N° 2 - Marzo 2003 – Tradizione Romana

Francesco Sini

Università di Sassari

 

 

Ut iustum conciperetur bellum: guerra “giusta” e sistema giuridico-religioso romano

 

 

 

Sommario:  1. Carattere originario del “diritto internazionale” di Roma antica. – 2. Concezioni romane della guerra (e della pace). – 3. Hostis apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus: da ‘straniero’ a ‘nemico’. – 4. La guerra tra religione e diritto: il concetto di bellum iustum. – 5. Dalla guerra alla pace.

 

 

 

1. – Carattere originario del “diritto internazionale” di Roma antica

 

In un lavoro pubblicato agli inizi degli anni Novanta del secolo appena trascorso[1], avevo avuto modo di affrontare il tema della guerra e della pace nel sistema giuridico-religioso romano[2], studiando gli impieghi virgiliani di alcune categorie del “diritto internazionale antico”. I risultati di quelle mie lecturae vergilianae[3], soprattutto in riferimento agli hostes, al bellum e alla pax, offrono solidi argomenti per criticare convinzioni inveterate della dottrina romanistica contemporanea[4]: intendo riferirmi alle posizioni di quanti hanno teorizzato l’ostilità permanente fra i popoli e l’assenza di diritti per gli stranieri quali condizioni primordiali dei rapporti fra gli uomini[5]; da cui consegue la convinzione che, normalmente, gli antichi considerassero la guerra (e non la pace) come stato naturale delle relazioni “internazionali”, ogni qualvolta non esistesse comunità di etnia, ovvero non fosse intervenuta la stipulazione di un trattato[6].

         Non è certo possibile procedere, qui di seguito, ad un esame dettagliato della dottrina favorevole a tali tesi, che per lungo tempo sono state accolte quasi unanimemente nel campo degli studi romanistici, soprattutto in ragione della determinante influenza di Theodor Mommsen[7]. Sarebbe troppo lungo perfino il semplice elenco degli studiosi che hanno aderito a questa impostazione storiografica[8]; anche se non tutti consentirono con le estremizzazioni di Eugen Täubler, il quale non si limitò a propugnare la tesi dell’ostilità naturale nei rapporti “internazionali” dell'antichità («Der Staatsfremde gilt rechtlich als Feind. Der einzelne wie der Staat tritt erst durch eine Rechtshandlung, den Vertrag, aus dem Zustande der natürlichen Feindschaft in den der Verkehrsgemeinschaft»)[9]; ma si spinse fino a teorizzare che la stessa origine dei trattati internazionali fosse da ricercare nel superamento della primitiva usanza di uccidere i nemici sconfitti[10]. Basterà ricordare come ancora oggi, pur tra precisazioni e cautele, una parte autorevole della dottrina romanistica continui a ritenere elementi caratteristici della più antica esperienza giuridica del Popolo romano proprio l’ostilità naturale e la carenza di protezione giuridica per lo straniero[11].

Le tesi del Mommsen e dei suoi numerosi seguaci, contestate sporadicamente tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento[12], furono sottoposte a serrate critiche da parte di Alfred Heuss[13]; il quale, sulla base di un attento riesame delle fonti, pervenne alla conclusione che i Romani considerassero esistenti con gli altri popoli un certo numero di rapporti giuridici, indipendentemente dalla stipulazione di trattati; dimostrando in particolare: che non esistevano trattati di amicizia per porre fine all’ostilità naturale; che il bellum iustum era considerato necessario anche in caso di guerra contro popoli con i quali non preesisteva alcun trattato; infine, che nella formula e nel rituale dell’indictio belli non si trovava alcun riferimento ad una precedente violazione di trattati[14].

La critica alla tesi dell’ostilità naturale fu riproposta in Italia da Francesco De Martino nel 1954, con la pubblicazione della prima edizione del secondo volume della sua Storia della costituzione romana[15]. L’insigne studioso ha contestato in maniera radicale «l'opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma»[16]; posizioni ribadite ancora nel 1988, con coerenza e mirabile rigore argomentativo, nella relazione dedicata a L’idea della pace a Roma dal’età arcaica al’impero[17].

In seguito, le conclusive ricerche sul sistema sovrannazionale romano di Pierangelo Catalano[18] (lo studioso che – per esplicito riconoscimento del De Martino – «ha dato i maggiori e più originali contributi al tema dei rapporti con gli stranieri»[19]) hanno dimostrato la virtuale universalità del sistema giuridico-religioso romano[20] e quanto questa «concezione universalistica del diritto» contrasti «con le teorie moderne e contemporanee secondo cui lo stato naturale (o 'primitivo') delle relazioni tra i popoli sarebbe la guerra»[21].

Come ha ben documentato Karl-Heinz Ziegler nella rassegna sul Völkerrecht der römischen Republik[22], le posizioni contrarie all'esclusivismo giuridico e all'ostilità naturale hanno guadagnato sempre nuovi consensi tra gli studiosi che si sono occupati di “diritto internazionale” dell'antichità. Per alcuni si è assistito perfino alla revisione di opinioni espresse in precedenza: è il caso di Paolo Frezza, il quale, introducendo forti limitazioni alle tesi mommseniane[23], ha ammesso l’esistenza di rapporti intertribali, seppure in un processo dialettico che vede il «momento “volontaristico” profondamente compenetrato col momento “naturalistico”»[24].

Nel filone delle tesi propugnate dal Heuss, si colloca la monografia che Werner Dahlheim ha dedicato allo studio della struttura e dell'evoluzione del diritto internazionale romano, in cui appare ben fermo il rifiuto della tesi dell'ostilità naturale[25]; anche se, invero, lo studioso tedesco non sembra cogliere a pieno il valore dello ius fetiale[26]. Analizzando la condizione giuridica dei socii nominisve Latini e degli Italici, Virgilio Ilari si è orientato nello stesso senso: «Oggi i presupposti stessi della teoria tradizionale appaiono superati. Dopo le critiche del Heuss, l'idea dell'ostilità naturale fra i gruppi etnici e l’assenza di diritti dello straniero, sono diventate insostenibili»; lo studioso ritiene, inoltre, che superata «l’idea dell'inesistenza di rapporti internazionali in mancanza di una comunanza giuridica costituita da legami storici o da trattati perpetui», si siano poste le premesse «per una concezione c.d. “volontarista” dei rapporti tra Roma e l’Italia e della natura giuridica dell’alleanza italica»[27]. Infine, pur non trattando espressamente la questione nel suo lavoro dedicato all'analisi giuridica della tavola bronzea di Alcántara, anche Dieter Nörr mostra di seguire lo stesso orientamento laddove, a proposito del diritto internazionale di Roma, postula «die Existenz einer gemeinschaftlichen Normenordnung»[28].

 

 

2. – Concezioni romane della guerra (e della pace)

 

Negli scrittori antichi emerge con molta chiarezza l’enorme distanza che separa le concezioni romane della guerra e della pace dalle moderne tesi dell’ostilità naturale. Al riguardo, sarà sufficiente proporre la testimonianza di Virgilio; per quanto, la discussione fin qui condotta esigerebbe una riflessione più generale sulle potenzialità di ricerca insite nell’uso sistematico delle cosiddette fonti letterarie da parte dei giusromanisti[29].

Dai versi del sommo poeta traspare la convinzione che la guerra, lungi dall'essere la condizione naturale delle relazioni umane, costituisca una violazione della religione e del diritto[30]: una triste necessità cui si deve talora ricorrere, ma solo dopo aver fatto constatare agli Dèi, mediante rituali che si ripetevano immutati nel tempo, l'esistenza dell'ingiustizia e il rifiuto degli uomini a riparare. In merito alle concezioni virgiliane della pace e della guerra, bisogna evidenziare la perfetta coincidenza di esse con l’elaborazione teologica e giuridica dei sacerdoti romani[31], come risulta dalle occorrenze dei termini relativi ad arcaici istituti della pace, quali amicitia, hospitium, foedus, e alle regole della guerra.

Il termine amicitia compare solo due volte nelle opere di Virgilio (Aen. 7.546; 11.320-322), ma in entrambi i luoghi la parola viene utilizzata dal poeta, sempre in connessione con foedus, nel pregnante significato giuridico-religioso di “amicizia tra popoli”[32]; stupisce, semmai, che l'autrice della v. amicizia dell’Enciclopedia Virgiliana consideri tale impiego una «accezione secondaria»[33].

In merito a hospitium, è stato osservato che pur non trovandosi nelle occorrenze virgiliane «riferimenti alla disciplina giuridica dello hospitium», vi è tuttavia «un accenno all’antichissima tutela di ordine religioso», col pertinente richiamo alla funzione di Iuppiter di dare hospitibus iura[34].

Nell’uso del termine foedus, «allorché, narrando la stipulazione di alleanze fra gruppi etnici differenti, non esita ad evocare per tutte il tipico rituale dei feziali e a indicare in Giove colui che foedera fulmine sancit»[35], Virgilio manifesta, una volta di più, la sua piena adesione alla terminologia ufficiale, ai concetti teologici ed alla giurisprudenza dei sacerdoti romani[36].

Ed è proprio nelle elaborazioni sacerdotali – come ha mostrato autorevolmente Francesco De Martino – che si è conservato nella sostanziale integrità originaria «il pensiero antichissimo, la vocazione politico-religiosa di un popolo, il cui fine supremo è la pace e l'amicizia con lo straniero»[37].

 

 

3. – Hostis apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus: da ‘straniero’ a ‘nemico’

 

         Per quanto, nel latino della tarda età repubblicana, il termine hostis avesse ormai acquisito «le sens d’ennemi en général, de même que inimicus s'emploie pour hostilis»[38]; l'antico significato della parola restava comunque ben vivo sia nella cultura giuridica, sia nella scienza antiquaria. Ne aveva conservato l’originario significato il testo delle XII Tavole, anche nella forma linguistica in cui si leggeva nel I secolo a.C.[39]: il termine hostis vi figurava, infatti, per indicare genericamente lo “straniero”, come attesta un noto passo del De officiis ciceroniano:

 

         Cicero, De off. 1.37: Hostis enim apud maiores nostros is dicebatur, quem nunc peregrinum dicimus. Indicant duodecim tabulae: aut status dies cum hoste itemque adversus hostem aeterna auctoritas. Quid ad hanc mansuetudinem addi potest, eum, quicum bellum geras, tam molli nomine appellare? Quamquam id nomen durius effecit iam vetustas; a peregrino enim recessit et proprie in eo, qui arma contra ferret, remansit[40].

 

         Rimanda all’antico significato di hostis anche la formula del giuramento dei milites[41], trascritta da Aulo Gellio nel sedicesimo libro delle “Notti Attiche”, ma ripresa – com’è noto – dal quinto libro del De re militari del giurista L. Cincio[42]:

 

Aulus Gellius, Noct. Att. 16.4.3-4: Militibus autem scriptis dies praefinibatur, quo die adessent et citanti consuli responderent; deinde ita concipiebatur iusiurandum, ut adessent, his additis exceptionibus: “nisi harunce quae causa erit: funus familiare feriaeve denicales, quae non eius rei causa in eum diem conlatae sunt, quo is eo die minus ibi esset, morbus sonticus auspiciumve, quod sine piaculo praeterire non liceat, sacrificiumve anniversarium, quod recte fieri non possit, nisi ipsus eo die ibi sit, vis hostesve, status condictusve dies cum hoste; si cui eorum harunce quae causa erit, tum se postridie, quam per eas causas licebit, eo die venturum aditurumque eum, qui eum pagum, vicum, oppidumve delegerit”[43].

 

         Di questo antico significato della parola abbiamo un’altra attestazione nell’epitome di Paolo Diacono:

 

         Festi ep., p. 72 L.: Exesto, extra esto. Sic enim lictor in quibusdam sacris clamitabat: hostis, vinctus, mulier, virgo exesto; scilicet interesse prohibebatur[44].

 

Si tratta della formula con cui il littore allontanava da alcune cerimonie religiose determinate categorie di persone; una formula che, attraverso il De verborum significatu di Sesto Pompeo Festo, può farsi risalire alla scienza antiquaria di Verrio Flacco[45].

         Anche il grande Varrone, nel De lingua Latina, per esporre il caso delle molte parole che aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, citava come esempio proprio il termine hostis:

 

         Varro, De ling. Lat. 5.3: Quae ideo sunt obscuriora, quod neque omnis impositio verborum extat, quod vetustas quasdam delevit, nec quae extat sine mendo omnis imposita, nec quae recte est imposita, cuncta manet (multa enim verba li<t>teris commutatis sunt interpolata), neque omnis origo est nostrae linguae e vernaculis verbis, et multa verba aliud nunc ostendunt, aliud ante significabant, ut hostis: nam tum eo verbo dicebant peregrinum qui suis legibus uteretur, nunc dicunt eum quem tum dicebant perduellem[46].

 

         Nella sua accezione originaria, presente ancora nelle commedie di Plauto[47] e quindi desunta senza dubbio dall’uso linguistico corrente, hostis stava ad indicare lo straniero; più precisamente quello straniero qui suis legibus uteretur ed al quale si riconosceva parità di ius col Popolo romano.

 

Festus, De verb. sign., v. Status dies <cum hoste>, pp. 414-416 L.: Status dies <cum hoste> vocatur qui iudici causa est constitutus cum peregrino; eius enim generis ab antiquis hostes appellabantur, quod erant pari iure cum populo Romano, atque hostire ponebatur pro aequare[48].

 

L’originaria accezione di hostis si presentava modificata definitivamente nell’ultimo secolo della Repubblica[49], in relazione con l’estendersi della valenza semantica di peregrinus, che nei primi secoli dell’Impero finì per designare una particolare condizione giuridica[50].

         Di grande interesse, nella prospettiva qui perseguita, appaiono alcuni versi in cui Virgilio utilizza il termine hostis nel suo significato più squisitamente giuridico: per indicare, cioè, un “nemico” col quale esiste un legittimo stato di guerra.

 

Vergilius, Georg. 3.30-33: Addam urbes Asiae domitas pulsumque Niphaten / fidentemque fuga Parthum versisque sagittis / et duo rapta manu diverso ex hoste tropaea bisque / triumphatas utroque ab litore gentis[51].

 

Nei versi citati, la valenza giuridica di hostis è resa intelligibile dal poeta con il ricorso all’espressione triumphatas gentes; poiché, come attesta Aulo Gellio, ma con molta probabilità il passo è tratto dai Memorialium libri di Masurio Sabino[52]:

 

Aulus Gellius, Noct. Att. 5.6.21: Ovandi ac non triumphandi causa est, cum aut bella non rite indicta neque cum iusto hoste gesta sunt, aut hostium nomen humile et non idoneum est, ut servorum piratarumque, aut, deditione repente facta, inpulverea, ut dici solet, incruentaque victoria obvenit[53];

 

solo nel caso in cui avessero combattuto un bellum rite indictum contro nemici qualificati come iusti hostes, il diritto pubblico romano legittimava i magistrati vittoriosi all’onore del trionfo.

Un altro significativo exemplum virgiliano si legge nei versi del primo libro dell'Eneide citati qui di seguito:

 

Vergilius, Aen. 1.378-380: Sum pius Aeneas, raptos qui ex hoste penatis / classe veho mecum, fama super aethera notus. / Italiam quaero patriam et genus ab Iove magno[54].

 

Enea riconosce implicitamente la legittimità del “nemico”, quando presenta sé stesso come salvatore ex hoste dei Penati di Troia. Con la salvezza degli Dèi Penati[55], l’eroe troiano ha scongiurato l’estinzione religiosa e giuridica del suo popolo, minacciata proprio dalla condizione di iusti et legitimi hostes[56] degli avversari. Per il diritto pubblico romano, in caso di vittoria militare, solo la condizione di iustus hostis dava al vincitore la facoltà di sottomettere con pieno diritto una città, o un popolo, e di porre fine (eventualmente) all’esistenza giuridica e religiosa di quella comunità.

In questo senso, mi pare che abbia valore pregnante l’antica formula solenne della deditio urbis, ricalcata a parere di autorevoli studiosi sugli stessi documenti dei sacerdoti Fetiales[57]. L’annnalista Tito Livio ha conservato l’esempio paradigmatico della resa ai Romani dell’antichissima Collazia: una città priva di qualsiasi importanza già nella prima età repubblicana, che poi scomparve senza neppure lasciare traccia[58].

 

Livius 1.38.2: Deditosque Collatinos ita accipio eamque deditionis formulam esse; rex interrogavit: “Estisne vos legati oratoresque missi a populo Collatino ut vos populumque Collantinum dederetis?” – “Sumus.” – “Estne populus Collatinus in sua potestate?” – “Est.” – “Deditisne vos populumque Collatinum, urbem, agros, aquam, terminos, delubra, utensilia, divina humanaque omnia, in meam populique Romani dicionem?” – “Dedimus.” – “At ego recipio”[59].

 

Del resto, per i giuristi romani, non solo la fine, ma anche l’inizio dell’esistenza giuridica di una città (principium urbis) riposava sul compimento di un solenne atto giuridico-religioso, il rito di fondazione[60], le cui modalità improntate all’Etruscus ritus sono conosciute grazie alla descrizione che ne ha lasciato M. Terenzio Varrone.

 

Varro, De ling. Lat. 5.143: Oppida condebant in Latio Etrusco ritu multi, id est iunctis bobus, tauro et vacca interiore, aratro circumagebant sulcum (hoc faciebant religionis causa die auspicato), ut fossa et muro essent muniti. Terram unde exculpserant, fossam vocabant et introrsum iactam murum. Post ea qui liebat orbis, urbis pricipium; qui quod erat post murum, postmoerium dictum, eo usque auspicia urbana finiuntur[61].

 

Senza dubbio, l’elaborazione etrusca del rito di fondazione di città (e la sua adozione da parte della religione e del diritto di Roma) va datata in età piuttosto risalente; Macrobio attesta, infatti, che in tale cerimonia il vomere utilizzato per tracciare il solco pomeriale doveva essere necessariamente di bronzo[62].

Riguardo agli hostes, non resta che riferirsi al pensiero giuridico romano:

 

D. 50.16.118 (Pomponius libro secundo ad Quintum Mucium): ‘Hostes’ hi sunt, qui nobis aut quibus nos publice bellum decrevimus: ceteri latrones aut praedones sunt[63];

 

D. 50.16.234 pr. (Gaius libro secundo ad legem duodecim tabularum): Quos nos hostes appellamus, eos veteres 'perduelles' appellabant, per eam adiectionem indicantes, cum quibus bellum esset[64].

 

I giuristi insegnavano, dunque, che la condizione giuridica di hostes non poteva prescindere dalla persistente attualità di un bellum iustum, cioè di un bellum publice decretum; in assenza di questa condizione, la rigorosa disciplina dello ius belli esigeva che gli avversari di Roma fossero considerati dei semplici latrones[65] o praedones. Le conseguenze della distinzione non erano di poco conto dal punto di vista del diritto, come attesta il giurista Ulpiano presentando il caso dell’uomo qui a latronibus captus est:

 

D. 49.15.24 (Ulpianus libro primo institutionum): Hostes sunt, quibus bellum publice populus Romanus decrevit vel ipsi populo Romano: ceteri latrunculi vel praedones appellantur. Et ideo qui a latronibus captus est, servus latronum non est, nec postliminium illi necessarium est: ab hostibus autem captus, ut puta a Germanis et Parthis, et servus est hostium et postliminio statum pristinum recuperat[66].

 

Proprio sulla base della condizione di latrones, il giurista argomenta che la servitù legittima (cioè prevista dallo ius gentium) non si deve applicare nei confronti del prigioniero (servus latronum non est), né in caso di liberazione sarà necessario ricorrere all’istituto del postliminium[67].

 

 

4. – La guerra tra religione e diritto: il concetto di bellum iustum

 

Anche nel trattare la concezione romana della guerra, voglio muovere dalla prospettiva virgiliana. Pur connotate negativamente[68], le quasi 200 occorrenze di bellum[69] si presentano come materiale di prim’ordine per la ricostruzione delle peculiarità giuridiche e religiose della guerra. Emergono, infatti, dai versi virgiliani riti e cerimonie modellati, seppure con qualche anacronismo evidente, in perfetta adesione alla teologia e alla giurisprudenza dei sacerdoti romani.

Avvenuto ormai da tempo il passaggio dell’antico du- iniziale a b-[70], dell’originaria forma duellum[71] restava memoria solo in opere di eruditi e antiquari, ricercatori curiosi delle superstiti forme arcaiche della lingua latina[72]. Naturalmente, il termine arcaico duellum aveva continuato ad essere utilizzato nelle formule solenni del più conservativo linguaggio sacerdotale[73]: basterà leggere gli acta relativi ai Ludi saeculares di Augusto ed a quelli celebrati da Settimio Severo[74], per constatare come i termini guerra e pace siano ancora espressi dai sacerdoti alla maniera arcaica con duellum e domus[75].

Ma anche fra gli antiquari, riguardo all'etimologia della parola bellum, le opinioni si presentavano contradditorie e (dal nostro punto di vista) poco convincenti[76]: questo vale tanto per l’intepretazione bellum a beluis di Festo (e Verrio Flacco), attestata da Paolo Diacono[77]; quanto per il procedimento kata ¢nt…frasin, bellum a nulla re bella, del grammatico Servio[78]. Comunque, nell'accezione corrente del I secolo a.C., bellum sta a significare sia un conflitto armato tra hostes (definito quindi da precise regole religiose e giuridiche)[79]; sia il periodo di tempo necessario alla conclusione delle ostilità, in antitesi quindi al tempo di pace[80].

         Sul piano giuridico-religioso la guerra fu sempre concepita dai Romani come rottura traumatica delle naturali relazioni pacifiche tra i popoli: «essa quindi – scrive Francesco De Martino – abbisognava di una giustificazione, doveva essere bellum iustum piumque, avere cioè una giusta causa»[81]. La consapevolezza che l’esercizio della guerra poneva il miles a contatto con qualcosa di “sacrilego” e che, in ogni caso, l’uso immoderato della violenza rischiava di provocare l’ira degli Dèi[82], spinse il Popolo romano, il quale significativamente considerava sé stesso il più religioso del genere umano (religione, id est cultu deorum, multo superiores)[83], a preoccuparsi fin da epoca risalente di attrarre anche la guerra nella sfera del fas[84]; avvalendosi degli strumenti concettuali offerti dalla riflessione teologica e giuridica dei suoi sacerdotes.

Formule e riti dello ius fetiale e dello ius pontificium furono perciò elaborati con la funzione precipua di liberare i cittadini-soldati dalla paura del sangue versato, di aiutarli con la religione a vincere l’antico terrore davanti al furor, segno di un possesso che priva l’uomo della sua libertà, di esimerli infine dal timore di impegnarsi in azioni sgradite agli Dèi[85].

Anche la scansione del tempo fu impostata seguendo quello che J. Bayet ha chiamato «le rythme sacral de la guerre»[86]. Sono da intendere in tal senso, infatti, le feste e le cerimonie religiose dei mesi di marzo e ottobre del calendario romano arcaico, legate all’inizio e alla fine delle attività guerriere, veri e propri «rites saisonniers de sacralisation et désacralisation militaires»[87].

Si spiegano, in tal modo, le ragioni dell’estrema cautela, religiosa e giuridica, che circondava l’esercizio della guerra da parte dei singoli cittadini, ai quali – ammoniva Catone – era consentito combattere solo in quanto milites:

 

Cicero, De off. 1.36-37: [Popilius imperator tenebat provinciam in cuius exercitu Catonis filius tiro militabat cum autem Popilio videretur unam dimittere legionem Catonis quoque filium qui in eadem legione militabat dimisit. Sed cum amore pugnandi in exercitu remansisset Cato ad Popilium scripsit ut si eum patitur in exercitu remanere secundo eum obliget militiae sacramento quia priore amisso iure cum hostibus pugnare non poterat. Adeo summa erat observatio in bello movendo]. Marci quidem Catonis senis est epistula ad Marcum filium in qua scribit se audisse eum missum factum esse a consule cum in Macedonia bello Persico miles esset. Monet igitur ut caveat ne proelium ineat; negat enim ius esse, qui miles non sit, cum hoste pugnare.

 

Dunque, come fa rilevare Virgilio allo stesso Enea, l’esercizio della guerra si collocava nella sfera del nefas[88] in ragione dei suoi effetti devastanti di morte e contaminazione:

 

Vergilius, Aen. 2.717-720: Tu, genitor, cape sacra manu patriosque penatis; / me, bello e tanto digressum et caede recenti, / attrectare nefas, donec me flumine vivo / abluero[89].

 

Per quanto nei versi appena citati, forse per dare maggiore solennità al contesto, o per meglio sottolineare il ruolo sacerdotale di Enea[90], il poeta sembra riferirsi più che ad una generica purificazione rituale alle abluzioni dei sacerdoti[91], come si rileva dall’uso del verbo attrectare, verbo «di carattere rigorosamente sacrale», che aveva un significato positivo solo se riferito ai sacerdotes populi Romani[92], mentre usato per il resto della collettività assumeva il valore negativo di «contaminare»[93].

Nessun biasimo poteva comunque addebitarsi al soldato che ha ucciso in battaglia, anzi il fatto era considerato dai Romani non solo utile alla comunità, ma addirittura onorevole[94]; tuttavia per la religione il miles viene a trovarsi nella condizione di impiatus[95], con la conseguente necessità di purificazione. Queste erano certamente le motivazioni religiose per cui i soldati, reduci dalla battaglia, entravano in città portando rami d’alloro[96]; uguali motivazioni stavano alla base della cerimonia dell’armilustrium[97], che si celebrava il 19 ottobre, come generale purificazione dell’esercito alla fine della stagione della guerra[98].

Le considerazioni fin qui esposte giustificano la casistica rigorosa con cui i sacerdotes Fetiales[99], e i teorici del diritto e della politica, determinavano quali generi di guerre si potessero intraprendere legittimamente: quali, cioè, avessero le caratteristiche del bellum iustum[100]. Le testimonianze antiche, per quanto riguarda la definizione di bellum iustum, non sembrano uniformate a principi di astratta morale, attengono piuttosto, come nel caso di Varrone, a valutazioni di conformità con la sfera religiosa e rituale dello ius fetiale:

 

Varro, De ling. Lat. 5.86: Fetiales, quod fidei publicae inter populos praeerant: nam per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum, et inde[101] desitum, ut foedere fides pacis constitueretur. Ex his mittebantur, ante quam conciperetur, qui res repeterent, et per hos etiam nunc fit foedus, quod fidus Ennius scribit dictum[102].

 

Ancora alla rerum repetitio si richiamava la definizione proposta da Isidoro di Siviglia:

 

Isidorus, Orig. 18.1.2: Iustum bellum est, quod ex edicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium causa;

 

mentre assai significativamente appare fondato sulla necessitas, fonte di ius per i giuristi romani[103], il concetto di bellum iustum enunciato da Tito Livio, per quanto in riferimento ad ambiente non romano:

 

         Livius 9.1.10: Iustum est bellum, Samnites, quibus necessarium, et pia arma quibus nulla nisi in armis reliquitur spes[104].

 

Del resto, una parte consistente della cultura greca e romana nel II e I secolo a.C. aveva contestato proprio il concetto di bellum iustum, teorizzando l’inconciliabilità di bellum e iustitia. Questa problematica si presentava connessa profondamente con la riflessione storico-giuridica sulla legittimità dell’egemonia “mondiale” dei Romani[105]; ma si inquadrava, al tempo stesso, nel dibattito sulle idee giusnaturalistiche della tradizione filosofica greca e romana[106]. Cicerone, nel famoso discorso di Furio Filo[107], improntato per sua stessa ammissione all’insegnamento di Carneade[108], ricorre all'esempio della guerra per dimostrare quantum ab iustitia recedat utilitas:

 

Cicero, De re publ. 3.20: Cur enim per omnes populos diversa et varia iura sunt condita, nisi quod una quaeque gens id sibi sanxit, quod putavit rebus suis utile? Quantum autem ab iustitia recedat utilitas, populus ipse Romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitime iniurias faciendo semperque aliena cupiendo atque rapiendo possessionem sibi totius orbis comparavit[109].

 

         Tra gli autori antichi, quello che ha manifestato maggiore interesse per la definizione della “guerra giusta” è stato senza dubbio Cicerone. Nell’impossibilità di procedere ad un puntuale esame dei riferimenti testuali[110], sarà sufficiente discutere due importanti passi, tratti dal De re publica, che descrivono alcune tipologie di bellum iustum, per quanto modellate in negativo, mediante la qualificazione della guerra ingiusta ed empia:

 

Cicero, De re publ. 2.31: [Tullus Hostilius] cuius excellens in re militari gloria magnae que extiterunt res bellicae, fecitque idem et saepsit de manubis comitium et curiam, constituitque ius quo bella indicerentur, quod per se iustissime inventum sanxit fetiali religione, ut omne bellum quod denuntiatum indictumque non esset, id iniustum esse atque inpium iudicaretur[111].

 

Cicero, De re publ. 3.35: Illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta. Nam extra <quam> ulciscendi aut propulsandorum hostium causa bellum geri iustum nullum potest[112].

 

         Secondo Cicerone il bellum per poter essere considerato iustum abbisognava, dunque, di requisiti formali e sostanziali. I primi derivavano dalla esatta osservanza dei riti e delle procedure dello ius fetiale; il precetto attribuito al re Tullo Ostilio può volgersi in positivo: ut omne bellum denuntiatum indictum esset. I requisiti sostanziali dovevano consistere in motivazioni validamente determinabili: riconoscibili, quindi, come tali in maniera oggettiva sia di fronte agli Dèi, sia di fronte agli uomini. In ultima analisi, il principio illa iniusta bella sunt quae sunt sine causa suscepta, mentre frena l’arbitrio e la cupidigia del Popolo romano, ne assicura al tempo stesso la legittimazione religiosa dell’imperium universale[113].

 

 

5. – Dalla guerra alla pace

 

         Per concludere, alcune brevi riflessioni sulla pace. Anche in questo caso, proprio un passo virgiliano illumina, forse meglio di ogni altro testo antico, la nozione “romana” della pace, intesa nei suoi aspetti essenziali giuridici e religiosi.

 

Vergilius, Aen. 6.847-853: Excudent alii spirantia mollius aera / (credo equidem), vivos ducent de marmore voltus, / orabunt causas melius, caelique meatus / describent radio et surgentia sidera dicent: / tu regere imperio populos, Romane, memento / (hae tibi erunt artes) pacique imponere morem, / parcere subiectis et debellare superbos[114].

 

La prima evidenza che emerge dai versi appena citati è il carattere bilaterale e imperativo della pax: rimandano al carattere imperativo sia il termine mos, connesso con lex nel commento del grammatico Servio: Pacis morem leges pacis[115]; sia il verbo imponere[116]. L’osservanza della pax sembra essere condizione necessaria per distinguere subiecti e superbi, assicurando la legittimità del parcere nei confronti dei primi[117] e dello «sterminio con la guerra» nei confronti degli altri[118]. Nella pace, e nella sua conservazione, risiedevano dunque le motivazioni teologiche e giuridiche della dimensione universale dell'imperium populi Romani[119].

Il carattere bilaterale della pace risulta evidente anche nelle definizioni che ne davano giuristi e antiquari, i quali sottolineavano la connessione etimologica del termine pax con le parole pactio e pactum. Tale è il caso della definizione attribuita da Verrio Flacco all’antiquario augusteo Sinnio Capitone[120]:

 

Festus, De verb. sign., p. 260 L.: Pacem a pactione condicionum putat dictam Sinnius Capito, quae utrique inter se populo sit observanda[121];

 

o di quella che i compilatori giustinianei trassero dal quarto libro ad edictum di Ulpiano:

 

D. 2.14.1.1-2 (Ulpianus libro quarto ad edictum): Pactum autem a pactione dicitur (inde etiam pacis nomen appellatum est) et est pactio duorum pluriumve in idem placitum et consensus[122].

 

         Questa etimologia, ammessa anche da molti linguisti moderni[123], ricollega pax alla radice indoeuropea pak-, alternante con pag-, da cui anche l'arcaico pacere delle XII Tavole[124], pacisci, pacio, pactio. Pax, nome d'azione femminile, designa l'atto di stipulare una convenzione, quindi gli atti relativi alla situazione di pace[125]; in ciò sta anche la differenza tra pax e il termine greco e„r»nh: mentre questo designa «il contenuto e i frutti del tempo di pace, la pax latina indica più semplicemente il presupposto e la premessa di un contenuto, piuttosto che il contenuto stesso»[126].

Dato il significato concreto della radice pak- «rendere saldo, fermo», si può perfino supporre che in origine pax abbia indicato qualcosa di materialmente determinato: in questo senso appare stimolante la proposta da Marta Sordi[127], per la quale l'arcaica pax sarebbe connessa, mediante la pax deorum, alla vetusta cerimonia clavum pangere: il conficcamento rituale del chiodo dextro lateri aedis Iovis optimi maximi attestato da Tito Livio[128].

La definizione giuridica di pace, bilaterale e imperativa al tempo stesso, esprime pienamente il «significato sacrale originario di pax»[129]: accordo tra parti in conflitto (“atto” quindi rivolto alla pace e non alla “situazione di pace” che da esso conseguiva), che tuttavia prefigurava, a simiglianza della pax deorum[130], una gerarchizzazione dei rapporti tra le parti contraenti, pur in presenza di idem placitum et consensum. Da ciò lo strettissimo legame tra guerra e pace, o meglio tra la vittoria militare e il paci imponere morem[131], che rappresentava l'essenza della vocazione pacifica ed universalistica perseguita dal populus Romanus, seppure attraverso una storia di guerre ininterrotte[132].



 

(*) [Questo scritto sarà pubblicato anche a stampa in: A. Calore (a cura di), Guerra giusta? La metamorfosi di un concetto antico, Seminari di storia e di diritto, III, Giuffrè Editore, Milano 2003]

Davvero più che opportuna – in questo nostro tempo, che pretende di coniugare la politica di potenza (e dunque la guerra) con la giustizia internazionale – la decisione dell’amico Antonello Calore di dedicare il suo Seminario presso l’Università di Brescia al confronto fra giuristi e storici sulla “guerra giusta”. L’iniziativa del collega e la sua notevole capacità di persuasione mi hanno offerto l’opportunità di riflettere ancora una volta sul tema e di ridefinire in questa sede qualche idea già espressa in precedenza.

 

[1] F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto Romano dell’Università di Sassari, 7] Sassari 1991. Recensioni di V. Giuffrè, in Iura 42, 1991 [ma 1994], pp. 213 ss.; N. Scivoletto, in Giornale Italiano di Filologia 49.1, 1997, pp. 138 s.

 

[2] P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, Torino 1965, pp. 30 ss., in part. 37 nt. 75; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano. Mundus, templum, urbs, ager, Latium, Italia, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.1, Berlin-New York 1978, pp. 445 s.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, Torino 1990, p. 57; con il quale concorda, in parte, anche G. Lombardi, Persecuzioni, laicità, libertà religiosa. Dall’Editto di Milano alla Dignitatis Humanae, Roma 1991, pp. 34 s. Tuttavia, la validità del concetto di «ordinamento giuridico» è stata ribadita da R. Orestano, Diritto. Incontri e scontri, Bologna 1981, pp. 395 ss.; Id., Le nozioni di ordinamento giuridico e di esperienza giuridica nella scienza del diritto, in Rivista trimestrale di Diritto Pubblico 4, 1985, pp. 959 ss., in part. 964 ss.; Id., Introduzione allo studio del diritto romano, Bologna 1987, pp. 348 ss.; seguito, fra gli altri, da P. Cerami, Potere ed ordinamento nell’esperienza costituzionale romana, 3ª ed., Torino 1996, pp. 10 ss.; non del tutto in linea con le tesi dell’Orestano A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, 5ª ed., Napoli 1990, pp. 56 s.

 

[3] Ricalco il titolo dell’opera collettanea di critica filologica e letteraria Lecturae Vergilianae, 3 voll., a cura di M. Gigante, Napoli 1981-1983.

 

[4] Cfr. F. Sini, Populus et religio dans la Rome républicaine, in Archivio Storico e Giuridico Sardo di Sassari 2, n. s., 1995, pp. 67 ss.; Id., Dai peregrina sacra alle pravae et externae religiones dei baccanali: alcune riflessioni su ‘alieni’ e sistema giuridico-religioso romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 60, 1994 [= Studi in memoria di Gabrio Lombardi, I, Roma 1996], pp. 49 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, [Pubblicazioni del Seminario di Diritto romano dell'Università di Sassari, 13] Torino 2001, pp. 24 ss.

 

[5] A.G. Heffter, De antiquo iure gentium prolusio, Bonnae 1823, p. 7; E. Osenbrüggen, De iure belli et pacis Romanorum, Lipsiae 1836, pp. 8, 16, 36; M. Voigt, Die Lehre von ius naturale, aequum et bonum und ius gentium der Römer, II, Leipzig 1858 [rist. an. Aalen 1966], pp. 102 ss.; Id., Die XII Tafeln, I, Leipzig 1883 [rist. an. Aalen 1966], pp. 269 ss.; R. von Jhering, Geist des römischen Rechts auf den verschiedenen Stufen seiner Entwicklung, I (1852), Leipzig 1878, pp. 225 ss. [= Id., L'esprit du droit romain, trad. franc., I, Paris 1886 (rist. an. Bologna 1969), pp. 226 ss.]; J. Madvig, Die Verfassung und Verwaltung des römischen Staates, I, Leipzig 1881, pp. 58 ss.; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig 1881, pp. 279 ss.; G. Fusinato, Dei Feziali e del diritto feziale. Contributo alla storia del diritto pubblico esterno di Roma, in Memorie dell'Accademia dei Lincei, ser. III, vol. 13, 1883-1884, pp. 455 ss.; G. Padelletti-P. Cogliolo, Storia del diritto romano, 2ª ed., Firenze 1886, p. 67; P.F. Girard, Manuale elementare di diritto romano, trad. it. di C. Longo, Roma-Milano-Napoli 1909, pp. 112 ss., 116; A. Bouché-Leclercq, Manuel des institutions romaines, Paris 1909 [rist. fot. 1931], p. 343; E. Cuq, Manuel des institutions juridiques des Romains, 2ª ed., Paris 1928, p. 92; P. Huvelin, Études d'histoire du droit commercial romain, opera postuma a cura di H. Lévy-Bruhl, Paris 1929, pp. 7 s.; H. Horn, Foederati. Untersuchungen zur Geschichte ihrer Rechtsstellung im Zeitalter der römischen Republik und des frühen Prinzipates, Diss. Frankfurt a. M. 1930, pp. 6 s.; H. Lévy-Bruhl, Esquisse d’un théorie sociologique de l'esclavage, in Id., Quelques problèmes du trés ancien droit romain. Essai de solutions sociologiques, Paris 1934, pp. 15 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 4, 1938, pp. 363 ss. [= Id., Scritti, I, Roma 2000, pp. 367 ss.]; P. de Francisci, Storia del diritto romano, I, Milano 1943, p. 335; P. Bonfante, Storia del diritto romano, I, rist. 4ª ed. 1934, a cura di G. Bonfante e G. Crifò, Milano 1958, p. 229; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, nuova ed. a cura di S. Accame, Firenze 1979, p. 87; M. Meslin, L'uomo romano, trad. it., Milano 1981, p. 117.

 

[6] Th. Mommsen, Das römische Gastrecht und die römische Clientel, in Id., Römische Forschungen, I, Berlin 1864, pp. 326 ss.; E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I. Die Staatsverträge und Vertragsverhältnisse, Leipzig 1913 [rist. an. Roma 1964], pp. 14 ss., 29 ss., 44 ss.

 

[7] Th. Mommsen: Römische Geschichte, I (1854), qui citata in trad. it.: Storia di Roma antica, nuova ed. con introduzione di G. Pugliese Carratelli, I, Firenze 1984, p. 192; id., Das römische Gastrecht und die römische Clientel, cit., pp. 319 ss.; Id., Römisches Staatsrecht, III.1, 3ª ed., Leipzig 1887, pp. 590 ss. [= Droit public romain, trad. franc. di P.F. Girard, VI.2, Paris 1889, pp. 206 ss.]. è nell’Abriss che la posizione del grande giusromanista tedesco, forse proprio per esigenze di semplificazione, si presenta più netta: Disegno del diritto pubblico romano, trad. it. di P. Bonfante, rist. an. dell'ed. 1943, Milano 1973, p. 91: «Di fronte a questa federazione latina, basata sulla comunità di razza e unita in una perpetua comunanza giuridica, le comunità italiche di diversa nazionalità, e in seguito gli Stati stranieri, si trovano in linea di diritto in perpetuo stato di guerra. Oltre i confini della nazione latina non vi ha proprietà territoriale né romana né straniera; l’abitante del territorio, l’hostis, più tardi peregrinus, è in linea di principio privo di diritto e di pace; l’immutabilità dello stato di guerra di fronte alla nazione di stirpe diversa ha la sua espressione in questo, che con le città etrusche, nelle quali la nazionalità diversa si affacciò per la prima volta ai romani, non vennero altrimenti conchiusi trattati se non con termine fisso».

 

[8] Da ricondurre per larga parte «alla componente soggettiva della storiografia dell’Ottocento e del primo Novecento»: così p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 8 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., pp. IX ss., 10 ss. Per l’aspetto più propriamente filosofico di tale impostazione storiografica, cfr. P. Bierzanek, Sur les origines du droit de la guerre et de la paix, in Revue Historique de Droit Français et Étranger 38, ser. IV, 1960, pp. 105 ss.

 

[9] E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, cit., p. 1.

 

[10] E. Täubler, Imperium Romanum. Studien zur Entwicklungsgeschichte des römischen Reiches, I, cit., pp. 402 ss., in part. 406 s.: «Auf den primitivsten Kulturstufen wird man an Tötung aus Angst, Menschenfrass und Menschenopfer denken, als erste Entwicklungsstufe die Wehrwahndung des Fremden als Sklave annehmen müssen. Hier trennt sich dann die Entwicklung des Staatenvertrags und Gastvertrags. Der Unterschied darf nicht darin gesucht werden, dass die Entwicklung des einen vom Staate ausgehen muss, die des anderen von jedem einzelnen ausgehen kann, beruht vielmehr darauf, dass die Entwicklung, die zum Staatsvertrag führt, den Gefangenen zum Geisel macht, ihn für die Gemeinschaft, welcher er angehört, bürgen lässt, die zum Gastvertrage führende dagegen den Fremden nicht in Beziehung zu einem dritten setzt und deshalb nicht zu dessen Bürgen umwandelt vielmehr den Sklaven zum freien Mann und den freien Mann vertragsmässig als Eigenbürgen zum Gastfreund macht».

 

[11] Di «situation permanente d’interhostilité qui règne entre les peuples ou les cités» scrive, ad esempio, é. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 1. Économie, parenté, société, Paris 1969, pp. 355 ss., in part. 361; nello stesso senso, anche A. Piganiol, Le conquiste dei Romani, trad. it. di F. Coarelli, Milano 1971, pp. 147 s.; A. Guarino, Storia del diritto romano, 7ª ed., Napoli 1987, p. 82. Altri sottolineano, piuttosto, la mancanza di diritti per lo straniero: P. Frezza, Corso di storia del diritto romano, 3ª ed., Roma 1974, p. 210; M. Bretone, Storia del diritto romano, Roma-Bari 1987, p. 129; M. Pastori, Gli istituti romanistici come storia e vita del diritto, 2ª ed., Milano 1988, p. 175; M. Talamanca, in Lineamenti di storia del diritto romano, sotto la direzione di M. T., 2ª ed., Milano 1989, p. 154; Id., Istituzioni di diritto romano, Milano 1990, p. 103.

 

[12] Cfr. G. Baviera, Il diritto internazionale dei Romani (estr. dall’Archivio Giuridico “Filippo Serafini”, nuova serie, voll. I e II), Modena 1898, pp. 25 ss.; E. Seckel, über Krieg und Recht in Rom, Kaisergeburtstagrede, Berlin 1915, pp. 9 s., 25 ss.; critico soprattutto nei confronti del Täubler si mostra anche B. Kübler, Römische Rechtsgeschichte, Leipzig-Erlangen 1925, pp. 109 ss.

 

[13] Sul ruolo di questo studioso nella storiografia tedesca contemporanea, vedi brevemente K. Christ, Römische Geschichte und deutsche Geschichtswissenschaft, München 1982, p. 245.

 

[14] A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen der römischen Aussenpolitik in republikanischer Zeit, Leipzig 1933, pp. 4 ss., 12 ss., 18 ss.

 

[15] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II [1ª ed., Napoli 1954], 2ª ed. Napoli 1973, pp. 13 ss., in part. 39 ss., 46 ss., con ampia rassegna di bibliografia.

 

[16] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 14-15: «A noi sembra che nell’epoca delle grandi formazioni gentilizie le cause della guerra dovevano essere di gran lunga più rare di come non avvenne in seguito; l’occasione più frequente doveva essere quella della vendetta gentilizia, la quale peraltro presupponeva che ciascun gruppo fosse convinto della sua necessità, cioè il riconoscimento di un ordine universale, religioso e giuridico. L'opinione comunemente accettata sul carattere originario delle relazioni internazionali di Roma deve essere dunque riveduta, sia per ragioni di ordine generale, sia perché Roma derivava dal comune ceppo indoeuropeo, come altri popoli italici, e non è verosimile, che ben per tempo quest’eredità fosse dispersa, quando resisteva in altri campi della vita sociale e giuridica».

 

[17] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, in VIII Seminario Internazionale di Studi Storici «Da Roma alla Terza Roma», 21 aprile 1988, poi pubblicata in Roma Comune, a. XII, n. 45, aprile-maggio 1988, pp. 86 ss.

Sull’opera storiografica e giuridica dell'illustre studioso, del quale merita di essere segnalata anche la raccolta degli scritti “minori” curata da A. Dell’Agli, T. Spagnuolo Vigorita e F. d’Ippolito (Scritti di diritto romano: I. Diritto e società in Roma antica, Roma 1979; II. Diritto privato e società romana, Roma 1982; III. Nuovi studi di economia e diritto romano, Roma 1988), vedi F. Casavola, L’opera storica di Francesco De Martino, in Labeo 24, 1978, pp. 7 ss.; Id., Francesco De Martino storico, in Index 18, 1990, pp. XV ss.; T. Spagnuolo Vigorita, Francesco De Martino. Il fascino della storia, in Au-delà des frontières. Mélanges de droit romain offerts à Witold Wołodkiewicz, Varsovie 2000, pp. 967 ss.

 

[18] p. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 8 ss., 51 ss.; Id., Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., pp. IX s., 10 ss.

 

[19] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall’età arcaica all’impero, cit., p. 86. Anche in altre parti di questo testo è espressa convinta adesione alle tesi del Catalano: «La nuova concezione dei rapporti fra Romani e stranieri induce ad una revisione del principio della esclusività del diritto nella città-stato. Questo non può intendersi nel senso che lo straniero era escluso da qualsiasi protezione giuridica in Roma, ma nel senso che vi erano rapporti riservati soltanto ai cittadini, ai quali lo straniero non poteva essere ammesso: questi rapporti rientravano nella categoria del ius Romanum Quiritium, denominazione che si può supporre, come fa il Catalano con molta decisione, sorta appunta per delimitare il campo dell’esclusività del diritto» (p. 88); «Nei suoi studi illuminanti sul sistema dei rapporti con gli stranieri, che ha chiamato sistema sovrannazionale romano, il Catalano ha recato contributi che si possono ritenere definitivi in questo campo, affrontando coraggiosamente questioni che sembravano risolte nel senso di un rigoroso carattere esclusivo non solo del diritto, ma anche della religione antica. Egli ha tratto dalle fonti prove decisive ed argomenti che fino ad oggi non hanno trovato alcuna valida contestazione. Dalla critica alla teoria tradizionale dell’inimicizia primitiva egli ha costruito un quadro dei rapporti internazionali romani nuovo e molto più accettabile. Assumono il loro giusto valore espressioni delle fonti, che implicano l’esistenza di principi comuni, in certo senso universali» (p. 91).

 

[20] Per una rapida visione delle tesi sostenute dallo studioso, si legga la «riflessione conclusiva» di Linee del sistema soprannazionale romano, cit., p. 288: «Il sistema giuridico-religioso romano ha il suo centro in Iuppiter, ed è, proprio per questo, virtualmente universale. La virtuale universalità è attuata in una sfera di rapporti (con reges, populi o singoli stranieri) la cui esistenza è indipendente vuoi da particolari accordi vuoi da comunanza etnica. Entro il sistema si formano sfere di rapporti più ristrette, e più fitte, sulla base di atti unilaterali o di accordi con altri popoli. Tra queste sfere hanno particolare importanza le federazioni adeguate alle realtà etniche: il nomen Latinum, e poi quella che possiamo dire la “federazione italica”. Ho chiarito come siano particolarmente i foedera, adeguati alle realtà politiche (oltre che etniche), a forgiare i gruppi etnici. Per tutto questo è possibile definire il sistema (che è romano perché alla sua “validità” è sufficiente la considerazione che ne hanno i Romani) come sovrannazionale: non solo ad indicare l’implicito superamento dell’attuale categoria del “diritto internazionale”, ma ad esprimere come esso, alimentandosi dai gruppi etnici, li costituisca in sintesi sempre più vaste, con volontà politica tendente ad una società universale».

 

[21] p. Catalano, Diritto e persone. Studi su origine e attualità del sistema romano, cit., p. IX; ivi, vedi anche la nt. 3, a cui rimando per l’adesione da parte della storiografia francese alle principali tesi dello studioso riguardanti lo ius fetiale; ma ancora critica nei confronti del Catalano si mostra Chr. Saulnier, Le rôle des prêtres fétiaux et l’application du «ius fetiale» à Rome, in Revue Historique de Droit Français et étranger 58, 1980, pp. 186 ss.

 

[22] K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, Berlin-New York 1972, pp. 68 ss.

 

[23] P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell'antico diritto romano, cit., pp. 373 ss., 397 ss. [= Id., Scritti, I, cit., pp. 377 ss., 401 ss.]; una prima revisione, con l'abbandono della tesi dell’ostilità naturale, si riscontrava già nel saggio L'età classica della costituzione repubblicana, in Labeo 1, 1955, pp. 320 ss. [= Id., Scritti, II, Roma 2000, pp. 133 ss.], dove peraltro è ancora sostenuta la mancanza di diritti per lo straniero, riaffermando anche, in polemica col De Martino, l’appartenenza originaria ed esclusiva delle forme giuridiche dei rapporti internazionali alle relazioni fra popoli della lega latina (pp. 327 ss. = 140 ss.).

 

[24] P. Frezza, Il momento “volontaristico” e il momento “naturalistico” nello sviluppo storico dei rapporti “internazionali” nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 32, 1966, pp. 299 ss., in part. 301 [= Id., Scritti, II, cit., pp. 551 ss., 553]: «Sono ora persuaso – oserei dire definitivamente – che il segreto dello sviluppo storico dei rapporti internazionali del mondo antico può essere colto soltanto a patto di pensarlo dialetticamente: ossia a patto di pensare compresenti il momento (che potrebbe essere chiamato naturalistico) particolaristico delle relazioni intratribali, ed il momento universalistico (volontaristico) delle relazioni intertribali». Nello stesso senso, cfr. Id., In tema di relazioni internazionali nel mondo greco-romano, Ibidem 33, 1967, pp. 337 ss., in part. 348 s. [= Id., Scritti, II, cit., pp. 577 ss., 588 s.].

 

[25] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr., München 1968, pp. 136 s.: «Es ist das Verdienst von A. Heuss, die These von der natürlichen Feindschaft als Grundlage der internationalen Beziehungen und damit den aus dieser Annahme resultierenden Freundschaftsvertrag als Grundvertrag, der diese Hostilität beendet, in überzeugender Weise widerlegt zu haben».

 

[26] W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrechts im 3. und 2. Jahrhundert v. Chr., cit., pp. 171 ss. («Eine so weitgehende moralische Konzeption ist in den rudimentären Anfängen Roms, in die das Fetialrecht zurückführt, gar nicht denkbar. Richtig ist, dass der Krieg in Rom zu einer "Rechtsexekution" wurde, jedoch verbürgt der hier ausgesprochene Begriff "Recht" keine objektive Rechtmäßigkeit im moralischen Sinne, die Bindung an das ius fetale ist vielmehr eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet lässt»: p. 173); critici anche K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, cit., pp. 78 s.: «Die Bindung an das ius fetiale als "eine superstitiöse und juristische, die jedes moralische Moment unbeachtet lässt”, zu qualifizieren, wie es zulest W. Dahlheim getan hat, scheint mir nicht glücklich. Rechtsformalismus und Rechtsethik sind keineswegs notwendig Gegensätze, vor allem nicht in frühen Rechtsordnungen»; e P. Catalano, Diritto e persone, cit., p. XI nt.

 

[27] V. Ilari, Gli Italici nelle strutture militari romane, Milano 1974, pp. 10-11; per questo studioso la concezione c.d. volontarista si presenta in costante riferimento allo ius fetiale, a proposito del quale aderisce alla «lettura volontarista e universalista» proposta dal Catalano: cfr. Id., L’interpretazione storica del diritto di guerra romano fra tradizione romanistica e giusnaturalismo, Milano 1981, p. V.

 

[28] D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, München 1989, p. 13: «Die Römer (und sie nicht allein) gehen davon aus, dass der jeweilige Gegner sich grundsätzlich normativ verhält; umgekehrt weiss man von den entsprechen – den Erwartungen dieses Gegners. Normbrüche werden mit einem Unrechts – urteil versehen. Wenn man “Werturteile“ fällt, so setzt man die Existenz (oder wenigstens das Postulat) einer gemeinschaftlichen Normenordnung voraus - die etwa erlaubt, den Feind in Kampf zu töten, nicht aber nach der deditio».

 

[29] Cfr. F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit. supra in nt. 1; Id., Interpretazioni giurisprudenziali in tema di inviolabilità tribunizia (A proposito di Liv. 3, 55, 6-12), in Ius Antiquum - Drevnee Pravo 1, 1996, pp. 92 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., pp. 313 ss.; ma anche O. Diliberto, La struttura del votum alla luce di alcune fonti letterarie, in Studi in onore di Arnaldo Biscardi, IV, Milano 1983, pp. 297 ss.; G. Luraschi, Foedus nell’ideologia virgiliana, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano. Promosso dall'Istituto Milanese di Diritto Romano e Storia dei Diritti Antichi. 22-25 Ottobre 1985, Milano 1988, pp. 279 ss.

 

[30] L’epica virgiliana si presenta caratterizzata da una evidente connotazione negativa della guerra: Nulla salus bello (Aen. 12.362); crimina belli (Aen. 7.339); scelerata insania belli (Aen. 7.461); il bellum è qualificato di volta in volta horridum (Aen. 6.86; 7.41; 11.96), asperum (Aen. 1.14), crudele (Aen. 8.146; 11.535), dirum (Aen. 11.21). Vi è poi da considerare che, assai significativamente, per Virgilio il bellum sul piano religioso appartiene alla sfera del nefas (Aen. 2.217-220; 10.900-902), il che giustifica l’uso degli aggettivi nefandum e infandum (Aen. 7.583; 12.572, 804); a ciò si aggiunga che nelle occorrenze virgiliane del termine a bellum non sono mai riferiti aggettivi tipici del lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix: cfr. H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, Lipsiae 1912, [rist. an. Hildesheim-New York 1969], pp. 88 ss.

 

[31] Mentre la storiografia contemporanea è pervenuta con difficoltà e ritardo alla consapevolezza che «L’énéide est avant tout un poème religieux» (G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, 3ª ed., Paris 1884, p. 231); la cultura romana tardoantica aveva individuato nella divini et humani iuris scientia di Virgilio (Macrobius, Sat. 3.9.16: Videturne vobis probatum sine divini et humani iuris scientia non posse profunditatem Maronis intellegi?) la chiave interpretativa della poesia virgiliana e considerava il poeta – per usare le parole del Servio Danielino – gnarus totius sacrorum ritus (Servius Dan., Ad Georg. 1.269), colui il quale in ogni occasione disciplinam caerimoniarum secutus est (Servius Dan., Ad Aen. 12.172). Per maggiori approfondimenti, vedi il lavoro di H. Lehr, Religion und Kultus in Vergils Aeneis, Diss. Giessen 1934, pp. 9 ss.; brevemente F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., pp. 17 ss. Di grande interesse anche le osservazione dell’archeologo Fausto Zevi, Note sulla leggenda di Enea in Italia, in AA.VV., Gli Etruschi e Roma (Incontro di studio in onore di M. Pallottino, Roma 11-13 dicembre 1979), Roma 1981, pp. 147 s., sui riferimenti virgiliani all’Atena Tritonia di Lavinio: «L'identificazione ha una sua particolare importanza, sia in sede storico-religiosa, sia, soprattutto, perché permette una rivalutazione di Virgilio come fonte topografica: in vari passi dell'Eneide, e specialmente là dove si accenna a Lavinio, la dea è designata come Tritonia Pallas o Tritonia virgo. L'appellativo Tritonia, che aveva dato luogo a discussioni e speculazioni erudite, si spiega ora perfettamente e, direi, letteralmente, come reale appellativo della dea lavinate. Ciò dimostra, una volta di più, lo sforzo filologico che è alla base del poema virgiliano, e la scarsa attendibilità di coloro fra i moderni, che, per spiegare passi non chiari o non conformi alle teorie in voga, hanno pensato di poter giustificare le incongruenze (forse solo apparenti) con licenze poetiche o voli di fantasia di un autore che, più che mai, si rivela invece un poeta doctus. Certo è che, in questo caso specifico, Virgilio è l’unica fonte letteraria sul culto di Atena Tritonia a Lavinio, ora confermato dall’archeologia; ed è estremamente interessante rilevare che il santuario di Atena Tritonia era in completo abbandono già all’inizio del III sec. a.C.».

 

[32] M. Bellincioni, v. Amicizia, in Enciclopedia Virgiliana, I, Roma 1984, pp. 135 ss. Le diverse attestazioni di questo significato sono raccolte nel Thesaurus Linguae Latinae (v. amicitia), I, 1900, coll. 1893 s. All’esame dell’uso di amicitia nelle fonti latine, sono dedicate alcune pagine del libro di M.R. Cimma, Reges socii et amici populi Romani, Milano 1976, pp. 27 ss., dove mancano però riferimenti ai testi virgiliani; cfr. infine J. Spielvogel, Amicitia und res publica: Ciceros Maxime während der innenpolitischen Auseinandersetzungen der Jahre 59-50 v.Chr., Stuttgart 1993, pp. 5 ss.

 

[33] M. Bellincioni, v. Amicitia, cit., p. 135: «Il termine amicitia figura in Virgilio soltanto due volte nell’Eneide; in entrambi i casi è usato nell’accezione secondaria di “amicizia fra popoli”, dunque in senso affine ad “alleanza”»; in tal modo, questa studiosa non mi pare comprendere il profondo significato religioso e giuridico della scelta virgiliana di privilegiare «nella sua epopea patria quell’a(micizia) che supera i rapporti individuali».

 

[34] F. De Martino, v. Hospes/hospitium, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, pp. 858 ss.

 

[35] G. Luraschi, v. Foedus, in Enciclopedia Virgiliana, II, cit., pp. 546 ss.; Id., Foedus nell'ideologia virgiliana, cit., pp. 281 ss.

 

[36] Per l'archivio dei pontefici: J.-V. Le Clercq, Des journaux chez les Romains, recherches précédées d’un mémoire sur les annales des pontifes, et suivies de fragments des journaux de l’ancienne Rome, Paris 1838, pp. 127 ss.; E. Lübbert, Commentationes pontificales, Berolini 1859; A. Bouchėé-Leclercq, Les Pontifes de l’ancienne Rome. étude historique sur les institutions religieuses de Rome, Paris 1871 [rist. an. New York 1975], pp. 19 ss.; P. Preibisch, Quaestiones de libris pontificiis, Vratislaviae 1874; Id., Fragmenta librorum pontificiorum, Tilsit 1878; J. Marquardt, Römische Staatsverwaltung, III. Das Sacralwesen, 2ª ed. a cura di G. Wissowa, Leipzig 1885 [rist. an. New York 1975], pp. 299 ss. [= Id., Le culte chez les Romains, II, trad. francese di M. Brissaud, Paris 1889, pp. 358 ss.]; R. Peter, De Romanorum precationum carminibus, in Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii, Vratislaviae 1884, pp. 67 ss.; Id., Quaestionum pontificalium specimen, Argentorati 1886; W. Rowoldt, Librorum pontificiorum Romanorum de caeremoniis sacrificiorum reliquiae, Halis Saxonum 1906; G. Rohde, Die Kultsatzungen der römischen Pontifices, [Religionsgeschichtliche Versuche und Vorarbeiten, 25] Berlin 1936, pp. 14 ss. Quanto all'archivio degli auguri: F.A. Brause, Librorum de disciplina augurali ante Augusti mortem scriptorum reliquiae, Lipsiae 1875; P. Regell, De augurum publicorum libris, Vratislaviae 1878; Id., Fragmenta auguralia, Hirschberg 1882; Id., Auguralia, in Commentationes Philologae in honorem Augusti Reifferscheidii, cit., pp. 61 ss.; Id., Commentarii in librorum auguralium fragmenta specimen, Hirschberg 1893; da vedere, anche, la recente messa a punto di J. Linderski, The Augural Law, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II.16.3, Berlin-New York 1986, pp. 2241 ss. Per l’archivio dei sacerdoti feziali: F.C. Conradi, De Fecialibus et iure feciali populi Romani, Helmstadii 1734; M. Voigt, De fetialibus populi Romani quaestionis specimen, Lipsiae 1852.

Le basi per la ricostruzione critica del materiale contenuto negli archivi sacerdotali erano già state poste, nella prima metà dell’Ottocento, dalle opere di I.A. Ambrosch: Studien und Andeutungen im Gebiet des altrömischen Bodens und Cultus, Breslau 1839, pp. 159 ss.; Observationum de sacris Romanorum libris particula prima, Vratislaviae 1840; Über die Religionsbücher der Römer, Bonn 1843; Quaestionum pontificalium caput primum, Vratislaviae 1848; Quaestionum pontificalium caput alterum, Vratislaviae 1850. Sulle compilazioni sacerdotali e sul valore storico-giuridico dei dati provenienti da tali documenti, vedi, fra gli altri, C.W. Westrup, On the Antiquarian-Historiographical Activities of the Roman Pontifical College, København 1929 (lo stesso tema viene poi ripreso dal Westrup nel quarto volume della sua opera di maggiore impegno: Introduction to early Roman Law. Comparative sociological studies, IV. Sources and Methods, London-Copenhagen 1950); E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, Lund-Leipzig 1939; R. Besnier, Les archives privées, publiques et religieuses à Rome au temps des rois, in Studi in memoria di Emilio Albertario, II, Milano 1953, pp. 1 ss.; G.B. Pighi, La religione romana, Torino 1967, pp. 41 ss.; infine F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, I. Libri e commentarii, Sassari 1983, pp. 17 ss.; J.A. North, The books of the pontifices, in La mémoire perdue. Recherches sur l'administration romaine, Avant-propos de Claude Moatti, [Collection de l’École Française de Rome, 243] Rome 1998, pp. 45 ss.

 

[37] F. De Martino, L’idea della pace a Roma dall'età arcaica all'impero, cit., pp. 91 s.

 

[38] Così A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, 4a ed., Paris 1967, p. 301. Cfr. H. Ehlers, v. Hostis, in Thesaurus Linguae Latinae, VI.2, 1934, coll. 3061 ss.; A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, dritte Auflage, Heidelberg 1938, pp. 662 s.; E Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, l. économie, parenté, société, cit., p. 95.

 

[39] Sui problemi relativi alla trasmissione delle norme decemvirali, vedi per tutti: F. Wieacker, Die XII Tafeln in ihrem Jahrhundert, in AA.VV., Les origines de la République romaine, [Entretiens sur l’Antiquité Classique, XIII], Vandoeuvres-Genève 1966 [ma 1967], pp. 293 ss.; Id., Römische Rechtsgeschichte. Quellenkunde, Rechtsbildung, Jurisprudenz und Rechtsliteratur, I, München 1988, pp. 287 ss.; S. Tondo, Profilo di storia costituzionale romana, I, Milano 1981, pp. 275 ss. Per un riesame complessivo della tradizione annalistica e della storiografia moderna sul controverso episodio del decemvirato legislativo, vedi G. Poma, Tra legislatori e tiranni. Problemi storici e storiografici sull’età delle XII Tavole, Bologna 1984. Quanto poi alle caratteristiche e ai contenuti di quella arcaica “codificazione”, vedi i saggi di S. Boscherini, L. Amirante, F. Serrao, G. Franciosi, E. Cantarella, B. Santalucia, A. Guarino, pubblicati in AA.VV., Società e diritto nell’epoca decemvirale. Atti del convegno di diritto romano, Copanello 3-7 giugno 1984, Napoli 1989. La ricostruzione del “sistema” e dell’ordine delle XII Tavole è stata oggetto del lavoro di un gruppo di ricerca, i cui primi risultati sono stati pubblicati in Index 18, 1990, pp. 289-449 [Sulle XII Tavole: L. Amirante, Per una palingenesi delle XII Tavole, pp. 391 ss.; O. Diliberto, Considerazioni intorno al commento di Gaio alle XII Tavole, pp. 403 ss.; F. d’Ippolito, XII Tab. 2.2, pp. 435 ss.]; ormai fondamentali i successivi  studi di O. Diliberto, Materiali per la palingenesi delle XII Tavole, Cagliari 1992; F. d’Ippolito, Questioni decemvirali, Napoli 1993.

 

[40] I due frammenti delle XII Tavole (= Tab. II.2; VI.4 in Fontes iuris romani anteiustiniani, I. Leges, ed. S. Riccobono, Florentiae 1941, pp. 31, 44) si presentano di non facile interpretazione: per l'esegesi critico-ricostruttiva del primo rimando al lavoro di G. Nicosia, Il processo privato romano, II. La regolamentazione decemvirale, Torino 1986 [rist. dell'ed. 1984], pp. 129 ss. Riguardo al precetto adversus hostem aeterna auctoritas, la dottrina dominante ritiene che esso indicasse la garanzia del mancipante a fronte dell'impossibilità di usucapire per gli stranieri: cfr. in tal senso, P. Voci, Modi di acquisto della proprietà, Milano 1952, pp. 47 ss.; V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano, Napoli 1954, pp. 313 ss.; M. Kaser, Eigentum und Besitz im älteren romischen Recht, 2ª ed., Köln-Graz 1956, pp. 92 ss.; Id., Das römische Privatrecht, I, 2ª ed., München 1971, p. 136; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 18; O. Behrends, La mancipatio nelle XII Tavole, in Iura 33, 1982 [ma 1985], p. 92; F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, I, (Parte prima), Napoli 1984, p. 349 nt. 66.

 

[41] S. Tondo, Il “sacramentum militiae” nell’ambiente culturale romano-italico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 29, 1963, pp. 1 ss.; Id., Sacramentum militiae”, Ibidem 34, 1968, pp. 376 ss.; H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, a cura di J.-P. Brisson, Paris 1969, pp. 105 s.; C. Nicolet, Il mestiere di cittadino nell'antica Roma, trad. it., Roma 1980, pp. 131 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, Stuttgart 1990, pp. 76 ss.

 

[42] Vissuto presumibilmente nell'ultimo secolo della repubblica (G. Wissowa, v. L. Cincius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.2, Stuttgart 1899, coll. 2555 s.), L. Cincio viene considerato da una parte della vecchia dottrina un poligrafo non giurista: così P. Krüger, Geschichte der Quellen und Litteratur des römisches Rechts, Leipzig 1888, p. 69 nt. 83 [= Id., Histoire des sources de droit romain, trad. franc. di M. Brissaud, Paris 1894, p. 92 nt. 2]; H. Peter, Historicorum Romanorum reliquiae, I, 2ª ed., Stutgardiae 1914 [rist. an. 1967], p. CV; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, I, 4ª ed., München 1927 [rist. 1966], pp. 175 s.; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, Milano 1964, p. 158; e da ultimo F. Wieacker, Römische Rechtsgeschichte, I, cit., p. 570; ma in altro senso già L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 71; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, Lipsiae 1896 [rist. an. Roma 1964], p. 252; Ph.E. Huschke-E. Seckel-B. Kübler, Iurisprudentiae Anteiustinianae reliquiae, editio sexta, I, Lipsiae 1908 [rist. an. Leipzig 1988], p. 24; più di recente M. Bretone, Tecniche e ideologie dei giuristi romani, 2ª ed., Roma-Bari 1982, p. 16; V. Giuffrè, La letteratura de re militari. Appunti per una storia degli ordinamenti militari, Napoli 1974, pp. 38 ss. [= Id., Letture e ricerche sulla “res militaris”, II, Napoli 1996, pp. 242 ss.]. Per una breve valutazione dell’opera del giurista, con critiche alla scelta omissiva di O. Lenel nella Palingenesia iuris civilis, vedi F. Sini, A quibus iura civibus praescribebantur. Ricerche sui giuristi del III secolo a.C., Torino 1995, pp. 64 ss.

 

[43] Ph.E. Huschke, Iurisprudentiae Anteiustinianae quae supersunt, editio quinta, Lipsiae 1886, p. 87 fr. 13; F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae, I, cit., p. 254 fr. 2; V. Giuffrè, Il “diritto militare" dei Romani, Bologna 1980, pp. 33 s., con traduzione italiana del testo gelliano; infine F. d’Ippolito, XII Tab. 2.2, cit., pp. 438 s.

 

[44] Riguardo a questo procedimento menzionato da Festo, risulta assai difficoltoso per la dottrina romanistica determinare quali sacra ne fossero interessati: K. Latte, v. Immolatio, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IX.1, Stuttgart 1914, col. 1121; allo stesso tempo appaiono poco convicenti i tentativi di spiegazione finora proposti: vedi, con sostanziali differenze, G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, 2ª ed., München 1912 [rist. 1971], p. 397 nt. 5; W.W. Fowler, The religious experience of the Roman people, London 1911, p. 37; cfr. infine, E. Norden, Aus altrömischen Priesterbüchern, cit., p. 263.

 

[45] Sui problemi relativi alla biografia e alla molteplice produzione di Verrio Flacco vedi, per tutti, M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, 4ª ed., München 1935 [rist. an. 1959], pp. 361 ss.; A. Dihle, v. Verrius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VIII.A.2, Stuttgart 1958, coll. 1636 ss. Intorno al metodo di composizione delle glosse verriane e alle probabili fonti di esse, sono veramente fondamentali gli studi di R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen, Breslau 1887, e di L. Strzelecki, Quaestiones Verrianae, Warszawa 1932; mentre resta per molti versi ancora valida la prefazione di C.O. Müller, Sexti Pompei Festi De verborum significatione quae supersunt cum Pauli epitome, Lipsiae 1839. Questi temi sono stati riaffrontati, con penetrante intuizione, in un lavoro significativo di F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, cit. in nt. 42; cfr. Id., Opusculum Festinum, Ticini 1982.

 

[46] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, Milano 1973, pp. 29 fr. 1, 113 s. Nello stesso senso anche Servius Dan., Ad Aen. 4.424: Inde nostri ‘hostes’ pro hospitibus dixerunt: nam inimici perduelles dicebantur; e Paulus, Fest. ep., p. 91 L.: Hostis apud antiquos peregrinus dicebatur, et qui nunc hostis, perduellio.

 

[47] Plautus, Curc. 1.1.4-6: si media nox est sive est prima vespera, / si status condictus cum hoste intercedit dies, / tamen est eundum quo imperant ingratiis. Cfr. Servius Dan., Ad Aen. 4.424; Macrobius, Sat. 1.16.4. Sull'attendibilità delle commedie plautine per la ricostruzione del diritto romano, sono ancora validi gli studi di E. Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto, Torino 1890, pp. 21 ss.; ma vedi anche il più recente lavoro di C.S. Tomulescu, Observations sur la terminologie juridique de Plaute, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio  Guarino, VI, Napoli 1984, pp. 2771 ss.

 

[48] A commento del passo, vedi quanto ha scritto P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 71-72: «Lascio da parte per un momento il problema se lo status dies cum hoste di cui parlavano le Dodici Tavole si riferisse a tutti gli stranieri o solo a quelli con cui sussistevano particolari rapporti (hospitium, foedus); qui interessa rilevare che la spiegazione data da Festo al termine hostes, con evidente riferimento agli stranieri in genere, indica nella parità, una compartecipazione allo ius. Tale idea di compartecipazione pone in nuova luce la definizione di hostis (e peregrinus) come “qui suis legibus uteretur”: l'appartenenza a una comunità diversa con proprie leggi non toglieva la compartecipazione a una più generale sfera di ius considerato valido, virtualmente, per tutti i popoli». Cfr. Id., Populus Romanus Quirites, Torino 1974, p. 140.

 

[49] Sulla probabile epoca in cui si produsse il mutamento di significato del termine hostis si legga F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 20: «Più tardi, dopo l’età delle XII tavole e probabilmente nell’età delle guerre d’espansione in Italia, si dovette determinare il mutamento di valore del termine; come ciò accadde e per quali cause non siamo in grado di stabilire, ma è chiaro che la nuova concezione espansionistica delle classi dirigenti romane nel corso del IV-III secolo indusse a considerare l’hostis nemico e non più il peregrinus, qui suis legibus utitur»; cfr. anche F. Serrao, Diritto privato, economia e società nella storia di Roma, cit., p. 344.

 

[50] E. Cuq, v. Hostis, in Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III.1, Paris 1900, p. 303: «Aux derniers siècles de la République, l’acception du mot hostis s’est modifiée, en même temps que celle du mot peregrinus a été étendue. Désormais, le mot peregrinus désigne une condition juridique». Cfr. Gaius, Inst. 1.128: nec enim ratio patitur, ut peregrinae condicionis homo civem Romanum in potestate habeat. Pari ratione et si ei, qui in potestate parentis sit, aqua et igni interdictum luerit, desinit in poteste parentis esse, quia aeque ratio non patitur, ut peregrinae condicionis homo in potestate sit civis Romani parentis; ma anche Gai epit. 1.6.1; Tituli ex corp. Ulp. 10.3.

 

[51] Sul significato “politico” del proemio del terzo libro delle Georgiche, cfr J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représantation dans l’énéide de Virgile, Bruxelles 1987, pp. 240 s.

 

[52] F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, II.1, Lipsiae 1898, p. 371 fr. 10.

 

[53] Importanti considerazioni sul passo, di cui però non rilevano la paternità sabiniana, sono svolte da H.S. Versnel, Triumphus. An inquiry into the origin, development and meaning of the roman triumph, Leiden 1970, pp. 166 s.; K.-H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, in De iustitia et iure. Festgabe für Ulrich von Lübtow, Berlin 1980, p. 98; infine vedi A. Petrucci, Il trionfo nella storia costituzionale romana dagli inizi della repubblica ad Augusto, Milano 1996, pp. 62 s., secondo il quale «i criteri discriminanti fra triumphus e ovatio […] è molto improbabile siano riconducibili ai primi due secoli della repubblica».

 

[54] Già nell’Ottocento G. Boissier, La religion romaine d’Auguste aux Antonins, I, cit., p. 242, accentuava fortemente in senso religioso i caratteri della figura di Enea: «Il travaille pour ses Pénates, auxquels il faut bien donner une demeure sûre, pour son fils qu’il ne doit pas priver de ce royaume que le destin lui promet, pour sa race qu’attend un si glorieux avenir. Sa personnalité s’efface devant ces grands intérêts; il obéit malgré ses répugnances et s’immole aux ordres du ciel. C’est à ces signes que se reconnaît le héros d’une épopée religieuse». Del verso si occupa anche P. Boyancé, La religion de Virgile, Paris 1963, pp. 70 s., soffermandosi sulla pietas di Enea: «Bref la piété d’énée est directement, incontestablement piété au sens religieux du mot. Beaucoup plus que l’image d’énée portant son père, c’est l’image d’énée portant les Pénates romains qui s’impose à nous»; consegue da ciò, per lo studioso francese, la piena giustificazione della qualifica attribuitasi da Enea nel v. in questione: «Proclamer qu’il est pieux, ce n’est pas dans ces conditions autre chose qu’affirmer qu’il se sait instrument des dieux». Sulla pietas di Enea e sull’origine della sua leggenda, vedi G.K. Galinsky, Aeneas, Sicily and Rome, Princeton 1969, pp. 3 ss.; J.-P. Brisson, Le pieux énée!, in Latomus 31, 1972, pp. 379 ss.

 

[55] Gli antichi commentatori discutevano molto sulla natura dei Penates di Enea: esemplare al riguardo Servius Dan., Ad Aen. 1.378, in cui sono registrate varie opinioni di annalisti e antiquari: Cassio Emina, Varrone, Nigidio Figulo, Labeone; degli ultimi due possiamo leggere: nam alii, ut Nigidius et Labeo, deos penates Aeneae Neptunum et Apollinem tradunt, quorum mentio fit taurum Neptuno, taurum tibi, pulcher Apollo. Cfr., fra gli autori più recenti: F. Bömer, Rom und Troia. Untersuchungen zur Frühgeschichte Roms, Baden-Baden 1951, pp. 50 ss.; A. Alföldi, Die troianischen Urahnen der Römer, Basel 1957; G. Piccaluga, Penates e Lares, in Studi e Materiali di Storia delle Religioni 32, 1961, pp. 81 ss.; A. Ormanni, Penus legata. Contributi alla storia dei legati disposti con causa penale in età repubblicana e classica, in Studi in onore di Emilio Betti, IV, Milano 1962, pp. 579 ss.; P. Boyancé, Les Pénates et l’ancienne religion romaine, ora in Id., études sur la religion romaine, Rome 1972, pp. 65 ss. (si tratta di un art. del 1952); G. Dury-Moyaers, énée et Lavinium. A propos des découvertes archéologiques récentes (avec une préface de F. Castagnoli), Bruxelles 1981, pp. 181 ss.; G. Radke, v. Penati, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1987, pp. 12 ss.; infine A. Dubourdieu, Les origines et le développement du culte des Pénates à Rome, Roma 1989, pp. 140 ss. (su Nigidio Figulo), 161 ss. (Enea e i Penati).

 

[56] Utilizzo la terminologia di Cicero, De off. 3.108. Regulus vero non debuit condiciones pactionesque bellicas et hostiles pertubare periurio; cum iusto enim et legitimo hoste res gerebatur, adversus quem et totum ius fetiale et multa sunt iura communia. Quod ni ita esset, numquam claros viros senatus vinctos hostibus dedidisset. Su questo importante testo ciceroniano, vedi P. Catalano, Cic. De off. 3, 108 e il così detto diritto internazionale antico, in Synteleia Arangio-Ruiz, I, Napoli 1964, pp. 373 ss.; Id., Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 4 ss.

 

[57] Cfr., in tal senso, G.B. Pighi, La poesia religiosa romana, Bologna 1958, pp. 46 ss.; anche per F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 55, la formula della deditio, come è riferita da Tito Livio, può collegarsi agli archivi dei Feziali; infine, F. Sini, Documenti sacerdotali di Roma antica, cit., p. 170.

 

[58] Cfr. Cicero, De leg. agr. 2.96. Collazia compare, infatti, nel lungo elenco dei populi del Lazio arcaico di cui scrive Plinio, Nat. hist. 3.96: Ita ex antiquo Latio LIII populi interiere sine vestigiis. Per maggiori informazioni, rinvio a Chr. Hülsen, v. Collatia, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, IV.1, Stuttgart 1900, col. 364; ma soprattutto a L. Quilici, Collatia, [Forma Italiae I, 10] Roma 1974, pp. 27 ss.; brevemente vedi anche M.P. Muzzioli, v. Collatinae arces, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 840 s.

 

[59] Cfr. Polybius 36.4.2; Livius 7.31.3-4: Quando quidem inquit, nostra tueri adversus vim atque iniuriam iusta vi non vultis, vestra certe defendetis; itaque populum Campanum urbemque Capuam, agros, delubra deum, divina humanaque omnia in vestram, patres conscripti, populique Romani dicionem dedimus, quidquid deinde patiemur dediticii vestri passuri. G. Dumézil, La religion romaine archaïque, 2ª ed., Paris 1974, p. 428 [= Id., La religione romana arcaica, trad. it. a cura di F. Jesi, Milano 1977, pp. 371 s.], ritiene il testo liviano di buona qualità e abbastanza risalente; più cauta l'opinione di G. Pugliese, Appunti sulla ‘deditio’ dell’accusato di illeciti internazionali, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 18, 3ª serie, 1974, pp. 8 s. [= Id., Scritti giuridici scelti, I. Diritto romano, Napoli 1985, pp. 567 s.]; il quale sostiene che la formula è «tramandata certo dagli annalisti e quindi piuttosto antica (anche se, verosimilmente, non coeva agli avvenimenti narrati in quel punto dallo storico)»; per una discussione critica più recente, vedi D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrecht. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., pp. 16 ss. Sull’istituto della deditio (la letteratura giuridica è peraltro vastissima) vedi: Th. Mommsen, Römisches Staatsrecht, III.1, cit., pp. 55 ss. [= trad. franc. di P.F. Girard: Droit public romain, VI.1, cit.,  pp. 61 ss.]; E. Täubler, Imperium Romanum, cit., pp. 14 ss.; A. Heuss, Die völkerrechtlichen Grundlagen, cit., pp. 60 ss.; P. Frezza, Le forme federative e la struttura dei rapporti internazionali nell’antico diritto romano, cit., pp. 412 ss. [= Id., Scritti, I, cit., pp. 416 ss.]; B. Paradisi, Deditio in fidem, in Studi in onore di Arrigo Solmi, I, Milano 1940 [ma 1941], pp. 284 ss.; A. Piganiol, Venire in fidem, in Revue Internationale des Droits de l’Antiquité 5, 1950 [= Mélanges Fernand De Visscher, IV], pp. 339 ss.; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, Frankfurt a. M. 1955, pp. 643 s.; E. Badian, Foreign Clientelae (264-70 B. C.), Oxford 1958, pp. 4 ss.; V. Bellini, Deditio in fidem, in Revue Historique de Droit Français et étranger 42, 1964, pp. 448 ss.; S. Calderone, PISTIS-Fides. Ricerche di storia e diritto internazionale nell’antichità, Messina-Roma 1964, pp. 59 ss.; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht, cit., pp. 5 ss.; F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., pp. 54 ss.; K.-H. Ziegler, Kriegsverträge im antiken römischen Recht, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte 102 (Rom. Abt.), 1985, pp. 51 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., pp. 209 s.; A. Watson, International law in archaic Rome: war and religion, Baltimore and London 1993, pp. 48 ss.

 

[60] Questa rilevanza giuridico-religiosa del rito di fondazione non sfugge a R. Orestano, I fatti di normazione nel’esperienza romana arcaica, Torino 1967, p. 47: «per tutto il corso dell’esperienza romana s’attribuirà al compimento di tale rito valore costitutivo per l’esistenza giuridica di una città, proprio in quanto determinazione del “punto di riferimento” di situazioni giuridiche».

 

[61] Vedi anche Ovidius, Fast. 4.819 ss.; Festus, De verb. sign., p. 358 L. Cfr. P. Catalano, Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., pp. 479 ss.

 

[62] Macrobius, Sat. 5.19.13: Sed Carminii <viri> curiosissimi et docti, verba ponam, qui in libro de Italia secundo sic ait: prius itaque et Tuscos aeneo vomere uti cum conderentur urbes solitos, in Tageticis eorum sacris invenio et in Sabinis ex aere cultros quibus sacerdotes tonderentur. Sul punto vedi P. de Francisci, Primordia civitatis, Roma 1959, p. 104; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., p. 104; Id., Aspetti spaziali del sistema giuridico-religioso romano, cit., p. 485.

 

[63] O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, Lipsiae 1889, col. 59 fr. 222. Secondo la ricostruzione proposta dallo studioso tedesco, il passo di Pomponio sarebbe da attribuire, nella divisione per materia dei libri ad Quintum Mucium, alla rubrica dedicata all’incapacità di testare del cittadino captus ab hostibus. Che il testo verosimilmente sia da ricollegare alla trattazione del postliminium sostiene invece F. Bona, “Postliminium in pace”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 21, 1955, p. 262 nt. 58; seguito da R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, Milano 1966, pp. 200 s. Da ultima, vedi F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, Napoli 1996, pp. 136 s.

 

[64] Per O. Lenel, Palingenesia iuris civilis, I, Lipsiae 1889, col. 243 fr. 428, si tratterebbe del commento a XII tab. II.2 (status dies cum hoste); cfr. anche F. Bona, Preda di guerra e occupazione privata di “res hostium”, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 25, 1959, p. 342; R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., p. 245.

 

[65] Un utile apporto all’individuazione della vicenda semantica del termine (da miles conductus in Plauto a homo perditus in Cicerone) si trova nei lavori di A. Milian, Ricerche sul “latrocinium” in Livio. I. “Latro” nelle fonti preaugustee, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti 138, 1979-1980, pp. 171 ss.; Id., Ricerche sul “latrocinium” in Livio. II. Il “latrocinium” di Perseo, in Sodalitas. Scritti in onore di Antonio Guarino, III, Napoli 1984, pp. 103 ss.; V. Giuffrè, “Latrones desertoresque”, in Labeo 27, 1981, pp. 214 ss.; S. Morgese, Taglio di alberi e “latrocinium”: D. 47.7.2, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 49, 1983, pp. 147 ss. Più in generale, vedi J. Burian, Latrones. Ein Begriff in römischen literarischen und juristischen Quellen, in Eirene 21, 1984, pp. 17 ss.

 

[66] Cfr. D. 49.15.19.2 (Paulus libro sexto decimo ad Sabinum): A piratis aut latronis capti liberi permanent. Il Lenel, Palingenesia iuris civilis, II, cit., col. 927 fr. 1911, colloca il testo ulpianeo sotto la rubrica de iure gentium; nello stesso senso, R. Martini, Le definizioni dei giuristi romani, cit., p. 341; così anche E. Nardi, Istituzioni di diritto romano, A. Testi. 1, Milano 1973, pp. 175 s. Non crede, invece, che il frammento «sia stato da Lenel collocato esattamente», G. Lombardi, Sul concetto di “ius gentium”, Roma 1947, p. 206 e nt. 4: «perché il testo di Ulpiano non riguarda la schiavitù, quale istituto iuris gentium o meno, ma precisa semplicemente chi siano coloro che debbano considerarsi hostes al fine di stabilire se, nei riguardi di colui che è stato eventualmente “catturato”, debba o non debba applicarsi il postliminium». I due testi di Ulpiano e Paolo sono stati riesaminati, più di recente, anche da K.-H. Ziegler, Pirata communis hostis omnium, cit., p. 98; da ultime vedi F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, cit., pp. 137, 143; M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, Cagliari 2001, p. 42 nt. 53.

 

[67] Per la definizione vedi Gaius, Inst. 1.129: Quodsi ab hostibus captus fuerit parens, quamvis servus hostium fiat, tamen pendet ius liberorum propter ius postliminii, quo hi qui ab hostibus capti sunt, si reversi fuerint, omnia pristina iura recipiunt; itaque reversus habebit liberos in potestate. Si vero illic mortuus sit, erunt quidem liberi sui iuris; sed utrum ex hoc tempore quo mortuus est apud hostes parens, an ex illo quo ab hostibus captus est, dubitari potest. Ipse quoque filius neposve si ab hostibus captus fuerit, similiter dicimus propter ius postliminii potestatem quoque parentis in suspenso esse. Cfr. anche Pomponius libr. XXXVII ad Q. Mucium = D. 49.15.5; Tryphoninus libr. IV disput. = D. 49.15.12 pr.; Paulus libr. XVI ad Sabinum = D. 49.15.19 pr. Non posso approfondire in questa nota il dibattito dottrinale sull’istituto, né dare conto in maniera puntuale delle diverse posizioni presenti nella dottrina romanistica attuale; anche per i riferimenti bibliografici rinvio, dunque, ai lavori più recenti: A. Maffi, Ricerche sul ‘postliminium’, Milano 1992; F. Cursi, La struttura del ‘postliminium’ nella repubblica e nel principato, cit. in nt. 63; M.V. Sanna, Nuove ricerche in tema di postliminium e redemptio ab hostibus, cit. in nt. precedente.

 

[68] Nell’epica virgiliana risulta evidente – ed insistentemente conclamata – la connotazione negativa della guerra. Nulla salus bello esclama un personaggio in Aen. 11.362, (espressione che va ben oltre il contingente discorso di Drance), altrove si parla di crimina belli (Aen. 7.339: dissice compositam pacem, sere crimina belli) mentre è severamente condannata dal poeta la scelerata insania belli (Aen. 7.461: saevit amor ferri et scelerata insania belli; cfr. Servio, ad l.: nihil enim tam insanum, quam desiderare id per quod possis perire); se poi osserviamo la qualificazione della guerra, il bellum può essere horridum (Aen. 6.86-87: Bella, horrida bella / et Thybrim multo spumantem sanguine cerno; cfr. 7.41; 11.96), asperum (Aen. 1.14), crudele (Aen. 8.146; 11.535), cruentum (Aen. 11.474: bello dat signum rauca cruentum / bucina), dirum (Aen. 11.217), triste (Ecl. 6.7; Aen. 7.325.545; 8.29). Sul piano religioso la guerra per Virgilio appartiene alla sfera del nefas (Aen. 2.217-220; 10.900-902), il che giustifica in riferimento a bellum l’uso degli aggettivi nefandum e infandum (Aen. 12.572; 7.583; 12.804) e spiega la ripugnanza del poeta per un riferimento a bellum di aggettivi tipici del lessico religioso e giuridico quali iustum, pium, felix, che, infatti, non compaiono mai negli impieghi virgiliani di bellum. Infine, quando Virgilio ci presenta la personificazione della guerra, abbiamo allora il Bellum mortiferum di Aen. 6.279, annoverato significativamente tra i più terribili mali che affliggono il genere umano: Luctus, ultrices Curae, Morbus, Letum, Labos, mala mentis Gaudia e Discordia demens (Vergilius, Aen. 6.273-281: Vestibulum ante ipsum primisque in faucibus Orci Luctus et ultrices posuere cubilia Curae; / pallentesque habitant Morbi tristisque Senectus / et Metus et malesuada Fames ac turpis Egestas, / terribiles visu formae, Letunique Labosque; / tum consanguineus Leti Sopor et mala mentis / Gaudia mortiferumque adverso in limine Bellum / ferreique Eumenidum thalami et Discordia demens, / vipereum crinem vittis innexa cruentis. Cfr. anche Terentius, Eun. 61; Cicero, Catil. 2.14; 3.19; De nat. deor. 1.42; Phil. 1.13; 13.1; Horatius, Carm. 1.1.24; Valerius Maximus, Facta ed dicta 4.3 pr.; Seneca, Dial. 4.35.5; 6.20.5; Nat. quaest. 2.59.3; Plinius, Nat. hist. 2.117).

 

[69] Le più importanti sono state puntualmente analizzate da G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., pp. 478 ss.; per una rapida enumerazione dei passi virgiliani riguardanti il termine bellum e le diverse, ma sempre negative, qualificazioni di esso, vedi H. Merguet, Lexikon zu Vergilius, cit., pp. 88 ss.

 

[70] Su tale «fatto fonetico» vedi G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 1940 (rist. an. 1969), p. 107;  M. Leumann, Lateinische Laut- und Formenlebre = Leumann-Hoffman-Szantir, Lateinische Grammatik, 1 [Handbuch der Altertumswissenschaft, II.2.1], nuova ed., München 1977, pp. 131 s.

 

[71] B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, 1906, col. 1822; V. Rosenberger, Bella et expeditiones: die antike Terminologie der Kriege Roms, Stuttgart 1992, pp. 128 ss.

 

[72] In questo caso la nostra fonte più autorevole è costituita da Varro, De ling. Lat. 7.49: Perduelles dicuntur hostes; ut perfecit, sic perduellis, <a per> et duellum; id postea bellum. Ab eadem causa facta Duell[i]ona Bellona; cfr. Cicero, Orat. 153; Quintilianus, Inst. orat. 1.4.15. Sull’antica forma del nome della dea vedi anche C.I.L. X.104.2; più in generale E. Aust, v. Bellona, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, III.1, Stuttgart 1897, coll. 254 ss.; G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., pp. 151 ss.; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., pp. 394 ss. [= trad. it., La religione romana arcaica, cit., pp. 341 s.]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988, pp. 192 ss.

 

[73] I sacerdoti, a differenza di antiquari e annalisti, rifuggivano dall’attualizzare gli antichi documenti giuridico-religiosi nella forma linguistica; anche col rischio di non comprendere gli antichissimi carmina che recitavano per i propri culti. Questa ragione spiega il perché la lingua dei documenti sacerdotali appare, di norma, più conservativa dello stesso linguaggio giuridico; si legga in proposito quanto scrive E. Peruzzi, Aspetti culturali del Lazio primitivo, Firenze 1978, p. 173: «Vi è una differenza essenziale fra la lingua dei carmina sacerdotali e la lingua delle leggi. La prima è immutabile nel tempo, sì che la formula deve recitarsi come è scritta anche se più non la si intende. Il latino giuridico, invece, vive nella scuola e nella pratica, e muta seguendo, se pur con ritmo più lento, la naturale evoluzione della lingua comune. Anche le più vetuste leges regiae trascritteci da Festo presentano qualche arcaismo, ma sono linguisticamente moderne rispetto al latino del cippo del Foro, più prossimo all’indoeuropeo che alla lingua di Cicerone».

 

[74] Act. lud. saec. Aug. 94 = C.I.L. VI.32323.94 (G.B. Pighi, De ludis saecularibus populi Romani Quiritium, Milano 1941, p. 114); Act. lud. saec. Sept. Sev. 4.11 = C.I.L. VI.32329.11 (G.B. Pighi, Op. cit., p. 157): imperi>um maiestatem que p. R. Q. du<elli domique auxis utique semper Latinu>s obtemperassit.

 

[75] Cfr. anche Plautus, Asin. 558-559: Edepol qui virtutes tuas non possis conlaudare, / sicut ego possim, quae domi duellique male fecisti; Capt. 67-68: Abeo. Valete iudices iustissimi / domi, duellique duellatores optumi.

 

[76] Sulle «veterum de origine verbi sententiae», cfr. B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Lingua Latinae, II, cit, col. 1822.

 

[77] Paulus, Fest. ep., p. 30 L.: Bellum a beluis dicitur, quia beluarum sit pernitiosa dissensio.

 

[78] Servius, Ad Aen. 1.22: Et dictae sunt parcae kata ¢nt…frasin, quod nulli parcant, sicut lucus a non lucendo, bellum a nulla re bella.

 

[79] Isidorus, Diff. 1.563: Bellum est contra hostes exortum, tumultus vero domestica appellatione concitatus. Hic et seditio nuncupatur.

 

[80] Servius, Ad Aen. 8.547: Qui sese in bella sequantur in expeditionem et bellicam praeparationem: nam, ut supra diximus, ‘bellum’ est tempus omne quo vel praeparatur aliquid pugnae necessarium, vel quo pugna geritur, 'proelium' autem dicitur conflictus ipse bellorum: unde modo bene dixit ‘qui sese in bella sequantur’, non ‘in proelium’; nam ad auxilia petenda vadit, non ad pugnam (cfr. anche Servius Dan., Ad Aen. 1.456; 2.397; Nonius, p. 703 L.). Dal passo si ricava, inoltre, la distinzione tra bellum, pugna e proelium; la sottile distinzione di Servio non pare, tuttavia, rigorosamente osservata, se è vero che il termine bellum si trova usato di frequente dagli autori antichi, tra cui lo stesso Virgilio, per indicare anche l’ “atto di guerra”, il “lottare in guerra”, insomma il combattimento: cfr. G. Lotito, v. Bellum, in Enciclopedia Virgiliana, I, cit., p. 437.

 

[81] F. De Martino, Storia della costituzione romana, II, cit., p. 53.

 

[82] Cfr. nello stesso senso J.-P. Brisson, Introduction, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, Paris-La Haye 1969, p. 17: «Rome a toujours su que la guerre avait quelque chose de sacrilège et qu’un usage immodéré de la violence risquait de provoquer la colère des dieux, c’est-à-dire que l’effusion de sang laisse toujours plus au moins mauvaise conscience».

 

[83] Cicero, De nat. deor. 2.8: Nihil nos P. Clodi bello Punico primo temeritas movebit, qui etiam per iocum deos inridens, cum cavea liberati pulli non pascerentur, mergi eos in aquam iussit, ut biberent, quoniam esse nollent? Qui risus classe devicta multas ipsi lacrimas, magnam populo Romano cladem attulit. Quid collega eius L. Iunius eodem bello nonne tempestate classem amisit, cum auspiciis non paruisset? Itaque Clodius a populo condemnatus est, Iunius necem sibi ipse conscivit. C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Transumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores. Acute osservazioni in C. Bailey, Phases in the Religion of Ancient Rome, Berkeley 1932 [rist. Westport, Conn. 1972], pp. 274 s.; più di recente, vedi R. Turcan, Religion romaine. 2. Le culte, Leiden-New York-København-Köln 1988, pp. 5 s.: «C’est à la piété collective et institutionnelle, aux religiones de la cité que les Romains attribuaient le succès de leur politique et leur hégémonie universelle. [...] A cet égard, les Romains pouvaient à bon droit se targuer de l’emporter sur tous les peuples religione, id est cultu deorum»; ma anche M. Humbert, Droit et religion dans la Rome antique, in Mélanges Felix Wubbe, Fribourg Suisse 1993, pp. 196 s. Più in generale, riguardo alle concezioni religiose di Cicerone rimane tuttora insostituibile M. van den Bruwaene, La théologie de Cicéron, Louvain 1937; cfr. inoltre, fra gli altri: P. Deforny, Les fondaments de la religion d’après Cicéron, in Les études Classiques 22, 1954, pp. 241 ss., 366 ss.; R.D. Sweeney, Sacra in the Philosophic Works of Cicero, in Orpheus 12, 1965, pp. 99 ss.; J. Guillén, Dios y los dioses en Cicerón, in Helmantica 25, 1974, pp. 511 ss.; J. Kroymann, Cicero und die römische Religion, in Ciceroniana. Hommages à Kazimierz Kumaniecki, Leiden 1975, pp. 116 ss.; L. Troiani, Cicerone e la religione, in Rivista Storica Italiana 96, 1984, pp. 920 ss.; C. Bergemann, Politik und Religion im spätrepublikanischer Rom, Stuttgart 1992.

Anche Virgilio risultava sensibile a tale ideologia, al punto da attribuire allo stesso Iuppiter versi quali Aen. 12.838-840: Hinc genus Ausonio mixtum quod sanguine surget, / supra homines, supra ire deos pietate videbis, / nec gens ulla tuos aeque celebrabit honores. Giustamente W.W. Fowler, The Death of Turnus, Oxford 1919, pp. 145 ss., ha osservato che il contesto del passo richiama i celebri versi 847-853 del libro VI dell’Eneide; non è sfuggita, peraltro, all’illustre studioso l’ispirazione religiosa e pacifica della motivazione virgiliana del predominio universale dei Romani; ispirazione del tutto assente nel contemporaneo Tito Livio, il quale adduceva ben altre motivazioni nella ‘profezia’ attribuita allo spirito di Romolo (Livius 1.16.7: Abi, nuntia ‑ inquit ‑ Romanis caelestes ita velle ut mea Roma caput orbis terrarum sit, proinde rem militarem colant sciantque, et ita posteris tradant, nullas opes humanas armis Romanis resistere posse). Sulla diversa ispirazione di Virgilio rispetto a Tito Livio e sulle implicazioni religiose di essa vedi, anche I. Lana, Studi sull'idea della pace nel mondo antico, in Memorie dell'Accademia delle Scienze di Torino, ser. V, vol. 13, 1989, pp. 6 s. (estr.).

 

[84] Da condividere il pensiero di M. Meslin, L’uomo romano, cit., p. 39, a proposito del ritus belli indicendi: «Come dice Tito Livio (1.32) attribuendo sempre al re Numa Pompilio l’istituzione di questi feciali, “fare la guerra non bastava, bisognava anche dichiararla secondo le regole”. Il rituale è certamente d’origine italiota e mira, con adeguate procedure, non solo ad affermare il buon diritto di Roma, ma a collocare l’impresa nel fas, vale a dire a conferirle le massime possibilità di riuscita».

 

[85] Tale è il caso, ad esempio, delle formule e procedure elaborate dai Fetiales per l’indictio belli; (Livius 1.32.6-14). Ricostruzione metrica dei carmina contenuti nel testo liviano, in C.M. Zander, Versus Italici antiqui, Lundae 1890, p. 32; C.O. Thulin, Italiscke sakrale Poesie und Prosa. Eine metriscke Untersuckung, Berlin 1906, pp. 63 s.; G. Appel, De Romanorum precationibus, Gissae 1909 [rist. an. New York 1975], pp. 12 s.; G.B. Pighi, La poesia religiosa romana, cit., pp. 38 ss.; A. Carcaterra, Dea Fides e ‘fides’: storia d’una laicizzazione, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 50, 1984, pp. 214 ss. Che l’insieme di queste formule presenti un aspetto estremamente risalente, al di là della pur inevitabile modernizzazione linguistica, è sostenuto senza esitazioni da R. Bloch, Réflexions sur le plus ancien droit romain, in Studi in onore di Giuseppe Grosso, I, Torino 1968, pp. 236 ss.; nello stesso senso, da ultimo, A. Magdelain, Quirinus et le droit (spolia opima, ius fetiale, ius Quiritium), in Mélanges de l’école Française de Rome 96, 1984, pp. 213 ss.; Id., Le ius archaïque, Ibidem 98, 1986, p. 303.

 

[86] J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, 2a ed., Paris 1969, pp. 86 s. [ = Id., La religione romana. Storia politica e psicologica, trad. it. di G. Pasquinelli, Torino 1959, pp. 93 s.].

 

[87] H. Le Bonniec, Aspects religieux de la guerre à Rome, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 101. Sulle feste di carattere militare di questi due mesi, vedi per tutti W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, rist. London 1925, pp. 33 ss., 236 ss.; ed il più recente lavoro di D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 87 ss., 317 ss.

 

[88] è opinione prevalente fra gli studiosi che gli antichi sacerdoti romani indicassero con il termine nefas tutto quello «che non fosse possibile fare senza incorrere nella reazione della natura stessa e nell’ira degli dèi» (A. Guarino, L’ordinamento giuridico romano, cit., p. 135); da ciò consegue che il concetto di nefas rimanda a valori che l’odierna dommatica giuridica definisce imperativi – il nefas è inteso sempre in senso obbligatorio – connessi con le sfere del “vietato” e del “dovere” (P. Catalano, Contributi allo studio del diritto augurale, Torino 1960, p. 326 e nt. 10; seguito da F. Cordero, Riti e sapienza del diritto, Roma-Bari 1981, p. 272; F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale” antico, cit., pp. 95 ss.). Quanto alla derivazione della parola, i linguisti concordano nel ritenere nefas «sorti de l’expression ne fas est où il faut entendre ne- comme une négation de phrase et non comme préfixe» (É. Benveniste, Le vocabulaire des institutions indo-européennes, 2. Pouvoir, droit, religion, Paris 1969, p. 136; cfr. anche A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, I, dritte Aufl., Heidelberg 1938, p. 217; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., p. 217). Oltre che nella lingua dei sacerdoti, l’uso di nefas nell’arcaica forma ne fas (est) si ritrova ancora negli antiquari di età tardo-repubblicana e imperiale, soprattutto in testi che fanno riferimento a realtà religiose e giuridiche antichissime (Festus, De verb. sign., v. Sacer mons, p. 424 L.: At homo sacer is est, quem populus iudicavit ob maleficium; neque fas est eum immolari, sed, qui occidit, parricidi non damnatur. Aulus Gellius, Noct. Att. 10.15.14: Pedes lecti, in quo cubat, luto tenui circumlitos esse oportet et de eo lecto trinoctium continuum non decubat neque in eo lecto cubare alium fas est).

 

[89] Sulle implicazioni religiose e giuridiche di questi versi si vedano, fra gli altri, F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, in Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche 10 (n. s.), 1935, p. 228; R. Orestano, Dal ius al fas. Rapporto fra diritto divino e umano in Roma dall'età primitiva all'età classica, in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 46, 1939, p. 225 e nt. 70; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 19, 1953, p. 54 nt. 37 [= Id., Scritti di diritto romano, I, Padova 1985, p. 230 nt. 37]. In diversa prospettiva, vedi anche G. Dumézil, Mythe et épopée, I. L'ideologie des trois fonctions dans les épopées des peuples indo-européens, Paris 1968, p. 401.

 

[90] Per i commentatori antichi non v’era il minimo dubbio che Virgilio avesse voluto caratterizzare principalmente come sacerdote il personaggio di Enea (cfr. Servius Dan., Ad Aen. l.706). Servio e Macrobio trattano dell'eroe troiano come di un pontifex (Servius, Ad Aen. 1.373; Macrobius, Sat. 3.2.17) e si ingegnano a dimostrare che tutte le sue azioni più significative sono sempre conformi alle prescrizioni del rituale romano: Servius, Ad Ecl. 8.82; Ad Aen. 2.133; 3.21; 4.517; 5.745; 9.298; Macrobius, Sat. 3.5.6. Nello stesso senso, fra gli studiosi moderni, si orientava nel secolo scorso L. Lersch, Antiquitates Vergilianae ad vitam populi Romani descriptae, Bonnae 1843, pp. 8-9, il quale nel paragrafo intitolato De pontificia dignitate scrive: «Tanta enim rei sacrae religio in Aenea regnat, ut Gellius, Macrobius ac Servius eum interdum pontificem maximum appellaverint. Neque immerito, opinor». In tempi più recenti questa tesi è stata ripresa da H.J. Rose, Aeneas pontifex, London 1948 [= Id., Vergilian essays, 2]; ma «dans les détails... le scholar écossais ne produit aucun argument probable»: così G. Dumézil, Mythe et épopée, I, cit., p. 391, il quale pensa alla funzione del rex sacrorum («En revanche le poète a certainement voulu installer son héros dans un rituel de l’antique royauté sacrée de Rome, dont, à l'époque historique, le bénéfice restait attaché au rex sacrorum ou sacrificulus, premier prêtre de l’état républicain»). Seppure con posizioni più sfumate, non sfugge alla maggior parte della dottrina moderna il fatto che nella figura di Enea «Le poète veut nous montrer un prêtre»: N.D. Fustel de Coulanges, La cité antique. Étude sur le culte, le droit, les institutions de la Grèce et de Rome, 1864, riedizione Paris 1984, a cura di F. Hartog, p. 164 [= Id., La città antica, trad. it. di G. Perrota (1924), rist. Firenze 1972, p. 170]; cfr. G. Boissier, La religion romaine, I, cit., p. 233; P. Boyancé, La religion de Virgile, cit., pp. 72 s.; P. Grimal, Virgile ou la seconde naissance de Rome, Paris 1985, pp. 227 s. [= Id., Virgilio. La seconda nascita di Roma, Milano 1986, pp. 256 s.]; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans l’énéide de Virgile, cit., p. 180: «Quant à énée, prêtre avant tout, son pouvoir sera de nature religieuse», cfr. anche pp. 187 ss.

 

[91] Sulla funzione purificatrice dell’acqua, cfr. Vergilius, Aen. 3.279; 6.636; 9.919; 11.190. La differenza tra abluzioni e aspersioni, e per quali riti fossero necessarie, risulta ben spiegata in Macrobius, Sat. 3.1.5-6; per altre fonti, P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., p. 55 nt. 45 [= Id., Studi di diritto romano, I, cit., p. 231 nt. 45].

 

[92] Cfr. Livius 5.22.5; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber secundus, Oxford 1964, p. 264.

 

[93] E. Paratore, Virgilio, Eneide, I (Libri I-II), Milano 1978, p. 360: «il verbo, che evidentemente regge ea (sacra), è di carattere rigorosamente sacrale: Livio, V 22,4 ce ne chiarisce la possibilità positiva come riservata solo ai sacerdoti, sì che rispetto ad altri esso assumeva il significato di “contaminare”».

 

[94] A maggior ragione era ritenuta sommamente onorevole per il cittadino la morte in battaglia: così Vergilius, Aen. 2.314-317: Arma amens capio; nec sat rationis in armis, / sed glomerare manum bello et concurrere in arcem / cum sociis ardent animi; furor iraque mentem / praecipitat pulchrumque mori succurrit in armis; nello stesso senso il commento di Servius Dan., Ad Aen. 2.317: (Pulchrumque mori) succurrit (in armis) ratio viri fortis; quid enim aliud a bono cive et forti amissae patriae posset inpendi. Et 'succurrit' in animum venit.

 

[95] Cfr. F. Beduschi, Osservazioni sulle nozioni originali di fas e ius, cit., pp. 227 s.; per l'analisi linguistica del verbo impiare, e per le sue valenze religiose, vedi H. Fugier, Recherches sur l'expression du sacré dans la langue latine, Paris 1963, pp. 334 ss.

 

[96] Paulus, Fest. ep., p. 104 L.: Laureati milites sequebantur currum triumphantis, ut quasi purgati a caede humana intrarent Urbem.

 

[97] Per la definizione vedi Varro, De ling. Lat. 6.22: Armilustrium ab eo quod in Armilustrio armati sacra faciunt, nisi locus potius dictus ab his; sed quod de his prius, id ab lu<d>endo aut lustro, id est quod circumibant ludentes ancilibus armati. Cfr. Paulus, Fest. ep., p. 17 L.: Armilustrium festum erat apud Romanos, quo res divinas armati faciebant, ac, dum sacrificarent, tubis canebant.

 

[98] Cfr. per tutti G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, cit., 19, pp. 144, 557; W.W. Fowler, The Roman Festivals of the Period of the Republic, cit., pp. 250 s.; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939, p. 100; K. Latte, Römische Religionsgeschichte, München 1960, p. 120; G. Dumézil, La religion romaine archaïque, cit., p. 216 [= Id., La religione romana arcaica, cit., p. 190]; D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 331 s.

 

[99] L’attività teologica e giuridica della sodalità si esplicitava, oltre che nelle formule solenni, soprattutto in decreta e responsa, che i Feziali davano su richiesta del senato o dei magistrati. Importanti testimonianze, con riferimenti testuali, in Tito Livio (31.8.3: Consultique fetiales ab consule Sulpicio, bellum, quod indiceretur regi Philippo, utrum ipsi utique nuntiari iuberent, an satis esset, in finibus regni quod proximum praesidium esset, eo nuntiari. Fetiales decreverunt, utrum eorum fecisset, recte facturum. 36.3.9: Fetiales responderunt iam ante sese, cum de Philippo consulerentur, decrevisse nihil referre, ipsi coram an ad praesidium nuntiaretur).

 

[100] Rassegna delle fonti in cui ricorre questa espressione in B.A. Müller, v. Bellum, in Thesaurus Linguae Latinae, II, cit., col. 1831. Sul tema, ampiamente studiato dalla dottrina romanistica, basterà ricordare alcuni: M. Kaser, Das altrömische ius, Göttingen 1949, pp. 22 ss.; H. Drexler, Iustum bellum, in Rheinisches Museum für Philologie 102, 1959, pp. 97 ss.; H. Hausmaninger, ‘Bellum iustum' und 'Iusta causa belli' in älteren römischen Recht, in österreichsche  Zeitschrift für öffentliches Recht, N. F. 11, 1961, pp. 335 ss.; E. Polay, Differenzierung der Gesellschaftsnormen in antiken Rom, Budapest 1964, pp. 115 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 14 ss.; K.-H. Ziegler, Das Völkerrecht der römischen Republik, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.2, cit., pp. 102 ss.; W.V. Harris, War and imperialism in Republican Rome, 327-70 BC., Oxford 1979, pp. 161 ss. (del tutto inaccettabile la posizione fortemente negativa); S. Albert, Bellum iustum. Die Theorie des «gerechten Krieges» und ihre praktische Bedeutung für die auswärtigen Auseinandersetzungen Roms in republikanischer Zeit, Kallmünz 1980, pp. 12 ss.; S. Clavadtscher-Thürlemann, ‘Polemos dikaios’ und ‘bellum iustum’, Zürich 1985, pp. 139 ss.; F. d'Ippolito, Sulla giurisprudenza medio-repubblicana, Napoli 1988, pp. 22 ss.; D. Nörr, Aspekte des römischen Völkerrechts. Die Bronzetafel von Alcántara, cit., pp. 118 ss.; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., pp. 117 ss.; A. Watson, International law in archaic Rome: war and religion, cit., pp. 48 ss.

 

[101] Legge invece «et ubi desitum» L. Spengel: M. Terenti Varronis De Lingua Latina libri, emendavit apparatu critico instruxit praefatus est Leonardus Spengel. Edidit et recognovit Andreas Spengel, Berolini 1885, p. 35; sulla questione vedi J. Collart, Varron, De lingua Latina, Livre V, Texte établi, traduit et annoté par J.C., Paris 1954, p. 56.

 

[102] A. Cenderelli, Varroniana. Istituti e terminologia giuridica nelle opere di M. Terenzio Varrone, cit., pp. 33 fr. 44, 114; J. Collart, Varron, De lingua Latina, Livre V, cit., p. 199: «Les anciens établissaient un rapport entre foedus, fidūs et fētiālis. La parenté des deux premiers mots est certaine, ils diffèrent seulement par le degré de la racine. Foedus, mot figé dans la langue religieuse et juridique, a gardé sa diphtongue, mais fidus est attesté ici et dans les Glossaires. Quant à fētiālis, son origine demeure obscure». Più in generale, vedi F. Cavazza, Saggio su Varrone etimologo e grammatico. La lingua latina come modello di struttura linguistica, Firenze 1981; si occupa marginalmente del passo, ma per ribadire il rapporto foedus / fides, a p. 49, nt. 61.

 

[103] D. 1.3.40 (Modestinus libro primo regularum): Ergo autem omne ius aut consensus fecit aut necessitas constituit aut firmavit consuetudo. Cfr. Vocabularium Iurisprudentiae Romanae, IV, coll. 74 ss.

 

[104] Sull’organizzazione militare dei Sanniti, con approfondimenti archeologici e giuridico-religiosi, vedi Chr. Saulnier, L’armée et la guerre chez les peuples Samnites (VIIe – IVe s.), Paris 1983.

 

[105] Oltre il lavoro per molti versi fondamentale di W. Capelle, Griechische Etik und römischer Imperialismus, in Klio 25, 1932, pp. 86 ss. [ristampato in AA.VV., Ideologie und Herrschaft in der Antike, hrsg. von H. Kroft, Darmstadt 1979, pp. 238 ss.], vedi anche F.W. Walbank, Political morality and friends of Scipio, in Journal of Roman Studies 55, 1965, pp. 1 ss.; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, 2ª ed., Ithaca, New York 1968 [= Id., Römischer Imperialismus in der späten Republik, trad. tedesca di G. Wirth, Stuttgart 1980]; P. Desideri, L’interpretazione dell’impero romano in Posidonio, in Rendiconti dell’Istituto Lombardo 106, 1972, pp. 482 ss.; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del II secolo a.C., I, Torino 1973, pp. 38 ss.; P. Treves, La cosmopoli di Posidonio e l’impero di Roma, in La filosofia greca e il diritto romano (Atti del Colloquio italo-francese, Roma, 14-17 aprile 1973), I, Accademia Naz. Lincei. Quaderno 221, Roma 1976, pp. 27 ss.; E. Gabba, Aspetti culturali dell’imperialismo romano, in Athenaeum 65, 1977, pp. 49 ss.; D. Musti, Polibio e l’imperialismo romano, Napoli 1979; A. Momigliano, Polibio, Posidonio e l’imperialismo romano, ora in Id., Sesto contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, I, Roma 1980, pp. 89 ss.; P. Jal, L’impérialisme romain: observations sur les témoignages littéraires latines de la fin de la République romaine, in Ktéma 7, 1982, pp. 143 ss.; infine J.-L. Ferrary, Philhellénisme et impérialisme. Aspects idéologiques de la conquête romaine du monde hellénistique, Rome 1988.

 

[106] M. Pohlenz, Die Stoa. Geschichte einer geistiger Bewegung, Göttingen 1959, qui citato nella trad. it., La stoa. Storia di un movimento spirituale, I, Firenze 1967, pp. 535 ss.; J.-L. Ferrary, Le idee politiche a Roma nell’età repubblicana, in AA.VV., Storia delle idee politiche, economiche e sociali (dir. da L. Firpo), I. L'antichità classica, Torino 1982, pp. 731 ss.; M. Ducos, Les Romains et la loi. Recherches sur les rapports de la philosophie grecque et la tradition romaine à la fin de la Rèpublique, Paris 1984, pp. 231 ss.; M. Bretone, Storia del diritto romano, cit., pp. 323 ss. Non è certo senza significato che sia proprio del I secolo a.C. la prima menzione affidabile a noi pervenuta di «natura ius»: (Rhet. ad Her. 2.19) Natura ius est, quod cognationis aut pietatis causa observatur, quo iure parentes a liberis, et a parentibus liberi coluntur. Sulla datazione dell'opera vedi G. Calboli, Cornifici Rhetorica ad Herennium (Introduzione, testo critico, commento), Bologna 1969, pp. 12 ss.; C. Achard, L'auteur de la «Rhetorique à Herennius»?, in Revue des études Latines 63, 1985 (ma 1987), pp. 56 ss., il quale però ritiene poco probabile che il manualetto sia stato effettivamente composto da Cornificio.

 

[107] Su L. Furio Filo, uomo politico e giurista amico di Scipione Emiliano, console nel 136 a.C. (cfr. T.R.S. Broughton, The magistrates of the Roman Republic, I, New York 1951 [rist. an. 1986, p. 486), di cui ancora Macrobio citava ‑ seppure di seconda mano ‑ un vestustissimus liber (così F.P. Bremer, Iurisprudentiae Antehadrianae quae supersunt, I, cit., pp. 29 s.; possibilisti M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, cit., p. 234: «Der Verfasser ist wahrscheinlich der Konsul des J. 136 L. Furius Philus»), vedi Fr. Münzer, v. Furius, in Real-Encyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, VII.1, Stuttgart 1910, col. 360; O. Behrends, Tiberius Gracchus und die juristen seiner Zeit ‑ die römische Jurisprudenz gegenüber der Staatskrise des Jahres 133 v.Cr., in Das Profil des Iuristen in der europäischen Tradition. Symposion aus Anlass des 70. Geburtstages von Franz Wieacker, Ebelbach 1980, pp. 113 ss.; R.A. Bauman, Lawyers in Roman republican politics: a study of the Roman jurists in their political setting, 316-82 BC, München 1983, pp. 282 ss.

 

[108] De re publ. 3.8; J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, in Revue des études Latines 55, 1977, p. 128. Fra gli studi dedicati a Carneade e alla Nuova Accademia vedi, in particolare: J. Croissant, La morale de Carnéade, in Revue internationale de philosopie 3, 1939, pp. 545 ss.; O. Gigon, Zur Geschichte der sogenannten Neuen Akademie (1944), ora in Id., Studien zur antiken Philosophie, Berlin 1972, pp. 412 ss.; A. Weische, Cicero und die neue Akademie, Münster West. 1961, in special modo pp. 77 ss.; H.J. Kraemer, Platonismus und hellenistische Philosophie, Berlin 1971, pp. 5 ss. Sembra potersi dubitare del fatto che Carneade, nel discorso pronunciato a Roma, si sia fatto portavoce dell’opposizione culturale greca all’egemonia “mondiale” dei Romani (come invece sostenevano H. Fuchs, Der geistige Wiederstand gegen Rom in der antiken Welt, 2ª ed., Berlin 1964, pp. 2 ss.; F.W. Walbank, Polibus and Rome's eastern Policy, in Journal of Roman Studies 53, 1963, pp. 1 ss.; E. Candiloro, Politica e cultura in Atene da Pidna alla guerra mitridatica, in Studi Classici e Orientali 14, 1965, pp. 158 ss.): cfr. in tal senso T.A. Sinclair, Il pensiero politico classico, a cura di L. Firpo, Bari 1961, p. 373; G. Garbarino, Roma e la filosofia greca dalle origini alla fine del secondo secolo a.C., II, cit., pp. 363 ss.; J.-L. Ferrary, Philhellènisme et impérialisme, cit., pp. 351 ss.

 

[109] Il passo tratto da Lattanzio (Inst. div. 6.9.3-4) è stato considerato non ciceroniano nelle edizioni curate da K. Büchner (M. T. Cicero, Von Gemeinwesen, 3ª ed., Zürich 1973) e da P. Krarup (M. T. Ciceronis De re publica librorum sex quae supersunt, Firenze 1967); anche E. Heck, Die Bezeugung von Ciceros Schrift De re publica, Hildesheim 1966, pp. 90 s., ritiene il passo non riconducibile al discorso di Furio Filo, rilevandovi contraddizioni con le tesi centrali di tale discorso esposte da Lattanzio, Inst. div. 5.16. Una stimolante analisi del passo si ha in D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, München 1974, p. 70. Per il commento vedi K. Büchner, M. Tullius Cicero. De Republica, Kommentar, Heidelberg 1984, p. 287, a parere del quale la parte del discorso riguardante lo ius fetiale non deriverebbe dal pensiero di Carneade: «Karneades ‑ den in die Philusrede gehört dieser Fragment ‑ dürfte es kaum gewagt haben, die Institution der Fetialen direkt anzugreifen, wie es Philus offenbar getan hat». Per una analisi più ampia di questa parte del De re publica, vedi ora J.-L. Ferrary, Le discours de Philus (Cicéron, De re publica, III, 8-31) et la philosophie de Carnéade, cit., pp. 128 ss. (dello stesso autore cfr. anche: Le discours de Laelius dans le troisième livre du De re publica de Cicéron, in Mélanges de école Française de Rome 86, 1974, pp. 745 ss.); A. Michel, A propos du De republica III: la politique et le désir, in Mélanges de littérature et épigraphie latines, d’histoire ancienne et archéologie. Hommage à la mémoire de P. Wuilleumier, Paris 1980, pp. 229 ss.

 

[110] Cfr. Cicero, Div. in Caec. 62; De prov. cons. 4; Ad Att. 7.14.3; 9.19.1; Pro rege Deiot. 13; De off. 1.36; Phil. 11.37; 13.35. Nel bel lavoro di S. Albert, Bellum iustum, cit., pp. 20 ss., alcune interessanti pagine sono state dedicate al «Aufkommen des Begriffs bei Cicero»; cfr. anche W.C. Korfmacher, Cicero and the bellum iustum, in The Classical Bulletin 48, 1972, pp. 49 ss.

 

[111] De re publ. 2.31. Per maggiori ragguagli sul passo cfr. K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., p. 200. Anche Tito Livio (1.24), come Cicerone, ascrive a Tullo Ostillo l'istituzionalizzazione dello ius fetiale: non così Dionigi di Alicarnasso (2.72), che ritiene Numa Pompilio fondatore di tale ius; né Servio (Ad Aen. 10.14), il quale indica Anco Marzio. Nel complesso dello ius fetiale, con l'esempio anche del testo ciceroniano, D. Nörr, Rechtskritik in der römischen Antike, cit., p. 59, vede una delle manifestazioni della «römische Gerechtigkeitsideologie».

 

[112] Isidorus, Orig. 18.1.2-3: Quattuor autem sunt genera bellorum: id est iustum, iniustum, civile et plus quam civile. Iustum bellum est quod ex praedicto geritur de rebus repetitis aut propulsandorum hostium caus. Iniustum bellum est quod de furore, non de legitima ratione initur. De quo in Republica Cicero dicit: illasuscepta; commento in K. Büchner, M. Tullius Cicero, De Republica, Kommentar, cit., p. 325. Sulle cause del bellum iustum esemplificate nel testo di Cicerone vedi, fra gli altri, M. Gelzer, Römische Politik bei Fabius Pictor, in Hermes 68, 1933, pp. 165 s.; H. Haffter, Geistige Grundlagen der römischen Kriegsführung und Aussenpolitik (1942), ora in Id., Römische Politik und römische Politiker, Heidelberg 1967, p. 24; U. von Lübtow, Das römische Volk. Sein Staat und sein Recht, cit., p. 483; W. Dahlheim, Struktur und Entwicklung des römischen Völkerrecht im 3. und 2. Jahrhundert v.Chr., cit., p. 179; E. Badian, Roman imperialism in the late Republic, cit., p. 11 [= Id., Römischer Imperialismus in der späten Republik, cit., p. 28]; J. Rüpke, Domi militiae. Die religiöse Konstruktion des Krieges in Rom, cit., pp. 121.

 

[113] Cfr. anche De re publ. 3.34 (= Augustinus, De civ. Dei 22.6): Nullum bellum suscipi a civitate optima nisi aut pro fide aut pro salute; su cui vedi la riflessione di A. Michel, Les lois de la guerre et les problèmes de l’impérialisme romain dans la philosophie de Ciceron, in AA.VV., Problèmes de la guerre à Rome, cit., p. 174: «Ainsi s'esquisse une justification de l'imperium romain, qui s'est constitué peu à peu pour répondre soit aux exigences de la légitime défense (une défense assez offensive), soit aux appels d'alliés que leurs propres ennemis ménageaient ou lésaient». Agli stessi valori si richiamava, prima di Cicerone, M. Porcio Catone in un frammento delle Origines, trattando della ripresa delle ostilità tra Roma e Cartagine nel 218 a.C.: Nonius, p. 142 L.: Deinde duoetvicesimo anno post dimissum bellum, quod quattuor et viginti annos fuit, Carthaginienses sextum de foedere decessere (fragm. 84 Peter = IV, 9 Chassignet). Giustamente nell’analisi del passo sottolinea il riferimento alla fides dei trattati M. Chassignet, Caton et l’impérialisme romain au IIe siècle av. J.-C. d’après les Origines, in Latomus 46, 1987, pp. 293-294: «On retrouve ici la tradition romaine de la "guerre juste" qui a pris très tôt une valeur juridique, pour ne pas dire morale, en ce sens qu'elle suppose une injustice commise contre Rome».

Quanto poi al rapporto esistente per i Romani tra imperium e religione, vedi H. Haffter, Geistige Grundlagen der römischen Kriegsführung und Aussenpolitik, cit., pp. 11 ss.; A. Zwaenepoel, L’inspiration religieuse de l’impérialisme romain, in L'Antiquité Classique 18, 1949, pp. 5 ss.; P. Catalano, Linee del sistema sovrannazionale romano, cit., pp. 22 ss.; approfondiscono il tema specificatamente in rapporto a Cicerone: J. Vogt, Ciceros Glaube an Rom, rist. an. dell'edizione 1935, Darmstatd 1963; K.M. Girardet, Die Ordnung der Welt: ein Beitrag zur philosophischen und politischen Interpretation von Ciceros Schrift De legibus, Wiesbaden 1983, pp. 156 ss.; F. Sini, Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., pp. 19 ss.

Sulle questioni più generali relative all’«imperialismo» romano sono da vedere, invece, R. Werner, Das Problem des Imperialismus und die römische Ostpolitik in zweiten Jahrhundert v. Chr., in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, I.1, Berlin-New York 1972, pp. 501 ss. (ivi bibliografia precedente); P. Veyne, Y a-t-il eu un imperialisme romain?, in Mélanges de école Française de Rome 87, 1975, pp. 793 ss.; Ed. Frézouls, Sur l’historiographie de l’impérialisme romain, in Ktéma 8, 1983, pp. 141 ss.; infine, W.V. Harris (a cura di), The Imperialism of Mid-Republican Rome, Roma 1984 (con saggi, oltre che dello stesso Harris, di D. Musti, E.S. Gruen, E. Gabba, J. Linderski, G. Clemente).

 

[114] Commenti in E. Norden, P. Vergilius Maro, Aeneis, Buch VI, 8. unveränd. Aufl. (rist. 4ª ed. 1957), Stuttgart 1984, pp. 334 ss.; R.G. Austin, P. Vergili Maronis Aeneidos liber sextus, Oxford 1977, pp. 260 ss.; E. Paratore, Virgilio, Eneide, III (Libri V‑VI), Milano 1979, pp. 358 s.; cfr. anche K. Büchner, Virgilio, 2ª ed., Brescia 1986, p. 482. Per un inquadramento più generale, vedi, fra gli altri: F. Christ, Die römische Weltherrschaft in der antiken Dichtung, Stuttgart 1938, pp. 145 ss.; E. Beckemann, Der Friede des Augustus, 2ª ed., Münster im Westf. 1954, pp. 37 s.; W.P. Basson, Virgil, Roman history and the Romans' destiny. Notes on Aen. VI 836-853, in Akroterion 20, 4, 1975, pp. 83 ss.; J.-L. Pomathios, Le pouvoir politique et sa représentation dans énéide de Virgile, cit., pp. 135 s.

 

[115] Servius, Ad Aen. 6.852.

 

[116] Cfr., in tal senso, F. Klingner, Virgil und die römische Idee des Friedens, in Id., Römische Geisteswelt, 4ª ed., München 1961, p. 601: «Die römische pax, dem Gedanken nach ein Rechtsverhältnis zwischen zwei Partnern, ist in Wirklichkeit eine Herrschaftsordnung, Rom ist der Partner, der von sich aus das Verhältnis ordnet, die Bedingungen festsetzt: pacis leges dicit oder imponit lauten die Ausdrücke. Am Anfang steht ein Sieg Roms oder die freiwillige Unterwerfung eines Gegners». Più in generale, sull'uso del verbo imponere vedi J.B. H(offmann), v. Impono, in Thesaurus Linguae Latinae, VII.1, Lipsiae 1934-1964 [ma 1938], coll. 650 ss.; l’insigne studioso tedesco colloca il passo virgiliano fra i testi enumerati al paragrafo «imponere leges, ius sim.» (col. 657). Sul verbo vedi anche, brevemente, A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., p. 521.

 

[117] Sulle implicazioni del testo virgiliano, vedi F. Eggerding, Parcere subiectis. Ein Beitrag zur Vergilinterpretation, in Gymnasium 59, 1952, pp. 31 s. Da considerare che il dovere di parcere i nemici sottomessi, motivo ricorrente nella riflessione politica e giuridica dell’età repubblicana (Cicero, De off. 1.35: Quare suscipienda quidem bella sunt ob eam causam, ut sine iniuria in pace vivatur, parta autem victoria conservandi ii, qui non crudeles in bello, non inmanes fuerunt, ut maiores nostri Tusculanos, Aequos, Volscos, Sabinos, Hernicos in civitatem etiam acceperunt; Livius 30.42.16-17: Populum Romanum eo invictum esse, quod in secundis rebus sapere et consulere meminerit; et hercule mirandum fuisse, si aliter faceret; ex insolentia, quibus nova bona fortuna sit, impotentis laetitiae insanire; populo Romano usitata ac propre tam obsoleta ex victoria gaudia esse, ac plus paene parcendo victis quam vincendo imperium auxisse), diventa poi nell'ideologia augustea uno dei cardini dell'azione del princeps (Res Gestae 1.3.15-16: Externas gentes, quibus tuto ignosci potuit, conservare quam excidere malui).

 

[118] Penetranti considerazioni di I. Lana, La concezione della pace a Roma. Lezioni, Torino 1987, p. 84: «Le parole chiave sono: regere, imperium, populi, pax, subicere, debellare. Tutte parole cariche di senso e di valore, tra le quali la pace si presenta, al centro, come lo strumento per governare tutto il mondo con un potere che va al di là del puro esercizio del potere, manifestandosi come lo strumento in grado di ristabilire la giustizia, nel senso che esso esige la sottomissione di tutti i popoli al volere del fato: chi non lo accetta, si macchia della colpa della superbia, per la quale non v'è né perdono né clemenza». Da vedere anche H. Haffter, Politischen Denken im alten Rom, in Id., Römische Politik und römische Politiker, cit., pp. 52 ss., in particolare p. 53: «Der Kampf gilt Gegnern, deren Wesen und Gebaren eine Herausforderung darstellt. Wer die durch das imperium Romanum verkörperte politische, rechtliche, sittliche und kulturelle Ordnung nicht anerkennt, ist ein Feind aller, ist ein Verächter dessen, was der Völkergemeinschaft frommt, ist ein superbus»; A. Traina, v. Superbia, in Enciclopedia Virgiliana, IV, Roma 1988, pp. 1072 ss., in partic. p. 1074, il quale sottolinea come il verso parcere subiectis et debellare superbos costituisca «la giustificazione etico‑politica dell'imperialismo romano almeno sin dai tempi di Plauto e di Catone». Più in generale, sulla superbia come categoria della lotta politica, J. Helleguarc'h, Le vocabulaire latin des relations et des partis politiques sous la Rèpublique, Paris 1963, pp. 339 ss. Lo studioso francese sottolinea peraltro, proprio con riferimento a Aen. 6.851-853, la profonda avversione dei Romani per tale concetto: «Cette aversion pour la superbia était même si familière à Rome qu'elle avait tendance à l'imputer à ses ennemis et qu'elle se fixa comme l'un des bouts de sa politique extérieure de triompher des peuples qui s'en rendraient coupables».

 

[119] Cfr., da ultimo, F. Sini, Impero Romano e religioni straniere: riflessioni su universalismo e tolleranza nella religione politeista romana, in Sandalion 21-22, 1998-1999 [ma 2001], pp. 57 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., pp. 1 ss.

 

[120] W.S. Teuffel, Geschichte der römischen Literatur, II, 7ª Auffl., Leipzig 1920 [rist. an. Aalen 1965], pp. 137 s.; M. Schanz-C. Hosius, Geschichte der römischen Literatur, II, cit., p. 380; i frammenti sono stati raccolti da H. Funaioli, Grammaticae Romanae fragmenta, Lipsiae 1907 [rist. Roma 1964], pp. 457 ss.

 

[121] H. Funaioli, Grammaticae Romanae, cit., p. 461 fragm. 10; F. Bona, Contributo allo studio della composizione del “de verborum significatu” di Verrio Flacco, Milano 1964, pp. 66 s. Cfr., sempre di Festus, De verb. sign., p. 296 L.: Pacionem antiqui dicebant, quam nunc pactionem dicimus; unde et pacisci adhuc, et paceo in usu remanet.

 

[122] Cfr. anche Isidorus, Orig. 5.24.18: Pactum dicitur inter partes ex pace conveniens scriptura, legibus ac moribus comprovata; et dictum pactum quasi ex pace factum, ab eo quod est paco, unde et pepegit. Sul frammento ulpianeo vedi L. Ceci, Le etimologie dei giureconsulti romani, Torino 1892, p. 165; F. De Visscher, Pactes et religio, ora in Id., études de droit romain public et privé, trois. ser., Milano 1966, p. 410; A. Carcaterra, Le definizioni dei giuristi romani. Metodi, mezzi, fini, Napoli 1966, p. 199, il quale considera il contenuto del frammento un «esempio di definizione (etimologica) persuasiva».

 

[123] Per tutti A. Walde-J.B. Hofmann, Lateinisches etymologisches Wörterbuch, II, Heidelberg 1954, pp. 231 s.; A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étymologique de la langue latine, cit., p. 473.

 

[124] Il verbo pacere compare in due frammenti del codice decemvirale. Il primo è Tab. I.6-7: Rem ubi pacunt, orato. Ni pacunt in comitio aut in foro ante meridiem caussam coiciunto (Fontes Iuris Romani Anteiustiniani, I, cit., p. 28); per la discussione di questo testo vedi, pur nella diversità di interpretazioni: C. Gioffredi, Diritto e processo nelle antiche forme giuridiche romane, Roma 1955, p. 151; Id., Rem ubi pacunt orato: XII Tab. 1, 6-9 (Per la critica del testo decemvirale), in Bullettino dell'Istituto di Diritto Romano 76, 1973, pp. 271 ss.; H. Lévy-Bruhl, Recherches sur les actions de la loi, Paris 1960, pp. 206 s.; G. Pugliese, Il processo civile romano, I. Le legis actiones, Roma 1962, pp. 402 s.; M. Kaser, Das römische Zivilprozess, München 1966, pp. 83 s., O. Behrends, Der Zwölftafelprozess. Zur Geschichte der römischen Obligationenrecht, Göttingen 1974, pp. 77 ss.; G.G. Archi, Ait praetor: «pacta conventa servabo». (Studio sulla genesi e sulla funzione della clausola nell’"Edictum Perpetuum"), in Id., Scritti di diritto romano, I, Milano 1981, p. 493 nt. 28; G. Nicosia, Il processo privato romano, II, cit., pp. 68 ss.; A. Manfredini, Rem ubi pacunt, orato, in Atti del Seminario sulla problematica contrattuale in diritto romano, Milano 1988, pp. 73 ss.

Il secondo frammento è Tab. VIII.2: Si membrum rupsit, ni cum eo pacit, talio esto (Fontes, cit., p. 53); su questa norma vedi J.M. Alburquerque, Historia del «pactum» antes del «edictum»: «pactum» como acto de paz en las XII Tablas, in Estudios en omenaje al profesor Juan Iglesias, III, Madrid 1988, pp. 1110 ss.; e la rapida sintesi di B. Santalucia, Diritto e processo penale nell’antica Roma, Milano 1989, p. 40.

 

[125] A. Ernout-A. Meillet, Dictionnaire étimologique de la langue latine, cit., p. 473; nello stesso senso, vedi C. Milani, Note sulla terminologia della pace nel mondo antico, in La pace nel mondo antico, Contributi dell'Istituto di storia antica XI, a cura di M. Sordi, Milano 1985, p. 25.

 

[126] I. Lana, La pace nel mondo antico, in Studia et Documenta Historiae et Iuris 33, 1967, p. 9; nello stesso senso, vedi ora Id., Studi sull'idea della pace nel mondo antico, cit., p. 21 (estratto).

 

[127] M. Sordi, 'Pax deorum' e libertà religiosa nella storia di Roma, in La pace nel mondo antico, cit., pp. 146 ss.

 

[128] Livius 7.3.3-6: Itaque Cn. Genucio L. Aemilio Mamerco iterum consulibus, cum piaculorum magis conquisitio animos quam corpora morbi adlicerent, repetitum ex seniorum memoria dicitur pestilentiam quondam clavo a dictatore fixo sedatam. Ea religione adductus senatus dictatorem clavi figendi causa dici iussit. Dictus L. Manlius Imperiosus L. Pinarium magistrum equitum dixit. Lex vetusta est, priscis litteris verbisque scripta, ut, qui praetor maximus sit, idibus Septembribus clavum pangat; fixa luit dextro lateri aedis Iovis optimi maximi, ex qua parte Minervae templum est. Eum clavum, quia rarae per ea tempora litterae erant, notam numeri annorum fuisse ferunt eoque Minervae templo dicatam legem, quia numerus Minervae inventum sit. Cfr. 8.18.11-12. Sulla lex vetusta e sulle implicazioni giuridiche e religiose connesse al rito della clavifixio, si vedano, fra gli altri: J. Heurgon, L. Cincius et la loi du “clavus annalis”, in Athenaeum 42, 1964, pp. 432 ss.; Id., Magistratures romaines et magistratures étrusques, in Les origines de la République romaine, Vandoeuvres-Genève 1966, pp. 105 ss.; A. Magdelain, Praetor maximus et comitiatus maximus, in Iura 20, 1969, pp. 257 ss.; M.J. Pena, La “lex de clavo pangendo”, in Historia Antiqua 6, 1976, pp. 239 ss.; G. Poma, Le secessioni della plebe e il rito dell’infissione del «clavus», in Rivista di Storia Antica 8, 1978, pp. 39 ss.; brevemente anche D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., pp. 313 s.

 

[129] M. Viano, Contributo alla storia semantica della famiglia latina di “pax”, in Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino 88, 1953-1954, p. 12 (estratto).

 

[130] Sul concetto di pax deorum, vedi H. Fuchs, Augustinus und der antike Friedengedanke. Untersuchungen zum neunzehnten Buch der Civitas Dei, Berlin 1926, pp. 186 ss.; P. Voci, Diritto sacro romano in età arcaica, cit., pp. 49 ss. [= Id., Scritti di diritto romano, I, cit., pp. 226 ss.]; E. Montanari, Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 ss. (Appendice I: “Tempo della città e pax deorum: l’infissione del clavus annalis”); F. Sini, Bellum nefandum. Virgilio e il problema del “diritto internazionale antico”, cit., pp. 256 ss. (ivi fonti e letteratura precedente); Id., Populus et religio dans la Rome républicaine, cit., pp. 77 ss.; Id., Sua cuique civitati religio. Religione e diritto pubblico in Roma antica, cit., pp. 167 ss.; con qualche riserva, R. Fiori, Homo sacer. Dinamica politico-costituzionale di una sanzione giuridico-religiosa, Napoli 1996, pp. 167 ss.

 

[131] Cfr. Res Gestae 2.13.43: cum per totum imperium populi Romani terra marique esset parta victoriis pax. Tale situazione è ben colta da I. Lana, La pace nel mondo antico, cit., p. 9: «Perciò i Romani, quando sono in guerra e dichiarano che il loro scopo è quello di pacem dare, leges pacis imponere, ovvero, come si esprime Virgilio nel famoso passo del libro VI dell’Eneide, paci imponere morem, intendono dire che con la guerra mirano a realizzare una situazione di superiorità che consenta loro di dettare all’avversario le condizioni per l’instaurazione di un certo rapporto fra Roma e il nemico vinto. In questo senso preciso essi pacem dant ai vinti». Cfr. Id., Studi sull’idea della pace nel mondo antico, cit., p. 21 dell'estratto.

 

[132] Non vi è in ciò, per l’ideologia romana, alcuna contraddizione, come coglie assai acutamente D. Sabbatucci, La religione di Roma antica, cit., p. 293: «Niente di sinistro dunque comportava l’apertura del mundus, e niente di negativo, a meno di voler vedere la pace come la negazione della guerra. In tal senso, però, non dovremmo lasciarci guidare da un’etica irenista, ma dovremmo intendere il tutto nei termini della dialettica, più volte rilevata, tra il divenire (espresso soprattutto dalla guerra) e l’essere. La pax romana era sostanzialmente un “patto” con gli dèi (pax deorum), tra popoli, tra cittadini; ma un “patto” da conseguire, e se per conseguirlo con gli dèi bisognava operare ritualmente, per conseguirlo con i popoli bisognava operare bellicosamente, come pure si doveva lottare all’interno della città per ottenere il patto civile tra le sue componenti».