del nemico; basterà al riguardo richiamare i risultati conseguiti nel lavoro, ormai fondamentale, di V. Basanoff[51]. Mi preme, invece, evidenziare ancora una volta, proprio nelle evocationes degli Dèi del nemico, una delle prove più significative della costante apertura religiosa verso l’esterno della religione politeista romana, fortemente connaturata alla stessa concezione di pax deorum elaborata dalla teologia e dal diritto dei sacerdoti romani.

 

 

5. – La tradizione documentaria dei collegi sacerdotali come “memoria” delle istituzioni giuridiche e politiche

 

Vorrei concludere questa mia comunicazione, formulando alcune considerazioni più generali sull'attendibilità e sulla rilevanza dei documenti riferibili agli archivi dei grandi collegi sacerdotali romani; specialmente per quanto attiene alla ricostruzione delle istituzioni giuridiche e politiche di Roma arcaica.

è noto che i materiali religiosi e giuridici degli archivi sacerdotali[52] (e quindi il lessico e i concetti elaborati dai sacerdoti)[53] rappresentano le evidenze più autentiche e le prime riflessioni sistematiche dell’antica giurisprudenza romana[54]. Questi materiali costituiscono altresì il nucleo più risalente e affidabile della storiografia romana, poiché in essi è possibile trovare gli elementi basilari, le caratteristiche originarie e la dialettica dello sviluppo delle istituzioni, pubbliche e private.

I documenti sacerdotali sono da considerare, dunque, strumenti indispensabili per un riesame complessivo dell'organizzazione 'politica' romana, a cominciare dalla ridefinizione dello ius publicum in chiave non "statualista"[55]; il ricorso a tali documenti consente, inoltre, di superare l’inadeguatezza delle moderne categorie giuridiche a rappresentare pienamente le caratteristiche più significative del "sistema giuridico-religioso" dei Romani.

Nella tradizione documentaria dei collegi sacerdotali, possono individuarsi due linee di tendenza, in qualche misura complementari. Da una parte, si riscontra un formalismo assai rigoroso (cioè conservazione del testo originario, o di quello ritenuto tale) per quanto riguarda gli antichissimi carmina[56], recitati ancora in età imperiale avanzata in una forma linguistica molto antica, ormai mal compresi dagli stessi sacerdoti (Quintilianus, Instit. orat. 1.6.39-41)[57].

L’autorevole testimonianza di Quintiliano chiarisce le ragioni di un simile comportamento da parte dei sacerdoti romani: illa mutari vetat religio et consecratis utendum est. A questo proposito, mi pare da condividere la suggestiva interpretazione del tradizionalismo rituale delle società antiche, elaborata nell’Ottocento da Numa Denis Fustel de Coulanges[58].

D'altra parte i sacerdoti, mentre con prassi documentaristica costante e minuziosa registravano gli atti significativi del loro operare quotidiano, procedevano nel contempo all'aggiornamento linguistico dei testi riguardanti regole rituali e forme di culto. Così, di generazione in generazione, si vennero accumulando negli archivi sacerdotali numerosi documenti – per la maggior parte costituiti da decreta e responsa[59] – che attraverso revisioni e sistemazioni periodiche pervennero sostanzialmente integri ai sacerdoti-giuristi e agli antiquari degli ultimi due secoli dell'età repubblicana[60].

 

 

 

 



 

(*) Pubblico senza alcuna modifica la comunicazione presentata nel XII Seminario Internazionale di Studi Storici “Da Roma alla Terza Roma” «Città ed Ecumene. I luoghi dell’universalismo, da Roma a Costantinopoli a Mosca» (Roma, Campidoglio, 12-23 aprile 2002).

 

[1] Per significati e spettro semantico della parola, cfr. H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 172 ss.; é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, pp. 265 ss.; H. Wagenvoort, Wesenzüge altrömischer Religion, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 348 ss. [ripubblicato col titolo Characteristic Traits of Ancient Roman Religion, in Id., Pietas. Selected Studies in Roman Religion, Leiden 1980, pp. 223 ss.]; G. Lieberg, Considerazioni sull'etimologia e sul significato di Religio, in Rivista di Filologia e di Istruzione Classica 102, 1974, pp. 34 ss.; R. Muth, Von Wesen römischer religio, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 290 ss.; R. Schilling, L'originalité du vocabulaire religieux latin, in Id., Rites, cultes, diex de Rome, Paris 1979, pp. 30 ss.; E. Montanari, v. Religio, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 423 ss. Quanto invece all'antitesi religio/superstitio, vedi il lavoro ormai classico di W. F. Otto, Religio und Superstitio, in Archiv für Religionswissenschaft 14, 1911, pp. 406 ss.; e il più recente saggio di M. Sachot, Religio/superstitio. Histoire d'une subversion et d'un retournement, in Revue de l'Histoire des Religions 208, 1991, pp. 355 ss.

 

[2] Valgano, al riguardo, le acute osservazioni di R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto tra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, p. 198, per il quale «è certo che nella storia primitiva di Roma domina il concetto che non solo le principali vicende, ma i principi stessi dell'organizzazione sociale fossero rispondenti alla volontà degli Dèi».

 

[3] Titus Livius 5.51.4-5: Equidem, si nobis cum urbe simul positae traditaeque per manus religiones nullae essent, tamen tam evidens numen hac tempestate rebus adfuit Romanis, ut omnem neglegentiam divini cultus exemptam hominibus putem. Intuemini enim horum deinceps annorum vel secundas res vel adversas; invenietis omnia prospera evenisse sequentibus deos, adversa spernentibus. Cfr. Titus Livius 1.9.3-4: Urbes quoque, ut cetera, ex infimo nasci; dein, quas sua virtus ac dii iuvent, magnas opes sibi magnumque nomen facere; satis scire origini Romanae et deos adfuisse et non defuturam virtutem. 1.21.1-2: Ad haec consultanda procurandaque multitudine omni a vi et armis conversa, et animi aliquid agendo occupati erant, et deorum adsidua insidens cura, cum interesse rebus humanis caeleste numen videretur, ea pietate omnium pectora imbuerat, ut fides ac ius iurandum pro legum ac poenarum metu civitatem regerent. Et cum ipsi se homines in regis velut unici exempli mores formarent, tum finitimi etiam populi, qui antea castra non urbem positam in medio ad sollicitandam omnium pacem crediderant, in eam verecundiam adducti sunt, ut civitatem totam in cultum versam deorum violare ducerent nefas. 1.55.3-4: Inter principia condendi huius operis movisse numen ad indicandam tanti imperii molem traditur deos; nam cum omnium sacellorum exaugurationes admitterent aves, in Termini fano non addixere; idque omen auguriumque ita acceptum est, non motam Termini sedem unumque eum deorum non evocatum sacratis sibi finibus firma stabiliaque cuncta portendere. 8.3.10: Hoc demum proelium Samnitium res ita infregit, ut omnibus conciliis fremerent minime id quidem mirum esse, si impio bello et contra foedus suscepto, infestioribus merito deis quam hominibus, nihil prospere agerent. 28.11.1: In civitate tanto discrimine belli sollicita, cum omnium secundorum adversorumque causas in deos verterent, multa prodigia nuntiabantur.

 

[4] M. Merten, Fides Romana bei Livius, Diss. Frankfurt am Main 1965; W. Flurl, Deditio in fidem. Untersuchungen zu Livius und Polybios, Diss. München 1969, pp. 127 ss.; su fides e pietas vedi T. J. Moore, Artistry and Ideology: Livy’s Vocabulary of Virtue, Frankfurt am Main 1989, in part. pp. 35 ss., 56 ss.

 

[5] Titus Livius 44.1.9-11: Paucis post diebus consul contionem apud milites habuit. Orsus a parricidio Persei perpetrato in fratrem, cogitato in parentem, adiecit post scelere partum regnum veneficia, caedes, latrocinio nefando petitum Eumenen, iniurias in populum Romanum, direptiones sociarum urbium contra foedus. Ea omnia quam dis quoque invisa essent, sensurum in exitu rerum suarum; favere enim pietati fideique deos, per quae populus Romanus ad tantum fastigii venerit. Per una visione complessiva delle concezioni religiose del sommo annalista romano, sono da consultare G. Stübler, Die Religiosität des Livius, Stuttgart-Berlin 1941; I. Kajanto, God and fate in Livy, Turku 1957; A. Pastorino, Religiosità romana dalle Storie di Titus Livius, Torino 1961; W. Liebeschuetz, The Religious position of Livy’s History, in The Journal of Roman Studies 67, 1967, pp. 45 ss.; D. S. Levene, Religion in Livy, Leiden-New York-Köln 1993; per le formule di preghiera, vedi invece F. V. Hickson, Roman prayer language: Livy and the Aeneid of Virgil, Stuttgart 1993.

 

[6] Già G. Scherillo, Il diritto pubblico romano in Titus Livius, in Aa.Vv., Liviana, Milano 1943, pp. 79 ss., sottolineava, a ragione, la notevole rilevanza dei libri ab urbe condita del grande annalista, quale fonte privilegiata per la conoscenza della complessa materia dello ius publicum in età repubblicana; nello stesso senso, più di recente, C. St. Tomulescu, La valeur juridique de l'histoire de Tite-Live, in Labeo 21, 1975, pp. 295 ss.

 

[7] Cfr., in tal senso, A. Ferrabino, Urbs in aeternum condita, Padova 1942; J. Vogt, Römischer Glaube und römisches Weltreich, Padova 1943. Per quanto riguarda, invece, più specificamente l’ideologia, vedi H. Haffter, Rom und römische Ideologie bei Livius, in Gymnasium 71, 1964, pp. 236 ss. [= Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, pp. 74 ss.]; M. Mazza, Storia e ideologia in Livio. Per un'analisi storiografica della ‘praefatio’ ai ‘libri ab urbe condita’, Catania 1966, in part. pp. 129 ss.; G. Miles, Maiores, Conditores, and Livy's Perspective of the Past, in Transactions of the American Philological Association 118, 1988, pp. 185 ss.; B. Feichtinger, Ad maiorem gloriam Romae. Ideologie und Fiktion in der Historiographie des Livius”, in Latomus 51, 1992, pp. 3 ss.

 

[8] H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, cit., p. 207: «En fait, le populus ne pourrait subsister s’il perdait le milieu sacré qui le nourrit pour ainsi dire, en quittant l’urbs fondée avec l’acquiescement des auspices et par un acte inaugural; ou pour exprimer la même idée à un niveau religieux un peu plus moderne, il ne pourrait conserver la pax deorum, hors du cadre seul apte à contenir les sacrifices réguliers, par lesquels cette “paix” se maintient. Telles sont les vérités que lui rappelle Camille, pour ruiner la folle suggestion des tribuns, d’émigrer en masse vers le site de Véies»; ma vedi anche la riflessione di C. M. Ternes, Tantae molis erat… De la ‘nécessité’ de fonder Rome, vue par quelques écrivains romains du –1er siècle, in “Condere Urbem”. Actes des 2èmes Rencontres Scientifiques de Luxembourg (janvier 1991), Luxembourg 1992, pp. 18 s.

 

[9] R. Orestano, I fatti di normazione nell'esperienza romana arcaica, Torino 1967, p. 114: «In queste condizioni tutta la vita privata e quella pubblica erano dominate dall'assillo ansioso e ininterrotto di operare in accordo con queste "forze" o "deità", di procurarsi il loro ausilio, di propiziarsi il loro assenso, di mettersi al riparo dalle loro influenze ostili, di non fare nulla che potesse suscitare il loro sfavore o una loro reazione. La paura di non soddisfare gli dèi o, peggio, che qualche atto o comportamento potesse rompere la pax deorum da cui dipendevano il benessere dell'individuo, della famiglia, della comunità, rendeva il romano continuamente attento a cercare in qualunque aspetto della natura i segni della volontà divina».

 

[10] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 7] Sassari 1991, pp. 83 ss.

 

[11] Ho utilizzato l’espressione «sistema giuridico-religioso» in luogo di «ordinamento giuridico» sulla base delle motivazioni offerte da P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss., in part. p. 37 n. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis Humanae'', Roma 1991, pp. 34 s. Contro, R. Orestano, Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; e parzialmente da A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.

 

[12] Già il poeta Ennio aveva cantato, in questo modo, l’antichissima fondazione dell’Urbe: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est (Svetonius, August. 7: cum, quibusdam censentibus Romulum appellari oportere quasi et ipsum conditorem urbis, praevaluisset, ut Augustus potius vocaretur, non solum novo sed etiam ampliore cognomine, quod loca quoque religiosa et in quibus augurato quid consecratur augusta dicatur, ab auctu vel ab avium gestu gustuve, sicut etiam Ennius docet scribens: Augusto augurio postquam inclita condita Roma est.); cfr. anche Livius 1.4.1: Sed debebatur, ut opinor, fatis tantae origo urbis maximique secundum deorum opes imperii principium. Le varie ‘fondazioni’, di cui Roma sarebbe stata oggetto in epoche diverse, sono state studiate da A. Grandazzi, La fondation de Rome. Réflexion sur l’histoire, Paris 1991; di cui vedi, in part. p. 195, dove lo studioso francese sostiene che i Romani ebbero piena coscienza di questo «recommencement perpétuel» che aveva caratterizzato la storia della loro città.

 

[13] D. 1.2.2.7 (Pomponius libro singulari enchiridii): Augescente civitate quia deerant quaedam genera agendi, non post multum temporis spatium Sextus Aelius alias actiones composuit et librum populo dedit, qui appellatur ius Aelianum. Le implicazioni giuridiche e politiche del concetto di civitas augenscens, con particolare riguardo alla raccolta di iura ordinata dall’imperatore Giustiniano, sono state ben delineate da P. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, pp. xiv s. Sulla stessa linea interpretativa, vedi ora M. P. Baccari, Il concetto giuridico di civitas augescens: origine e continuità, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 61, 1995 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, II, Roma 1996], pp. 759 ss.; Ead., Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell'Università di Sassari, 9] Torino 1996, pp. 47 ss.

 

[14] Vergilius, Aen. 1.275-279: Inde lupae fulvo nutricis tegmine laetus / Romulus excipiet gentem et Mavortia condet / moenia Romanosque suo de nomine dicet. / His ego nec metas rerum nec tempora pono: / imperium sine fine dedi. La forte carica ideologica e la precisa connotazione religiosa del passo non sono sfuggite a P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, p. 54, per il quale proprio sull’annuncio Imperium sine fine dedi «sur l’annonce de l’Empire dans la bouche du dieu suprême repose pour ainsi dire toute l’œuvre». Già i commentari antichi (cfr. Servius, in Verg. Aen. 1.278) avevano stabilito un nesso ben preciso tra l’imperium sine fine e l’eternità di Roma; lo stesso orientamento si registra nella maggior parte della dottrina contemporanea. Tuttavia, ad un esame più attento, il verso non sembra avere univoco senso temporale. Lo interpretano in senso spazio/temporale sia G. Piccaluga, Terminus. I segni di confine nella religione romana, Roma 1974, p. 209; sia R. Turcan, Rome éternelle et les conceptions gréco-romains de l’éternité, in Roma Costantinopoli Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Studi I], Napoli 1983, p. 16; mentre A. Mastino, Orbis, kosmos, oikoumene: aspetti spaziali dell’idea dell’impero universale da Augusto a Teodosio, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III], Napoli 1986, p. 71, sostiene che nei due versi Aen. 1, 278-279 è attestata la propensione augustea a superare tutti i limiti di spazio: «l’impero romano era almeno teoricamente un imperium sine fine, che non aveva frontiere». Per la bibliografia sul poema virgiliano, mi pare utile rinviare a W. Suerbaum, Hundert Jahre Vergil-Forschung: eine systematische Arbeitsbibliographie mit besonderer Berücksichtigung der Aeneis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.31.1, Berlin-New York 1980, pp. 3 ss. Quanto alla divini et humani iuris scientia di Virgilio, vedi invece F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del "diritto internazionale antico", cit., pp. 17 ss.

 

[15] Questo significato di religio è attestato da Cicerone, De nat. deor. 2.8: C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. Sul passo, vedi fra gli altri C. Bailey, Phases in the religion of ancient Rome, Berkeley 1932, rist. Westport, Conn. 1972, pp. 274 s.; R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden - New York - København - Köln 1988, pp. 5 s.: «C'est à la piété collective et institutionnelle, aux religions de la cité que les Romains attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l'emporter sur tous peuples religione, id est cultu deorum»; da ultimo, M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, pp. 196 s.

Nello stesso senso, anche altri testi ciceroniani: De nat. deor. 1.117 (religionem, quae deorum cultu pio continetur); De leg. 1.60 (cum suis, omnesque natura coniunctos suos duxerit, cultumque deorum et puram religionem susceperit); 2.30 (Quod sequitur vero, non solum ad religionem pertinet, sed etiam ad civitatis statum, ut sine iis, qui sacris publice praesint, religioni privatae satis facere non possint; continet enim rem publicam consilio et auctoritate optimatium semper populum indigere. Discriptioque sacerdotum nullum iustae religionis genus praetermittit. Nam sunt ad placandos deos alii constituti, qui sacris praesint sollemnibus, ad interpretanda alii praedicta vatium neque multorum, ne esset infinitum, neque ut ea ipsa, quae suscepta publice essent, quisquam extra collegium nosset); De har. resp. 18 (Ego vero primum habeo auctores ac magistros religionum colendarum maiores nostros, quorum mihi tanta fuisse sapientia videtur ut satis superque prudentes sint qui illorum prudentiam non dicam adsequi, sed quanta fuerit perspicere possint; qui statas sollemnisque caerimonias pontificatu, rerum bene gerendarum auctoritates augurio, fatorum veteres praedictiones Apollinis vatum libris, portentorum expiationes Etruscorum disciplina contineri putaverunt).

 

[16] Per la definizione di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; ampi riferimenti alle fonti attestanti i comportamenti umani suscettibili di violarla in P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, pp. 226 ss.]; ai quali sono da aggiungere: J. Bayet, La religion romaine. Histoire politique et psychologique, (1957), 2a ed., Paris 1969 [rist. 1976], pp. 57 ss. [= Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959 (rist. 1992), pp. 59 ss.]; M. Sordi, Pax deorum e libertà religiosa nella storia di Roma, in Aa.Vv., La pace nel mondo antico, Milano 1985, pp. 146 ss.; E. Montanari, Il concetto originario di pax e pax deorum, in Le concezioni della pace. VIII Seminario Internazionale di Studi Storici "Da Roma alla Terza Roma", Relazioni e comunicazioni, 1, Roma 1988, pp. 49 ss.; Id., Mito e storia nell'annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (Appendice I: "Tempo della città e pax deorum: l'infissione del clavus annalis"); F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema "diritto internazionale antico", cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, N. s., 1995 (ma 1996), pp. 77 ss.; Id., La negazione nel linguaggio precettivo dei sacerdoti romani, in Il Linguaggio dei Giuristi Romani. Atti del Convegno Internazionale di Studi, Lecce, 5-6 dicembre 1994, a cura di O. Bianco e S. Tafaro, [Università di Lecce – Dipartimento di Scienze dell’Antichità. Studi di Filologia e Letteratura 5, 1999] Galatina 2000, pp. 176 ss.; infine, ma con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 167 ss.

 

[17] M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, p. 195: «La conception – d'ordre philosophique – du monde romain est celle d'un ensemble de rapports ou de forces en équilibre: toute action humaine affecte par définition cette harmonie naturelle et trouble l'ordre voulu par les dieux. D'où la nécessité, avant (ou, au pire, après) toute action, de se concilier l'accord des dieux témoignant leur adhésion. La paix universelle est alors sauvegardée. La religion consiste ainsi à rester en bons rapports avec les dieux, pour les avoir avec soi».

 

[18] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 49 [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., p. 224].

 

[19] J. Scheid, Le prêtre et le magistrat. Réflexions sur les sacerdoces et le droit public à la fin de la République, in Aa.Vv., Des ordres à Rome, direction de C. Nicolet, Paris 1984, pp. 269 s.: «La République est effectivement une association de trois partenaires: les dieux, le peuple et les magistrats»

 

[20] P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 50: «Legalismo religioso è l'insieme delle regole che insegnano a mantenere la pax deorum» [= Id., Scritti di diritto romano, cit., p. 225].

 

[21] C. Bailey, Phases in the religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972], p. 76: «Roman ritual, as it was later formulated in the ius divinum of the State-cult, recognized four means (caerimoniae ) for securing and maintaining the pax deorum, the relation of kindliness between gods and men».

 

[22] D. 1.1.1.2 (Ulpianus libro primo institutionum): Huius studii duae sunt positiones, publicum et privatum. Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem: sunt enim quaedam publice utilia, quaedam privatim. Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit. Riguardo al frammento di Ulpiano, mi pare che possano ormai considerarsi superate sia affermazioni contrarie alla genuinità del testo (F. Schulz, Prinzipien des römischen Rechts, München 1934; qui cit. in trad. it.: I principii del diritto romano, trad. it. a cura di V. Arangio-Ruiz, Firenze 1949, p. 23 nt. 33; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt am Main 1955, p. 618: «Die merkwürdige Dreiteilung des ius publicum: in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus stammt sicherlich nicht von Ulpian»), sia dubbi e perplessità (B. Albanese, Premessa allo studio del diritto privato romano, Palermo 1978, p. 192 nt. 295). Favorevoli all'autenticità del testo, fra gli altri: F. Stella Maranca, Il diritto pubblico romano nella storia delle istituzioni e delle dottrine politiche, in Id., Scritti vari di diritto romano, Bari 1931, pp. 102 ss.; Silvio Romano, La distinzione fra ius publicum e ius privatum nella giurisprudenza romana, in Scritti giuridici in onore di Santi Romano, IV, Padova 1940, pp. 157 ss.; G. Nocera, Ius publicum (D. 2, 14, 38). Contributo alla ricostruzione storico-esegetica delle regulae iuris, Roma 1946, pp. 152 ss.: «Ulpiano è sulla scia della più pura tradizione romana» (p. 161); Id., Il binomio pubblico-privato nella storia del diritto, Napoli 1989, pp. 171 ss.; F. Wieacker, Doppelexemplare der Institutionen Florentins, Marcians und Ulpians, in Mélenges De Visscher, II, Bruxelles 1949, p. 585, il quale sostiene che sacra, sacerdotia e magistratus è una suddivisione di inconfondibile stampo repubblicano; A. Carcaterra, L’analisi del ius e della lex come elementi primi. Celso, Ulpiano, Modestino, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 46, 1980, pp. 272 ss.; G. Aricò Anselmo, Ius publicum - ius privatum in Ulpiano, Gaio e Cicerone, in Annali del Seminario Giuridico dell'Università di Palermo 37, 1983, pp. 447 ss., in part. 461 ss.; H. Ankum, La noción de ius publicum en derecho romano, in Anuario de Historia del Derecho Español 53, 1983, pp. 524 ss.; M. Kaser, Ius publicum und ius privatum, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (R. A.) 103, 1986, pp. 6 ss.; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., p. 223 nt. 112; P. Stein, Ulpian and the Distinction between ius publicum and ius privatum, in Collatio iuris Romani. études dédiées à Hans Ankum à l’occasion de son 65ème anniversaire, II, Amsterdam 1995, pp. 499 ss.; V. Marotta, Ulpiano e l’impero, I, Napoli 2000, pp. 153 ss.

 

[23] Cicero, Pro Flacco 28.

 

[24] Arnobius, Adv. Nat. 2.73.18: Non doctorum in litteris continetur, Apollinis nomen Pompiliana indigitamenta nescire? Sui nomina deorum che si invocavano negli indigitamenta, risulta di qualche utilità il vecchio lavoro di J. A. Ambrosch, Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; ancora indispensabili, invece, sia il bel libro di A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome. étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 24 ss.; sia il manuale di J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], pp. 7 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, I, trad. francese di M. Brissaud, Paris 1889, pp. 10 ss.]; più di recente, vedi l'importante articolo di J. Bayet, Les feriae sementivae et les indigitations dans le culte de Cérès et de Tellus, in Revue d'Histoire des Religions 137, 1950, pp. 172 ss. [ora in Id., Croyances et rites dans la Rome antique, Paris 1971, pp. 175 ss.]; ma anche G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 45 ss.; A. Pastorino, La religione romana, Milano 1973, pp. 199 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, pp. 50 ss. [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. a cura di F. Jesi, Milano 1977, pp. 46 ss.]; R. Del Ponte, La religione dei Romani, Milano 1992, pp. 78 ss.

 

[25] Sull’archivio dei pontefici, ma senza pretesa di completezza bibliografica, si vedano: J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, in part. pp. 127 ss.; I. A. Ambrosch, Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. pp. 159 ss.; Id., Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; E. Luebbertus, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. Bouché-Leclercq, Les pontifes de l’ancienne Rome, cit., pp. 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III, cit., pp. 299 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, II, cit., pp. 358 ss.]; R. Peter, De Romanorum precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, pp. 67 ss.; Id., Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; C. W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 14 ss.; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 17 ss.; J. A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l'administration romaine, Avant-propos de C. Moatti, Rome 1998, pp. 45 ss.

 

[26] G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, cit., p. 228 : «Si elle se gardait bien de détruire la religion des peuples vaincus, elle était bien plus éloignée encore de vouloir leur imposer la sienne».

 

[27] Per la nozione giuridica di “impero” risulta ormai indispensabile il saggio di P. Catalano, Alcuni sviluppi del concetto giuridico di imperium populi Romani, in Popoli e spazio romano tra diritto e profezia, [“Da Roma alla Terza Roma”, Studi III], Napoli 1986, pp. 649 ss.

 

[28] Per una recente discussione sul problema de «La libertà nella Roma arcaica e repubblicana», vedi G. Lombardi, L'editto di Milano del 313 e la laicità dello Stato, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 50, 1984, pp. 10 ss., il quale si propone di «chiarire come la consapevolezza del fondamento dell'autonomia dell'uomo sia sostanzialmente mutata a séguito del diffondersi del cristianesimo» (p. 11); Id., Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall'Editto di Milano alla "Dignitatis humanae", Roma 1991.

 

[29] Sulla questione vedi ora, brevemente, le puntuali riflessioni di P. Catalano-P. Siniscalco, Laicità tra diritto e religione. Documento introduttivo del XIV Seminario “Da Roma alla Terza Roma”, pubblicato in Index 23, 1995, pp. 461 ss.; in part. paragrafo 5 «'Laicizzazione' della giurisprudenza e cosiddetta 'Isolierung' del diritto», p. 463: «Il sistema romano antico, sia precristiano sia cristiano, non conosce l'isolamento del diritto rispetto alla morale o alla religione. Non vi è isolamento del diritto nell'età repubblicana (ius civile in penetralibus pontificum repositum erat, Liv. 4.3.9), né nell'Impero cristiano (publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit, D. 1.1.1.2). Quanto alla giurisprudenza, significativa è la definizione contenuta in D. 1.1.10.2: divinarum atque humanarum rerum notitia, iusti atque iniusti scientia. [...] E' corrente poi nella dottrina romanistica l'uso del termine "laico" per indicare i giuristi non sacerdoti (onde si parla di laicizzazione della giurisprudenza)».

 

[30] Sulla sostanziale tolleranza della religione politeista romana, vedi fra gli altri: M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, in Studi Romani 6, 1958, p. 507 ss.; R. Bloch, La religione romana, in H.-Ch. Puech, Storia delle religioni, I.2 L'Oriente e l'Europa nell'antichità, trad. it., Roma-Bari 1976, pp. 554 s., il quale indica l'apertura e la tolleranza verso divinità straniere come «un'espressione singolare e affascinante della religione romana»; J. A. North, Religious Toleration in Republican Rome, in Proceedings of the Cambridge Philological Association 25, n. s., 1979, pp. 85 ss. Sottolinea, invece, le ambiguità insite nell'atteggiamento “tollerante” dei Romani A. Momigliano, Appunti preliminari sull'«opposizione religiosa» all'impero romano, in Id., Saggi di storia della religione romana, Brescia 1988, p. 154; ma in altro senso, Id., The desadvantages of monotheism for a universal State, in Classical Philology 81, 1986, pp. 285 ss.

 

[31] La stessa tradizione antica ricorda, del resto, l'introduzione a Roma di numerosi culti "stranieri" già ad opera dei re: cfr., da ultimo, P. M. Martin, L'idée de royauté à Rome. I. De la Rome royale au consensus républicain, Clermont-Ferrand 1982, pp. 110 ss.

 

[32] Titus Livius 1.20.6: Cetera quoque omnia publica privataque sacra pontificis scitis subiecit, ut esset quo consultum plebes veniret, ne quid divini iuris neglegendo patrios ritus peregrinosque adsciscendo turbaretur; nec celestes modo caerimonias, sed iusta quoque funebria placandosque manes ut idem pontifex edoceret, quaeque prodigia fulminibus aliove quo visu missa susciperentur atque curarentur. Commento al passo in R. M. Ogilvie, A Commentary on Livy. Books 1-5, Oxford 1965 [reprinted 1998], p. 101.

 

[33] Sulla riforma religiosa del primo sovrano sabino di Roma, vedi F. Ribezzo, Numa Pompilio e la riforma etrusca della religione primitiva di Roma, in Rendiconti dell'Accademia dei Lincei, ser. VIII, vol. 5, 1950, pp. 553 ss.; E. M. Hooker, The Significance of Numa's Religious Reforms, in Numen 10, 1963, pp. 87 ss.; F. Della Corte, Numa e le streghe, in Maia 26, 1974, pp. 3 ss.; M. A. Levi, Il re Numa e i penetralia pontificum, in Rendiconti dell'Istituto Lombardo 115, 1981 (pubbl. 1984), pp. 161 ss.; J. Martinez Pinna, La reforma de Numa y la formación de Roma, in Gerión 3, 1985, pp. 97 ss.; J. Poucet, Les origines de Rome. Tradition et histoire, Bruxelles 1985, in part. pp. 194 ss., 219 ss.; L. Fascione, Il mondo nuovo. La costituzione romana nella 'Storia di Roma arcaica' di Dionigi d'Alicarnasso, I parte, Napoli 1988, pp. 128 ss.; G. Capdeville, Les institutions religieuses de la Rome primitive d'après Denys d'Halicarnasse, in Pallas, 39, 1993, pp. 153 ss.

 

[34] Sul tema, a parte i più usati manuali di storia della religione romana, cfr. E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939, pp. 246 ss.; J. Gagé, Apollon romain. Essai sur le culte d'Apollon et le développement du "ritus Graecus" à Rome des origines à Auguste, Paris 1955; fra i lavori più recenti, G. Radke, Zur Entwicklung der Gottesvorstellung und der Gottesverehrung in Rom, Darmstadt 1987, pp. 31 ss.; A. Bernardi, La Roma dei re fra storia e leggenda, in Storia di Roma, I. Roma in Italia, direzione di A. Momigliano e A. Schiavone, Torino 1988, pp. 191 s. (con breve cenno a «culti locali e influenze greco-asianiche»); M. A. Levi, Appunti su Roma Arcaica, in La Parola del Passato 46, 1991, pp. 121 ss.

 

[35] K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 148 ss.

 

[36] Sul complesso fenomeno dei rapporti con gli dèi dei vicini e con gli dèi dei nemici, interpretato in termini di "estensioni" e "mutamenti" della religione tradizionale, vedi G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 409 ss., 425 ss. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 355 ss., 369 ss.].

 

[37] A. Brause (Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875, p. 42, fr. XXVII.

 

[38] In merito a questa divisione elaborata dal collegio degli auguri e, più in generale, sul valore giuridico dell'ager, cfr. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, cit., pp. 492 ss.

 

[39] Cfr. Gellius, Noct. Att. 13.23.1: Comprecationes deum immortalium, quae ritu Romano fiunt, expositae sunt in libris sacerdotum populi Romani et in plerisque antiquis orationibus; Agostinus, De civ. Dei 4.8). Per A. S. Pease, M. Tulli Ciceronis De natura deorum, I, Darmstadt 1968 [rist. della 1ª ed. 1955], p. 426, nel passo ciceroniano «The word libris is understood, as often with annales»; cfr. anche l’edizione curata da M. van den Bruwaene, Ciceron, De natura deorum. Livre premier, Bruxelles 1970, p. 146: «dans nos livres pontificaux». G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, Berlin 1936, pp. 18-19, formula invece l’ipotesi che Cicerone abbia attinto alle Antiquitates rerum divinarum di Varrone: «Woher diese Vorstellung stammt, ist nicht zu sagen; doch darf nicht vergessen werden, dass zur Zeit, als Cicero seine philosophischen Schriften abfasste, Varros Antiquitates bereits an das Licht getreten waren, und dass Cicero dieses Werk kannte». Infine, F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., p. 94 e 96.

 

[40] Su questo passo di Servio, vedi da ultimo F. Sini, Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, cit., pp. 59 s.

 

[41] M. Adriani, Tolleranza e intolleranza religiosa nella Roma antica, cit., p. 516: «Ora, è lecito su questa base parlare di tolleranza? A noi interessa, come si è detto, questo sfondo, in quanto vale pregiudizialmente a far intendere un certo tono e tipo di tolleranza vigente a Roma. Volgersi a tutti gli dèi come nel mos pontificius delle invocazioni si verifica, e attraverso un rinvio dall’ambito degli dèi conosciuti e nominabili all’ambito dei molti di cui non si sa il nome e che non possono quindi avere un culto determinato, ma dei quali si pensa l’esistenza e cui si vuole rendere perciò un ossequio almeno indiretto attraverso il riconoscimento di un limite che è il limite proprio, è linea implicita alla tolleranza religiosa, perché è confessione della generalità rispetto al particolare di partenza, e quindi ammissione dell’adventicium. E’ da questo angolo visuale che si legittima un atteggiamento che potremmo dire positivo in quanto ravvisabile in una “apertura” illimitata, e insieme un modo altrettanto costante, ordinato negativamente, poiché quella illimitatezza rivela nonostante tutto dei limiti».

 

[42] Quanto alla fonte del testo verriano, F. Bona, Contributo allo studio della composizione del «de verborum significatu» di Verrio Flacco, Milano 1964, p. 16 n. 11, ipotizza che possa essere una “glossa catoniana”: una delle glosse, cioè, «il cui lemma è costituito da espressioni verbali o nominali tratte dal lessico di Catone (nella quasi totalità dalle orazioni)» (p. 15); nello stesso senso Id., Opusculum Festinum, Ticini 1982, p. 15.

 

[43] J.-L. Girard, Interpretatio Romana. Questions historiques et problèmes de méthode, in Revue d'Histoire et Philosophie Religieuses 60, 1980, pp. 21 ss.; scopo dichiarato dello studioso è quello di comprendere pienamente la ragione del «fait, solidement attesté, mais devenu un peu surprenant, que les grandes divinités étrangères, et notamment grecques, aient, pour la plupart sans difficulté aucune, trouvé des homologues à Rome». A suo avviso, inoltre, sarebbe un grave errore valutare negativamente il procedimento teologico che stava alla base dell’interpretatio sacerdotale: non si tratta, infatti, né di «un confusionnisme dissolvant l’héritage primitif de la religion romaine», né di «un irénisme basé en dernière analyse sur le scepticisme à l’égard de toutes les formes d’esprit religieux»; al contrario, conclude lo studioso francese: «elle permet d’éviter à la fois les conflits ouverts avec les religions étrangères et la conversion de certains éléments de la population à des cultes nouveaux, et témoigne de la sagesse d’un peuple qui ne crut jamais que sa recherche de l’universalité dût passer par une autre voie que par l’approfondissement de ses traditions particulières» (pp. 26 s.).

Qualche anno prima, al complesso fenomeno dell'interpretatio aveva dedicato un approfondito studio anche R. Bloch, Interpretatio, in Id., Recherches sur les religions de l'Italie antique, Genève 1976, pp. 1 ss. Pur senza soffermarsi specificamente sugli aspetti generali della complessa problematica, l'illustre studioso non trascurava comunque di evidenziare due questioni: «Tout au long de leur histoire, le jeu de l'interpretatio a permis aux Romains de rapprocher de leurs propres divinités et de leur unir des dieux lointains par les lieux de culte et même, parfois, par leur nature. Certes, un tel processus n'est pas le seul fait de Rome. On retrouve, dans bien des secteurs du paganisme ancien, le sentiment plus ou moins clair que, sous des noms différents, les divers peuples ne pouvaient pas ne pas honorer les mêmes dieux. D'où résulta un mécanisme complexe et réciproque par lequel les divers panthéons antiques se rapprochèrent les uns des autres malgré les différences profondes qui, le plus souvent, les séparaient. Sans doute, cependant, la relative pauvreté de l'imagination religieuse romaine et le caractère essentiellement fonctionnel des dieux de Rome ont-ils permis, plus qu'ailleurs, un très large développement d'interpretationes de toutes sortes. La tolérance religieuse, presque constamment attestée, des Romains y trouvait son compte».

 

[44] In questa prospettiva, risultano chiaramente invecchiate alcune esposizioni manualistiche della materia: cfr., ad esempio, K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., pp. 264 s., per il quale il fenomeno è da intendersi nel senso di “Hellenisierung der Götter”: «Die rationalistische Kritik an den überlieferten Vorstellungen, die diese Epoche in Griechenland bewegt hatte, erklang nun, in eindrucksvollen Schlagworten zusammengefasst, vor den Ohren des römischen  Publikums. Es konnte seine Wirkung um so weniger verfehlen, als man jetzt zwischen griechischen und römischen Göttern keinen Unterschied mehr zu machen gewohnt war».

 

[45] «Qu’il ne s’agisse point là d’un phénomène second, mais d’un primat psychologique, c’est ce que prouvent deux expressions spécifiquement latines: pax deorum; religio. Les Romains désirent, à chaque instant de leur vie publique la “paix des dieux”, c’est-à-dire l’assurance qu’au delà de leur nature et de leur activité humaines ils ne rencontrent pas, s’opposant à leur vouloir, la réaction hostile des dieux - y compris (ceci est important) ceux de l’adversaire ou ceux dont le camp est douteux»: queste parole si leggono in un breve, ma denso, paragrafo significativamente intitolato «Il cosmico e il politico: pax deorum e religio»: J. Bayet, La religion romaine, cit., p. 58 [= Id., La religione romana, cit., pp. 61 s.].

 

[46] Cfr. in tal senso R. Turcan, Lois romaines, dieux étrangers et «religion d’Etat», in Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca [Da Roma alla Terza Roma, Rendiconti dell’XI Seminario], a cura di M. P. Baccari, Roma 1994, pp. 23 ss.: la citazione è a p. 31.

 

[47] L'evocatio di Giunone Regina è stata studiata, fra gli altri, da V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit., pp. 42 ss.; S. Ferri, La Iuno Regina di Veii, in Studi Etruschi 24, 1955, pp. 106 ss.; J. Hubaux, Rome et Véies. Recherches sur la chronologie légendaire du moyen âge romain, Paris 1958, pp. 154 ss.; R. E. A. Palmer, Roman Religion and Roman Empire. Five Essays, Philadelphia 1974, pp. 21 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 426 s. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 370 s.]; R. Bloch, Interpretatio, cit., pp. 15 ss.

 

[48] Sul frammento e sul giurista sono da vedere P. Preibisch, Fragmenta librorum pontificiorum, cit., p. 11 fr. 52; F. P. Bremer, Iurisprudentiae antehadrianae quae supersunt, I, cit., p. 29 fr. 1; C. Thulin, Italische sakrale Poesie und Prosa. Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906, pp. 59 ss.; Ph. E. Huschke - E. Seckel - B. Kübler, Iurisprudentiae anteiustinianae reliquias, I, cit., p. 15 fr. 1.

 

[49] Plinius, Nat. hist. 28.18: Verrius Flaccus auctores ponit, quibus credat in obpugnationibus ante omnia solitum a Romanis sacerdotibus evocari deum, cuius in tutela id oppidum esset, promittique illi eundem aut ampliorem apud Romanos cultum. Et durat in pontificum disciplina id sacrum, constatque ideo occultatum, in cuius dei tutela Roma esset, ne qui hostium simili modo agerent; Servius Dan., in Verg. Aen. 2.351: excessere quia ante expugnationem evocabantur ab hostibus numina propter vitanda sacrilegia. Inde est, quod Romani celatum esse voluerunt, in cuius dei tutela urbs Roma sit. Et iure pontificum cautum est, ne suis nominibus dii Romani appellarentur, ne exaugurari possint; Macrobius, Sat. 3.9.2-5: Constat enim omnes urbes in alicuius dei esse tutela, moremque Romanorum arcanum et multis ignotum fuisse ut, cum obsiderent urbem hostium eamque iam capi posse confiderent, certo carmine evocarent tutelares deos; quod aut aliter urbem capi posse non crederent, aut etiam si posset, nefas aestimarent deos habere captivos. Nam propterea ipsi Romani et deum in cuius tutela urbs Roma est et ipsius urbis Latinum nomen ignotum esse voluerunt. Sed dei quidem nomen non nullis antiquorum, licet inter se dissidentium, libris insitum et ideo vetusta persequentibus quicquid de hoc putatur innotuit. Alii enim Iovem crediderunt, alii Lunam, sunt qui Angeronam, quae digito ad os admoto silentium denuntiat; alii autem, quorum fides mihi videtur firmior, Opem Consiviam esse dixerunt. Ipsius vero urbis nomen etiam doctissimis ignoratum est, caventibus Romanis ne quod saepe adversus urbes hostium fecisse se noverant, idem ipsi quoque hostili evocatione paterentur, si tutelae suae nomen divulgaretur.

 

[50] Per il contesto storico dell’evocatio, cfr. V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit., pp. 37 ss.; R. Bloch, Interpretatio, cit., pp. 17 s.; N. Berti, Scipione Emiliano, Caio Gracco e l'evocatio di Giunone da Cartagine", in Aevum 64, 1990, pp. 69 ss.

 

[51] Per un esame completo della documentazione antica e della dottrina moderna sulla formula e sul rito, rinvio all'ampio studio di V. Basanoff, Evocatio. Étude d'un rituel militaire romain, cit.; ma vedi anche K. Latte, Römische Religionsgeschichte, cit., p. 125; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 425 s. [= Id., La religione romana arcaica, cit., pp. 369 s.]; J. Alvar, La fórmula de la evocatio y su presencia en contextos desacralizadores, in Archivo Español de Arqueología 57, 1984, pp. 143 ss.; Id., Matériaux pour l’étude de la formule sive deus, sive dea, in Numen 32, 1985, pp. 236 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Kriges in Rom, Stuttgart 1990, pp. 162 ss.; A. Blomart, Die evocatio und der Transfer fremder Götter von der Peripherie nach Rom, in H. Cancik-J. Rüpke (a cura di), Römische Reichsreligion und Provinzialreligion, cit., pp. 99 ss.

 

[52] Le basi per la ricostruzione critica del materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già state poste, nella prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I. A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, in part. pp. 159 ss.; Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; Quaestionum pontificalium caput primum, Vratislaviae 1848; Quaestionum pontificalium caput alterum, Vratislaviae 1850. Sulle compilazioni sacerdotali e sul valore storico-giuridico dei dati provenienti da tali documenti, vedi, fra gli altri, C. W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G. B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 17 ss.; J. A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l'administration romaine, Avant-propos de Claude Moatti, [Collection de l’École Française de Rome, 243] Rome 1998, pp. 45 ss.

 

[53] F. Sini, Documenti sacerdotali e lessico politico-religioso di Roma arcaica, in Atti del Convegno sulla lessicografia politica e giuridica nel campo delle scienze dell'antichità (Torino, 28-29 aprile 1978), a cura di I. Lana e N. Marinone, [Suppl. al vol. 113, Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino, II. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche], Torino 1980, pp. 127 ss.; più in generale vedi C. Nicolet, Lexicographie politique et histoire romaine: problèmes de méthode et directions de recherches, ibid., pp. 19 ss.

 

[54] Cfr., in tal senso, le «Remarques préliminaires sur la dignité et l’antiquité de la pensée romaine» di G. Dumézil, Idées romaines, Paris 1969, pp. 9 ss.; in quelle pagine l’illustre studioso francese ha dimostrato, in maniera peraltro assai convincente, che «des techniques aussi complexes que l’augurale ius et le ius civile étaient constituées dès la fin des temps royaux, avec la réglementation rigoureuse que nous leur connaissons au seuil de l’Empire» (25).

Già negli studi sulla giurisprudenza romana di P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, I. Bis auf die Catonen, Berlin 1888, pp. 15 ss., si dedicava ampio spazio all’analisi della «pontificale Jurisprudenz» e al ruolo insostituibile dei suoi «Ritualvorschriften», intesi non senza ragione come modelli della successiva elaborazione giurisprudenziale. Nello stesso senso, G. Nocera, Iurisprudentia. Per una storia del pensiero giuridico romano Roma 1973, pp. 11 ss.; ma soprattutto F. Wieacker, Altrömische Priesterjurisprudenz, in Iuris professio. Festgabe für Max Kaser zum 80. Geburtstag, Wien-Graz-Köln 1986, pp. 347 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, München 1988, pp. 310 ss.; cfr. anche M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, pp. 107 ss.; A. Schiavone, Linee di storia del pensiero giuridico romano, Torino 1994, pp. 4 s.; e C.A. Cannata, Per una storia della scienza giuridica europea, I. Dalle origini a Labeone, Torino 1997, pp. 33 ss.

 

[55] Per la critica all'interpretazione "statualista'' del sistema giuridico-religioso romano, rinvio ad alcuni studi di P. Catalano: Populus Romanus Quirites, Torino 1974, pp. 41 ss. (con ampia analisi [pp. 52 ss.] dei motivi di opposizione nei confronti della «Staatslehre» mommseniana, presenti nella cultura giuspubblicistica italiana dell’Ottocento); La divisione del potere in Roma repubblicana, in P. Catalano - G. Lobrano, Il problema del potere in Roma repubblicana [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 1], Sassari 1974, pp. 9 ss. = Id., La divisione del potere in Roma (a proposito di Polibio e di Catone), in Studi in onore di Giuseppe Grosso, VI, Torino 1974, p. 673 ss. Da vedere anche J. Bleicken, Lex publica. Gesetze und Recht in der römischen Republik, Berlin-New York 1975, pp. 16 ss. («Kritik der Staatsrechtslehre von Th. Mommsen»). Più di recente, tutta questa problematica è stata riaffrontata, con importanti contributi critici e metodologici, da G. Lobrano, Note su «diritto romano» e «scienze di diritto pubblico» nel XIX secolo, in Index 7, 1977 [ma 1979], p. 66; Il potere dei tribuni della plebe, Milano 1982, pp. 6 ss.; Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 5], Sassari 1990, pp. 81 ss.; Res publica res populi. La legge e le limitazioni del potere [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 10], Torino (1994) 1996, pp. 42 ss.

 

[56] Per il significato e l'antichità del termine vedi A. Rostagni, Storia della letteratura latina, 3ª ed., I, Torino 1964, p. 41. Derivano certamente dagli archivi dei sacerdoti sia il carmen saliare (frammenti in: C. M. Zander, Carminis saliaris reliquiae, Lundae 1888; B. Maurenbrecher, Carminum Saliarium reliquiae, in Jahrbücher für classische Philologie, Suppl. XXI, 1894, pp. 315 ss.; W. Morel, Fragmenta poetarum latinorum epicorum et liricorum praeter Ennium et Lucilium, 2ª ed. (1927), rist. Stutgardiae 1963, pp. 1 ss.) sia il carmen Arvale (sul quale vedi: M. Nacinovich, Carmen Arvale, 2 voll., Roma 1933-1934; E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, cit., pp. 99 ss.; G. Radke, Archaisches Latein, Darmstadt 1981, pp. 100 ss.; I. Paladino, Fratres Arvales. Storia di un collegio sacerdotale romano, Roma 1988, pp. 195 ss.); ma anche le solenni formule giuridico-religiose di cui le fonti ci hanno conservato i testi: Inauguratio, in Titus Livius 1.18.6 ss.; foedus, in Titus Livius 1.24.3 ss.; indictio belli, in Titus Livius 1.32.11-13; deditio, in Titus Livius 1.38.2; devotio, in Titus Livius 8.9.16; evocatio, in Macrobio, Sat. 3.9.7. Cfr. C. M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890; C. Thulin, Italische sakrale Poësia und Prosa. Eine metrische Untersuchung, Berlin 1906; G. Appel, De Romanorum precationibus, [Religionsgeschichte Versuche und Vorarbeiten, 7.1] (Gissae 1909) rist. an. New York 1975; G. B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958.

 

[57] Quintilianus, Instit. orat. 1.6.39-41: Verba a vetustate repetita non solum magnos adsertores habent, sed etiam adferunt orationi maiestatem aliquam non sine delectatione: nam et auctoritatem antiquitatis habent, et, quia intermissa sunt, gratiam novitati similem parant. Sed opus est modo, ut neque crebra sint haec nec manifesta, quia nihil est odiosius adfectatione; nec utique ab ultimis et iam oblitteratis repetita temporibus, qualia sunt «topper» et «antegerio» et «exanclare» et «prosapia» et Saliorum carmina vix sacerdotibus suis satis intellecta. Sed illa mutari vetat religio et consecratis utendum est. Cfr. E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, p. 166.

 

[58] N. D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome (1864), 16ª ed., Paris 1898, p. 197: «Toutes ces formules et ces pratiques avaient été léguées par les ancêtres qui en avaient éprouvé l’efficacité. Il n’y avait pas à innover. On devait se reposer sur ce que ces ancêtres avaient fait, et la suprême piété consistait à faire comme eux. Il importait assez peu que la croyance changeât: elle pouvait se modifier librement à travers les âges et prendre mille formes diverses, au gré de la réflexion des sages ou de l’imagination populaire. Mais il était de la plus grande importance que les formules ne tombassent pas en oubli et que les rites ne fussent pas modifiés» [= Id., La città antica, trad. it. di G. Perrotta (1924), rist. con nota introduttiva di G. Pugliese Carratelli, Firenze 1972, p. 202].

 

[59] La distinzione tra i decreta e i responsa sacerdotali non risulta del tutto chiara in dottrina: per tutti, P. Jörs, Römische Rechtswissenschaft zur Zeit der Republik, cit., pp. 29 ss.; E. De Ruggiero, v. Decretum, in Dizionario Epigrafico di Antichità Romane, II.2, Roma 1910, pp. 1497 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912, pp. 541 s., 527 ss., 551; F. Schulz, History of Roman Legal Science, 2ª ed., Oxford 1953, pp. 15 ss. [= Id., Storia della giurisprudenza romana, trad. it. a cura di G. Nocera, Firenze 1968, pp. 37 ss.]. Nell’ambito di uno studio più ampio sulla normativa decretale in Roma repubblicana, si occupa dei decreta pontificum G. Mancuso, Studi sul decretum nell’esperienza giuridica romana, in Annali del Seminario Giuridico dell’Università di Palermo 40, 1988, pp. 78 ss.; infine da menzionare (ma non ho potuto vedere) L. L. Cohee, Responsa and decreta of Roman priesthoods during the Republic, Dissertation University of Colorado at Boulder 1994. Per quanto riguarda i responsa, non è neppure certo se, e in che misura, essi vincolassero il magistrato, il senato o il privato che li avevano richiesti; tuttavia il prestigio dei sacerdoti era tale da far sì che raramente venissero disattesi. Cfr. Cicero, De harusp. resp. 6.12: Quae tanta religio est qua non in nostris dubitationibus atque in maximis superstitionibus unius P. Servili ac M. Luculli responso ac verbo liberemur? De sacris publicis, de ludis maximis, de deorum penatium Vestaeque matris caerimoniis, de illo ipso sacrificio quod fit pro salute populi Romani, quod post Romam conditam huius unius casti tutoris religionum scelere violatum est quod tres pontifices statuissent, id semper populo Romano, semper senatui, semper ipsis dis immortalibus satis sanctum, satis augustum, satis religiosum esse visum est.

 

[60] Mi permetto di rinviare a quanto ho già trattato in un mio precedente lavoro (F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., pp. 163 ss.), dove credo di aver dimostrato la sostanziale continuità della tradizione documentaria sacerdotale, individuando, anche, alcune probabili revisioni o sistemazioni dei materiali degli archivi nel corso della storia di Roma.