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Antonio Incampo

Università di Bari

 

laicitÀ, relativitÀ e diritto*

 

 

Sommario: 0. Incipit. – 1. Laicità narrativa. – 2. Laicità formale. – 3. Laicità onto-esistenziale.

 

 

0. – Incipit

 

In un passo della sua Rechtsphilosophie Hegel si chiede come mai gli uomini girino tranquilli di notte nonostante l’oscurità. La spiegazione è in un ordine interno alle cose. Se gli uomini sanno orientarsi è perché hanno assimilato dentro di sé, senza neppure accorgersi, una giusta direzione per i propri bisogni. Ma non è sempre così. A volte manca questa prontezza del pensiero, e il viandante finisce per perdere, in una notte hegeliana, il chiarore del suo orizzonte. Succede, ad esempio, con i molti nomi della laicità dello Stato. Il concetto si rifrange non in uno, ma in tanti significati, col risultato di allontanarsi sempre di più da uno "spirito comune" [Gemeinsinn]. Basta esaminare la giurisprudenza degli ultimi anni sul rapporto tra simboli religiosi e istituzioni pubbliche.

Nei gradi diversi di giudizio e nei passaggi da una corte all’altra il senso di laicità dello Stato non è mai lo stesso. I tribunali amministrativi non esitano a contraddire la Cassazione, mentre la Corte europea dei diritti umani (CEDU) va in una direzione opposta alla giustizia interna amministrativa; le stesse sentenze della Cassazione sono in conflitto tra loro; di recente, infine, la Grande Camera di Strasburgo ha riformato la precedente sentenza della CEDU. Come fare, allora, ad avere un’idea chiara e non fermarsi semplicemente alla "res iudicata"? È forse decisivo non restare bloccati all’interno di queste sentenze. Il concetto di laicità sopravanza nettamente i mezzi a disposizione della scienza giuridica ed interpella anche un pensiero diverso. D’altronde, viste da una certa distanza, le sentenze dei giudici sono un insieme continuo di detti e contraddetti. 

Distinguerò tre forme di laicità: (1) laicità narrativa; (2) laicità formale; (3) laicità onto-esistenziale. Le prime due sono dal "punto di vista interno" [internal point of view] al diritto e alla giustizia delle corti; la terza, invece, dal "punto di vista esterno" [external point of view]. Le prime due forme di laicità (narrativa e formale) si divideranno, a loro volta, in giudizi ab intra e ab extra, allo scopo di separare ciò che hanno deciso i giudici in Italia da ciò che, invece, hanno stabilito le corti europee. Il fatto di partire dalle sentenze dei giudici serve ad evitare le facili astrazioni e a portare il discorso sul «nómos della terra» (per usare una nota espressione di Carl Schmitt). A ciò, però, va necessariamente aggiunto un punto di vista esterno in grado di interpellare la giurisprudenza delle corti per non restare inchiodati alle numerose contraddizioni di essa.

 

 

1. – Laicità narrativa

 

1.1. Ab intra. Secondo due famose sentenze, una del TAR del Veneto (sent. n. 1110 / 2005) e l’altra del Consiglio di Stato (sent. n. 556 / 2006), la laicità non esclude il primato di una tradizione etico-religiosa sulle altre. Al contrario, è un principio che rafforza il concetto cristiano di società. Si potrebbe parlare di "laicità battezzata".

Le due sentenze, com’è noto, si riferiscono al ricorso di un genitore per la decisione della scuola di lasciare i simboli religiosi negli ambienti frequentati dal figlio[1]. La scuola avrebbe violato i principî d’imparzialità e laicità dello Stato alla base sia dell’ordinamento costituzionale, sia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Il TAR del Veneto rigetta il ricorso. Per il Tribunale la laicità non è un principio univoco rispetto alle sue possibili applicazioni[2]. «Il riferimento a decisioni giurisdizionali assunte in diversi ordinamenti fa desumere che il principio di laicità dello Stato faccia parte ormai del patrimonio giuridico europeo e delle democrazie occidentali, ma implica altresì che dalla sua applicazione nei casi specifici si possano trarre diverse conseguenze in relazione alla liceità dell’esposizione di simboli religiosi in luoghi pubblici»[3]. La questione del crocifisso è emblematica. Fa vedere il passaggio da un concetto soltanto formale di laicità ad uno invece "narrativo", fondato su consuetudini e riflessi culturali determinati. Chi entra in un’aula della scuola italiana non vede il crocifisso come se entrasse in chiesa. Non lo vede come espressione necessaria del dogma della morte e resurrezione di Cristo, o del mistero dell’"incarnazione". Il crocifisso, semmai, occupa lo spazio di un simbolo importante per comprendere il "principio di sostentamento" [erhaltendes Prinzip] dei valori alla base della Costituzione dello Stato[4]. Si legge nella sentenza del TAR: «Va osservato innanzi tutto come il crocifisso costituisca anche un simbolo storico-culturale, e di conseguenza dotato di una valenza identitaria riferita al nostro popolo; pur senza voler scomodare la nota e autorevole asserzione secondo cui “non possiamo non dirci cristiani”, esso indubbiamente rappresenta in qualche modo il percorso storico e culturale caratteristico del nostro Paese e in genere dell’Europa intera e ne costituisce un’efficace sintesi. Difficilmente si può negare che la nostra tormentata storia sia impregnata – nel bene e nel male – di cristianesimo, né il mutare delle analisi storiche, né la stessa indiscutibile laicità dello Stato possono modificare il passato»[5].

La laicità dello Stato non va perciò al di là della storia e delle tradizioni religiose e culturali dei popoli. Tutt’altro. Il cristianesimo vi fornisce addirittura una linfa vitale: «Si può quindi sostenere – leggiamo ancóra nella sentenza – che, nell’attuale realtà sociale, il crocifisso debba essere considerato non solo come simbolo di un’evoluzione storica e culturale, e quindi dell’identità del nostro popolo, ma quale simbolo altresì di un sistema di valori di libertà, eguaglianza, dignità umana e tolleranza religiosa e quindi anche della laicità dello Stato, principi questi che innervano la nostra Carta costituzionale. In altri termini, i principi costituzionali di libertà hanno molte radici, e una di queste indubbiamente è il cristianesimo, nella sua stessa essenza. Sarebbe quindi sottilmente paradossale escludere un segno cristiano da una struttura pubblica in nome di una laicità, che ha sicuramente una delle sue fonti lontane proprio nella religione cristiana»[6]. D’altronde, non mettono in crisi la laicità neppure le croci che campeggiano sulle bandiere di Danimarca, Norvegia, Islanda, Svezia e della stessa Finlandia, che è il Paese della ricorrente Soile Tuulikki Lautsi. Ed è un fatto ancóra più in vista del crocifisso nelle scuole.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 556 del 2006, respinge ulteriormente il ricorso. Le motivazioni sono rafforzative dell’impianto argomentativo del tribunale amministrativo del Veneto. Il principio di laicità non può essere assunto in forma pura e astratta, ma «con riferimento alla tradizione culturale, ai costumi di vita, di ciascun popolo, in quanto però tale tradizione e tali costumi si siano riversati nei loro ordinamenti giuridici. E questi mutano da nazione a nazione»[7]. Non mancano le esemplificazioni. Nell’ordinamento inglese al legislatore secolare è consentito legiferare in materie interne alla chiesa anglicana, come, ad esempio, sul sacerdozio femminile; nell’ordinamento federale degli Stati Uniti d’America, la rigorosa separazione fra Stato e confessioni religiose, imposta dal primo emendamento della Costituzione federale, non impedisce una chiara espressione confessionale sulle banconote: «In God we trust». La Francia, dal canto suo, persegue la laicità sancita dall’art. 2 della Costituzione imponendo persino delle limitazioni all’autonomia organizzativa delle confessioni (si vedano in proposito le lois Combes).

Dunque, la laicità non è un principio indipendente dalla storia narrativa dei popoli. Scrivono i giudici del Consiglio di Stato, riprendendo in sostanza una tesi di Raffaele Coppola[8]: «La laicità, benché presupponga e richieda ovunque la distinzione fra la dimensione temporale e la dimensione spirituale e fra gli ordini e le società cui tali dimensioni sono proprie, non si realizza in termini costanti nel tempo e uniformi nei diversi Paesi, ma, pur all’interno di una medesima “civiltà”, è relativa alla specifica organizzazione istituzionale di ciascun Stato, e quindi essenzialmente storica, legata com’è al divenire di questa organizzazione»[9]. In Italia il crocifisso non solo non nega il principio di laicità dello Stato, ma ne scopre addirittura il senso e il valore presenti nella Costituzione. «È evidente che in Italia, il crocifisso è atto ad esprimere, […] in chiave simbolica ma in modo adeguato, l’origine religiosa dei valori di tolleranza, di rispetto reciproco, di valorizzazione della persona, di affermazione dei suoi diritti, di riguardo alla sua libertà, di autonomia della coscienza morale nei confronti dell’autorità, di solidarietà umana, di rifiuto di ogni discriminazione, che connotano la civiltà italiana»[10].

La sentenza della Cassazione (Sezioni unite civili), n. 5924 del 14 marzo 2011, non si discosta da un significato "relativo" del principio di laicità. Si discute la rimozione dall’ordine giudiziario di un giudice di pace del Tribunale di Camerino, già disposta dal Consiglio Superiore della Magistratura (25 maggio 2010), per essersi rifiutato di tenere udienza a causa della presenza del crocifisso nelle aule dei tribunali italiani. La Cassazione non si sofferma in questo caso sul significato storico del principio di laicità, ma ritiene comunque imprescindibile che ve ne sia uno. La laicità, infatti, può essere o "per addizione", o "per sottrazione". Secondo la prima, tutti possono trovare nei luoghi pubblici i propri simboli religiosi di appartenenza; secondo l’altra, ogni simbolo deve essere negato allo stesso modo. Per i credenti servirebbe una laicità per addizione; per i non credenti, invece, una laicità per sottrazione. Come fare, però, a conciliare la libertà sia del credente, sia dell’ateo? Poniamo che si rispetti la libertà dei credenti: come superare il conflitto tra identità religiose tra loro incompatibili? La conclusione è che a decidere le "condizioni d’uso del principio di laicità" deve essere per forza lo Stato. Si tratta, infatti, di un "interesse diffuso" che non può risalire alla decisione di un singolo soggetto.

 

1.2. Ab extra. Con sentenza definitiva della Grande Camera (Affaire Lautsi et autres c. Italie, Strasburgo, 18 marzo 2011), la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha stabilito che l’esposizione del crocifisso nelle aule delle scuole pubbliche italiane non costituisce alcuna violazione della Convenzione. La decisione della Corte poggia su due punti fondamentali. Il primo si riferisce ancóra una volta al significato storico e relativo del principio di laicità, così come già evidenziato in dottrina e successivamente in giurisprudenza. Va riconosciuta una discrezionalità degli Stati in materia di educazione, in forza soprattutto del valore della tradizione. Per questo la Corte non prende posizione di fronte agli esiti controversi delle giurisdizioni interne. Si limita a rilevare che sul significato del crocifisso nelle aule scolastiche il Consiglio di Stato diverge dalla Cassazione, e che la Corte Costituzionale non si pronuncia, dichiarando inammissibile la questione di legittimità costituzionale di cui era stata investita dal TAR.

Il secondo punto affronta, invece, l’equilibrio tra il valore di autonomia degli Stati nel campo dell’educazione e il diritto di ogni cittadino ad essere educato secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche. Gli Stati non possono svolgere alcuna forma di indottrinamento che leda il diritto fondamentale di libertà. Di qui la tesi centrale della Corte di Strasburgo. Il crocifisso di per sé non è un mezzo di indottrinamento. È un "simbolo passivo" che non può essere paragonato al programma mirato di un insegnamento a forte connotazione religiosa. Infatti, non è obbligatoria l’ora di religione, né è impedito agli alunni di altre religioni di portare simboli o abiti con un significato religioso diverso. Spesso si festeggia nelle scuole anche la fine del Ramadan secondo il calendario musulmano.

 

 

2. – Laicità formale

 

2.1. Ab intra. Le corti interne non sono sempre sulle stesse posizioni. È emblematica la sentenza della Cassazione n. 439 del 1° marzo 2000 (Sezione IV Penale). Oggetto della sentenza è il ricorso proposto dal Sig. Montagnana avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino che lo condanna per aver rifiutato di assumere l’ufficio di scrutatore a causa della presenza del crocifisso nei seggi elettorali. Per la Cassazione il ricorso è più che fondato. I motivi sono diversi, ma in sintesi fanno leva, da un lato, sull’affermazione del valore essenziale della laicità dello Stato e, dall’altro, sull’interpretazione di esso come principio rigoroso di assoluta equidistanza da ogni confessione religiosa.

C’è un evidente collegamento tra il "ritorno" del crocifisso nei luoghi pubblici e l’avvento del Fascismo in Italia, per non scorgervi, secondo i giudici di Cassazione, un chiaro sintomo del "neo-confessionismo statale" di tale regime assolutamente in contrasto con la forma di Stato delineata nella Costituzione della Repubblica. Di qui un argomento decisivo: chi ha la funzione pubblica di scrutatore ha addirittura il dovere di assicurare «il rispetto della irrinunciabile libertà di coscienza garantita dalla Costituzione a ciascun cittadino e il supremo principio costituzionale della laicità dello Stato». D’altronde, la legislazione elettorale non può che essere garantista e imparziale. Per questo si preoccupa di vietare tassativamente ogni forma simbolica di comunicazione iconografica che comprenda «contrassegni riproducenti immagini o soggetti religiosi».

 

2.2. Ab extra. Anche per i giudici di Strasburgo, in un primo tempo, il principio di laicità è astrattamente puro e indipendente da forme di relatività. È la prima sentenza della CEDU nell’Affaire Lautsi c. Italie (Strasburgo, 3 novembre 2009). Il crocifisso è il crocifisso. Non c’è spazio per significati diversi da quelli religiosi. Si legge nella sentenza: «La Cour considère que la présence du crucifix dans les salles de classe va au-delà de l’usage de symboles dans des contextes historiques spécifiques. Elle a d’ailleurs estimé que le caractère traditionnel, dans le sens social et historique, d’un texte utilisé par les parlementaires pour prêter serment ne privait pas le serment de sa nature religieuse»[11].

Il crocifisso ripete sempre un’essenza teologica. E ciò prima di ogni altra interpretazione. Per questo non può stare nei luoghi istituzionali del publicum. Se così non fosse, si potrebbe confondere Stato e Chiesa con la conseguenza di discriminare chi non è cattolico. Scrive la Corte: «L’intéressée voit dans l’exposition du crucifix le signe que l’Etat se range du côté de la religion catholique. Telle est la signification officiellement retenue dans l’Eglise catholique, qui attribue au crucifix un message fondamental. Dès lors, l’appréhension de la requérante n’est pas arbitraire»[12]. Lo Stato italiano è condannato a risarcire la ricorrente ai sensi dell’art. 2 del Protocollo n. 1 [13] e dell’art. 9 della Convenzione[14].

È interessante notare come la Corte di Strasburgo arrivi a conclusioni opposte a quelle dei tribunali amministrativi italiani anche nell’Affaire Lombardi Vallauri c. Italie (Strasburgo, 20 ottobre 2009)[15]. Il problema sembra un altro. Riguarderebbe la libertà di insegnamento. La Corte europea riconosce, infatti, il diritto alla libertà di insegnamento del prof. Luigi Lombardi Vallauri, espulso nel 1998 dall’Università Cattolica di Milano, dopo che la Santa Sede aveva giudicato il suo corso di Filosofia del diritto «in netta opposizione alla dottrina cattolica». In realtà, il discorso non è molto lontano da quello sulla laicità delle istituzioni. Ciò che l’Università contesta a Lombardi Vallauri non si ferma alla generale libertà d’insegnamento, ma tocca soprattutto il ruolo di un insegnamento filosofico in un’istituzione espressamente connotata dal punto di vista confessionale. Si provi ad immaginare S. Tommaso che discuta nella Summa Theologiae le sue "cinque vie" non per dimostrare, ma per negare l’esistenza di Dio. Non vi sarebbe più la Summa Theologiae.

 

 

3. – Laicità onto-esistenziale

 

Qual è, allora, il punto di vista esterno rispetto a queste sentenze? La questione non è tanto quella di stabilire chi ha torto o ragione nei confini solo giuridici di alcune famose sentenze. Si finirebbe per discutere una verità soltanto "retorica", col risultato di avere un giudizio vero per alcuni e falso per altri, senza la possibilità di fare molta strada. È bastato per le corti di giustizia, ma non è affatto sufficiente dal punto di vista filosofico. La domanda filosofica è, semmai, di ordine onto-esistenziale. È possibile un sistema puramente laico? Che cos’è un sistema puramente laico? Un sistema del genere è un sistema che afferma "tutto e niente", che protegge ogni religione come se fosse assoluta e ad un tempo la nega. È possibile, dunque, un sistema del genere?

Vi sono almeno due impossibilità che chiamerò rispettivamente "ontologica" e "ontica", in omaggio al lessico (solo al lessico) di Martin Heidegger.

 

3.1. La prima impossibilità è ontologica, poiché investe la stessa idea di un mondo "tutto e niente". Dire "tutto", in modo assoluto, costituisce soltanto una contraddizione. "Tutto" significa "tutto e niente", ed è impossibile che vi sia tutto e la sua negazione: simul et idem. Anche i valori, che sembrano escludere da sé la contraddizione, non possono assolutizzarsi e attuarsi per tutti gli uomini e in tutti i luoghi allo stesso modo. Salvo rare eccezioni. Il diritto, ad esempio, a non essere ridotti in schiavitù è assoluto, dal momento che la sua negazione è universalmente condannata. Ma non è così per gli altri diritti. È quasi inevitabile che la tutela di un diritto entri in conflitto con la protezione di un altro. Si pensi alla difficoltà di conciliare il diritto alla libertà di espressione con il diritto a non essere ingannati o vilipesi. Quanto più è incondizionato il primo diritto, tanto più l’altro sarà sacrificato. Allo stesso modo, è difficile conciliare, se presi incondizionatamente, i diritti sociali con quelli liberali. Il diritto, poniamo, ad una istruzione libera ha finito da tempo per essere rivisto dal dovere di assicurare a tutti il diritto allo studio come uno dei diritti sociali più importanti. Un po’ come l’aumento del potere di acquistare un’auto ostacola fino a paralizzare la libertà di circolazione nelle città[16].

A correre più rischi, lungo il crinale di un’impossibilità ontologica, è forse l’Europa. Le premesse ci sono tutte. L’Europa sembra il più avanti, tra i sistemi sociali globali, per indole di onnipresenza. Ha conosciuto in pratica tutte le filosofie, né si sono risparmiati sistemi politici, o forme e stili di vita sia totalizzanti, sia individualistici e radicali. Ha visto insieme: cristianesimo e umanesimo, spiritualismo e materialismo, metafisica e scientismo, liberalismo e socialismo. Altrove, questi stessi mondi o sono stati assenti, oppure sono apparsi polarizzati e isolati[17]. L’Europa scomparirebbe se si sostituisse il pluralismo con l’unanimismo. Questo è chiaro. Nello stesso tempo, però, insistere come hanno fatto alcune corti europee sul principio di laicità come regola del "tutto e niente" ha l’effetto sicuro di spingere la differenziazione del sistema politico-culturale dell’Europa non più in direzione di ciò che completa e unisce, ma di ciò che confonde e divide. Non si possono mantenere le differenze costringendo ogni cosa ad essere messa al posto dell’altra sempre e in ogni luogo. Prima o poi nasce il conflitto. In altri casi è «la notte in cui tutte le vacche sono nere». Volentem fata ducunt, nolentem trahunt.

Aggiungo un’altra considerazione. La laicità non può più fermarsi ai meri principî. Si è passati, infatti, da un pluralismo soltanto di forma, concentrato sulla lettera dei diritti fondamentali, ad una realtà sociale divenuta multiversa e conflittuale, a causa dell’intreccio sempre maggiore di culture e popoli diversi. In questi nuovi scenari è inevitabile la reazione identitaria dei sistemi giuridici più vicini alla complessità. Ed ecco perché le corti interne di giustizia (si pensi soprattutto alla giustizia amministrativa) sono più sensibili di quelle esterne ad una "laicità desecolarizzata", orientata, cioè, alla cultura emergente [Leitkultur]. Il motivo sta proprio nel fatto di essere "interne" e di trovarsi maggiormente legate al conflitto.

 

3.2. C’è poi un’impossibilità ontica, frutto del contesto storico della laicità. Solo a causa di un’evidente finzione o di baconiani "idola tribus", il sostrato cristiano resta occultato dal manifesto pluralista della laicità. Quando i giudici amministrativi dichiarano crocianamente che l’ordinamento italiano «non può non dirsi cristiano» non fanno che sostenere un dato evidente. Nessuno penserebbe di togliere le cattedrali dalle nostre piazze, né penserebbe che la loro presenza possa violare il senso di laicità dello Stato. Eppure, le cattedrali sono un bel simbolo religioso, e per di più nelle piazze, che sono un luogo molto più pubblico e laico delle aule di scuola.

A questi simboli di un éthos si aggiunge anche il pensiero critico della "ragion pratica" [praktische Vernunft]. Così com’è facile scoprire al centro dell’etica dell’Occidente l’imperativo kantiano di «considerare l’umanità in se stessi e negli altri sempre come fine e non solo come mezzo», non è neppure difficile collegare questo postulato al precetto tutto cristiano «Ama il prossimo tuo come te stesso». Lo si vede anche nel diritto di rango inferiore alla Costituzione. L’"aver cura" [Fürsorge] del «buon Samaritano» (Lc, 10,29-37) o delle «nozze di Cana» (Gv, 2,1-11) ha probabilmente un suo corrispettivo nell’art. 539 del Codice penale sull’"omissione di soccorso". In Common Law è il "duty of active aid" o "duty of rescue".

Come fare, allora, a rimuovere la nostra storia? È possibile vedere il mondo da un Null-Punkt assoluto, dal punto zero dell’assenza di ogni relazione prospettica del soggetto con il mondo? Sarebbe come escludere la finitezza dell’uomo, o strappare il soggetto dal mondo, prima naturalmente della "coscienza infelice" [unglückliches Bewußtsein]. 

 

 



 

[I contributi della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dei promotori e del Comitato scientifico del Colloquio internazionale, d’intesa con la direzione di Diritto @ Storia].

 

* [Colloquio internazionale La laicità nella costruzione dell’Europa. Dualità del potere e neutralità religiosa, svoltosi in Bari il 4-5 novembre 2010 per iniziativa della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Bari “Aldo Moro”, del Centre d’études internationales sur la romanité Université de La Rochelle e dell’Unità di ricerca “Giorgio La Pira” CNR – Università di Roma “La Sapienza”]

Il testo della presente comunicazione, a seguito della sentenza della grande Camera della Corte di Strasburgo del 18 marzo 2011, nell’affaire Lautsi v. Italia, è stato necessariamente aggiornato e adattato a questa pronuncia.

 

[1] Il riferimento è alla delibera del Consiglio di istituto della scuola “Vittorino da Feltre” di Abano Terme (27 maggio 2002).

 

[2] Sul tema della laicità "relativa", cui ispirare la giurisprudenza amministrativa italiana e la Corte europea dei diritti dell’uomo, in un’interessantissima ricerca sul nesso epistemologico con la teoria della relatività ristretta (o speciale) di Einstein, si veda la relazione fondamentale di R. Coppola, «Simbolismo religioso e nuove prospettive per lo studio del diritto ecclesiastico dello Stato», al Convegno «Simboli religiosi e istituzioni pubbliche. L’esposizione del Crocifisso dopo l’ordinanza n. 389 / 2004 della Corte costituzionale», Facoltà di Giurisprudenza, Bari, 17 maggio 2005, in R. Coppola, C. Ventrella Mancini (a cura di), Giornate canonistiche baresi. Atti V, Bari, Adriatica, 2008, 21-36 (ivi l’ulteriore bibliografia dell’autore).

 

[3] TAR del Veneto, Sentenza n. 1110 / 2005.

 

[4] È la tesi sostenuta, fra gli altri, da E.-W. Böckenförde, Staat, Nation, Europa. Studien zur Staatslehre, Verfassungstheorie und Rechtsphilosophie, Frankfurt, Suhrkamp, 1999.

 

[5] TAR del Veneto, Sentenza n. 1110 / 2005.

 

[6] Ibid.

 

[7] Consiglio di Stato, Sentenza n. 556 / 2006.

 

[8] Cfr., in particolare, R. Coppola, Ma la “laicità relativa” non l’ho inventata io … ovvero dell’uguaglianza delle confessioni religiose secondo Procuste, in Forum di Quaderni costituzionali, 2002, all’url www.forumcostituzione.it, dove è affermato, tra l’altro, che tale concetto discende dall’analisi delle norme, fondamentali o meno, che inducono ad interpretare il principio di laicità nel complessivo quadro costituzionale ed ordinamentale, da cui si trae un modello di pluralismo (non indifferenziato), con il quale appaiono coerenti numerose disposizioni di diritto vigente anche nella loro proiezione storica.

 

[9] Consiglio di Stato, Sentenza n. 556 / 2006.

 

[10] Ibid.

 

[11] Cour européenne des droits de l’homme (deuxième section), Affaire Lautsi c. Italie (Requête n. 30814 / 06), Strasburgo, 3 novembre 2009.

 

[12] Ibid.

 

[13] «Nul ne peut se voir refuser le droit à l’instruction. L’Etat, dans l’exercice des fonctions qu’il assumera dans le domaine de l’éducation et de l’enseignement, respectera le droit des parents d’assurer cette éducation et cet enseignement conformément à leurs convictions religieuses et philosophique».

 

[14] «Toute personne a droit à la liberté de pensée, de conscience et de religion […]. La liberté de manifester sa religion ou ses convinctions ne peut faire l’objet d’autres restrictions […]».

 

[15] Si vedano le sentenze del TAR della Lombardia (26 ottobre 2001) e del Consiglio di Stato (9 dicembre 2002).

 

[16] A sostenere la tesi dell’impossibilità di assolutizzare i diritti è, fra gli altri, N. Bobbio in L’età dei diritti, Torino, Einaudi, 1997, specialmente 39-41.

 

[17] Cfr. L. Lombardi Vallauri, Corso di filosofia del diritto, Padova, Cedam, 1981, 523-524.