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Fercia-foto-2014Riccardo Fercia

Università di Cagliari

 

IL FIERI DELLA FATTISPECIE CONTRATTUALE SINE NOMINE

E L’EVIZIONE DELL’OB REM DATUM *

 

Ai miei allievi carissimi Enrica e Francesco

 

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Sommario: 1. Per un approccio alla disciplina formativa delle figure contrattuali romane. – 2. I meccanismi formativi della fattispecie contrattuale nominata. – 3. ‘Re’, ‘verbis’, (‘litteris’) ‘contrahere’ e ‘re’, ‘verbis’, (‘litteris’) ‘fieri’. – 4. La rilevanza teorica e metodologica della ‘legitima conventio’ nella prospettiva del ‘fieri’ della fattispecie. – 5. La definizione paolina della ‘legitima conventio’ ed il suo rapporto con il problema delle figure di ‘contractus. – 6. La ‘legitima conventio’ nell’economia della classificazione ulpianea delle ‘conventiones. – 7. Il fieri della fattispecie contrattuale ‘sine nomine’: i dati fondamentali. – 8. La ‘risposta’ di Aristone a Celso e le sue implicazioni sostanziali. – 9. La rilettura aristoniana del suna@llagma di Labeone: dal rapporto all’atto. – 10. La prospettiva aristoniana dal punto di vista della tecnica formulare. – 11. Il significato della ‘critica’ di Mauriciano a Giuliano. – 12. Contenuto dell’azione e funzione pratica delle tutele esprimibili nell’ipotesi dell’evizione dell’‘ob rem datum’. – 13. Il rigore teorico di Giuliano. – 14. La vitalità dell’apporto giulianeo nella costruzione delle tutele in tema di ‘permutatio.Abstract.

 

 

1. – Per un approccio alla disciplina formativa delle figure contrattuali romane

 

È essenzialmente dal punto di vista del procedimento – vale a dire della formazione della fattispecie – che vorrei qui tentare un approccio[1] al variegato ed articolato tema del contratto nell’esperienza giuridica romana. Si tratta di una prospettiva particolarmente complessa, specie con riferimento alla più ampia problematica del riconoscimento delle fattispecie contrattuali sine nomine, vale a dire non contemplate in astratto nell’editto del pretore. Per addentrarci su questa via, nondimeno, è indispensabile procedere, innanzitutto, alla ricostruzione dei meccanismi procedimentali che governano la formazione delle fattispecie contrattuali nominate. Ed al riguardo, conviene subito avere sott’occhio un testo assai noto,

 

Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.1.3: Conventionis verbum generale est ad omnia pertinens, de quibus negotii contrahendi transigendique causa consentiunt qui inter se agunt: nam sicuti convenire dicuntur qui ex diversis locis in unum locum colliguntur et veniunt, ita et qui ex diversis animi motibus in unum consentiunt, [id est in unam sententiam decurrunt]. adeo autem conventionis nomen generale est, ut eleganter dicat Pedius nullum esse contractum, nullam obligationem, quae non habeat in se conventionem, sive re sive verbis fiat: nam et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est.

 

Prescindendo, per ora, da un riesame delle varie ipotesi ricostruttive emerse in dottrina a proposito dell’interazione tra il dictum Pedii e l’argomentazione di Ulpiano, mi pare di specifico interesse, nella nostra peculiare prospettiva euristica, riflettere su alcuni punti salienti. Innanzitutto, va sottolineata la metafora di cui Ulpiano si avvale per chiarire il significato del termine ‘conventio’, inteso – in senso generalissimo – come riferibile a qualsiasi accordo finalizzato a dar vita od a porre fine ad un affare: il giurista fa riferimento al percorso di due persone che, venendo da strade diverse, s’incontrano in un unico luogo. La conventio è dunque l’esito di un cammino: ed è in questa metafora – un «Konvergenzprozess»[2] – che si riscontra l’idea del procedimento di formazione della fattispecie, alla quale, più tecnicamente, il giurista si relaziona poco dopo parlando di un ‘divenire’ – ‘fieri’ – di volta in volta qualificato.

E difatti, non può non notarsi il rapporto tra l’habere in se conventionem che sottende qualsiasi figura contrattuale, ed il re oppure verbisfieri’. A seguire l’esegesi, ampiamente rappresentata in dottrina, che vede nel rapporto tra contractus e obligatio nel dictum Pedii un’endiadi[3] che vale ‘obligatio contracta’, il fieri – il divenire – è, con evidenza, riferito alla figura contrattuale, quale che sia: il giurista – Pedio – evidenzia dunque come la conventio rappresenti il nucleo indefettibile di una qualsiasi figura contrattuale, quand’anche essa si formi per tramite di spostamento patrimoniale o per pronuncia di specifici verba. A corollario di questa affermazione, è Ulpiano – e non più Pedio – ad evidenziare[4] come la stipulatio, che si perfeziona verbis, non possa dirsi integrata in difetto di consensus sottostante al rapporto tra interrogatio e responsio: profilo che, a condividere l’esegesi del Romano[5], secondo la quale ‘conventio’ esprimerebbe l’accordo nel senso di ‘contenuto negoziale’[6], laddove ‘consensus’ esprimerebbe semmai la volontà singola adesiva[7], conferma come l’argomentazione del giurista s’inquadri in una prospettiva attenta a cogliere essenzialmente i profili formativi della fattispecie[8].

In sostanza, a proporre un’esegesi di Ulp. D. 2.14.1.3 orientata a delineare in quali termini il giurista si relazionasse al problema del procedimento di formazione della fattispecie contrattuale, emerge sullo sfondo un meccanismo formativo, per così dire, ‘a due livelli’[9]: il primo, che costituisce il nucleo fondamentale di qualsiasi figura contrattuale, è dato dal rapporto tra conventio e consensus, tra convenire e consentire; il secondo, che non può prescindere dal primo, è dato – come suggerisce esattamente il Garofalo – da un «indice della giuridicità esterno e formale»[10] – nell’esempio pediano, lo spostamento patrimoniale o la pronuncia di verba, ma deve ritenersi implicito in questo ragionamento anche l’iscrizione del nome del debitore nel codex accepti et expensi del pater familias nel caso del nomen transscripticium – che suggelli – nella sua intrinseca dimensione naturalistica implicante una realtà fenomenica percepibile dai sensi[11] – l’accordo di per sé già raggiunto. 

Nella terminologia di Ulpiano, questo nesso tra primo e secondo livello della disciplina formativa si riscontra bene – con riferimento alla stipulatio – nel rapporto tra l’habere consensum ed il verbis fieri che connota la precisazione del giurista al dictum Pedii: la stipulatio che, pur ‘divenendo’ verbis, non abbia a monte un consensus, non può dirsi integrata quale fattispecie idonea ad obbligare. Basti pensare, al riguardo e solo per fare un esempio, alla patologia che sconterebbe una stipulatio viziata da errore ostativo alla luce della prospettiva delineata, come è noto, da Pomp. 36 ad Q. Muc. D. 44.7.57 [12] con riferimento al dissentire delle parti aliud alio existimante[13].

Va qui solo ulteriormente evidenziato come, almeno per epoca severiana, le idee sottostanti al dictum Pedii sembrino ormai pienamente assimilate: non è un caso, infatti, che l’annotazione di Ulpiano, secondo il quale et stipulatio, quae verbis fit, nisi habeat consensum, nulla est, sia in fin dei conti coincidente – e la connessione è stata puntualmente rilevata[14] – con la rielaborazione istituzionale di Paolo[15] che, muovendo dall’intrinseca insufficienza del dare et accipere per la nascita dell’obbligazione ove non sottesi dall’intendimento di produrla, dava per scontata l’inidoneità della stipulatio conclusa per iocum o demonstrandi intellectus causa a generare la verborum obligatio.

In questo quadro – e siamo ad un punto cruciale – solo il primo livello formativo – conventio e consensus – è sempre indefettibile per la genesi della figura contrattuale: qui il ‘Geschichtsverständnis’ dei prudentes riafferma – specie ad incentrare il discorso sulla stipulatio, come suggeriva l’elegante riflessione di Pedio – un connotato dell’atto idoneo a creare l’obligatio ad esso connaturato sin dalla sua origine[16], da ravvisarsi – alla luce di Gai 4.17a – nel lege agere per iudicis postulationem previsto dalla legislazione decemvirale[17].

Il suggerimento pediano, in sostanza, indicava una via che, forse, si era in una certa misura progressivamente persa di vista, ed andava recuperata nel senso che qualsiasi obligatio contracta – tale è appunto il significato dell’endiadi – presuppone l’intrinseca rilevanza della conventio.

Ma è nella più matura rielaborazione di questo suggerimento che si delineano, a cavaliere tra II e III secolo, i punti essenziali dell’argomentazione ulpianea.

Ed allora, per alcune fattispecie la chiusura della sequenza procedimentale che perfeziona il consensus – primo livello del meccanismo del fieri contrattuale – è sentita insufficiente se la conventio così formatasi non risulti ulteriormente resa salda da un elemento concreto di natura procedimentale che formalmente mostri, anche su un piano di percezione fenomenica, il segno della giuridicità del vincolo. Per altre figure, invece, la disciplina formativa prescinde da questo indice esterno e formale di giuridicità della convenzione, come può ritenersi in fin dei conti implicito già nell’argomentazione di Pedio, che evidentemente insisteva sul sive re sive verbis fieri con specifica attenzione per le ipotesi percepite come più problematiche, vale a dire quelle per cui il riconoscimento dell’habere in se conventionem dell’obligatio contracta poteva ormai risultare ‘mascherato’ dal formalismo procedimentale.

Ed è appunto su questa diversa configurazione del meccanismo formativo della fattispecie contrattuale che occorre ora indagare.

 

 

2. – I meccanismi formativi della fattispecie contrattuale nominata

 

Per delineare i termini della questione or ora evidenziata occorre aprire una parentesi, che ci consentirà di soffermarci sulla distanza che intercorre, da un lato, tra l’agere re e verbis labeoniano, ed il re o verbis contrahere di Gaio; e, dall’altro, tra quest’ultima prospettiva e quella, di Pedio e di Ulpiano, del re o verbis fieri. In sostanza, dobbiamo chiederci in quale rapporto si collochino, in chiave procedimentale, l’agere, il contrahere, il fieri in riferimento a res e verba. Al riguardo, sarà bene rileggere

 

Ulp. 11 ad ed. D. 50.16.19: Labeo libro primo praetoris urbani definit, quod quaedam ‘agantur’, quaedam ‘gerantur’, quaedam ‘contrahantur’: et actum quidem generale verbum esse, sive verbis sive re quid agatur, ut in stipulatione vel numeratione: contractum autem ultro citroque obligationem, quod Graeci suna@llagma vocant, veluti emptionem venditionem, locationem conductionem, societatem: gestum rem significare sine verbis factam.

 

È impossibile, e forse neppure davvero necessario almeno in questa sede, ripercorrere l’intero travaglio dottrinale della definitio labeoniana: ci limiteremo a cogliere, al riguardo, appena alcuni spunti essenziali, incidenti sulla peculiarità dell’agere rispetto al contrahere. Dagli esempi addotti dal giurista, e dal complessivo andamento del suo ragionamento, si ricava che è l’agere la figura generale; mentre il contrahere ed il gerere si presentano come realtà particolari rispetto ad essa. Come figura generale, l’agere – che si realizza re oppure verbis, come nelle ipotesi della numeratio e della stipulatio, cui deve affiancarsi l’expensi latio e, quindi, l’agere litteris[18] – va senz’altro ricondotto ai tre atti obbligatori di muciana memoria[19], chiaramente delineati in

 

Cic. pro Roscio com. 4.13-5.14: (13) Ceteri cum ad iudicem causam labefactari animadvertunt, ad arbitrum confugiunt, hic ab arbitro ad iudicem venire est ausus! qui cum de hac pecunia tabularum fide arbitrum sumpsit, iudicavit sibi pecuniam non deberi. Iam duae partes causae sunt confectae; adnumerasse sese negat, expensum tulisse non dicit, cum tabulas non recitat. Reliquum est ut stipulatum se esse dicat; praeterea enim quem ad modum certam pecuniam petere possit non reperio. Stipulatus es – ubi, quo die, quo tempore, quo praesente? quis spopondisse me dicit? Nemo. (14) Hic ego si finem faciam dicendi, satis fidei et diligentiae meae, satis causae et controversiae, satis formulae et sponsioni, satis etiam iudici fecisse videar cur secundum Roscium iudicari debeat. Pecunia petita est certa; cum tertia parte sponsio facta est. Haec pecunia necesse est aut data aut expensa lata aut stipulata sit. Datam non esse Fannius confitetur, expensam latam non esse codices Fanni confirmant, stipulatam non esse taciturnitas testium concedit.

 

Per difendere Roscio nella causa civile intentatagli da Fannio, Cicerone contesta la genesi stessa dell’obbligazione di certam pecuniam dare oggetto della pretesa: di necessità, l’obbligazione può sorgere unicamente re (aut data), litteris (aut expensa lata) o verbis (aut stipulata). Il creditore per primo esclude la prima configurazione genetica; i codices del medesimo escludono il nomen transscripticium; la verborum obligatio è esclusa per il silenzio dei testimoni sul punto. Dunque il convenuto nulla deve, sicché secundum Roscium iudicari debet.

In sostanza, alla prima metà del I secolo a.C. è l’agere re, litteris o verbis, inteso come atto obbligatorio, lo schema essenziale – proprio, come si diceva poc’anzi, dell’elaborazione muciana – adoperabile per dar vita al vincolo di certum dare, protetto – in convinta adesione in sostanza alla tesi del Kaser[20] sulla portata della lex Aebutia – dalla condictio, invariabilmente esperibile con efficacia iure civili sia nella sua orginiaria struttura ancorata al lege agere, sia nella sua recenziore configurazione per formulas.

In questo quadro, l’agere re, verbis (e litteris, dovendosi ritenere solamente caduto questo riferimento in D. 50.16.19) tenuto presente da Labeone sembra produrre il vincolo, a voler provare ad adoperare le nostre categorie dogmatiche, alla stregua più di un atto in senso stretto che di un atto negoziale: in sostanza, pur nella tendenziale inadeguatezza di questo approccio teorico, si può forse dire che, nei contesti considerati, il volere venga in rilievo in quanto orientato più che altro alla imputazione in capo alle parti di un effetto già interamente previsto dall’ordinamento; ed è in questo senso che, a mio parere, può dirsi che il giurista separi l’atto dal fatto[21].

Per converso, nella partitio[22] delineata dall’argomentazione del giurista il contrahere ed il gerere vanno riferiti, per così dire, a due ‘nicchie’ – introdotte da un autem – che, evidentemente, non rappresentavano per Labeone la prospettiva ordinaria: con la prima espressione, egli faceva riferimento ai vincoli reciproci scaturenti da atti socialmente tipici per le civitates mediterranee, ancora in via di recezione nel ius civile di Roma; con la seconda, il sine verbis fieri della res lascia pensare a figure che – quasi in via residuale rispetto all’agere ed al contrahere – prescindono dal ricorso a verba costitutivi, come avviene per la stipulatio, ma allo stesso tempo non sono idonee a generare ultro citroque obligatio. Al riguardo, quantunque la questione sembri destinata a rimanere aperta, non si può escludere che il giurista avesse in mente, a chiusura della tricotomia del contrahere, ma in immediata prossimità di essa, essenzialmente il mandato[23], tanto più ove si ritenga che i relativi contorni, ancora in via di elaborazione per epoca augustea, si caratterizzino per una «dialettica mai sopita, fra unilateralità ‘strutturale’ e bilateralità ‘funzionale’»[24].

Si può dire, in sostanza, che per Labeone l’agere sia la figura ‘principe’ – una «categoria generale»[25], suscettibile di divisio nelle species dell’agere re, verbis e litteris – adoperabile per la creazione di vincoli e che – lasciando in disparte il gerere – il contrahere si collochi semplicemente a suo fianco[26], quasi in un rapporto di giustapposizione. In altri termini, agere ed actum vanno riferiti all’atto obbligatorio ordinariamente configurato dal ius civile quiritario, a struttura formale ed efficacia unilaterale; contrahere e contractum all’atto obbligatorio ‘nuovo’, a struttura informale ed efficacia bilaterale, che l’ordinamento della civitas stava progressivamente accogliendo dal ius gentium: dell’uno come dell’altro schema il giurista doveva indicare, tramite quello stesso passaggio da nome comune a nome proprio che connoterà la classificazione ulpianea delle conventiones, tre species, identificate rispettivamente da stipulatio, numeratio, expensi latio, e da emptio venditio, locatio conductio, societas.

Labeone è, in fin dei conti, sulla stessa linea di Quinto Mucio, che – nell’interpretazione data da Pomponio e confluita in D. 46.3.80 [27] – giustapponeva la struttura formale della fattispecie estintiva dei vincoli sorti verbis, re, litteris, all’informalità del nudus consensus per i casi dei vincoli sorti da compravendita e locazione: e non è un caso che Quinto Mucio muova dall’aequitas – intesa come fattore di sviluppo delle regole normalmente applicabili[28], sentite però come insufficienti per le esigenze economico-sociali prese in considerazione: e si pensi appunto all’actum inteso come generale verbum – in ragione della ‘novità’ delle figure – quali appunto compravendita e locazione – in via di recezione nell’ordinamento della civitas.

A questo punto è agevole percepire, sul piano innanzitutto linguistico, la distanza tra la centralità dell’agere per Labeone, e la centralità, semmai, del contrahere nell’esposizione gaiana, che si apprezza per il tramite del filtro costituito dalla riflessione di Pedio[29], nonché forse, ancor prima, quale possibile esito della forza propulsiva dell’agere verbis, struttura convenzionale ab origine[30], astrattamente equiparabile, sul piano effettuale, all’agere re ed all’agere litteris solo ove determinante vincoli di certum protetti da condictio, ma tendenzialmente irriducibile a queste ultime ipotesi ove determinante, piuttosto, quei vincoli d’incertum per i quali il lege agere era impraticabile, con conseguente ricorso alla concessione delle prime formulae inter cives[31].

E dunque, mentre l’agere re o verbis, inteso – in via di tendenziale opzione ricostruttiva – come ‘atto’, era suscettibile d’imputare un effetto in linea di principio – ma con il significativo fattore di sviluppo costituito dalla stipulatio per le prestazioni di incertum – predeterminato, la rilevanza procedimentale della conventio segna, nella prospettiva gaiana – e quindi, verosimilmente, di area sabiniana –, il passaggio dalla centralità dell’atto e della correlata rilevanza costitutiva dell’indice di giuridicità esterno e formale che lo connota alla centralità della conventio e della sua attitudine a rendere vincolanti assetti d’interessi riconosciuti come meritevoli presso tutte le gentes humanae, e quindi in quanto tali sganciati da un simile requisito procedimentale.

Sul piano linguistico, questo svolgimento si percepisce bene, a mio parere, nella circostanza che ad essere verbum generale per Labeone era l’agere, mentre per Ulpiano, per l’appunto, è ora la conventio, indefettibilmente interna alla fattispecie anche quando la figura contrattuale si formi re o verbis. Rileggiamo, però, per aver più chiara questa prospettiva, un testo famosissimo,

 

Gai 3.89: Et prius videamus de his, quae ex contractu nascuntur. Harum autem quattuor genera sunt: aut enim re contrahitur obligatio aut verbis aut litteris aut consensu.

 

Nel quadro sinora emerso, a me pare che la sistemazione istituzionale gaiana – pur presupponendo un’idea di contratto forse meno ampia di quanto, di recente, si tenda ad ipotizzare[32] – esprima a chiare lettere il viatico, nella seconda metà del II secolo, verso la prospettiva che Ulpiano suggeriva recuperando idee pediane: dall’agere re et verbis cui faceva da contrappunto il contrahere, si giunge ad una costruzione interamente imperniata sul contrahere, sicché il re, verbis, litteris contrahere non è più imputazione di un vincolo scaturente da un ‘atto’ proceduralmente formale, ma accordo sullo scopo pratico del ricorso ad un indice esterno e formale di giuridicità che perfeziona la figura contrattuale rendendola vincolante; per converso, il consensu contrahere – che sembra quasi una ‘novità’, ma reca in sé la storia stessa dell’obligatio romana – è visto sullo stesso piano degli altri tre genera dal punto di vista della rilevanza intrinseca ed indefettibile della conventio, ma da essi si distanzia in quanto appare dotato di una pure intrinseca forza causale che assurge ad indice di giuridicità, come dice il Garofalo, «interno e contenutistico»[33].

D’altro canto, a muoversi sul piano delle tutele e, soprattutto, della tecnica formulare, è sempre in questa costante osmosi tra ‘antico’ e ‘nuovo’ che si può forse intravedere un ulteriore aspetto rilevante: come la lex Aebutia, legalizzando la condictio formulare, offriva a Labeone il presupposto per considerare generale la terminologia ‘actum’ a significare lo strumento ordinariamente utilizzato dai cives per creare l’obligatio, così la lex Iulia iudiciorum privatorum, con la legalizzazione di qualsiasi altra tutela in ius concepta e la conseguente piena protezione iure civili dei vincoli di incertum – tra i quali emergevano non solo quelli ex stipulatione, ma anche e soprattutto quelli di buona fede che sorgevano dalle figure contrattuali ricordate da Labeone –, creava il presupposto per la ‘trasfigurazione’ dell’agere nel contrahere, che pone le antiche figure muciane sullo stesso piano – nel segno di quella conventio che è il ‘nuovo’ verbum generale, ma allo stesso tempo riemersione di un’intuizione decemvirale, dovuta al ‘Geschichtsverständnis’ di Pedio, di Gaio, di Ulpiano – di quelle del ius gentium.

Ed allora, se forse ancora con Pedio «gli atti diretti a creare obbligazione, ma che la producono con i meccanismi obbligatori del re obligari, del verbis obligari e del litteris obligari, non sono contractus»[34], per la via da lui indicata sono destinati di necessità a divenirlo[35], come del resto appare implicito nell’endiadi che – a mio avviso indiscutibilmente[36] – connota il dictum Pedii.

Una riconfigurazione, questa, che si percepisce con chiarezza per epoca severiana, quando anche il segno ‘fiducia’ diverrà nomen contractus[37]; ma che, allo stesso tempo, affonda le sue radici su risorse precedentemente elaborate tra I e II secolo, che portano, fra l’altro, a limare la distanza teorica, di per sé innegabile, che intercorre tra condictio – a presidio dell’obligatio re, verbis, litteris – ed azioni ‘contrattuali’[38]: in un certo senso, si potrebbe forse dire – recuperando idee che, come noto, circolano nel pensiero privatistico italiano a seguito delle penetranti indagini sul formalismo condotte dall’Irti[39] – che il sistema contrattuale severiano, rielaborando una grande linea di tendenza che giustappone l’antico al nuovo, conosca e distingua ‘strutture forti’ e ‘strutture deboli’, rispettivamente riconducibili al re, verbis, litteris contrahere le prime, ed al consensu contrahere le seconde; ma che – al di là della ‘forza’ o della ‘debolezza’ della struttura della fattispecie – le une come le altre siano pur sempre figure di contractus.

D’altronde, non riterrei irragionevole ritenere che proprio la duttilità del condicere – in ragione della sua attitudine a proteggere l’obbligazione ‘in sé’, a prescindere dalla deduzione del relativo titolo – possa aver favorito una tendenziale assimilazione, a fronte di vincoli derivanti da figure che hanno in se una conventio, di alcune tutele restitutorie a quelle contrattuali, specie in coincidenza con il progressivo riconoscimento di posizioni tutelabili, nel processo classico, mediante iudicia contraria.

Se ora riprendiamo l’esame di D. 2.14.1.3, ci rendiamo conto del fatto che Pedio, in ultima analisi, suggeriva un recupero dell’originario rapporto – risalente all’«invenzione dell’obbligazione»[40] con il riconoscimento del lege agere per iudicis postulationem nella legislazione decemvirale – tra conventio e consensus da intendersi, nella sua ‘centralità storica’, quale primo ed indefettibile nucleo procedimentale di qualsiasi fattispecie contrattuale, finanche quelle – risultato dell’evoluzione concettuale dell’agere labeoniano: le ‘strutture forti’, se così vogliamo chiamarle – il cui perfezionamento impone il ricorso ad un meccanismo procedimentale di secondo livello, vale a dire il ricorso all’indice esterno e formale di giuridicità a suggello dell’idoneità della conventio a produrre l’obbligazione. 

 

 

3. – ‘Re’, ‘verbis’, (‘litteris’) ‘contrahere’ e ‘re’, ‘verbis’, (‘litteris’) ‘fieri’

 

Siamo ora in grado di percepire la distanza tra il re, verbis, litteris contrahere gaiano ed il re, verbis, litteris fieri di (Pedio e) Ulpiano.

Al riguardo, innanzitutto, non mi pare che questa distanza possa individuarsi in una prospettiva, per così dire, ‘evolutiva’: il fieri non rappresenta una configurazione più matura del contrahere. Semmai, il fieri della fattispecie mostra chiaramente l’approccio in senso procedimentale del giurista, che si occupa non già delle singole figure contrattuali, ma della disciplina ed efficacia formativa ad esse riferibile. Sicché il contrahere, nella trattazione istituzionale di Gaio, è risorsa innanzitutto espositiva, che pone al centro dei quattuor genera la conventio, differenziata per tramite del «momento determinante per la nascita dell’obbligazione»[41]; il fieri, invece, risponde alla logica della configurazione di un procedimento formativo della fattispecie, sicché il divenire di essa si coglie nell’individuazione della sequenza di volta in volta rilevante.

In questa chiave, tra il II ed il III secolo le tre figure muciane in cui si risolveva l’agere labeoniano presentano una disciplina procedimentale incentrata sul doppio livello – formazione della conventio e ricorso ad un indice di giuridicità ad essa esterno e formale – del meccanismo sinora delineato; l’antico contrahere labeoniano si ferma al primo livello, non essendo necessario, per via della tipicità funzionale riconosciuta sul piano del ius gentium, giungere al secondo.

Delineata per linee essenziali la prospettiva della disciplina procedimentale che emerge nel discorso del giurista, appare a mio parere ancor più evidente la sostanziale classicità del fr. 1.4 di D. 2.14, in cui Ulpiano passa dal fieri al transire in nomen: in sostanza, mentre il fieri evidenzia la disciplina ed efficacia procedimentale, il nomen – il transire in nomen – rappresenta quella che, per noi, è semmai la disciplina ed efficacia sostantiva, vale a dire l’individuazione della fattispecie già formata, che apre le porte alla configurazione della sua efficacia. Ed è in questo rapporto tra fieri e nomen – sul cui sfondo si staglia la distanza tra prospettiva procedimentale e prospettiva sostantiva – che il giurista coglie l’incontro tra un più antico un sistema formale di genesi del vincolo, ascrivibile alle logiche proprie del ius proprium civitatis, ed un altro, non esclusivo della civitas, ma da questa recepito per condivisione con le altre gentes humanae, e per questa via recenziore nella sua valenza civilistica.

 

 

4. – La rilevanza teorica e metodologica della ‘legitima conventio’ nella prospettiva del ‘fieri’ della fattispecie

 

Il fin de non-recevoir che un’autorevole lettura[42] aveva prospettato in ordine ai problemi sottesi dai riferimenti di Ulpiano (D. 2.14.5) e di Paolo (D. 2.14.6) alla legitima conventio, insieme con le innegabili difficoltà ricostruttive ad essa connesse, ha finito per implicare, quasi di necessità, una visione parziale della problematica contrattuale nel diritto romano, tutta polarizzata, in via pressoché esclusiva, sulla rilevanza della iuris gentium conventio, e quindi su una sola delle due – alternative ed uniche – species della conventio ex privata causa. Secondo questa prospettazione, sarebbe «ovvio» che le «obligationes ex contractu dell’antico ius civile» – le obligationes verbis e litteris, e comunque il mutuo – «non possano rientrare nella legitima conventio, della quale, nel Digesto, dà la definizione Paul. 3 ad ed. D. 2.14.6, l’altra species che, accanto a quelle iuris gentium è compresa nella privata conventio»[43], e ciò in quanto «essa riguarda specifiche disposizioni normative, contenute in una legge od in un senatoconsulto, né può riferirsi a quelle XII Tavole cui si potevano riportare, in definitiva, gli antichi negozi obbligatori del ius civile (ad eccezione dell’expensilatio[44].

Io credo, invece, opportuno riprendere anche in questa sede l’esame del problema, onde vagliare se ed in quale misura la legitima conventio, e forse ancor più il modello teorico e metodologico che fornisce all’elaborazione dei prudentes, abbia avuto un ruolo nella costruzione della fattispecie contrattuale.

Alla luce di quanto sinora emerso, come ho avuto modo di rilevare in una recente indagine in cui ho ampiamente indagato su uno spunto suggerito da Álvaro d’Ors[45], io credo che l’esemplificazione di Ulpiano nel fr. 1.4 non possa considerarsi – specie ad attribuire al giurista severiano il tratto finale del fr. 1.3 – un glossema rientrato nel testo[46], ma debba leggersi quale indicazione di due nomina di convenzioni il cui fieri non abbisogna di indici esterni e formali di giuridicità, ed altri due di convenzioni il cui fieri non può farne a meno, l’una che – per l’appunto – re fit, vale a dire la fiducia, l’altra che verbis fit, vale a dire la stipulatio:

 

Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.1.4: Sed conventionum pleraeque in aliud nomen transeunt: veluti in emptionem, in locationem, in [pignus] <fiduciam> vel in stipulationem.

 

Quanto osservato[47] equivale, secondo me, ad ipotizzare che egli così anticipasse, rispetto alla classificazione delle conventiones che leggiamo nel successivo fr. 5, due nomina di iuris gentium conventiones e due nomina di legitimae conventiones.

Esaminiamo, infatti,

 

Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.5: Conventionum autem tres sunt species. aut enim ex publica causa fiunt aut ex privata: privata aut legitima aut iuris gentium. publica conventio est, quae fit per pacem, quotiens inter se duces belli quaedam paciscuntur.

 

Il passo di Ulpiano è assai discusso, specie per quanto concerne la problematica individuazione delle figure di legitima conventio. Per un corretto approccio alla questione, è per me indispensabile tener conto del fatto che, nella complessiva argomentazione del giurista, emerge una tecnica espositiva polarizzata su dicotomie successive del nomen generaleconventio’: la prima dicotomia immediatamente percepibile in chiave privatistica è quella tra accordi negotii contrahendi causa ed accordi negotii transigendi causa, vale a dire strumentali a dar vita od a porre fine ad un affare[48]; quindi la maggior parte delle convenzioni passa in un suo specifico nomen, indicativo di fattispecie formata, come ad esempio vendita e locazione da un lato, fiducia e stipulatio dall’altro; infine, al di là della dicotomia considerata in apertura, esistono tre categorie – a ben vedere, «classi terminali di una doppia dicotomia successiva»[49] – di conventiones, l’una ex privata causa (che evidentemente può essere strumentale, come suggeriva il giurista in apertura, a contrahere oppure a transigere), l’altra ex publica causa; e quella ex privata causa può risultare legitima o iuris gentium.

Ed è in quest’ottica che le dicotomie successive del genus considerato – ‘conventio’, appunto – inducono a ritenere che i quattro esempi indicati nel fr. 1.4 corrispondano, come si diceva, a due nomina di iuris gentium conventio, e a due nomina di legitima conventio, che hanno dunque il ruolo di ‘coppie diaretiche’[50].

In sostanza, nel fr. 5 – in cui ritorna in termini generalizzanti la prospettiva del fieri, che dunque rappresenta la chiave di lettura per riconoscere l’esistenza di problemi attinenti alla disciplina ed efficacia procedimentale in qualsiasi figura negoziale bilaterale – si chiude un discorso da cui emerge che la iuris gentium conventio ‘diviene’ e ‘transita’ in un proprium nomen (ad esempio, ‘emptio’ o ‘locatio’) senza il ricorso ad indici esterni e formali di giuridicità, essendo a tal fine sufficiente la sua peculiare rilevanza causale universalmente condivisa; e che la legitima conventio ‘diviene’ e ‘transita’ in un proprium nomen (ad esempio ‘fiducia’ o ‘stipulatio’) mediante il ricorso agli indici formali dello spostamento patrimoniale (conseguente al ricorso all’atto formale di alienazione nella fiducia, che deve considerarsi costitutivo di essa come fattispecie contrattuale) o dell’impiego dei verba.

Ad orientarsi in questa direzione[51], e tenendo conto altresì di interessanti spunti suggeriti da una risalente ed autorevole dottrina[52], la legitima conventio appare, come tra poco vedremo meglio, come l’accordo che affonda le sue radici – la sua ‘vincolatività’ – nell’esperienza del ius proprium civitatis, e che dall’agere re et verbis labeoniano giunge, per la via indicata da Pedio[53], al re et verbis contrahere della sistematica istituzionale gaiana; iuris gentium conventio è, invece, l’accordo che affonda le sue radici nell’esperienza giuridica condivisa dalla civitas con le altre gentes humanae, il cui vincolo configura un oportere ex fide bona, comune denominatore processuale[54] come sostanziale dell’elenco che riscontriamo in

 

Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7 pr.: Iuris gentium conventiones quaedam actiones pariunt, quaedam exceptiones. (1) Quae pariunt actiones, in suo nomine non stant, sed transeunt in proprium nomen contractus: ut emptio venditio, locatio conductio, societas, commodatum, depositum et ceteri similes contractus.

 

L’ulteriore dicotomia suggerita dal giurista nel prosieguo del suo discorso distingue, tra le iuris gentium conventiones, quelle che generano azioni, e quelle che generano eccezioni. Le prime transitano in un proprium nomen contractus: i primi due nomina di esse, emptio e locatio, sono quelli già ricordati, e non a caso, nel fr. 1.4, sicché Ulpiano ricorre qui, come già ho avuto modo di osservare[55], alla «menzione o trattazione dei diversi tipi secondo sequenze regolari»[56]; gli altri nomina fanno parte di un elenco uniforme dal punto di vista della configurazione della tutela.

In questo quadro, non sembrano cogliere nel segno tutte quelle esegesi – con specifico riferimento a quella del Talamanca[57], ma anche, di recente, del Cannata[58] – che riconoscono la riconducibilità a nomina contractus delle sole figure sottese da iuris gentium conventio, o comunque – ma la distanza è minima – di quelle riconducibili ad obligationes consensu contractae. Semmai, io credo che, nel pensiero ulpianeo, le due species della iuris gentium conventio e della legitima conventio trovino sintesi nella categoria sovraordinata della conventio ex privata causa, che finisce per avere un ruolo ‘unificante’ delle figure contrattuali conosciute dall’editto: Ulpiano, del resto, come evidenziava esattamente il Burdese[59], scriveva questi tratti dell’ad edictum più o meno contestualmente all’emanazione della constitutio Antoniniana de civitate, sicché il risultato pratico della sua trattazione doveva essere in fin dei conti funzionale a chiarire come il regime strutturale dei meccanismi di tutela – ormai astrattamente uniformi per tutti gli incholae dell’Impero, divenuti novi cives – potesse giustificarsi pienamente solo nella prospettiva storica che li aveva visti sorgere.

E così, le obligationes sorgenti da iuris gentium conventiones che transitano in un proprium nomen contractus hanno tutela formulare al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona, che non si riscontra mai[60] per quelle scaturenti da figure di legitima conventio, ovvero – in ipotesi, e come vedremo meglio tra poco – le obbligazioni sorgenti, essenzialmente, da stipulatio, fiducia e mutui datio: il che, se vogliamo, evoca la distinzione[61] tra i ciceroniani sine lege iudicia[62], ed i iudicia basati sulla lex intesa come fonte ultimativa del ius proprium civitatis, i quali, ai tempi di Ulpiano, erano i iudicia stricti iuris cui si affianca, a guisa di ponte, l’actio fiduciae[63].

 

 

5. – La definizione paolina della ‘legitima conventio’ ed il suo rapporto con il problema delle figure di ‘contractus’

 

Alla ricostruzione sinora proposta, invero, non è – almeno a mio modo di vedere – ostativa l’idea che Paolo, in un frammento visibilmente alterato, doveva avere della legitima conventio, conservataci in

 

Paul. 3 ad ed. D. 2.14.6: Legitima conventio est quae lege aliqua <...> confirmatur. <…> [Et ideo] <…> interdum ex pacto actio nascitur vel tollitur, <…> [quotiens lege aut senatus consulto adiuvatur].

 

Gli emendamenti al testo sono tuttora quelli che proponevo in una recente indagine[64], in cui mi era parso plausibile prendere le mosse da sch. 2 ad Bas. 11.1.6 [65] e da Paul. 1 manual. Vat. Fragm. 50 [66]. Non è possibile, in questa sede, riesaminare compiutamente queste fonti; mi limiterò dunque ad osservare, ad estrema sintesi dei risultati cui ero pervenuto, come nelle tracce del discorso di Paolo in D. 2.14.6 l’espressione ‘confirmare’, a mio parere ascrivibile a quel che resta del sostrato classico dell’originaria argomentazione, sia adoperata con riferimento alla legislazione decemvirale, e segnatamente – nel frammento conservatoci nei Vaticana – ad una specifica configurazione della deductio usus fructus. Si tratta, non a caso, della stessa fattispecie di cui discuteva, in una lezione su D. 2.14.6, l’antecessor beritense Stefano, il cui ‘Geschichtsverständnis’ – se si tiene conto dell’ampiezza di una lettura di gran lunga più articolata di quanto si legga nella scarna definizione adottata nel Digesto[67] – difficilmente faceva a meno del ricordo del testo originale paolino.

In questo quadro, se si tiene altresì conto del fatto che i giuristi classici, e lo stesso Paolo[68], adoperano l’espressione ‘lex aliqua’ con riferimento a dati normativi del ius civile repubblicano[69], tra cui la legislazione decemvirale, più che avallare la correzione proposta dal Beseler[70] del termine ‘aliqua’ con l’espressione ‘XII Tabularum’, mi pare plausibile ritenere che la legitima conventio sia semplicemente l’antitesi ordinamentale – in cui si esaurisce la dicotomia di Ulpiano in D. 2.14.5 [71] – della iuris gentium conventio: vale a dire un accordo solo apparentemente nudo, che quindi genera comunque l’actio perché – a prescindere dal riscontro di una funzione meritevole – trova a priori la sua forza nei dati normativi del ius civile, dati che, nell’esperienza a cavaliere tra II e III secolo, sono peraltro sentiti come vigenti solo in quell’interpretatio che non può fare a meno di andare alla ricerca del suo principium.

La lex che entra nell’argomentazione di Paolo, in buona sostanza, è ‘aliqua’ nel senso che fa riferimento a realtà esistente, ma non individuabile[72], sicché a priori non ci consente di pensare a «specifiche disposizioni normative»[73]: in altri termini, essa è ‘aliqua’ perche ‘dissolta’ nella sola interpretatio in cui consiste il ius civile[74], ma allo stesso tempo vigente come principium di essa.

Con specifico riferimento a Tab. 6.1, in particolare, mi è parso da ricondurre senz’altro alla legitima conventio, tanto più alla luce dei risultati cui perviene una recente ricostruzione del problema posto da nuncupationes e leges mancipii[75], il noto passo di

 

Gai. 3 ad l. XII Tab. D. 2.14.48: In [traditionibus] <mancipationibus> rerum quodcumque pactum sit, id valere manifestissimum est.

 

Così come Paolo sostiene che legitima conventio è quella resa salda da ‘lex aliqua’, allo stesso modo qui Gaio, indagando su un principium decemvirale che è la potissima pars della questione da lui trattata, afferma l’evidente valere di qualsiasi convenzione che si formi nel contesto degli atti formali di alienazione di res[76]: si tratta della convenzione che sottende, esprimendone la funzione pratica[77], la mancipatio come l’in iure cessio. Il nesso con i profili discussi da Stefano nello sch. 2 ad Bas. 11.1.6 e da Paul. 1 manual. Fragm. Vat. 50 mi pare evidente; come mi pare a questo punto plausibile che il cosiddetto ‘pactum fiduciae’, in quanto convenzione in mancipationibus rerum, altro non sia se non una (figura di) legitima conventio, riconducibile al principium dettato da Tab. 6.1.

In D. 2.14.6, dunque, il lege aliqua confirmari di Paolo va letto come individuazione del principium che sottende l’interpretatio di dati normativi di ius civile repubblicano – con riferimento agli esempi ulpianei nel fr. 1.4, per la fiducia si può pensare, come si accennava, a Tab. 6.1[78]; per la stipulatio a Tab. 2.1b ed alla tutela per iudicis postulationem[79], e quindi, in prosieguo, alle leges che configurano il lege agere per condictionem, vale a dire la Silia e la Calpurnia[80] – con la quale l’esperienza giuridica romana ha progressivamente riconosciuto forza vincolante – vale a dire attitudine a generare l’obligatio, ormai creata con la legislazione decemvirale – alle figure destinate, in più maturi contesti, a confluire nella (più ampia) problematica dell’agere re e dell’agere verbis e, quindi, del re contrahere e del verbis contrahere, che rappresentano in ultima analisi l’esito di un percorso culturale e pratico essenzialmente quiritario, e come tale ‘legitimus’.

Con una peculiarità: la legitima conventio non solo è di per sé idonea a generare l’actio a protezione dell’obbligazione da essa prodotta, ma anche a farla venir meno, come avviene nel caso del transigere cum fure che, non a caso, trova il suo principium ancora una volta nella legislazione decemvirale, e segnatamente in Tab. 8.2[81].

Ad orientarsi in quest’ordine di idee, d’altra parte, anche il mutuo – specie a condividere le magistrali pagine dell’Albanese[82] sulla storia del creditum – finisce, almeno tra il II e il III secolo, per divenire una figura di contractus, che in se habet conventionem, da rintracciarsi in una iusta causa traditionis – accordo sullo scopo pratico del tradere, che in questo caso consiste nel generare il creditum – la cui ancestrale ‘quiritarieta’ – e quindi riconducibilità, da questo punto di vista, a legitima conventio – è data non tanto dallo spostamento patrimoniale in sé considerato, quanto dalla gratuità originaria che lo connota[83], e dal correlato intervento normativo – dovuto ancora una volta alla legislazione decemvirale, con specifico riferimento a Tab. 8.18 – funzionale a stabilire limiti ‘legitimi’ alle usurae una volta configurato il passaggio, con l’avvento della moneta coniata, dal mutuo di derrate al mutuo di denaro[84].

 

 

6. – La ‘legitima conventio’ nell’economia della classificazione ulpianea delle ‘conventiones’

 

Ma riprendiamo l’analisi del discorso di Ulpiano.

Che la (evidentemente perduta) ‘definizione’ – ammesso e non concesso che tale fosse – di Ulpiano della legitima conventio non coincidesse con quella di Paolo – che, fra l’altro, scriveva prima della constitutio Antoniniana – è implicito nella scelta dei Compilatori[85] di discostarsi, su questo punto, dalla trattazione adoperata in via principale nella costruzione di questa parte del titolo de pactis del Digesto, e di preferire, sul punto, un testo paolino; nella ‘Geistesart’ del VI secolo, peraltro, è verosimile che si preferisse recuperare un testo – come quello di Paolo – che si prestasse ad affermare, sia pure per eterogenesi, la vincolatività di qualsiasi convenzione riconosciuta espressamente da norme imperiali, piuttosto che un testo in cui, a ragionare in base al rapporto tra il fr. 1.4 ed il fr. 5 del titolo de pactis, doveva con ogni probabilità insistersi sulla polarità storico-culturale del ius gentium rispetto al ius civile, senza peraltro entrare in stridente contraddizione con la scelta espositiva di Paolo[86].

In sostanza, come poc’anzi accennavo, le convenzioni sottostanti a fiducia[87], stipulatio[88], mutui datio[89] – queste ultime, per di più, normalmente collegate nello ‘Stipulationsdarlehen’ – devono considerarsi, sul piano della loro genesi ordinamentale[90], istituti propri dei cives Romani, correlabili a principia normativi di ius civile repubblicano, la cui vigenza per epoca imperiale – e comunque per epoca severiana, che ormai vi riconosce, come già emergeva dal terzo commentarius gaiano[91], figure di contractus – è data dall’esito della relativa plurisecolare interpretatio.

Ciò non significa, per converso, affermare in termini generalizzanti che ad ogni figura di agere re o verbis – o comunque di re o verbis contrahere nel linguaggio di Gaio – debba di necessità dogmatica vedersi sottostante una legitima conventio; né che la legitima conventio sia stata riconosciuta sottostante unicamente a figure contrattuali[92]: è ragionevole, semmai, pensare che i prudentes abbiano tenuto presente questo modello quiritario quale risorsa pratico-applicativa utilizzabile anche in palese assenza di un principium normativo civilistico, purché ricorressero i presupposti per una sua progressiva estensione. Tenderei a leggere in questa chiave ricostruttiva, principalmente, la problematica del nomen transscripticium[93], sentito come istituto proprio dei cives, ma non riconducibile di per sé a dati normativi del ius civile: qui la conventio che sottende l’iscrizione del nome del debitore nei registri del pater familias può sì dirsi legitima – e credo che tale potesse considerarla quanto meno Ulpiano –, ma solo in senso lato, vale a dire quale recenziore applicazione di modelli, quali quelli or ora ricordati, rispetto ai quali la connessione con un principium normativo risulta di più agevole verifica. Ed è dunque in questa prospettiva che la aut data aut expensa lata aut stipulata pecunia di cui parla Cicerone deve ritenersi sottesa da legitima conventio.

In questa chiave, la seconda coppia di esempi portati nel fr. 1.4 di D. 2.14 – fiducia e stipulatio – sono, in altre parole, per la più matura esperienza classica figure contrattuali propriae civium Romanorum: ed è appunto sulla base di questo ricordo sostanziale, formalmente superato dalla constitutio Antoniniana, che Ulpiano spiega la classificazione delle conventiones ed il loro rapporto – rilevante innanzitutto sul piano della tecnica formulare – con i nomina contractus edittali. In estrema sintesi, le figure contrattuali sottese da legitima conventio si connotano, sul piano della disciplina procedimentale, per un meccanismo a doppio livello, costituito dalla formazione dell’accordo suggellato da un indice esterno e formale di giuridicità, che chiude la sequenza del fieri: si tratta, in sostanza, di una conventio sullo scopo pratico del ricorso allo spostamento patrimoniale, a specifici verba, od al limite – quale figura propria dei cives Romani, ma recenziore rispetto alle precedenti – al nomen transscribere. Le figure contrattuali sottese da iuris gentium conventio, invece, si connotano per il perfezionamento di una conventio che, per la sua rilevanza funzionale universalmente riconosciuta, non abbisogna di indici esterni e formali di giuridicità: non è richiesta, direbbe Gaio, alcuna ulteriore proprietas perché l’ordinamento le riconosca idoneità a creare l’obligatio. Le une come le altre, intese come figure di conventiones ex privata causa, transitano comunque in nomina contractus – identificativi, sul piano edittale, della disciplina ed efficacia sostantiva di fattispecie già formate – le cui tutele sono diversificate – in base alla presenza o meno, nella formula, della clausola ex fide bona – in ragione della genesi storica della loro rilevanza ordinamentale[94].

Se vogliamo, come Labeone giustapponeva l’actum e la sua tricotomia – stipulatio, numeratio, expensi latio – al contractum ed alla sua speculare tricotomia – emptio venditio, locatio conductio, societas – cogliendo l’interazione tra l’antico ed il nuovo nel riconoscimento delle figure a struttura bilaterale idonee a produrre l’obligatio, non diversamente Ulpiano, polarizzando la propria analisi direttamente sulla conventio, distingue nella dicotomia di quella ex privata causa l’antico – la legitima conventio – ed il nuovo – la iuris gentium conventio – che connota la disciplina formativa e contenutistica delle figure contrattuali per le quali l’editto appresta una tutela.

Nell’ordine di idee sinora delineato, allora, i cosiddetti contratti reali del ius gentium, tra i quali Ulpiano ricorda – nel fr. 7.1 – il comodato ed il deposito, rappresentano, a mio modo di vedere, la traccia della ‘contaminazione’ tra l’antico agere re ed il ‘nuovo’ re contrahere: la conventio che li sottende è senz’altro iuris gentium, e la tutela, per epoca severiana, è pure basata sull’oportere ex fide bona; nondimeno, queste figure, che inizialmente il pretore considerava ‘fatti’, individuando la conseguente struttura delle tutele, divengono ora nomina contractus la cui disciplina formativa si colloca a cavaliere tra il re contrahere quiritario – implicante invariabilmente trasferimento – e la sua nuova, più ampia configurazione, a mio avviso ben testimoniata dall’«interporsi» della res «in quanto tale» – l’intercedere della res ipsa di Mod. 2 reg. D. 44.7.52.1[95], che va riferito sia all’attribuzione traslativa, sia all’attribuzione di naturalis possessio – tra la conventio ed il suo effetto[96], e comunque sia al re obligari sotteso da conventio, sia a quello che – come nell’indebiti solutio – ne prescinde.

In sostanza, nell’elenco di Modestino, la cui problematicità tuttora affatica la dottrina senza che al riguardo possa trovarsi un’esegesi realmente soddisfacente[97], l’obbligazione è creata non tanto dalla res, ma dalla res ipsa, e quindi ‘dalla cosa in sé’, vale a dire dalla cosa quale ne sia il contenuto attributivo – del dominium, come nel modello più risalente dell’obligatio re, così come della naturalis possessio – implicante un dovere restitutorio, trasversalmente correlabile all’impossibillità di agire in petitorio per il recupero del bene[98]: ed è in questa stessa logica che va letto il discorso del parafraste di Gaio[99] confluito in Gai. 2 aur. D. 44.7.1.3-7, dove – pur recuperandosi, con il correttivo delle variae causarum figurae, la divisio gaiana dell’omnis obligatio, che Modestino non segue – comodato, deposito e pegno sono figure riconducibili a re obligari. Ed allora, in una prospettiva, almeno da questo punto di vista, in fin dei conti non distante da quella suggerita dal Cannata[100], il riconoscimento funzionale di queste figure a livello di ius gentium in una certa misura ‘semplifica’ l’indice di giuridicità, per la cui integrazione è sufficiente l’attribuzione di una naturalis possessio che è allo stesso tempo requisito naturalistico necessario – se vogliamo, informale e contenutistico – per la realizzazione della funzione pratica della figura.

Siamo ora in grado di esaminare il procedimento formativo delle conventiones sine nomine: vedremo ora in quali termini gli schemi or ora esaminati, ancora una volta, in una certa misura interagiscano, ove si consideri che, per un verso, queste figure contrattuali richiedono, sul piano perfezionativo, uno spostamento patrimoniale riconducibile ad un trasferimento oppure all’intervenuta esecuzione di un facere, sicché da questo punto di vista presentano analogie con l’evoluzione dell’agere re et verbis in re et verbis contrahere; e che, per altro verso, come emerge dal discorso di Ulpiano – nonché da altri importanti riscontri, su cui avremo modo di soffermarci – i rapporti scaturenti da queste figure sono protetti al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona.

 

 

7. – Il ‘fieri’ della fattispecie contrattuale ‘sine nomine’: i dati fondamentali

 

Per esaminare la disciplina formativa della fattispecie contrattuale che non rientri in un nomen edittale occorre muovere, innanzitutto, da

 

Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.2: Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem. ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc suna@llagma esse et hinc nasci civilem obligationem. et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem, [id est praescriptis verbis] sufficere: esse enim contractum, quod Aristo suna@llagma dicit, unde haec nascitur actio.

 

Ulpiano prosegue nell’argomentazione contenuta nei frammenti 7 pr.-1, in cui si era evidenziata la dicotomia tra le iuris gentium conventiones suscettibili di generare l’actio, le quali tutte transitano in proprium nomen contractus, con protezione formulare al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona, e quelle che producono solamente la tutela in via di exceptio: nondimeno, quand’anche l’affare non integri una figura contrattuale nominata, ma sussista una funzione meritevole, con eleganza Aristone risponde a Celso che v’è la civilis obligatio.

Per il momento possiamo fermare qui la nostra lettura.

Innanzitutto, questa obbligazione, a mio parere, contiene senz’altro il dovere di (contro)prestazione correlato alla datio iniziale, ed appare irriducibile – nonostante un recente tentativo esegetico in tal senso[101] – all’obligatio auctoritatis ed alla conseguente tutela, vale a dire l’actio auctoritatis, astrattamente ipotizzabile per la casistica in esame, ma del tutto irrilevante nella specifica prospettiva euristica di Aristone.

È, ad ogni modo, in questa risposta che va ricercato un primo spunto per ricostruire la disciplina procedimentale della fattispecie contrattuale innominata.

Innanzitutto, occorre muovere, prima ancora che dal complessivo andamento espositivo, dagli esempi addotti da Aristone, citato da Ulpiano: una permutatio, in primo luogo; un trasferimento strumentale a vincolare la controparte ad una prestazione di facere. Il primo di essi – quello della permutatio – è particolarmente interessante: Aristone, giurista sostanzialmente ‘indipendente’, ma comunque senza dubbio vicino alla scuola sabiniana[102], sembra riconoscere nei confronti del più giovane Celso, scolarca proculiano, la fondatezza della posizione dei diversae scholae auctores, che negavano alla permuta la riconducibilità allo schema dell’emptio venditio[103], né probabilmente – pur non disconoscendo la possibilità di condicere – ammettevano una tutela in ius concepta, affiancando al rimedio restitutorio una tutela in factum[104].

A fronte di questa apertura, egli parrebbe peraltro insistere sulla configurabilità di un’obligatio; ed in questo quadro occorre, a mio parere, tener conto di

 

Paul. 5 ad Plaut. D. 19.4.2: Aristo ait, quoniam permutatio vicina esset emptioni, sanum quoque furtis noxisque solutum et non esse fugitivum servum praestandum, qui ex causa daretur.

 

Aristone ritiene che gli strumenti con i quali il venditore garantisce l’acquirente di servi debbano applicarsi anche alla permutatio, la quale non è considerata equivalente alla compravendita, ma a questa solamente vicina[105]. Egli, dunque, riconosce la figura come innominata sul piano dell’architettura edittale, che in epoca traianea ancora non le riserva una rubrica; nondimeno, suggerisce di trarre dalla vicinitas della convenzione all’emptio venditio una specifica ricaduta pratica, inerente appunto alla configurazione di un’ipotesi di garanzia per vizi. Le figure, in sostanza, sembrano vicine sul piano dell’assetto d’interessi, imperniato allo stesso modo su un sinallagma commutativo, ma lontane su quello formativo-strutturale, come evidenzia bene il discorso confluito in

 

Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.2: Item emptio ac venditio nuda consentientium voluntate contrahitur, permutatio autem ex re tradita initium obligationi praebet: alioquin si res nondum tradita sit, nudo consensu constitui obligationem dicemus, quod in his dumtaxat receptum est, quae nomen suum habent, ut in emptione venditione, conductione, mandato.

 

In sostanza, insieme con il superamento – percepibile, a mio parere, già in Iul. D. 19.5.13.1, come vedremo più avanti – della dissensio tra le due scuole in ordine alla distinzione tra compravendita e permuta, si supera altresì, in questo passo dell’ad edictum paolino[106], la correlata difficoltà incidente sul piano strutturale: non essendo riconducibile ad una figura qualificata di compravendita, la permuta finisce per avere invariabilmente struttura non già consensuale, ma reale. Sul piano procedimentale, insomma, la permutatio consegue ad un re fieri: il che non significa – né potrebbe dogmaticamente significare – che la permutatio sia così attratta «all’area delle obligationes re contractae»[107]; semmai, riemerge qui il modello procedimentale dell’agere re, in via di evoluzione, ai tempi di Aristone, verso il re contrahere gaiano, e la sua recuperabilità per far fronte all’emersione di nuove e diverse esigenze.

Tutto questo impone ora uno specifico approfondimento.

Avevo ipotizzato, nei paragrafi precedenti, che l’agere re et verbis labeoniano fosse in ultima analisi sotteso da legitima conventio, vale a dire accordo di per sé produttivo dell’azione in quanto riconducibile ad un principium normativo quiritario, progressivamente sentito come vigente nella sua sola interpretatio; ed avevo altresì osservato come sulla base di questo modello emerga altresì la figura recenziore del nomen transscripticium, inteso dai prudentes – seppur in assenza di un riscontro normativo civilistico – come esclusivo dei cives Romani.

In quest’ordine di idee, è dunque nel ‘nucleo quiritario’ dell’agere re et verbis che va ricercata la connessione con la legitima conventio delle figure contrattuali protette da iudicia privi della clausola ex fide bona.

Ora, l’agere re, verbis e, se vogliamo, litteris, presuppone la rilevanza di un accordo sullo scopo pratico del ricorso ad indici esterni e formali di giuridicità – la proprietas di cui parla Gaio – per creare l’obligatio, sicché per questa via emerge una chiara sinapsi con il modello teorico e metodologico della iusta causa traditionis, che altro non è se non «l’accordo sullo scopo per cui avviene la consegna materiale della cosa»[108]. Il che non significa che la iusta causa – è appena il caso di dirlo – nelle sue più varie applicazioni debba sistematicamente identificarsi con una legitima conventio: basti pensare, del resto, alla compravendita che, ove venga in rilievo come iusta causa traditionis, è di per sé iuris gentium conventio. Semmai, è da dirsi che il modello dell’agere re conosce, per così dire, una sua ‘seconda stagione’, in quanto finisce per trovare applicazione al di fuori del contesto originariamente perimetrato ai vincoli protetti da legis actio per condictionem: mi riferisco alle dationes ob rem, in cui la iusta causa traditionis è l’accordo sullo scopo di un trasferimento funzionale a «vincolare l’accipiente ad un dato comportamento»[109].

Questo accordo rappresenta, a ben vedere, l’esito di un percorso interpretativo che coglie nel modello – nel solo modello – delle più antiche configurazioni della legitima conventio il suo sostrato operazionale. In connessione con le dationes ob rem, infatti, non vi è affatto una legitima conventio, ma – come si è rilevato[110], senza forse trarne tutte le possibili implicazioni – una iuris gentium conventio, nel senso che la convenzione sine nomine passa ‘dal pregiuridico al giuridico’[111], e ‘diviene’ figura contrattuale, nel momento in cui l’astratto programma di scambio trova una sua prima parziale concretizzazione mediante un trasferimento che – in forza della iusta causa che sottende l’atto traslativo, orientandolo a concretizzare l’assetto d’interessi programmato in modo da creare il vincolo giuridico in capo alla controparte – determina una civilis obligatio azionabile.

In tutti questi casi, in sostanza, siamo di fronte ad un ‘re fieri’ della fattispecie, e la iusta causa traditionis sottostante alla datio assume una funzione formativa, esprimendo lo scopo pratico delle parti di rendere vincolante la iuris gentium conventio priva di nomen.

Si coglie, al riguardo, un’evidente sinapsi con quello stesso meccanismo procedimentale che connota il ‘divenire’ delle legitimae conventiones dell’ordinamento esclusivo della civitas in figure contrattuali: le fattispecie sine nomine di cui si discute in questo fr. 7.2, in ultima analisi, sono una sorta di ‘ibrido procedimentale’, in quanto riconducibili ad una conventio che, per un verso, trae la sua forza vincolante non già da un principium normativo quiritario vigente nella relativa interpretatio, ma da una causa sottostante, la cui insussistenza, per l’appunto, preclude – come chiarisce Ulpiano nel successivo fr. 7.4 – la tutela in via d’azione; e che, per altro verso, abbisogna nondimeno di un indice esterno e formale di giuridicità[112], come si riscontra nell’elaborazione dell’agere re et verbis labeoniano riconfigurato in re et verbis contrahere nella più matura esperienza imperiale, che funge da modello operazionale.

In quest’ordine di idee, il meccanismo procedimentale si colloca ad un duplice livello formativo: mentre l’indice esterno e formale di giuridicità, vale a dire la datio,  rappresenta il momento determinante per la nascita del vincolo, l’elemento suscettibile di giustificarla è la causa che, nei casi considerati, si concretizza in un suna@llagma, vale a dire uno scambio[113], da cui appunto nasce – è significativo l’avverbio ‘hinc’ – la civilis obligatio. In sostanza, la iuris gentium conventio sottesa da causa, ma non riconducibile ad un indice contenutistico universalmente condiviso da tutte le gentes humanae come avviene nelle figure contrattuali nominate riconducibili ai contratti consensuali, impone di ricorrere ad un suggello esterno di serietà: che i prudentes ricercano recuperando un modello pratico-applicativo a loro ben noto, in quanto connotante la plurisecolare esperienza nella ricerca della vincolatività dell’accordo in funzione della produzione dell’obbligazione di certum dare oportere squisitamente quiritaria, come tale protetta dalla condictio.

Da questo punto di vista, io credo che la difficoltà in cui è incorsa ed incorre la dottrina nel tentativo di identificare – come peraltro credo si debba – le rispettive aree di autonomia concettuale del subesse causa, del suna@llagma e della datio vada ricercata nella mancata percezione della valenza essenzialmente procedimentale e formativa di quest’ultima[114], che va intesa non già in una tendenziale equiparazione tra i contratti innominati ed i contratti reali[115], che non pare una prospettiva dogmaticamente accettabile[116] oltre che lontana dal modo di pensare dei Romani, ma nell’eterogenesi del modello dell’agere re, adoperato in questa casistica nel senso che l’intervenuta esecuzione della prestazione, una volta ricondotta all’area concettuale della disciplina procedimentale, «viene a dar forza all’accordo, a renderlo vincolante»[117].

L’obligatio re, in sostanza, s’incentra su uno spostamento patrimoniale che impone un riequilibrio di esso, per modo che l’obbligazione è, appunto, creata ‘dalla cosa’; il re fieri della fattispecie contrattuale considerata da Aristone vincola semmai ad una prestazione corrispettiva. Ciò significa che senza la datio la conventio che non transita in una figura contrattuale tipica non è idonea a creare il vincolo: come, quindi, l’indice esterno e formale di giuridicità rinforzava un contesto funzionale non immediatamente percepibile – una causa esterna, direbbero i civilisti contemporanei – nell’agere re et verbis, così nei casi in cui non emerga forte e chiara una funzione universalmente condivisa da tutte le gentes humanae – acquistare, locare, stringere società, cooperare nell’altrui sfera giuridica – e per questo a priori meritevole, i prudentes ritengono insufficiente una disciplina procedimentale puramente consensuale, e recuperano una linea di tendenza propria della civitas e mai sopita, imponendo – con la rilevanza costitutiva della datio ob rem – un indice esterno alla iuris gentium conventio non già ‘funzionalmente universale’, ma semmai ‘funzionalmente individuale’, vale a dire funzionalmente limitata ad un contesto soggettivo emerso in termini circostanziati rilevanti hic et nunc.

In sostanza, mentre il suna@llagma giustifica la nascita dell’obbligazione, la datio ne rappresenta il momento determinante, assumendo valenza formativa in quanto sottesa da iusta causa orientata ‘ob rem’, vale a dire ‘a realizzare un affare’.

Che, del resto, l’esecuzione della prestazione possa, a determinate condizioni, atteggiarsi a coelemento di un meccanismo formativo di fattispecie contrattuale è alla base – a voler cogliere un possibile nesso con una prospettiva teorica contemporanea –del dato normativo confluito nell’art. 1327 cod. civ., la cui peculiarità risiede, come si è esattamente rilevato, nel fatto che «la sequenza ha termine con un atto reale»[118], vale a dire l’inizio dell’esecuzione, da intendersi come «un tipico esempio di negozio attuativo»[119]. Ed è appunto in questo quadro che si può parlare di re fieri per un approccio alla disciplina formativa delle figure contrattuali innominate romane: in questo contesto la conventio si qualifica ‘iuris gentium’ perché ad essere universalmente riconosciuto da tutte le gentes humanae è non tanto il suo contenuto, quanto forse l’idea stessa dell’autonomia privata, vale a dire la libertà di dar vita, entro certi limiti, a figure contrattuali diverse da quelle già riconosciute dall’ordinamento, finanche a configurare, se vogliamo, una sfera di ‘autonomia procedimentale’.

In sostanza, il riconoscimento di rilevanza costitutiva alla datio ob rem, intesa come meccanismo formativo della fattispecie contrattuale sine nomine, implica che l’esperienza giuridica romana non nega a priori la libertà negoziale né ove incidente sulla determinazione dei contenuti dell’atto, né ove incidente sui relativi meccanismi formativi. I prudentes impongono, se vogliamo, in questo caso un doppio indefettibile controllo: quello sulla causa, e quello incidente sull’esistenza di un indice esterno e formale di giuridicità, che rappresenta – quale concreto avvio della realizzazione del complessivo assetto d’interessi, rilevante sul piano procedimentale – la serietà delle parti nell’assunzione del vincolo. Vincolo che, per Aristone, è comunque l’obligatio: negli esempi addotti, si riscontra una funzione di scambio, la quale, pur non essendo universalmente riconosciuta da tutte le gentes humanae, è suggellata dall’esecuzione della prima prestazione programmata, che perfeziona la fattispecie contrattuale e fa sì che la iuris gentium conventio rientri, pur in assenza di nomen edittale, nel novero di quelle quae pariunt actionem.

 

 

8. – La ‘risposta’ di Aristone a Celso e le sue implicazioni sostanziali

 

Nella prospettiva via via emersa, non credo che Aristone, nel rispondere a Celso, facesse riferimento alla posizione espressa da quest’ultimo in un testo assai noto[120], che è bene avere sott’occhio:

 

Cels. [3] <8> dig. D. 12.4.16: Dedi tibi pecuniam, ut mihi Stichum dares: utrum id contractus genus pro portione emptionis et venditionis est, an nulla hic alia obligatio est quam ob rem dati re non secuta? in quod proclivior sum: et ideo, si mortuus est Stichus, repetere possum quod ideo tibi dedi, ut mihi Stichum dares. finge alienum esse Stichum, sed te tamen eum [tradidisse] <mancipio dedisse>: repetere a te pecuniam potero, quia hominem accipientis non feceris: et rursus, si tuus est Stichus et pro evictione eius promittere non vis, non liberaberis, quo minus a te pecuniam repetere possim.

 

In linea di principio, tenderei ad escludere che l’argomentazione del giurista esprimesse una sorta di avversione, sua o comunque della scuola proculiana, per il riconoscimento di una tutela in via d’azione per l’ipotesi dell’inadempimento della controprestazione nelle fattispecie contrattuali sinallagmatiche sine nomine. A me pare, piuttosto, che la soluzione individuata in D. 12.4.16 debba rimanere confinata alla peculiarità della fattispecie, e come tale fosse percepita nella comunità scientifica dei prudentes: l’argomentazione del giurista, invero, non lascia trasparire il ricorso ad una specifica opzione concettuale applicabile in termini tendenzialmente generali. Invero, nel caso dell’attribuzione di una somma di denaro per vincolare l’accipiente a trasferire la proprietà di uno schiavo, il giurista ragiona essenzialmente domandandosi se possa dirsi che la datio pecuniae stia all’emere come lo Stichum dare sta al vendere[121], così da ‘rapportarsi’ la convenzione non tanto a contratto ‘prossimo’ alla compravendita nominata, ma appunto a questa precisa figura[122], oppure «qui» – vale a dire nella peculiarità del caso considerato, ed ‘isolando’ di conseguenza la propria interpretazione[123] – non sorga altra obligatio, se non quella restitutoria: ed egli è ‘più proclive’ a questa seconda soluzione, escludendo l’integrazione di una venditio, in quanto – come rilevavano già i Glossatori, ed in specie Azzone – è contra naturam venditionis che il venditor sia tenuto a rem accipientis facere[124].

Nondimeno, l’assetto d’interessi è sostanzialmente sovrapponibile, sul piano del suo significato economico-sociale, alla compravendita: ed è proprio questa la ragione che sottende l’argomentazione celsina, costruita non già per prossimità, ma – come si rilevava – pro portione: ed allora, almeno a mio parere, in quest’ordine di idee non sorge altra obligatio se non quella restitutoria, protetta con la condictio ob rem dati re non secuta, unicamente perché, nella prospettiva del giurista, le parti finiscono per optare per uno schema atipico nonostante l’ordinamento preveda uno schema tipico ad esso in tutto equivalente sul piano economico-sociale, senza che emerga una qualche nota di meritevolezza di questa opzione incidente su quello – come oggi si tende a dire – economico-individuale.

Invero, qui l’autonomia privata su discosta dallo schema nominato dell’emere vendere innanzitutto sul piano della sua disciplina sostantiva, ove si consideri che la programmazione di un vincolo a dare Stichum, irriducibile a quello di rem mancipio dare delineato da Gai 4.131-131a e Papin. 27 quaest. D. 22.1.4 pr.[125], snatura il significato funzionale della compravendita. Una volta esclusa la venditio, peraltro, la convenzione si discosta dalla figura tipica, quasi per corollario, anche sul piano della disciplina formativa, in quanto la datio pecuniae si palesa non già come (attuativa di) un’emptio[126], e quindi come solutio di un prezzo, ma come effettuata ‘ob rem’: è l’id quod actum est, in sostanza, che porta a leggere nell’attività negoziale delle parti un atto reale in luogo di quello tipico puramente consensuale[127].

Tutto questo presenta un’intrinseca difficoltà: sino a che punto l’autonomia privata può disporre del tipo negoziale configurato – sul piano funzionale come formativo – dall’ordinamento? E qual è il confine tra mera modificazione arbitraria del tipo edittale nominato, e genesi di una figura innominata, e quindi, se vogliamo, tra ‘anomalia’ ed ‘atipicità’? Sono queste le difficoltà che inducono il giurista a dichiararsi semplicemente ‘più proclive’ alla lettura che esclude qualsiasi obligatio, fuorché quella restitutoria, sicché delle due l’una: o questo contractus genus si riporta ‘proporzionalmente’ alla compravendita, e solo ad essa, oppure determina mera dazione ripetibile.

In altri termini, l’astratta possibilità di dar vita ad una convenzione atipica civilisticamente rilevante – che Celso non nega, ma semmai dà per presupposta nel suo ragionamento – non equivale a modificare arbitrariamente un tipo edittale per raggiungere in fin dei conti un risultato che si palesa economicamente ininfluente: altro è la convenzione sine nomine, altro è la modificazione del tipo, che deve considerarsi tendenzialmente indisponibile. Tendenzialmente: perché Celso sembra rilevare solo una debolezza funzionale – non un’assenza: ché in caso di esatta attuazione della controprestazione, non sarebbe sorto alcun problema; d’altronde, egli qualifica espressamente la convenzione come ‘contractus genus – nella convenzione programmata, non sorretta nemmeno dal pur presente indice esterno dell’intervenuta datio pecuniae, in quanto le parti disponevano di uno schema tipico – che appunto appare modificato in termini ultimativamente arbitrari – economicamente sovrapponibile a quello realizzato.

Ed è in quest’ottica – escludendo, pertanto, che le parti non avessero raggiunto l’accordo sul prezzo[128] – che può altresì osservarsi come, se coglieva un profilo senza dubbio di centrale rilevanza Azzone, insistendo sull’incompatibilità di un vincolo a rem accipientis facere con la natura venditionis, non avesse allo stesso tempo tutti i torti neppure Giovanni Bassiano, che incentrava la propria lettura sul problema del rapporto tra tipicità della figura ed autonomia privata[129].

Quanto osservato trova conferma nelle tres rationes che la scienza giuridica medievale rintracciava nella seconda parte della legge dedi tibi.

E difatti, consegue da quanto osserva il giurista che la fattispecie realizzata non è né vendita, né altro, né sullo sfondo emerge – nemmeno a livello di problema – la tutela con l’actio auctoritatis[130]: con la duplice conseguenza di considerare ripetibile la datio pecuniae nel caso della mors servi inimputabile (dovendosi altrimenti ritenere irripetibile, in quanto la scuola proculiana professava invariabilmente la regola del periculum emptoris); e di ritenere non realizzato lo scambio – con conseguente persistente esperibilità della condictio – ove sia fatta la mancipatio di un servus alienus o, specularmente, il dans rifiuti di promittere pro servi evictione. Dal primo punto di vista, l’arbitrario discostamento dall’equivalente schema nominato implicherebbe uno stravolgimento della regola di rischio riconosciuta dalla scuola proculiana nella compravendita[131]; dal secondo punto di vista, il giurista individua – sfruttando, e non a caso, il modello della fattispecie nominata – nel duplice ed inscindibile rapporto tra legittimazione a disporre e promissio per il rischio del fatto evizionale – ovvero due facce della stessa medaglia – l’indice di serietà di una convenzione ai limiti della meritevolezza nella sua, per così dire, ‘arbitraria atipicità’. Anche quest’ultima precisazione, allora, deve ritenersi classica[132]: in sostanza, la debolezza funzionale della convenzione – debolezza più significativa di quella che di per sé connota le convenzioni sine nomine, che infatti abbisognano dell’indice esterno e formale di giuridicità – giustifica unicamente l’esatta realizzazione dello scambio programmato[133].

Ed allora, da D. 12.4.16 non si può desumere che Celso ignorasse la tutela apprestata già da Labeone per le convenzioni sine nomine – che mostra di conoscere perfettamente tanto nel tratto confluito in Cels. 8 dig. D. 19.5.2[134], escerpito, secondo il Lenel, da una discussione in tema di aestimatum[135], quanto in Pomp. 11 ad Sab. D. 13.6.13.2[136] – né dunque, se non per ingiustificata generalizzazione, si può inferire che egli – o comunque la scuola proculiana, di cui è in sostanza l’ultimo corifeo – negasse in linea di principio tutela in ius concepta per l’inadempimento della controprestazione[137], né che le riconoscesse, al limite, un «carattere sussidiario, in mancanza della possibilità di utilizzare, nel caso specifico, un’azione edittale tipica»[138].

Semmai, mi pare colgano uno spunto significativo alcune ricostruzioni che, pur muovendo da diverse vie d’indagine, giungono a leggere ‘in filigrana’, nel pensiero celsino ed in particolare nel problematico tratto confluito in D. 19.5.2, il riconoscimento di tutela in ius concepta mediante il ricorso ad un criterio di prossimità del caso concreto a quello tipizzato nell’editto[139]: in sostanza, Giuvenzio Celso da un lato rifiuta il riconoscimento di figure sine nomine arbitrariamente distanti da schemi tipici economicamente equivalenti, così affermando a tutte lettere la (tendenziale) indisponibilità del tipo (Cels. D. 12.4.16); dall’altro, ove l’opzione dell’autonomia privata non possa dirsi un arbitrario abbandono della ‘via maestra’ costituita dalle figure tipiche, si apre al riconoscimento sulla base di un criterio di prossimità – che va tenuta ben distinta dalla mera modifica del tipo edittale – a queste ultime (Cels. D. 19.5.2 e Pomp.-Cels. D. 13.6.13.2).

In questo quadro, sarei più propenso a ritenere che a questo tendenziale criterio ‘di prossimità’ Aristone opponesse un più appropriato criterio ‘normativo’, imperniato su una rilettura del suna@llagma labeoniano e con esso – come vedremo a breve – su una ben precisa linea di continuità, a livello di tecnica formulare, dell’agere praescriptis verbis nella civilis incerti actio da lui proposta[140]. Mi pare più probabile, in sostanza, che un primo, assai lato significato della ‘risposta’ di Aristone a Celso sia da intendersi nel senso che, nei casi considerati nella sua argomentazione, debba sempre ritenersi sussistente l’obligatio civilis, con conseguente tutela in ius concepta, escludendo così radicalmente quella in factum[141], alla quale i prudentes dovevano ricorrere, caso per caso ed al di fuori di una vera e propria dissensio tra le due scuole sul tema dei contratti innominati[142], ove non ritenessero appropriata – in ragione, come dicevo, di un’eccessiva distanza della figura considerata rispetto a quella, nominata, da prendere a modello – una formula in ius adattata, per prossimità appunto, al caso concreto[143]. La prospettiva che Aristone proponeva, in sostanza, va letta non già come obiezione ad una specifica soluzione suggerita da Celso, ma come indicazione di massima per una nuova ‘lettura complessiva’ di questioni circoscritte al recupero del suna@llagma labeoniano ed alla sua attitudine, a determinate condizioni incidenti sul rapporto tra autonomia privata e disciplina tanto formativa quanto contenutistica, a creare civilis obligatio.

Viepiù, la risposta si comprende, forse, ancor meglio ove la si contestualizzi con riferimento al primo degli esempi addotti in D. 2.14.7.2, vale a dire la permutatio: riallacciandoci a quanto dicevamo all’inizio del paragrafo 7, infatti, se è vero che «la tesi sabiniana, considerando la permuta come un’ipotesi di compravendita, presentava indubbiamente il grosso vantaggio di attribuire al nostro istituto una tutela processuale fin dal momento dell’accordo attraverso la concessione delle actiones empti et venditi»[144], è allora altresì plausibile che sia da ascriversi all’area culturale proculiana la possibilità che fosse riconosciuta una tutela ulteriore rispetto alla fisiologica possibilità di condicere o, al limite, di esperire l’actio doli: «una tutela ulteriore doveva, infatti, essere concessa quanto meno attraverso actiones in factum»[145]. In questo quadro, Aristone, pur vicino alla scuola sabiniana, riconosceva – come si è osservato – come corretta la tesi proculiana, che distingueva la vendita dalla permuta, pur ritenendo quest’ultima vicina alla prima; nondimeno, doveva rimarcare l’esistenza di un’obligatio civilis, così escludendo la tutela in factum, nelle fattispecie contrattuali formate per dationes ob rem ed in particolare nella permuta. E nell’esprimere questa posizione non poteva che relazionarsi ai Proculiani, e per essi a Giuvenzio Celso: nel caso della convenzione configurata secondo lo schema del ‘do ut des’ – e quindi della permuta, ma anche del ‘do ut facias’ – sorge una civilis obligatio tutelata da una civilis incerti actio.

È dunque con Aristone, a mio avviso, che la tutela non già in factum, ma in ius concepta viene considerata senz’altro appropriata per la permutatio: precedentemente, la questione doveva rimanere controversa in area proculiana[146], non sussistendo, per la peculiare opzione adottata, ragioni di dissenso in area sabiniana. In questo contesto, il giurista – vicino alla scuola sabiniana, ma con significativi rapporti con i Proculiani – sembra quasi dar vita ad una ‘mediazione scientifica’[147]: da un lato, si discosta dai Sabiniani, ritenendo la permuta solamente vicina alla compravendita; dall’altro, suggerisce, innanzitutto per lo schema del ‘do ut des’, la sistematica ricorrenza della civilis obligatio, da tutelarsi per il tramite della civilis incerti actio, che – come vedremo meglio nei prossimi paragrafi – va ricondotta alla tutela praescriptis verbis di buona fede individuata a suo tempo da Labeone.

In sostanza, l’opzione per la rilevanza civilistica – e quindi contrattuale – della conventio deve ritenersi, dunque, limitata alle convenzioni senza nome edittale sinallagmatiche – è dal suna@llagma, ‘hinc’, che nasce la civilis obligatio – e comunque perfezionate in base al meccanismo procedimentale della datio ob rem, che il giurista augusteo non prendeva in considerazione, dato che, semmai, alla struttura formale ed all’efficacia unilaterale dell’agere  nelle sue tre species giustapponeva la struttura informale – diremmo noi, meramente consensuale – del contrahere ad efficacia bilaterale. 

 

 

9. – La rilettura aristoniana del suna@llagma di Labeone: dal rapporto all’atto

 

Alla luce di quanto è emerso, diviene a questo punto necessario tentare di delineare in quali termini si ponga la linea di continuità tra il suna@llagma labeoniano (D. 50.16.19) e quello cui fa riferimento Aristone in D. 2.14.7.2, la quale, pur se innegabilmente presente, mi pare nondimeno rimeditata da un duplice punto di vista.

Per un verso, infatti, il giurista traianeo, nell’affermare l’idoneità delle convenzioni innominate sinallagmatiche a produrre civilis obligatio, tiene presente, sul piano della causa, unicamente[148] quelle in cui si riscontra un suna@llagma rigorosamente commutativo[149], cui resta estraneo, a mio modo di vedere, il suna@llagma associativo. Ed invero, il suna@llagma associativo si connota per una valenza per così dire ‘centripeta’ dello scambio, che indirizza le obligationes reciprocamente assunte dai soci ad un’«attività di gestione», il cui risultato è programmaticamente imputato ai soci stessi «mediante la divisione degli utili e delle perdite»[150]: quando Labeone ricordava, accanto alla vendita ed alla locazione, anche la societas, egli ravvisava un comune denominatore nella reciprocità delle obbligazioni[151]; del modello della societas, recuperando l’idea dell’ultro citroque obligatio non già sul piano degli effetti, ma su quello programmatico e normativo del contenuto della fattispecie, Aristone fa invece a meno.

Per altro verso, egli recupera la prospettiva labeoniana riportandola dal rapporto all’atto, così da riconoscere al suna@llagma, come si è esattamente rilevato[152], una funzione normativa: il che ha un suo significato teorico e pratico incidente sull’apertura del sistema romano dei contratti alle figure innominate.

Premetto di condividere, al riguardo, la ricostruzione secondo la quale gli interventi di Labeone «si situano tutti in zone di confine o comunque vicine a figure contrattuali sicuramente riconosciute o protette, nelle quali non rientravano per ragioni spesso di fatto ma anche di qualificazione giuridica. La concessione di un’azione in sostituzione di quella contrattuale avviene, qui, in base a questa somiglianza: è, in un modo o nell’altro, l’adattamento dell’azione che sarebbe spettata, ove non vi fossero stati gli impedimenti di fatto o le incertezze di diritto riscontrato nel caso discusso»[153]. Ed in questa prospettiva, «l’azione così concessa è, sempre, l’adattamento di un iudicium bonae fidei od è comunque modellata su un tale iudicium»[154]. A questo criterio di prossimità, come si è visto, abbiamo correlato l’ermeneutica edittale, e l’approccio alla tecnica formulare, di Giuvenzio Celso, ipotizzando che la risposta di Aristone incidesse, in via generale ed al di fuori da una polemica su una particolare soluzione prospettata, sulla possibilità di recuperare un criterio normativo fondato sul suna@llagma labeoniano.

Ed infatti, è la riconduzione aristoniana del suna@llagma dalla corrispettività di rapporti al contenuto funzionale dell’atto a consentire un quid pluris sul piano delle ricadute pratiche della via aperta da Labeone: ovvero, riconoscere ‘de principe’ tutela in ius concepta alle convenzioni sinallagmatiche innominate – o, meglio, ad alcune di esse, vale a dire quelle che si perfezionano, sul piano della disciplina formativa, con l’esecuzione di una prestazione in dando – alla luce della possibilità di valutare la vicinitas alle fattispecie tipiche non già ‘a valle’, cioè sul piano dell’ultro citroque obligatio, ma semmai ‘a monte’, cioè su quello della loro peculiare dimensione causale. Sicché, rispetto alla dottrina or ora ricordata, il dissenso cade – come avremo modo di vedere nel prossimo paragrafo – unicamente sull’inconfigurabilità, nella soluzione aristoniana in D. 2.14.7.2, di un iudicium bonae fidei in stretta continuità processuale con l’agere praescriptis verbis labeoniano[155].

In sostanza, la prospettiva ricostruttiva di Aristone emergente da D. 2.14.7.2 s’incentra su due perni, che configurano l’autonomia privata in rapporto tanto al procedimento formativo, quanto al profilo funzionale della fattispecie contrattuale formata.

Il primo perno, rilevante sul piano della disciplina essenzialmente procedimentale, è la datio, che chiude la sequenza formativa della figura contrattuale, e che nell’impostazione labeoniana non assumeva alcuna specifica rilevanza in questa specifica prospettiva; il secondo, rilevante sul piano funzionale, inerisce invece al contenuto della figura contrattuale, e si identifica nel suna@llagma inteso in senso normativo ed in una logica strettamente commutativa[156]. La disciplina formativa e funzionale delle figure contrattuali innominate passa dunque dal piano del giudizio di prossimità a quelle nominate al piano dello scambio in senso normativo suggellato dall’esecuzione di una delle prestazioni programmate.

Sarà Ulpiano, muovendo dal suna@llagma aristoniano, a riconoscere più in generale l’adeguatezza funzionale delle iuris gentium conventiones prive di nomen in base ad un subesse causa che contiene in sé il suna@llagma, ma si apre allo stesso tempo alla valutabilità di un qualsiasi altro assetto d’interessi che appaia meritevole con la lente dell’interpretatio. E dunque, Aristone recupera l’esigenza, tipica del riconoscimento quiritario del concetto stesso di obligatio, di ricorrere ad un indice esterno e formale di giuridicità ogni qual volta le figure che Labeone riconduceva a contrahere non rientrino negli schemi, tipici, consensuali ed informali, recepiti dal ius gentium, sicché vi riconosce l’obligatio al di fuori di un criterio valutativo casistico di prossimità purché sul piano funzionale sia riconoscibile uno scambio – inteso in senso normativo, come si diceva – suggellato, sul piano formativo, dal suo concreto avvio.

La distanza da Labeone incide, dunque, sia sul piano procedimentale sia su quello contenutistico: Aristone ne segue, nondimeno, come ora immediatamente vedremo, le tracce per quanto concerne la configurazione – sul piano della tecnica formulare – delle tutele esprimibili.

Restano, ad ogni modo, al di fuori dall’interpretazione aristoniana le convenzioni senza nome non sinallagmatiche[157], tra cui quelle unilateralmente produttive di obligatio in conseguenza dell’attribuzione, con valenza procedimentale, di naturalis possessio, e le convenzioni, ancorché sinallagmatiche, perfezionate con l’intervenuta prestazione di un facere. Se, del resto, si considera che l’attribuzione di disponibilità non traslativa, sul piano della dogmatica della prestazione[158], è, in fin dei conti, il risultato di un facere, tra le due classi di ipotesi non v’è un abisso: per le prime – e penso, per fare solo un esempio, alla datio ad inspiciendum[159], per la quale si discuteva se fosse similis al comodato oppure al deposito – sarà la giurisprudenza severiana, di pari passo con la riconduzione a figure di contractus del comodato e del deposito stessi, ricordati nel fr. 7.1, a sfruttare ulteriormente la risorsa ormai in espansione, dopo la svolta aristoniana, dell’actio praescriptis verbis, a volte reinterpretando spunti già labeoniani; per le seconde, la tutela in questi termini, a leggere quanto confluito in Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.3-4[160], parrebbe prospettiva ancora scientificamente calda tra il II e III secolo, fors’anche perché appunto il facere eseguito per vincolare la controparte ad una prestazione corrispettiva non rientrava nel modello aristoniano. L’estensione di questo modello di tutela ha comunque alla fine costituito, anche in questi casi, un punto d’arrivo ineludibile una volta riconosciuta l’attitudine del suna@llagma a comprendere in sé non solo la datio ob rem, ma anche, se vogliamo, il ‘facere ob rem[161].

Quanto rilevato – è forse il caso di evidenziarlo – non significa, ad ogni modo, che Aristone, al di fuori delle dationes ob rem, negasse a priori la configurabilità di civilis obligatio: semmai, sarei propenso a ritenere che lasciasse la questione aperta alla valutazione dei casi concreti, ritenendo per converso acquisito questo esito interpretativo con riferimento alle figure perfezionate per tramite di datio ob rem.

 

10. – La prospettiva aristoniana dal punto di vista della tecnica formulare

 

Nell’ottica sinora tratteggiata emerge un problema alquanto discusso in dottrina[162], tanto più ove si ritenga di potersi discostare dalla posizione di chi, con problematico approccio alle fonti a nostra disposizione, considera la tutela in factum concepta l’unica esprimibile almeno sino a Giuliano[163]. Ci si chiede, dunque, quale sia la struttura formulare a protezione dell’obligatio, che nella parte finale di D. 2.14.7.2 è rapportata da Ulpiano, che cita Mauriciano, ad una civilis incerti actio.

Sul punto, ritengo plausibile, innanzitutto, che Mauriciano semplicemente seguisse la posizione di Aristone in ordine al riconoscimento della tutela per la convenzione sinallagmatica senza nome,  e l’estendesse – come vedremo nel prossimo paragrafo – ad un contesto particolare, incidente sull’evizione dell’ob rem datum, esplicitando altresì quanto per lui doveva esserne il prius logico, vale a dire l’identificazione del suna@llagma aristoniano con una figura contrattuale (esse enim contractum, quod Aristo suna@llagma dicit)[164].

Discutere, dunque, della tutela proposta da Mauriciano significa per me discutere del perimetro applicativo della medesima struttura ipotizzata da Aristone.

Il problema fondamentale, ad ogni modo, è dato dalla conceptio verborum della civilis incerti actio. Al riguardo, è noto come in dottrina – ed in particolare, nelle coincidenti ricostruzioni del Burdese e del Talamanca – si tenda a ritenere che, mentre l’agere praescriptis verbis proposto da Labeone avrebbe senz’altro contenuto la clausola di buona fede, questa importante risorsa formulare sarebbe poi risultata impraticabile con riferimento alla civilis incerti actio di Aristone e Mauriciano[165], sicché l’ex fide bona sembrerebbe quasi ‘sparito’ nella rimeditazione che degli spunti labeoniani si faceva in epoca traianea[166], con una conseguente, difficilmente comprensibile rinuncia, a favore di un’azione di stretto diritto, ad una tutela – come riconosce anche la corrente di pensiero qui criticata – «molto più adeguata ed articolata»[167].

«In via preferenziale»[168], allora, sono più propenso a ritenere che anche la formula aristoniana contenesse la clausola di buona fede.

Al riguardo, ed in piena adesione alle ricostruzioni del Cannata[169] e dello Schmidlin[170], ritengo di dover chiarire, prima di andare avanti, che le espressioni ‘actio praescriptis verbis[171] o ‘agere praescriptis verbis’ e – seppur isolatamente – ‘actio civilis in factum[172] appaiono riferibili, in ultima analisi, a due diversi modi di descrivere una medesima realtà processuale, e che espressioni quali ‘actio civilis incerti’ o ‘incerti agere’, in questo fr. 7.2 come altrove[173], sembrano individuare semplicemente una tipologia processuale generale – un genus formulare – rispetto al quale la condictio incerti[174] e l’actio praescriptis verbis, accanto alle tutele ex stipulatu ed ex testamento[175], sono species[176].

In questo quadro, può accadere che, come avviene appunto in D. 2.14.7.2, i prudentes si esprimano con riferimento a volte al genus formulare, lasciandone implicita la specificazione[177], a volte alle relative species: né dunque escluderei a priori, quanto meno per gli sviluppi d’epoca severiana della questione, la fondatezza di un’acuta esegesi – che mi pare perfettamente compatibile, in linea di principio, con la corrente di pensiero qui condivisa – secondo la quale, in ultima analisi, le actiones praescriptis verbis altro non sarebbero che figure di tutela riconducibili alla categoria edittale dell’actio utilis[178], vale a dire l’azione «che viene così designata in quanto si vuole indicare che essa si modella su un’azione edittale e ne segue, nei limiti del possibile, il regime»[179]: quanto, nel nostro caso, si risolverebbe appunto – specie a ragionare sul tenore di un rescriptum di Severo Alessandro del 230[180] – nel concedere un’«azione munita di una speciale demonstratio»[181], vale a dire l’azione edittale in ius concepta ed ex fide bona prevista per tutte le figure di contratto nominato elencate da Ulpiano in D. 2.14.7.1 adattata nella conceptio verborum della demonstratio.

Queste precisazioni sono fondamentali, in quanto la loro condivisione – o meno – finisce inevitabilmente per condizionare l’esegesi delle fonti a nostra disposizione.

Ulteriormente osserverei, e quasi per conseguenza, come, sul piano terminologico, sia estremamente problematico ritenere sistematico frutto di alterazioni testuali il riferimento ai praescripta verba nelle fonti che ne fanno menzione: con specifico riferimento al nostro passo, vale a dire in D. 2.14.7.2, l’espressione ‘id est praescriptis verbis’ – che  ha tutta l’aria di un glossema esplicativo, con cui si finisce per generalizzare un’espressione di cui forse il giurista faceva a meno – parrebbe sì frutto di alterazione, ma si rivela sostanzialmente innocua, dato che, sul piano dell’intelligenza del testo, a mio parere nulla cambia[182]. Riterrei, infatti, che questo glossema compendi un’interpolazione formale, vale a dire un più ampio discorso del giurista classico in cui doveva probabilmente chiarirsi che, all’interno del genus dell’incerti agere, nel caso di specie l’azione esperibile era proprio quella praescriptis verbis.

Ciò chiarito, a me pare – come accennavo poc’anzi – che il comune denominatore processuale delle iuris gentium conventiones che in proprium nomen transeunt – vale a dire la tutela al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona – sottenda, nella prospettiva di Ulpiano, anche quelle che pariunt actionem non già in quanto nominate, ma in forza del binomio tra causa ed indice esterno e formale di giuridicità. Se, del resto, siamo di fronte pur sempre a iuris gentium conventiones – ed è questo il punto su cui non mi pare si sia sufficientemente insistito in dottrina – sarebbe ben singolare pensare che queste ultime possano dar vita a fattispecie obbligatorie protette da un giudizio di stretto diritto, che appare peculiare di rapporti giuridici propri ed esclusivi dei cives Romani, tanto più ove si consideri che la clausola di buona fede è il segno che, in tema di protezione dei rapporti obbligatori, la recezione del ius gentium nel ius civile lascia nel processo formulare.

D’altro canto, Ulpiano, cui si deve questa classificazione condotta per dicotomie successive, afferma senza alcun serio dubbio che l’actio praescriptis verbis – species, come si è detto, del genus rappresentato dall’agere incerti, e segnatamente concretizzazione processuale della civilis incerti actio in D. 2.14.7.2 –  ex bona fide oritur[183]: sicché mi pare singolare che, citando Aristone e Mauriciano per arricchire la propria prospettiva euristica, egli tenesse conto del pensiero di giuristi che in ipotesi optassero, in un più ampio contesto espositivo, per una tutela di stretto diritto nei casi considerati[184].

Per altro verso, se Aristone finiva per concordare con i diversae scholae auctores nel senso che la permutatio – oggetto del primo esempio addotto in questo fr. 7.2 – non si identificasse con la compravendita, ma fosse a questa solamente vicina, mi pare singolare, anche da questo secondo punto di vista, che egli, affermando l’esistenza dell’obligatio, perdesse di vista del tutto quanto la scuola cui era culturalmente prossimo aveva sostenuto nel I secolo: se, cioè, la permutatio era sentita come identificabile con la vendita nella prospettiva sabiniana, è evidente che in seno a quella scuola la struttura formulare prevista per la tutela del vincolo altro non sarebbe stata se non l’intentio di buona fede adoperata per le actiones ex empto ed ex vendito. Sicché sarebbe singolare pensare che Aristone non solo non seguisse, nonostante la sua vicinanza al pensiero sabiniano, la prospettiva proclive a sovrapporre le fattispecie, ma altresì pensasse, senza una plausibile giustificazione, ad una struttura formulare di stretto diritto, quando precedentemente, sempre in area culturale sabiniana, non si sarebbe neppure pensato – per ovvie ragioni – di discutere sul punto.

Ad ogni modo, riterrei che, a rinforzare le pur decisive osservazioni del Cannata, imperniate sullo scolio Maqw@n (sch. 1 di Stefano ad Bas. 11.1.7, in BS, 187), possano forse addursi alcuni ulteriori indizi nelle fonti a nostra disposizione: infatti, se mi pare ineccepibile considerare, alla luce del discorso di Stefano (ma anche del rescriptum di Severo Alessandro già ricordato), l’actio praescriptis verbis come un’azione munita di una praescriptio in funzione di demonstratio, l’esegesi del Cannata non sembra offrire, secondo me, altrettante certezze in ordine alla configurazione dell’intentio, ed in particolare in ordine alla possibilità che quest’ultima contenesse (o meno) la clausola di buona fede, come peraltro l’insigne Autore esattamente propone[185].

Per aver più chiara quest’ultima problematica, riterrei opportuno esaminare alcuni contesti – ulteriori rispetto a quelli discussi dal Cannata – in cui i prudentes si esprimono con ricorso al genus formulare dell’incerti agere in contesti riconducibili, come avviene in D. 2.14.7.2, a convenzioni sine nomine, e dunque al di fuori della casistica in cui questa espressione ricorre in termini riconducibili alla tutela ex stipulatu od ex testamento, oppure alla condictio incerti.

Al riguardo, penso, innanzitutto, che Aristone non potesse ignorare alcuni spunti emersi in area culturale proculiana: uno di questi – di particolare interesse in quanto ascrivibile ad un altro giurista traianeo, Nerazio – sembra emergere, invero, da

 

Nerat. 1 resp. D. 19.5.6: Insulam hoc modo, ut aliam insulam reficeres, vendidi. respondit nullam esse venditionem, sed civili intentione incerti agendum est.

 

Nel caso in esame si fa il caso della venditio di un’insula, posta in essere per vincolare l’acquirente alla refectio di un’altra insula. Non è in discussione, a mio parere, l’integrazione, sul piano fattuale, della fattispecie ‘venditio’: l’acquirente ha senz’altro l’obbligazione di prezzo[186]. ‘Vendidi’, infatti, significa che una venditio nominata è stata conclusa, così da creare in capo alle parti le rispettive obligationes; ma è stata pur sempre conclusa per vincolare l’emptor ad aliam insulam reficere, sicché quest’ultimo è tenuto non solo a pagare numerata pecunia, ma altresì a realizzare questa specifica attività.

È per questo che, per il giurista, la fattispecie integratasi non è una vendita: l’addivenire al contratto nominato, in sé considerato, altro non è se non una prestazione di facere – tale è il contrahere – realizzata, come si diceva, per vincolare la controparte all’aliam insulam reficere; il che mi pare, alla fine, suggerire una logica per certi versi sovrapponibile a quella che sottende l’interpretazione ulpianea – che ormai considerava contractus, con genesi dell’oportere ex fide bona, anche il comodato – del famoso caso del ‘comodato reciproco’[187], in cui l’addivenire – reciprocamente appunto – al comodato dei buoi mediante datio non traslativa integra alla fine un ‘facio ut facias’. In sostanza, Nerazio ritiene di dover indicare la figura di tutela per la fattispecie contrattuale globalmente considerata alla luce dell’id quod actum est, considerando  inadeguata una lettura, per così dire, ‘atomistica’ del caso, suscettibile di isolare la compravendita dalla sua correlazione al reficere: si tratta di un’interpretazione alquanto attenta alla percezione della realtà imprenditoriale sottostante alla compravendita immobiliare collegata con attività di demolizione, rifacimento e recupero di materiali edilizi, particolarmente significativa nel principato[188].

Ciò chiarito, nel caso esaminato da Nerazio la struttura formulare dell’actio ex vendito non consentirebbe – stante la demonstratio tipica esemplata sull’astratta configurabilità di una compravendita – al giudice di apprezzare al meglio il complessivo assetto di interessi, che integra appunto un ‘facio ut facias’, sicché Nerazio suggerisce di agere civili intentione incerti: espressione, questa, in tutto analoga a quella che figura nel discorso di Aristone (e Mauriciano) in D. 2.14.7.2. Orbene, a me sembra singolare che Nerazio, per consentire l’apprezzamento di una fattispecie più ampia della venditio, che di per  sé rappresenta semplicemente una prestazione di facere (sub specie di un contrahere) già realizzata in funzione di vincolare l’emptor ad un reficere, perdesse di vista l’importanza di conservare, in questa civilis intentio, la clausola di buona fede.

Sulla scia delle tutele con praescripta verba che riconosceva praticabili Labeone in contesti non esattamente riconducibili alla figura tipica, che in dottrina sono normalmente ricostruite con clausola di buona fede, non vedo ragioni perché Nerazio, scolarca proculiano, accordasse una tutela di stretto diritto nel caso considerato[189]: è il medesimo criterio di prossimità celsino – al centro della presa di posizione aristoniana – a governare la soluzione sul piano dell’approccio all’ermeneutica edittale ed alla gestione delle risorse offerte dalla tecnica formulare. Ed allora, come la permutatio è vicina emptioni, così la venditio realizzata per vincolare ad un reficere appare pur sempre fattispecie prossima, per connessione, alla figura tipica: né nell’uno, né nell’altro caso mi pare emergere una ragione per pensare che la struttura formulare utilizzabile non prevedesse la clausola di buona fede.

In sostanza, il civili intentione incerti agere di Nerazio descrive, sul piano della tecnica formulare appropriata, la conceptio verborum della civilis incerti actio del discorso di Aristone e Mauriciano[190]: quella tutela, cioè, che Aristone proponeva di generalizzare nella sussistenza dei due perni, l’uno funzionale, il suna@llagma, l’altro procedimentale, la datio, che integrano la figura contrattuale sine nomine riconoscendole cittadinanza nel ius civile, o meglio nel rapporto di esso con il ius gentium.

Un’analoga chiave di lettura, quindi, sottende, a mio parere, l’argomentazione di Pomponio conservata in

 

Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16 pr.: Permisisti mihi cretam eximere de agro tuo ita, ut eum locum, unde exemissem, replerem: exemi nec repleo: quaesitum est, quam habeas actionem. < ? > sed certum est civilem actionem incerti competere: si autem vendidisti cretam, ex vendito ages. quod si post exemptionem cretae replevero nec patieris me cretam tollere tu, agam ad exhibendum, quia mea facta est, cum voluntate tua exempta sit.

 

Siamo di fronte, anche in questo caso, ad un ‘facio ut facias’: un cretam eximere permittere correlato ad un replere. Tu consente ad Ego estrarre creta dal proprio fondo, con l’intesa che quest’ultimo procederà a riempire la cava oggetto dell’attività estrattiva, evidentemente con un sostrato – mi pare appena il caso di insistervi – diverso dalla creta stessa. L’interesse è allora bilaterale[191]: Ego può estrarre la creta, Tu può sostituire alla creta un sostrato diverso, forse utile alla coltivazione. La convenzione è perfezionata, sul piano formativo, nel momento in cui Ego estrae la creta, che segna il momento dell’intervenuta esecuzione della prestazione di Tu, il quale doveva semplicemente permittere questa attività. Nondimeno, Ego non procede al rinterro della cava: si chiede dunque quale azione spetti a Tu.

Mi pare ragionevole ipotizzare, innanzitutto, che il tratto contenente la quaestio sia caduto, e che i Compilatori ci abbiano restituito unicamente la soluzione di Pomponio, secondo cui spetta senz’altro una civilis actio incerti. Qui, a ben vedere, Pomponio tiene presente Aristone, ma va oltre, riconoscendo la tutela in ius in un contesto non esattamente riconducibile né al ‘do ut des’, né al ‘do ut facias[192]; nondimeno, quel che ci interessa è che, ad ogni modo, nel caso in cui Tu non si sia limitato a cretam eximere permittere, ma abbia venduto la creta, sempre con l’intesa – data per presupposta nel complessivo andamento del passo – in ordine al successivo rinterro, l’inadempimento dell’acquirente – che va riferito non certo all’inadempimento dell’obbligazione di pagare la creta, ma appunto di procedere altresì al rinterro – sembra rientrare senza problemi nella tutela ex vendito.

Questa posizione merita un approfondimento.

E difatti, a fronte di una venditio cretae correlata ad una prestazione di locum replere naturalisticamente riferibile alla rimessione in pristino, se non forse, come è ben più probabile, al miglioramento dello stato dei luoghi mediante sostituzione della creta con altro materiale, non sembra emergere la peculiarità che induceva Nerazio ad escludere la tutela ex vendito per l’ipotesi di una venditio insulae conclusa al fine di vincolare l’acquirente ad aliam insulam reficere: al riguardo, più che ad un ius controversum, riterrei che la specifica configurazione dell’assetto d’interessi nel caso esaminato da Pomponio non fosse tanto incisiva da snaturare la struttura essenziale della compravendita, imponendo al compratore una semplice prestazione accessoria di buona fede. E dunque, mentre il rinterro della cava da cui è estratta la creta è naturalisticamente necessario e, come tale, non può non rientrare nei vincoli imposti dalla buona fede all’emptor, l’aliam insulam reficere non può considerarsi tale, in quanto semmai risponde ad una logica di squisite cointeressenze imprenditoriali, sicché la tutela ex vendito è inadeguata, e si deve ricorrere ad un civili intentione incerti agere.

A questo punto, però, se si considera che la civilis incerti actio e l’actio ex vendito sono individuate da Pomponio, ciascuna in ragione del concreto atteggiarsi dell’id quod actum est, non già per consentire la ripetizione (del valore) di un incertum, ma per una medesima invariabile funzione, vale a dire tutelare l’interesse positivo di Tu al rinterro della cava, mi pare singolare che solo la seconda, e non anche la prima, contenesse la clausola di buona fede[193]. La civilis incerti actio altro non è, in ultima analisi, se non – passando dal genus alla species – l’actio praescriptis verbis.

In prosieguo di tempo, e segnatamente per epoca severiana, mi pare dunque in linea con questa lettura l’espressione ‘fides contractus’ che, a proposito di una fattispecie contrattuale sine nomine, viene utilizzata da Papiniano in connessione proprio con l’incerti actione teneri, come risulta bene da

 

Papin. 11 resp. D. 19.5.9: Ob eam causam accepto liberatus, ut nomen Titii debitoris delegaret, si fidem contractus non impleat, incerti actione tenebitur. itaque iudicis officio non vetus obligatio restaurabitur, sed promissa praestabitur aut condemnatio sequetur.

 

Siamo di fronte, ancora una volta, ad un ‘facio ut facias’, riconducibile alla casistica genericamente riconducibile ai debitores exigendi, per la quale Paolo, in D. 19.5.5.4, considerava più sicuro accordare la tutela con l’actio praescriptis verbis. E difatti, una remissione formale è posta in essere, in modo che il debitore liberato ceda il titolo vantato nei confronti di un terzo. Contro il debitore formalmente liberato è esperibile un’actio incerti, che risulta connessa, come si diceva, alla fides contractus, ritenuta violata in caso di inadempimento della controprestazione correlata alla vicenda estintiva. Una volta esclusa, ed esattamente[194], la riconducibilità della tutela ad actio incerti ex stipulatu, mi pare dunque difficile che la struttura formulare prescindesse dalla clausola di buona fede[195]: profilo, questo, che fra l’altro induce a ritenere come il nesso forte – che comunque non considero identità – tra l’impostazione labeoniana e quella aristoniana non sia limitato ad aspetti puramente sostanziali, ma anche – lo si diceva – processuali.

In questo quadro, mi pare che alla fine esprima bene il rilevato rapporto di genus ad speciem sul piano formulare quanto leggiamo in

 

Papin. 27 quaest. D. 19.5.8: Si dominus servum, cum furto argueretur, quaestionis habendae causa aestimatum dedisset neque de eo compertum fuisset et is non redderetur, eo nomine civiliter agi posse, licet aliquo casu servum retenturus esset, qui traditum accepisset. potest enim retinere servum, sive dominus pro eo pecuniam elegisset sive in admisso deprehensus fuisset: tunc enim et datam aestimationem reddi a domino oportere. sed quaesitum est, qua actione pecunia, si eam dominus elegisset, peti posset. dixi, tametsi quod inter eos ageretur verbis quoque stipulationis conclusum non fuisset, si tamen lex contractus non lateret, praescriptis verbis incerti et hic agi posse, nec videri nudum pactum intervenisse, quotiens certa lege dari probaretur.

 

In questo caso, in cui si discute della tutela «per richiedere la stima dello schiavo sospettato di furto e dato stimato perché fosse sottoposto in merito a quaestio»[196], l’espressione ‘praescriptis verbis incerti’[197], con la giustapposizione dei praescripta verba che connotano la demonstratio all’incertum che connota l’intentio, mostra come, per il giurista, fosse normale considerare questa specifica tutela – vale a dire l’actio praescriptis verbis – come appunto una species dell’agere incerti. Quand’anche le parti non abbiano fatto ricorso alla verborum obligatio, purché la lex contractus non risulti inespressa, «anche qui» – dice Papiniano: e dunque, ‘qui come in altri casi’ – è possibile agire con intentio indeterminata utilizzando la struttura formulare in ius concepta che impone i praescripta verba in funzione di demonstratio. Ma l’intentio, considerato che la tutela non è data in funzione restitutoria della datio servi[198], ma per ottenere la stima del servo, aspetto che, a mio parere, presenta una specifica e significativa sinapsi con un assetto commutativo non eccessivamente distante da una venditio, non può non contenere la clausola di buona fede[199].

In quest’ordine di idee, che risulta chiaramente recepito dalla cancelleria dioclezianea[200], mi pare quindi problematico l’accostamento del ragionamento di Aristone in D. 2.14.7.2 a quello – tramandato tramite Nerazio – che leggiamo in

 

Ulp. 38 ad ed. D. 13.1.12.2: Neratius libris membranarum Aristonem existimasse refert eum, cui pignori res data sit, incerti condictione acturum, si ea subrepta sit.

 

Nel caso in esame, Ulpiano cita Nerazio, il quale ricorda che, secondo Aristone, al creditore pignoratizio derubato sarebbe spettata una condictio incerti. Il che è plausibile: il dominus rei subreptae, oltre che dell’actio furti, può valersi della condictio furtiva, rimedio in personam offerto contro il ladro onde non costringere il derubato ad agire in petitorio ove intenda cumulare al rimedio penale quello reipersecutorio. Ma mentre per il dominus il parametro di stima della condemnatio è dato dal valore del bene, per il creditore pignoratizio derubato del pegno stesso questo valore patrimoniale è dato dall’interesse a disporre della garanzia: a non essere spogliato di essa. Di qui l’utilità di agire sul modello della condictio furtiva[201], ma con adattamento dell’intentio ad un incertum petere ultimativamente riconducibile ad un «rimedio processuale per perseguire l’arricchimento ingiustificato»[202].

Chiarito, quindi, il significato della posizione di Aristone, osserverei come, in fin dei conti, l’agere incerti sia una generica categoria espositiva con la quale i giuristi descrivono la necessità di ricorrere – muovendoci su un piano generalissimo della tecnica formulare – ad una formula civile con intentio indeterminata, e conseguente (indefettibile) demonstratio[203]: formula che, a seconda dei contesti, potrà configurarsi in una species di stretto diritto, come ci attendiamo per una figura di condictio, oppure in una species di buona fede, come invece ci possiamo attendere ove si discuta della protezione dell’interesse positivo all’esecuzione di rapporti obbligatori sorgenti da fattispecie contrattuali che hanno in sé una iuris gentium conventio[204].

Ed è dunque in questa prospettiva che non mi pare possa affermarsi l’esistenza, per diritto classico, di due distinte formulae, l’una di buona fede, l’altra di stretto diritto, rispettivamente inerente all’agere praescriptis verbis labeoniano, ed alla civilis actio incerti indicata da Aristone, prevista per la tutela dell’interesse alla controprestazione radicantesi in capo al dans ob rem[205]: semmai, all’interno del genus formulare dell’incerti agere, emergono le species della condictio incerti da un lato, e dell’actio praescriptis verbis contrattuale dall’altro, così qualificata con la terminologia che si consolida – in conseguenza della ‘codificazione’ dell’editto giulianeo? – a partire, forse, da Pomponio[206], «secondo una scelta mai attestata in precedenza»[207]. Su quest’ultimo, specifico, punto, del resto, a me pare tutto sommato plausibile ritenere che, una volta entrata nell’ordinario una terminologia che, con Aristone, qualifica come ‘actio’ l’incerti civili intentione agere, qualificare a sua volta come ‘actio’ una sua species fosse un utile corollario, che consentiva di individuare come figure di tutela correnti e distinte tanto il rimedio restitutorio di stretto diritto quanto il rimedio di buona fede.

Queste ultime, all’evidenza, sono peraltro veicolate da formulae costruite per rispondere a due funzioni pratiche radicalmente distinte dell’agere incerti, che non mi pare possano realmente intersecarsi: in sostanza, a me pare in fin dei conti abbastanza agevole percepire come altro sia la previsione di un’actio incerti – che si contestualizza nella sua species dell’actio praescriptis verbis – a protezione di un’interesse positivo – il valore dell’interesse all’esecuzione della prestazione correlata alla datio in D. 2.14.7.2 –, altro la previsione di una condictio incerti, che rappresenta, nelle fonti a nostra dosposizione, un rimedio restitutorio incidente su ambiti extracontrattuali[208], che Aristone ricordava in un contesto in cui si rendeva necessario adattare la struttura formulare della condictio furtiva.

Anche da questo punto di vista, è davvero significativa la distanza tra la condictio incerti che Aristone accorda al creditore pignoratizio derubato, e l’actio incerti esperibile dal dans in D. 2.14.7.2. Siamo però giunti, a questo punto, a dover procedere all’esegesi della seconda parte del passo: infatti, il secondo esempio addotto da Aristone equipara alla permutatio il dedi ut aliquid facias, che è al centro del caso – discusso, come vedremo, anche da Papiniano – della datio funzionale a vincolare la controparte a procedere alla manumissio di un proprio servus.

 

 

11. – Il significato della ‘critica’ di Mauriciano a Giuliano

 

Esaminiamo ora la seconda parte del passo di cui abbiamo avviato l’esegesi nel paragrafo 7. Al riguardo, sarà bene averlo ancora sott’occhio:

 

Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.2: Sed et si in alium contractum res non transeat, subsit tamen causa, eleganter Aristo Celso respondit esse obligationem. ut puta dedi tibi rem ut mihi aliam dares, dedi ut aliquid facias: hoc suna@llagma esse et hinc nasci civilem obligationem. et ideo puto recte Iulianum a Mauriciano reprehensum in hoc: dedi tibi Stichum, ut Pamphilum manumittas: manumisisti: evictus est Stichus. Iulianus scribit in factum actionem a praetore dandam: ille ait civilem incerti actionem, [id est praescriptis verbis] sufficere: esse enim contractum, quod Aristo suna@llagma dicit, unde haec nascitur actio.

 

Il passo va correlato con almeno altri due loci paralleli del Digesto in cui si discute della medesima fattispecie contrattuale, vale a dire

 

Papin. 2 quaest. D. 19.5.7: Si tibi decem dedero, ut Stichum manumittas, et cessaveris, confestim agam praescriptis verbis, ut solvas quanti mea interest: aut, si nihil interest, condicam tibi, ut decem reddas.

 

nonché la parte finale di

 

Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.2: At cum do ut facias, si tale sit factum, quod locari solet, puta ut tabulam pingas, pecunia data locatio erit, sicut superiore casu emptio: si rem <do>, non erit locatio, sed nascetur vel civilis actio in hoc quod mea interest vel ad repetendum condictio. quod si tale est factum, quod locari non possit, puta ut servum manumittas, sive certum tempus adiectum est, intra quod manumittatur idque, cum potuisset manumitti, vivo servo transierit, sive finitum non fuit et tantum temporis consumptum sit, ut potuerit debueritque manumitti, condici ei potest vel praescriptis verbis agi: quod his quae diximus convenit. sed si dedi tibi servum, ut servum tuum manumitteres, et manumisisti et is quem dedi evictus est, si sciens dedi, de dolo in me dandam actionem Iulianus scribit, si ignorans, in factum [civilem].

 

Procediamo, innanzitutto, a ripercorrere il ragionamento di Ulpiano che, nella seconda parte del tratto confluito in D. 2.14.7.2, dopo aver richiamato la ‘risposta’ di Aristone a Celso, contestualizza il secondo esempio addotto – il ‘do ut facias’ – in un caso particolarmente significativo, vale a dire un trasferimento patrimoniale funzionale a vincolare la controparte alla manumissio di un proprio servus. In questa contestualizzazione del ‘do ut facias’ – che si connota per un facere irreversibile, quale appunto la concessione della libertà al servo – emerge una ‘critica’ che Mauriciano rivolge – a ragione, secondo Ulpiano – a Giuliano in ordine alla tecnica di tutela da adoperarsi per il caso dell’evizione dell’ob rem datum.

Più precisamente, dopo aver chiarito – generalizzando l’idea Aristone, che vedeva il perno funzionale della fattispecie contrattuale sine nomine nel suna@llagma – la centralità del subesse causa  ai fini della produzione della civilis obligatio, Ulpiano evidenzia come, di conseguenza, debba ritenersi corretta la ‘critica’ che Mauriciano rivolgeva a Giuliano: nell’ipotesi in cui la datio ob rem sia posta in essere senza legittimazione a disporre, con conseguente evizione, ma nondimeno l’accipiens abbia proceduto ad un’irreversibile manumissio, a quest’ultimo spetta la stessa actio civilis incerti che sarebbe spettata al dans per l’ipotesi di inadempimento della prestazione di manumittere.

La soluzione di Mauriciano, dunque, presuppone a mio avviso la condivisione di quella di Aristone; e si giustifica in una chiave di lettura squisitamente procedimentale.

In sostanza, il suna@llagma, nelle logiche di questi giuristi, è presupposto per la nascita dell’obligatio, mentre la datio ob rem costituisce un requisito esterno, di natura formativa, inerente al fieri della fattispecie: la mancata integrazione (del risultato acquisitivo definitivo) di essa non tanto per mero difetto di legittimazione, quanto semmai per l’intervenuta evictio ad essa conseguente – dovendosi dunque riconoscere spazio sanante all’usucapio[209] –, non incide sul significato dello scambio astrattamente programmato, sicché, nella perdurante attualità funzionale del suna@llagma[210], è l’intervenuta manumissio a chiudere comunque, in un secondo momento, la sequenza formativa della fattispecie sine nomine, legittimando così il manumittens alla stessa tutela che avrebbe potuto esperire il dans per l’ipotesi dell’inadempimento della (contro)prestazione.

Non credo, dunque, che Mauriciano reinterpretasse – come si è suggerito anche di recente[211] – la datio proveniente a non domino, presupposto logico di un (successivo) fatto evizionale, come un facere, così in ultima analisi prospettando una lettura della fattispecie nettamente contrastante con l’id quod actum est. Semmai, Mauriciano pone sullo stesso piano, dal punto di vista della disciplina formativa, l’intervenuta esatta attuazione di una delle due prestazioni programmate, e correlativamente il definitivo inadempimento di una delle due: se la prima esecuzione non va a buon fine, la fattispecie è formata con l’esatta esecuzione della seconda[212].

Non escludo – anzi, lo ritengo estremamente probabile – che a questa soluzione Mauriciano potesse pervenire in quanto la seconda prestazione consisteva non già in un dovere di dare, ma appunto in un facere, che in linea di principio sfugge alle logiche della iusta causa traditionis, ed in particolare della causa solvendi, tanto che – come vedremo a conclusione di questa ricerca – ad un analogo risultato i prudentes non sembrano pervenire in tema di permutatio. Ma su questo avremo modo di soffermarci più avanti: per il momento, possiamo limitarci a rilevare come la posizione di Mauriciano risulti comunque significativa per gli svolgimenti successivi.

Se, infatti, per Aristone il suna@llagma si incentra essenzialmente sul perno formativo della datio ob rem, Mauriciano va oltre: l’accezione in senso normativo dello scambio risulta ancor più accentuata – tanto è vero che alla fine il suna@llagma diviene, nell’argomentazione di questo giurista, sinonimo di contractus – sino a consentire di ritenere spostamento patrimoniale idoneo al perfezionamento della fattispecie contrattuale l’attuazione d’una qualsiasi delle due prestazioni programmate. Il che significa riconoscere, per corollario, che non solo la ‘datio’, ma anche il ‘facere’ può costituire il momento determinante, in senso procedimentale, per la nascita di un’obbligazione giustificata da quella che ormai si atteggia a ‘funzione generale di scambio’: prospettiva, questa, che sarà alla base della discussione contenuta nei celebri quattro articuli delle Quaestiones di Paolo.

Sul piano della tecnica formulare, per Mauriciano quella medesima tutela indicata da Aristone «è sufficiente» nel senso che neppure nel caso dell’evizione dell’ob rem datum è necessario ricorrere al pretore per la configurazione di una formula interamente in factum: basta l’intervento sulla demonstratio, onde descrivere la peculiarità del contesto fattuale, senza con ciò dover modificare l’intentio, che rimane in ius concepta. In questo quadro, l’unica correzione che ipotizzo nel testo è quella relativa al glossema esplicativo in ordine alla qualificazione come ‘praescriptis verbis’ dell’azione, descritta come civilis incerti in base al suo genus in D. 2.14.7.2: si tratta, con ogni probabilità, di un – assolutamente innocuo – glossema postclassico rientrato nel testo, inserito tenendo presente il locus parallelus papinianeo di D. 19.5.7.

Veniamo dunque alla posizione di Giuliano, criticata da Mauriciano, e con lui da Ulpiano che lo segue.

Per Salvio Giuliano, solo l’intervenuta esatta attuazione della datio – nel senso di realizzare il risultato traslativo – è suscettibile di chiudere la sequenza formativa. Il che significa dire che, per l’ultimo corifeo dei Sabiniani, il suna@llagma e l’acquisizione definitiva conseguente alla datio sono due facce della stessa medaglia. In questo, il giurista in una certa misura sembra discostarsi dalla soluzione di Aristone, che dal suna@llagma riteneva nascere – ‘et hinc nasci’ – la civilis obligatio: per Giuliano, in sostanza, il suna@llagma e la datio, vale a dire il perno funzionale ed il perno formativo della fattispecie nel discorso di Aristone, hanno la medesima importanza ed indefettibilità. E dunque la conseguenza dell’evictio per difetto di legittimazione a disporre – di per sé sola ininfluente – è la mancata integrazione della fattispecie, stante la gravità, sul piano formativo, dell’acclarata impossibilità, per l’accipiens, di conservare il proprio acquisto a fronte della perdita definitiva del servus in quanto manumissus: sul piano civilistico, non v’è civilis obligatio; e la convenzione, rimasta inattuata, rileva come factum cui solo il pretore può accordare protezione.

Il discorso di Paolo in D. 19.5.5.2 completa le informazioni in nostro possesso.

Qualcosa nel frammento paolino è senz’altro caduto, pur senza dover ipotizzare le conseguenze di un omoteleuto suggerite anche di recente[213], o che il giurista fosse in un certo qual modo vicino alla posizione giulianea[214]: a mio avviso, Paolo semplicemente riporta l’opinione di Giuliano come ricordo di una posizione controversiale, che – tenendo conto della condivisione di Ulpiano del pensiero di Mauriciano – possiamo ritenere superata per epoca severiana, seppur solo in via tendenziale, ove si consideri che la prospettiva indicata dal giurista adrianeo doveva risultare – come vedremo a conclusione di questa ricerca – ancora attuale in tema di permutatio. Purtroppo, nulla consente di individuare con certezza quale idea avesse Paolo della soluzione giulianea, di cui forse si occupava a conclusione – irrimediabilmente perduta – del discorso che figura nella parte finale dell’attuale fr. 5.2, sino a giungere a discutere della problematica actio de dolo prospettata nel fr. 5.3[215], che compare in un contesto sin troppo compresso per potersi considerare pienamente affidabile, e che probabilmente era residuale rispetto alla condictio ob rem dati re non secuta.

Ad ogni modo, la testimonianza di Paolo integra quella di Ulpiano: se ne ricava che, secondo Giuliano, occorre distinguere sulla base della consapevolezza o meno del dans in ordine al proprio difetto di legittimazione a disporre, sicché adversus ignorantem si deve dare l’azione pretoria in factum, costruita sull’alternativa si paret - si non paret, reipersecutoria e funzionale, con ogni probabilità, a liquidare il quanti ea res erit[216]; mentre adversus scientem si deve dare l’actio de dolo. In quest’ordine di idee, si è ritenuto che «la possibilità di ricostruire la logica della contrapposizione tra Giuliano e Mauriciano rende maggiormente affidabile la testimonianza di Ulpiano rispetto a quella paolina e porta dunque a preferire l’ipotesi dell’intervento giustinianeo nella testimonianza di Paolo, con la finalità di omologare all’interno della prospettiva civilistica il rinvio all’actio in factum che viene resa come actio in factum civilis»[217]. Sul piano esegetico, quindi, «la fluidità delle tutele residuali consente di sfumare anche la rigidità del criterio di sussidiarietà dell’azione di dolo: il principio vale infatti soltanto rispetto agli strumenti tipici di cui l’azione di dolo completa le lacune legate naturalmente alla tipicità del sistema»[218].

 

 

12. – Contenuto dell’azione e funzione pratica delle tutele esprimibili nell’ipotesi dell’evizione dell’‘ob rem datum

 

Veniamo così a confrontare la testimonianza di Paolo in D. 19.5.5.2 con quella di Papiniano confluita in D. 19.5.7.

Il caso dell’evizione dell’ob rem datum, inannzitutto, non pare presentare una rilevanza centrale né nell’argomentazione di Papiniano, né comunque in quella di Paolo: in linea di massima, dunque, essi sembrano perpetuare la soluzione aristoniana con la quale, se è corretta la mia ipotesi ricostruttiva, si generalizzava la tutela in ius concepta per tutte le iuris gentium conventiones giustificate da una causa meritevole e perfezionate, sul piano della disciplina formativa, da una datio ob rem. In questi casi, a fronte dell’inadempimento della controparte, chi ha già adempiuto – e quindi dimostra la serietà del programma negoziale su cui incide la convenzione – può agire, in ragione della valutazione del proprio interesse, per una duplice via.

La prima è  una tutela restitutoria, vale a dire la condictio ob rem dati re non secuta, di stretto diritto ed ormai pienamente idonea a gestire non solo l’interesse ad una ‘risoluzione per inadempimento’, ma altresì l’inevitabile configurazione, di pari passo con il progressivo affinamento della ‘funzione generale di scambio’, di una regola di rischio contrattuale[219]. La seconda è un’actio civilis incerti, sub specie della praescriptis verbis di labeoniana memoria, di buona fede e idonea ad assicurare anche l’interesse  positivo, senza che fosse necessario l’inserimento di exceptiones, intrinseche al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona[220]. Questa ‘contrapposizione’ tra le funzioni dei due rimedi, chiaramente esplicitata tanto nel passo di Papiniano quanto in quello di Paolo, era in fin dei conti alla base della soluzione di Aristone, quantunque in D. 2.14.7.2 ciò resti in una certa misura in ombra: era necessario, in altri termini, individuare un rimedio ulteriore, da affiancarsi al condicere e comunque ancorato ad una struttura formulare in ius concepta.

Una ‘contrapposizione’ che, nondimeno, non va esasperata: una volta che si accetti l’idea che «le regole della responsabilità e le regole sul rischio concorrono insieme a permettere al giudice di determinare, in una situazione prospettatagli da una parte, quali siano le obbligazioni residue dell’altra parte verso di lei»[221], sia la condictio ob rem dati re non secuta, sia l’actio praescriptis verbis consentono di valutare l’una come l’altra prospettiva. Ne consegue che, quando Papiniano e Paolo si esprimono per una specifica area d’incidenza dei due rimedi semplicemente chiariscono che, quale che sia la configurazione in concreto dell’inevitabile intreccio, proprio della configurazione romana dell’obbligazione di praestare, tra regola di rischio e regola di responsabilità, la parte adempiente che scelga di condicere[222] non otterrà che l’equivalente dell’interesse negativo, o meglio qualcosa di meno di esso[223], mentre la parte adempiente che scelga di agire praescriptis verbis mobilita il rimedio in assoluto più ampio, che consente di liquidare, all’esito della cognizione, non solo il valore dell’eventuale interesse negativo, ma anche, e soprattutto, quello dell’interesse positivo all’attuazione della controprestazione. Ed è in questa logica  che si percepisce, a mio avviso, un’ulteriore ragione a favore del riconoscimento della clausola di buona fede nell’intentio formulare della civilis incerti actio che si concreta nell’actio praescriptis verbis: riconoscere spazio all’obbligazione di praestare in questi casi esattamente come avviene in qualsiasi altro iudicium bonae fidei[224].

Ma torniano al problema dell’adesione ulpianea alla tesi di Mauriciano.

La complessiva argomentazione di Ulpiano ci induce, come si diceva, a ritenere che, per epoca severiana, si fosse tendenzialmente affermata la soluzione di Mauriciano, e che anche Paolo, con ogni probabilità, in fin dei conti la condividesse[225]: tendenzialmente, però, perché se egli ancora riportava la diversa lettura di Giuliano, la questione doveva pur risultare in un certo qual modo un ius controversum ancora non sopito, e ciò tanto più ove si consideri che, come vedremo nel prossimo paragrafo, la tesi di Giuliano – ed è questa, per me, la vera chiave di lettura del problema – sembra trovare un precedente in una soluzione pediana in tema di permuta, la cui vitalità tra II e III secolo non sembra in discussione.

Prima di procedere oltre, tuttavia, mi pare opportuno trarre alcuni corollari dall’esegesi sinora proposta, che inducono a rivedere, a mio parere, una ricostruzione tendenzialmente consolidata in dottrina, che vedrebbe da un lato Salvio Giuliano e Giuvenzio Celso ancorati alla necessità, per la produzione di civilis obligatio, di una causa tipica sottostante alla conventio, ed Aristone e Mauriciano dall’altro come fautori di un «atteggiamento riformistico, che rompeva con la tradizione, accontentandosi di una causa atipica, non tanto da vagliarsi caso per caso, quanto da controllare sul parametro delle prestazioni corrispettive»[226].

Come Celso – nel rapporto tra i testi tratti dall’ottavo libro dei Digesta, confluiti in D. 12.4.16 e D. 19.5.2 – non chiudeva astrattamente le porte all’actio praescriptis verbis per la tutela delle convenzioni atipiche, così Giuliano – né sarebbe disarmonica con questa ricostruzione la testimonianza di Iul. 14 dig. D. 19.5.3, che esamineremo nel prossimo paragrafo – non contraddice necessariamente la posizione di Aristone. Giuliano nega l’integrazione della fattispecie nel caso dell’evizione dell’ob rem datum, sicché la sua lettura si differenzia, più che altro, da quella di Mauriciano.

Per converso, Celso e Giuliano, vale a dire gli ultimi corifei delle due scuole in epoca adrianea, sembrano considerare – per diverse vie, e con diverso approccio casistico – con particolare attenzione il caso dell’evizione nell’esecuzione di convenzioni sinallagmatiche atipiche. Sia chiaro: escludo che la soluzione celsina in D. 12.4.16 riguardi, come pure si è ipotizzato, la stessa fattispecie[227] che sottende la soluzione giulianea in D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2; nondimeno, vi è una sinapsi. Che si riscontra nel fatto che per Celso la grave debolezza funzionale della datio pecuniae per vincolare a trasferire la proprietà di un servo non consente di ritenere integrato il complessivo assetto di scambio – e quindi la fattispecie – in caso di evizione non già dell’ob rem datum, ma appunto del servus oggetto della controprestazione; per Giuliano, la necessità che il suna@llagma si combini in inscindibile binomio con la definitività dell’acquisto conseguente alla datio ob rem preclude a monte l’integrazione della fattispecie.

Le due scuole, quindi, andavano assai prudenti sul riconoscimento delle convenzioni sine nomine: comune denominatore di questa attenzione è, a mio parere, al di là degli autonomi percorsi euristici seguiti, la ricerca di indici di serietà dell’operazione economica, il cui problematico riscontro preclude il fieri della fattispecie contrattuale, e la conseguente tutela in ius.

 

 

13. – Il rigore teorico di Giuliano

 

Nell’approccio al tema delle convenzioni sinallagmatiche sine nomine le tracce a noi pervenute del pensiero di Giuliano non consentono di affermare con sicurezza, come si diceva, che egli rifiutasse senz’altro l’opzione suggerita da Aristone, il cui perimetro applicativo era stato esteso da Mauriciano.

Diciamo che siamo in grado di riscontrare unicamente ipotesi in cui per il giurista non s’integrava, per diverse ragioni, la fattispecie contrattuale in senso civilistico; non siamo in grado, invece, di renderci conto in quali ipotesi essa fosse senz’altro integrata. D’altronde, da una catena di passi di Papiniano, Celso e Giuliano, così costruita dai Compilatori, emerge come, in fin dei conti, sia Celso sia Giuliano, gli ultimi corifei delle due scuole in epoca adrianea, fossero consapevoli dell’astratta possibilità di ricorrere all’actio civilis in factum, come può desumersi da

 

Papin. 8 quaest. D. 19.5.1: Nonnumquam evenit, ut cessantibus iudiciis proditis et vulgaribus actionibus, cum proprium nomen invenire non possumus, facile descendamus ad eas, quae in factum appellantur. sed ne res exemplis egeat, paucis agam. (1) Domino mercium in magistrum navis, si sit incertum, utrum navem conduxerit an merces vehendas locaverit, civilem actionem in factum esse dandam Labeo scribit. (2) Item si quis pretii explorandi gratia rem tradat, neque depositum neque commodatum erit, sed non exhibita fide in factum civilis subicitur actio

Cels. 8 dig. D. 19.5.2: (nam cum deficiant vulgaria atque usitata actionum nomina, praescriptis verbis agendum est)

Iul. 14 dig. D. 19.5.3: in quam necesse est confugere, quotiens contractus existunt, quorum appellationes nullae iure civili proditae sunt.

 

Senza voler chiedere più di quanto sia ragionevole a questa catena di passi, essa semplicemente induce a leggere ‘in filigrana’ – sia pur suggestivamente, ed in ragione della sola connessione, voluta dai Compilatori, tra il pensiero dei giuristi adrianei ricordati con quello labeoniano[228], tenuto presente da Papiniano,  incidente sull’actio civilis in factum, che è poi l’actio praescriptis verbis nella terminologia di Pomponio – l’esistenza di un problema ricostruttivo di gran lunga più complesso di quel che mostrano le fonti a noi pervenute. Tutto questo suggerisce una certa cautela nel considerare Giuliano come il paladino della tutela pretoria, in netta antitesi con la soluzione indicata da Aristone: per un verso, infatti, la tutela in quam necesse est confugere sarebbe quella della in factum civilis actio del fr. 1.2, sicché in linea di principio sarebbe nota a Salvio Giuliano; per altro verso la precisazione che i commissari imperiali inseriscono per tramite di parole di Giuvenzio Celso – tratte dall’ottavo libro dei Digesti, come il passo confluito in D. 12.4.16 – identificherebbe quest’ultima, appunto, con l’actio praescriptis verbis.

D’altronde, in nessun luogo in cui le fonti a nostra disposizione mostrano tracce, anche significative, di pensiero di Giuliano in tema di convenzioni sine nomine si riscontra realmente la medesima casistica riconducibile ai due esempi-chiave descritti nella prima parte di D. 2.14.7.2. Per converso, siamo in grado di ipotizzare, con un certo margine di sicurezza, che Giuliano seguisse sostanzialmente la medesima prospettiva di Aristone per quanto concerne la condictio incerti; e che a questa lettura finisse per contrapporsi quella di Ulpiano, proclive a sfruttare l’actio praescriptis verbis in tutte le sue potenzialità.

Occorre, innanzitutto, avere nuovamente sott’occhio 

 

Ulp. 38 ad ed. D. 13.1.12.2: Neratius libris membranarum Aristonem existimasse refert eum, cui pignori res data sit, incerti condictione acturum, si ea subrepta sit.

 

che va letto insieme con

 

Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2: Cum quid precario rogatum est, non solum interdicto uti possumus, sed et incerti condictione, [id est praescriptis verbis].

 

Nella prospettiva di Giuliano, la condictio incerti – che il giurista mostra di ben conoscere anche per altri contesti dei suoi Digesta[229] – avverso il precarista[230] supera una verosimile posizione di Sabino[231], ed è concessa, secondo me, nella medesima logica che giustificava il rimedio offerto al creditore pignoratizio derubato secondo Aristone, e ciò tanto più ove si consideri che il rimedio è dato, nell’uno come nell’altro caso, avverso un non dominus.

Al riguardo, si rileverà innanzitutto come, tra la fine del I secolo e l’inizio del secondo, si sia affiancata, per il comodato, una tutela in ius concepta accanto a quella, preesistente, in factum[232], e come, per il precarium immobiliare, ad esso affine, sia quindi emersa l’esigenza di disporre di una tutela in via d’azione, da affiancarsi a quella interdittale. Si riconosce, dunque, al concedente un’azione in ius, seppur di stretto diritto, esemplata sul modello della condictio, con la quale viene protetto un interesse la cui valutazione non è sentita come assimilabile all’interesse positivo all’esecuzione di una controprestazione contrattuale. Qui, in sostanza, il dovere restitutorio del precarista, irriducibile – come nella condictio furtiva – alla conseguenza di un’attribuzione traslativa, per un verso non è considerato adeguatamente valutabile per il tramite della conceptio verborum di una condictio certi; mentre, per altro verso, più che pensare ad un uso ‘contrattuale’ della condictio incerti, non escluderei che Giuliano, nella ben nota connotazione moralistica che segna le sue riflessioni, considerasse il precarista che non restituisse il bene alla stregua di un ladro, a prescindere dalla possibilità di esperire l’actio furti.

Il glossema esplicativo che figura in D. 43.26.19.2 è svelato, a mio avviso, da esigenze di omologazione espositiva rispetto alla ben diversa interpretazione che della fattispecie dava Ulpiano, come risulta bene da

 

Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.2.2: Et naturalem habet in se aequitatem, namque precarium revocare volenti competit: est enim natura aequum tamdiu te liberalitate mea uti, quamdiu ego velim, et ut possim revocare, cum mutavero voluntatem. itaque cum quid precario rogatum est, non solum hoc interdicto uti possumus, sed etiam praescriptis verbis actione, quae ex bona fide oritur.

 

Qui Ulpiano ricorda senza dubbio la precedente lettura di Giuliano, che concedeva, accanto all’interdictum quod precario, la condictio incerti: egli, nondimeno, va un poco oltre, sicché, valendosi dell’interpretatio che ormai da tempo aveva riconosciuto l’oportere ex fide bona nel comodato[233], estende lo spettro applicativo dell’actio praescriptis verbis anche alla tutela del concedente[234], il che può essere forse correlabile alla ritenuta esperibilità – come si è rilevato, in connessione con spunti già labeoniani – dell’actio praescriptis verbis anche per i rapporti sorgenti da convenzioni senza nome unilateralmente produttive di obligatio in conseguenza dell’attribuzione, con valenza procedimentale, di naturalis possessio, come ad esempio la datio ad inspiciendum. Ciò significa che, per la medesima fattispecie, all’interno del genus formulare dell’incerti agere Giuliano optava per la condictio di stretto diritto, mentre Ulpiano – sentendola evidentemente inadeguata – per l’altra sua species, vale a dire la tutela praescriptis verbis di buona fede, ad ulteriore conferma, se vogliamo, dell’esegesi condotta nel precedente paragrafo 10: sicché mi pare tutto sommato evidente come in Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2 si sia introdotto un glossema esplicativo per esigenza omologante rispetto al contenuto di Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.2.2, dove riscontriamo, semmai, una diversa lettura della protezione giudiziaria del concedente, in tutto adeguata alle ‘nuove’ configurazioni della tutela restitutoria contrattuale in esito all’attribuzione della naturalis possessio.

Siamo ora in grado di suggerire una prima nota conclusiva, che sia però allo stesso tempo d’introduzione agli ulteriori profili della posizione di Giuliano.

Per un verso, la connessione forte tra il pensiero del giurista e quello di Aristone con riferimento al perimetro applicativo della condictio incerti (D. 13.1.12.2 e D. 43.26.19.2) rappresenta, a mio parere, un elemento ulteriore per escludere l’identificazione della civilis incerti actio di D. 2.14.7.2 con la condictio incerti: manca, infatti, nel precarium, qualsiasi aggancio con le fattispecie sinallagmatiche ipotizzate nella prima parte di D. 2.14.7.2. Per altro verso, se passiamo ad esaminare alcuni ulteriori profili dell’approccio di Giuliano alle convenzioni sine nomine, dovremo avvalerci, in ultima analisi, della medesima chiave di lettura: ovvero, come avremo modo di vedere, un’applicazione rigorosa, nella casistica considerata, della prospettiva aristoniana, così da escludere sistematicamente la tutela in ius ove non risulti configurabile un suna@llagma commutativo.

Esaminiamo, innanzitutto,

 

Ulp. 30 ad Sab. D. 19.5.13.1: Iulianus libro undecimo digestorum scribit, si tibi areae meae dominium dedero, ut insula aedificata partem mihi reddas, neque emptionem esse, quia pretii loco partem rei meae recipio, neque mandatum, quia non est gratuitum, neque societatem, quia nemo societatem contrahendo rei suae dominus esse desinit. sed si puerum docendum vel pecus pascendum tibi dedero vel puerum nutriendum ita, ut, si post certos annos venisset, pretium inter nos communicaretur, abhorrere haec ab area eo, quod hic dominus esse non desinit qui prius fuit: competit igitur pro socio actio. sed si forte puerum dominii tui fecero, idem se quod in area dicturum, quia dominium desinit ad primum dominum pertinere. quid ergo est? in factum putat actionem Iulianus dandam, [id est praescriptis verbis]. ergo si quis areae dominium non transtulerit, sed passus sit te sic aedificare, ut communicaretur vel ipsa vel pretium, erit societas. idemque et si partis areae dominium transtulerit, partis non, et eadem lege aedificare passus sit.

 

Ulpiano ci informa che Giuliano, nei Digesta e quindi nella stessa opera in cui prospettava la condictio incerti avverso il precarista, a protezione del concedente, aveva ritenuto esperibile l’actio in factum in un caso in cui l’assetto d’interessi prevedeva il trasferimento della proprietà di un’area per vincolare l’avente causa a trasferire al dans una pars dell’isolato da realizzare sull’area stessa. Il giurista accorda un’actio in factum, vale a dire un rimedio interamente pretorio, dovendosi ritenere il tratto ‘id est praescriptis verbis’ l’ennesimo glossema esplicativo-omologante rientrato nel testo: e la soluzione, a mio parere, si giustifica perché in questo caso non si ravvisa affatto una datio ob rem nel senso indicato da Aristone.

Ripercorriamo, però, il ragionamento del giurista.

In primo luogo, la convenzione non può essere qualificata come emptio, «perché manca il prezzo in pecunia numerata»[235]. Da questo punto di vista, l’ultimo corifeo dei Sabiniani parrebbe mostrare l’intervenuto superamento della dissensio tra le due scuole sul problema della distanza tra vendita e permuta[236]; profilo, questo, che tenderei a collegare con l’affermazione di Aristone in Paul. 5 ad Plaut. D. 19.4.2, di cui si è detto nel precedente paragrafo 7.

Essa, nondimeno, non può integrare un mandato: questa figura è essenzialmente gratuita nel senso che deve risultare neutra, sul piano patrimoniale, per il mandatario. Nel caso in esame, l’assetto d’interessi non è gratuito, implicando un risultato patrimoniale lucrativo per entrambi. Ed è proprio questo il punto nodale: si tratterebbe senz’altro di una societas – al cui schema induce a pensare la programmazione dell’attribuzione al dans di una quota parte dell’isolato da realizzarsi, intesa come pars lucri et damni – se non fosse per la peculiare vicenda procedimentale voluta dalle parti[237], che vede il trasferimento della proprietà dell’area[238] come momento perfezionativo della fattispecie contrattuale. L’esperienza romana, tuttavia, non conosce, come ormai può dirsi con assoluta certezza, la societas re contracta: sicché, pur identificandosi il profilo funzionale con quello proprio della societas, come si desume dal ragionamento a contrario contenuto nella parte finale del passo, la fattispecie tipica non si integra per un arbitrario discostamento procedimentale rispetto al suo modello formativo, che è puramente consensuale.

Se è corretta la mia esegesi della posizione di Celso in D. 12.4.16, è suggestivo rilevare come gli ultimi corifei delle due scuole considerassero con estremo rigore il discostarsi dell’autonomia privata, sul piano formativo come contenutistico, dagli schemi tipici, quando questi ultimi fossero economicamente equivalenti a quelli ‘individualmente atipici’ realizzati. In sostanza, come chi dia una somma di denaro per ottenere la proprietà di un servo non ha una ragione seria per discostarsi dall’equivalente schema della vendita nominata, così chi intende mettere a disposizione un’area per avere una quota parte dell’isolato da realizzarsi in loco non ha una seria ragione per non affidarsi allo schema tipico della societas consensuale. Anche in questo caso, in sostanza, il giurista si domanda sino a che punto l’autonomia privata possa incidere sulla disciplina – in questo caso formativa – della fattispecie contrattuale tipica: in altri termini, il tipo edittale è, in linea di principio, indisponibile, nel senso che l’autonomia privata non può, modificandolo, snaturarne i contenuti essenziali; per converso, per dar vita ad una figura atipica, che non abbia i caratteri di una mera alterazione arbitraria di un tipo edittale economicamente equivalente, che si risolverebbe in un’operazione priva di senso, occorre una seria giustificazione in concreto.

Se, dunque, per questa ragione non v’è societas, occorre domandarsi se possa riconoscersi una figura contrattuale innominata, e quale possa essere, in ipotesi, la forma di tutela esprimibile sul piano dell’ermeneutica edittale.

Ora, mentre nel caso esaminato da Celso lo scostamento incide arbitrariamente sul contenuto del programma negoziale, rendendolo incompatibile con quello tipico quantunque ad esso economicamente equivalente, e solo per corollario sul procedimento formativo, nel caso sottoposto a Giuliano lo scostamento, egualmente arbitrario, si apprezza unicamente sul piano – che appare forse meno incisivo – del rapporto tra autonomia privata e disciplina procedimentale: il che gli consente di riconoscere quanto meno la tutela in factum, senza peraltro ritenere perfezionata, sul piano civilistico, una fattispecie contrattuale sine nomine.

Tutto questo, peraltro, non autorizza a ritenere che Giuliano si discostasse dalla soluzione di Aristone: egli, semmai, sembra applicarla alla lettera, nel senso di escludere l’integrazione della fattispecie contrattuale sine nomine in senso civilistico per inconfigurabilità del suna@llagma come inteso dal giurista traianeo. Si è osservato, infatti, come Aristone, pur innestandosi nel filone che aveva iniziato a percorrere Labeone, ritenesse sistematicamente sussistere l’obligatio civilis nelle convenzioni sine nomine purché suggellate dalla datio (ob rem), e comunque purché sottese da uno scambio in senso strettamente commutativo, restando al di fuori di questo schema funzionale il suna@llagma associativo[239]. E poiché nel caso in esame viene in rilievo proprio un suna@llagma associativo, non sussistono i presupposti per applicare la soluzione di Aristone: l’actio in factum consegue, semmai, al mancato riconoscimento della fattispecie contrattuale in chiave civilistica per via del non-senso procedimentale mediante il quale le parti si sono, senza una plausibile ragione, discostate da una figura tipica economicamente equivalente.

Ad un analogo risultato consente, a mio avviso, di pervenire l’esegesi di

 

Afr. 8 quaest. D. 19.5.24: Titius Sempronio triginta dedit pactique sunt, ut ex reditu eius pecuniae tributum, quod Titius pendere deberet, Sempronius praestaret computatis usuris semissibus, quantoque minus tributorum nomine praestitum foret, quam earum usurarum quantitas esset, ut id Titio restitueret, quod amplius praestitum esset, id ex sorte decederet, aut, si et sortem et usuras summa tributorum excessisset, id quod amplius esset Titius Sempronio praestaret: neque de ea re ulla stipulatio interposita est. Titius consulebat, id quod amplius ex usuris Sempronius redegisset, quam tributorum nomine praestitisset, qua actione ab eo consequi possit. respondit pecuniae quidem creditae usuras nisi in stipulationem deductas non deberi: verum in proposito videndum, ne non tam faenerata pecunia intellegi debeat, quam quasi mandatum inter eos contractum, nisi quod ultra semissem consecuturus esset: sed ne ipsius quidem sortis petitionem pecuniae creditae fuisse, quando, si Sempronius eam pecuniam sine dolo malo vel amisisset vel vacuam habuisset, dicendum nihil eum eo nomine praestare debuisse. quare tutius esse [praescriptis verbis] in factum actionem dari, praesertim cum illud quoque convenisset, ut quod amplius praestitum esset, quam ex usuris redigeretur, sorti decederet: quod ipsum ius et causam pecuniae creditae excedat.

 

Che nei testi di Sesto Cecilio Africano riecheggi genuino pensiero di Giuliano è noto: ed il discorso indiretto conseguente al respondit fa pensare ad una soluzione indicata da quest’ultimo[240].

La convenzione intercorsa tra Tizio e Sempronio, non versata in una stipulatio, sottende la dazione di una somma di denaro con l’intesa che quest’ultimo, utilizzando la remunerazione del capitale, stimata dalle parti ad un indice del 6% annuo, provveda al pagamento di un tributo dovuto dal primo. Dato che l’esatto ammontare del tributo non è, al momento della convenzione, prevedibile[241], si danno due ipotesi: nella prima, l’accipiens avrebbe dovuto restituire a Tizio la differenza tra la minor somma sborsata per pagare il tributo e la remunerazione del capitale convenzionalmente indicizzata al 6% di interesse annuo, laddove l’eventuale maggior esborso per l’adempimento tributario sarebbe andato in detrazione dal capitale; nella seconda, per il caso dell’eccedenza del tributo rispetto tanto al capitale, quanto all’interesse così predeterminato, sarebbe stato Tizio a dover rimborsare Sempronio.

Tizio chiede al giurista con quale azione possa ottenere da Sempronio la differenza tra il capitale indicizzato convenzionalmente al 6% e l’esborso inerente all’intervenuto adempimento tributario.

Giuliano, innanzitutto, evidenzia a monte l’impossibilità di considerare dovute le pecuniae creditae usurae in assenza di verborum obligatio; tuttavia, occorre valutare se nella fattispecie prospettata si possa ravvisare non tanto un’operazione di credito, quanto semmai una sorta di mandato: ipotesi, questa, contraddetta peraltro dalla peculiarità di un assetto d’interessi costruito in modo da consentire al ‘mandatario’ di ottenere, nel proprio interesse, un ben preciso risultato lucrativo dall’impiego del capitale, ove si consideri che la somma ricevuta può essere investita dall’accipiens anche ad un indice superiore al 6% annuo; e comunque – quasi a corollario – dalla constatazione che, ad accedere a questa qualificazione della convenzione, si dovrebbe comunque escludere a priori la responsabilità di Sempronio per l’eventuale amittere pecuniam o per il vacuam pecuniam habere in assenza di dolo, in quanto – in linea di principio – la responsabilità del mandatario è limitata al riscontro di questo rigoroso criterio soggettivo[242].

Pertanto è più sicuro – prima ancora che più appropriato – accordare una tutela in factum concepta: e ciò tanto più ove si consideri – e così il discorso si riallaccia al problema della faenerata pecunia – che le parti hanno stabilito – con riferimento all’esatta determinazione ex post della summa tributorum, che a priori sfugge al loro controllo ed era ignota al momento della convenzione – che l’eventuale maggior esborso in sede di adempimento tributario avrebbe inciso innanzitutto non già sulle usurae conseguite, ma sul capitale: sicché la regola voluta dall’autonomia privata va oltre (non solo un’elastica forma mandati, ma) anche la configurazione giuridica della causa credendi, che impone comunque, e senza alcun dubbio, la restituzione integrale del capitale.

In sostanza, quantunque Giuliano accosti la convenzione più ad una sorta di mandato che alla faenerata pecunia, essa alla fine risulta irriducibile all’una come all’altra ipotesi presa in considerazione, pur presentando con l’una e con l’altra elementi di connessione.

E veniamo così ad indagare sul punto centrale dell’argomentazione del giurista.

Al riguardo, mi pare opportuno, innanzitutto, evidenziare due aspetti: da un lato, il risultato lucrativo conseguibile da Sempronio viene a correlarsi, qualunque idea si abbia in merito, non già ad un dovere di prestazione di Tizio, ma essenzialmente all’abilità finanziaria dell’accipiens nell’impiego del capitale: nell’ultra semissem consequi non può dunque ipotizzarsi, in capo a Tizio, un vincolo assimilabile ad una sorta di ‘compenso al mandatario’. Dall’altro, la precisazione in ordine al causam pecuniae creditae excedere – vale a dire un assetto suscettibile di determinare l’erosione dello stesso capitale ricevuto – non lascia dubbi su come il giurista fosse certo almeno di un punto della questione: qualunque idea si abbia circa la qualificazione dell’id quod actum est, la convenzione non solo non presenta caratteri di sinallagmaticità, ma neppure risulta agevolmente riconducibile ad una vera e propria operazione di finanziamento.

È evidente allora come, in questo contesto, non ci si trovi di fronte ad una datio ob rem nel senso indicato da Aristone.

Per rispondere a Tizio, a questo punto, Giuliano poteva – in astratto, e sul piano della tecnica formulare – prendere a modello due formulae edittali: quella, che forse doveva di primo acchito apparirgli più appropriata, dell’actio mandati, di buona fede, e quella – quasi certamente ritenuta meno appropriata – dell’actio certae creditae pecuniae, di stretto diritto e configurata sul perno del certam pecuniam dare oportere della condictio repubblicana. Un’alternativa tanto netta, quanto decisamente singolare per le implicazioni pratiche come dogmatiche che la sottendono: né l’una né l’altra formula è di per sé pienamente appropriata al caso; ma optare, in ipotesi, per un adattamento pretorio dell’una o dell’altra conceptio verborum – in ipotesi, mediante i praescripta verba all’intentio dell’actio mandati, oppure riproponendo la condictio incerti, ma quasi paradossalmente per ottenere una somma di denaro – implica comunque una ben precisa scelta di prossimità sistematicamente insoddisfacente, nell’un caso più verso la cooperazione ex fide bona nell’altrui sfera giuridica, nell’altro più verso l’area del creditum; nondimeno – ed in questo la duplicità di prospettive pone comunque problemi – andare in una direzione implica allontanarsi troppo dall’altra, e viceversa, ove si consideri che gli elementi di connessione, sul piano dell’id quod actum est, sono pur sempre reciproci.

Ed allora in questo caso, in cui nella convenzione non è possibile intellegere né una sorta di mandato né un’operazione di credito, ma allo stesso tempo non emerge nemmeno una datio ob rem sottostante ad un suna@llagma di scambio rigorosamente commutativo, è dunque più sicuro, per Tizio, esperire un’actio in factum, vale a dire una tutela puramente pretoria senza demonstratio, che dunque consideri la convenzione nella sua valenza meramente fattuale: la tutela in factum, in altri termini, si rivela alla fine come l’unica risorsa formulare appropriata, suscettibile di consentire – mi si permetta di attingere al mito di Admeto e Alcesti – di ‘aggiogare al carro un leone ed un cinghiale’.

Di qui, fra l’altro, la necessità di emendare il riferimento ai praescripta verba in apposizione al riferimento all’in factum actionem dari.

Anche al di là di quanto or ora osservato, del resto, nel frammento in esame il glossema è comunque tradito, più che da espressioni tipicamente esplicative, da un duplice ordine di considerazioni: da un lato, l’espressione ‘praescriptis verbis in factum’, che si riscontra unicamente in questo passo di Africano e non coincide neppure con la rubrica del titolo 19.5 del Digesto, de praescriptis verbis et in factum actionibus, sembrerebbe implicare una sovrapposizione tra due realtà formulari, in sé considerate, profondamente diverse, l’una con intentio in ius concepta, l’altra con intentio in factum concepta; dall’altro, le fonti mostrano come ad esprimersi per la prima volta con riferimento ad ‘actio’, anziché a generico ‘agere’, in correlazione con il sintagma ‘praescriptis verbis’ sia stato Pomponio[243], cui dunque va riconosciuta in questa opzione espositiva una ‘priorità scientifica’ percepibile anche rispetto a giuristi sostanzialmente suoi contemporanei, che assorbe quella puramente cronologica[244].

Ed allora, è decisamente probabile che il tratto ‘praescriptis verbis’ altro non sia se non un qualche glossema interlineare, (erroneamente) esplicativo dell’espressione ‘in factum’, rientrato nel testo[245].

Con questo chiarimento, a me pare che, anche in questo caso, Giuliano – se è a lui che, come credo, va ascritta la soluzione – non tradisce affatto la soluzione aristoniana, ma la applica rigorosamente: il trasferimento patrimoniale – la datio pecuniae – v’è stato; difetta radicalmente una funzione commutativa. Ora, se si considera che i testi in cui, alla luce delle fonti a nostra disposizione, il nome di Giuliano è associato alla tutela per le convenzioni sine nomine sono rappresentati unicamente dal binomio costituito da D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2, nonché dai passi qui esaminati, vale a dire D. 43.26.19.2, D. 19.5.13.1 e D. 19.5.24, mi pare che nulla consenta di affermare che egli rifiutasse la soluzione di Aristone[246]: semmai, quanto ci è pervenuto mostra come, in una casistica per varie vie irriducibile alla logica sottesa dall’argomentazione confluita in D. 2.14.7.2, Giuliano si sforzasse di mantenerla all’interno di un perimetro particolarmente rigoroso, entro il quale va collocata, a mio avviso, la testimonianza di D. 19.5.3[247]. Sicché parrebbe potersi dire che lo spunto del giurista traianeo, per Giuliano, non fosse applicabile né in caso di evictio dell’ob rem datum, né in tutti quei casi in cui non si riscontra un suna@llagma in senso rigorosamente commutativo: si tratta di ipotesi acontrattuali in senso civilistico, per le quali può farsi ricorso unicamente ad una tutela in tutto configurata per via onoraria. 

 

 

14. – La vitalità dell’apporto giulianeo nella costruzione delle tutele in tema di ‘permutatio’

 

  È da dirsi, a questo punto, che con riferimento all’evizione dell’ob rem datum la soluzione di Giuliano, criticata da Mauriciano, non viene dal nulla e non finisce nel nulla[248]. Ed è su questo profilo che, a conclusione dell’indagine, vorrei soffermarmi, anche per evidenziare la distanza della ricostruzione qui proposta da un’autorevole esgesi, che non trovo – sul punto – convincente[249].

Innanzitutto, occorre esaminare

 

Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.3: Ideoque Pedius ait alienam rem dantem nullam contrahere permutationem.

 

Emerge da questo passo dell’ad edictum paolino come Pedio, il giurista che aveva dato un contributo tanto significativo all’elaborazione della dottrina delle figure contrattuali, ritenesse ostativa all’integrazione della permutatio – ancora senza nome edittale, ma identificata da un nome socialmente tipico, alla fine del I secolo[250] – il difetto di legittimazione a disporre della parte che, evidentemente per prima, addivenisse all’atto di trasferimento. Qui il vulnus è sentito forse come ancor più grave di quello che anima l’argomentazione di Giuliano in D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2: per Giuliano, a precludere il fieri della fattispecie, così da impedire il riconoscimento della civilis obligatio, era non già il mero difetto di legittimazione a disporre, ma l’intervenuta evictio. In ragione del significato funzionale della permutatio, che impone alle parti di assicurarsi reciprocamente l’acquisto della proprietà secondo le rispettive regole ordinamentali[251], il difetto di legittimazione a disporre, precludendo in astratto lo scambio così come programmato, sembra ridondare in difetto causale: nondimeno, la prospettiva pediana qui esaminata appare ancor più drastica di quella di Giuliano, perché a rigore sembra addirittura precludere il risultato sanante dell’usucapio[252], che per il giurista adrianeo, a mio avviso, non doveva essere in discussione.

Credo, ad ogni modo, che tutto il fr. 1.3 sia il compendio di un’idea classica, la cui estensione originaria deve essere stata drasticamente compressa: e ciò non solo per via della congiunzione tipicamente compilatoria ‘ideoque’, ma anche, e soprattutto, perché il ragionamento di Pedio doveva essere utilizzato da Paolo come argomento rafforzativo per sostenere il re fieri della permutatio. Come dire: a differenza di vendita, locazione, mandato, che producono nudo consensu l’obligatio, la permuta si perfeziona con l’intervenuta esecuzione di una prestazione in dando, tanto che Pedio arrivava addirittura a dire che il difetto di legittimazione a disporre avrebbe implicato la mancata integrazione della figura contrattuale; il che non significa che Paolo condividesse questa soluzione.

È, semmai, proprio in questa prospettiva che «la riflessione pediana nella sua consistenza originaria si è perduta nella trama della scrittura di Paolo»[253]: del resto, che il perno della questione – che a mio avviso incideva sull’individuazione di una pluralità di tutele esprimibili – fosse non tanto il difetto di legittimazione, quanto semmai l’evictio, Paolo l’aveva detto poco prima; ed è verosimile, allora, che proprio in base alla lettura di Giuliano – quella ricostruibile dalle citazioni di Ulpiano e Paolo conservate in D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2 – i prudentes abbiano rimeditato, nella seconda metà del II secolo, il problema del difetto di legittimazione nelle dationes ob rem, sia – con Mauriciano – nel caso del ‘do ut facias’, sia – recuperando idee di Giuliano – nel caso del ‘do ut des’.

In altri termini, la prospettiva di Pedio drasticamente escludeva l’integrazione della figura per il mero difetto di legittimazione a disporre che finiva per ridondare, come si diceva, in un problema incidente sul piano funzionale, nel senso che, in tale evenienza, lo scambio non può configurarsi neppure in astratto. Da questa posizione, evidentemente sentita inadeguata, si giunge, recuperando la lettura di Giuliano, a polarizzare la questione essenzialmente sulla disciplina formativa dell’atto – sul suo ‘re fieri’ – vista nel più ampio quadro della tecnica di realizzazione dello scambio in senso giuridico: si tratta di un aspetto importante, cui abbiamo fatto solo un breve cenno nel precedente paragrafo 11, per modo che occorre ora spendere qualche parola di più.

Al riguardo, se la iusta causa traditionis è «l’accordo sullo scopo per cui avviene la consegna materiale della cosa»[254], risulta impossibile applicare alla permuta la soluzione che Mauriciano opponeva a Giuliano per l’evizione dell’ob rem datum nel caso del ‘do ut facias’.

E difatti, nel passaggio ‘dal pregiuridico al giuridico’, l’astratto programma di scambio riconducibile al ‘do ut des’ che connota la convenzione si concretizza – ‘diviene’ figura contrattuale, civilisticamente rilevante – con una prima datio, che avviene ‘ob rem’ in quanto sottesa da un accordo strumentale a «vincolare l’accipiente ad un dato comportamento»[255], che nel caso di specie consiste nel dovere di prestazione imposto da una civilis obligatio essenzialmente in dando, corrispettiva del primo trasferimento. Diciamo che questa obbligazione, all’interno dell’ampio spettro dell’oportere ex fide bona, impone all’accipiente di assicurare alla controparte l’acquisto, a sua volta, della proprietà: sicché, connotandosi per un contenuto riconducibile ad un rem dare, seppur configurabile non già come il certum dare oportere di stretto diritto protetto da condictio, ma – per così dire – come un ‘dare oportere ex fide bona’, la sua esecuzione avviene comunque per causa solvendi[256], vale a dire per accordo solutorio. Esso, evidentemente, determina il trasferimento a prescindere dall’esistenza della civilis obligatio, salvo l’esposizione dell’accipiens alla condictio indebiti, ed è radicalmente insuscettibile di essere ‘reinterpretato’ in senso opposto, cioè come accordo funzionale non già ad estinguere, ma a creare un vincolo[257], vale a dire come momento formativo della fattispecie.

Ora, nel caso del ‘do ut facias’, al centro della critica di Mauriciano a Giuliano, una simile difficoltà non aveva ragione di porsi, perché a priori l’adempimento di un’obbligazione di facere – per il quale i prudentes neppure adoperano una specifica terminologia[258] – è del tutto estranea al solvere in senso tecnico ed alla vicenda traslativa che lo connota. In buona sostanza, nella permuta l’evizione dell’ob rem datum, cui si correla l’impossibilità di riconoscere un initium alla civilis obligatio per irreparabile vulnus alla disciplina procedimentale della fattispecie contrattuale, non ammette un ‘equivalente’ formativo come nel caso del ‘do ut facias’.  

Sicché è in questa direzione che dobbiamo leggere

 

Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.1: Unde si ea res, quam acceperim vel dederim, postea evincatur, in factum dandam actionem respondetur.

 

Innanzitutto, una volta chiarito che nella permutatio la posizione delle parti è assolutamente speculare, in quanto, come si legge in Paul. D. 19.4.1 pr. in permutatione discerni non potest, uter emptor vel uter venditor sit, l’accipere vel dare va indifferentemente riferito alla prima esecuzione di una delle due prestazioni in dando, nell’assoluta irrilevanza di chi, tra le due parti della convenzione, la ponga in essere[259], vale a dire tanto che sia Ego a ricevere per primo, quanto che sia invece Ego a trasferire per primo[260]. Nel ‘respondetur’ di Paolo emerge, semmai, il tendenziale superamento dei profili di irragionevolezza[261] intrinseci alla soluzione originariamente proposta da Pedio: è l’evizione dell’ob rem datum, e non il semplice difetto di legittimazione del permutante che per primo effettui la datio, a determinare la mancata integrazione della fattispecie contrattuale[262]. È ragionevole ritenere, del resto, che lo scambio fosse inteso, ex fide bona, non già in astratto, ma in concreto, sicché le parti devono semplicemente assicurarsi vicendevolmente sulla definitività dell’acquisto del dominium, tanto più ove si consideri da un lato la possibilità di tutela con l’actio Publiciana, dall’altro i tempi ragionevolmente brevi dell’usucapio classica[263].

Ed allora, se dietro quel ‘respondetur’ si colloca la personalità scientifica di Giuliano, non credo che il testo debba essere corretto, come ritiene normalmente chi ravvisa la connessione tra Paul. D. 19.4.1.1, e la testimonianza giulianea conservata da Paul. D. 19.5.5.2 e Ulp. D. 2.14.7.2: la forma verbale impersonale esprime, semmai, l’intervenuta recezione di un responsum ormai condiviso nel contesto scientifico in cui opera Paolo.

È qui, dunque, che riscontriamo la vitalità della prospettiva aperta da Giuliano: se, in linea di massima, per il ‘do ut facias’ può ammettersi l’integrazione della fattispecie – e la conseguente civilis obligatio, protetta praescriptis verbis per l’interesse positivo – anche con l’esatta esecuzione del facere per il caso dell’evizione dell’ob rem datum, nell’ipotesi del ‘do ut des’, e segnatamente di quella permutatio che ormai, ai tempi di Paolo, aveva una sua rubrica edittale, questa soluzione è impraticabile. In altri termini, il recupero severiano della prospettiva giulianea va letto nel senso che il suna@llagma e la (stabilità della) datio, in tema di permutatio, sono due facce della stessa medaglia, egualmente indefettibili per l’integrazione della fattispecie, la produzione di civilis obligatio e la tutela (dell’interesse positivo) per tramite di actio praescriptis verbis[264].

In questo quadro, non può dirsi che l’actio in factum di cui ci informa Paul. D. 19.4.1.1 sia l’azione che, in generale, è data per la tutela del permutante[265]: essa rappresenta, semmai, il (limitato) recupero di idee pediane per tramite di Giuliano. Sicché quanto si legge in

 

Paul. [32] <33> ad ed. D. 19.4.1.4: Igitur ex altera parte traditione facta si alter rem nolit tradere, non in hoc agemus ut res <tradita nobis reddatur, sed in id quod interest> nostra illam rem accepisse, de qua convenit: sed ut res contra nobis reddatur, condictioni locus est quasi re non secuta.

 

ed in

 

Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.1: Et si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam, emptio et venditio est: sin autem rem do, ut rem accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem, < ? > in qua actione id veniet, non ut reddas quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo convenit accipere: vel si meum recipere velim, repetatur quod datum est, quasi ob rem datum re non secuta. < ? > sed si scyphos tibi dedi, ut Stichum mihi dares, periculo meo Stichus erit ac tu dumtaxat culpam praestare debes. explicitus est articulus ille do ut des.

 

mostra semplicemente, a mio modesto parere, che la permuta, nell’esperienza dell’epoca severiana, generava la civilis obligatio ove la prima datio determinasse un acquisto definitivo; e che la relativa tutela era configurata, in ragione del riconoscimento civilistico del rapporto obbligatorio, per tramite dell’actio praescriptis verbis per l’interesse positivo, e per tramite della condictioquasiob rem dati re non secuta per l’interesse negativo, o meglio – stante la struttura della condemnatio, come si è visto – per ottenere qualcosa di meno di esso. Una volta riconosciuta – in D. 19.5.5.1 – la civilis obligatio come un dato assolutamente incontrovertibile – dubium non est nasci civilem obligationem, dice Paolo – si può al limite ipotizzare una compressione del testo, che comunque – nel suo complessivo andamento – impone di leggere nell’actio in cui ‘viene’ non già l’interesse alla restituzione, ma quello all’attuazione dello scambio, la tutela praescriptis verbis, quantunque non nominata in questi termini nella configurazione testuale a noi pervenuta.

Per altro verso, i problemi testuali che, notoriamente, connotano il testo di D. 19.4.1.4 non mi paiono affatto decisivi: l’integrazione proposta dal Mommsen, prima ancora che sulla scorta dei Basilici, la cui testimonianza di per sé potrebbe apparire non decisiva, può giustificarsi proprio con il passo paolino delle Quaestiones, dove – a parte un’innocua inconcinnitas[266], che svela al più i tagli implicanti la rilevata compressione – si riscontra senza dubbio il riferimento alla distinzione, che ormai ci sarà familiare, tra l’azione per l’interesse positivo e l’azione restitutoria. In merito, occorre qui solo di rilevare come la condictio sia qualificata ‘quasiob rem dati re non secuta in quanto ormai, ai tempi di Paolo, la permutatio aveva una sua rubrica edittale, sicché la condictio è adoperata alla stregua della generica tutela in funzione ‘risolutoria’ prevista per l’inadempimento correlato a dationes ob rem non contemplate nell’editto, nonostante ormai la fattispecie fosse senz’altro prevista.

Siamo ora in grado di tirare le fila di questo discorso.

Nel contesto via via emerso, i fr. 5.1 – or ora esaminato – e 5.2 – di cui ci siamo occupati nel precedente paragrafo 11 – di D. 19.5 riportano frammentariamente, e con significative compressioni, un nucleo di pensiero di Paolo sufficientemente esteso perché si possa cogliere i tratti essenziali del tentativo di sistemazione che connota l’argomentazione delle Quaestiones. I passi in esame, invero, mostrano come, nell’originario discorso di Paolo, fossero ripresi e sviluppati, innanzitutto, i due esempi indicati da Aristone nella citazione ulpianea in D. 2.14.7.2: essi divengono, e non a caso, i primi due articuli del totius ob rem dati tractatus del giurista, orientato a delineare un’esposizione esaustiva non già – come normalmente si ritiene[267] – dei contratti innominati, ma delle quattro figure di ob rem datum[268], al fine di risolvere la quaestio indicata nel fr. 5 pr.[269], che rappresenta, nello schema espositivo ‘ad anello’ che connota il complessivo andamento di D. 19.5.5, l’inizio e la conclusione del discorso. 

Al riguardo, a me pare plausibile che, in linea di principio, Paolo seguisse la posizione aristoniana, sia per il ‘do ut des’, sia per il ‘do ut facias’, rispetto al quale, esattamente come faceva Ulpiano in D. 2.14.7.2, egli teneva peraltro presente anche la posizione di Giuliano per l’ipotesi, evidentemente sentita come particolare, dell’evizione dell’ob rem datum: ma il significato di questo richiamo, per i due giuristi severiani, non doveva essere, a mio avviso, nel senso di un’incondizionata e generalizzante accettazione della prospettiva giulianea, che almeno Ulpiano, approvando la critica di Mauriciano, senz’altro escludeva.

Semmai, tornando a Paolo, quella lettura non solo si rivelava senza dubbio autorevolissima, ma implicava altresì problemi interpretativi ancora attuali, la cui piena consapevolezza da parte del giurista ci è appunto rivelata dal tratto dell’ad edictum confluito in D. 19.4.1.1, dove, come si è visto a proposito del significato da darsi al ‘respondetur’, si nasconde la personalità scientifica di Giuliano e, con essa, la sua peculiare interpretazione dei casi di evizione dell’ob rem datum. D’altro canto, la precisazione di Paul. D. 19.5.5.3 – in ordine all’esperibilità dell’actio de dolo a fronte di inadempimento dell’obbligazione di dare nel caso del ‘facio ut des’ – non sembra affatto una generalizzazione – né indizio di incondizionata condivisione – della soluzione di Giuliano ricordata in chiusura dell’articulus dedicato al ‘do ut facias[270]: semmai, questo terzo articulus del totius ob rem dati tractatus – quasi certamente oggetto di una notevole compressione in sede compilatoria – parrebbe da limitarsi, in quel che ci è pervenuto, all’individuazione di una tutela residuale rispetto alla sola condictio ob rem dati re non secuta[271], dovendosi ritenere comunque possibile agire praescriptis verbis per l’interesse positivo, come nel caso del ‘facio ut facias’ del successivo fr. 5.4.

E così torniamo alla permutatio: in questo quadro, se non v’è dubbio, come dice Paolo, che la tutela normalmente esperibile per l’interesse positivo è l’actio praescriptis verbis, alternativa al condicere concesso ‘come nei casi in cui si agisce ob rem dati re non secuta’, ad essa doveva evidentemente affiancarsi una terza figura di tutela, prevista per le ipotesi in cui, sul piano della disciplina formativa, non potesse dirsi integrata la figura contrattuale in senso civilistico, con conseguente preclusione a riconoscere una civilis obligatio.

Ed allora, le tutele in materia di permuta, per epoca severiana, dovevano essere tre: l’actio praescriptis verbis per l’interesse positivo del permutante che per primo esattamente adempia la propria datio all’esatta attuazione dello scambio; la condictio quasi ob rem dati re non secuta, per l’esclusivo interesse restitutorio a fronte della sopravvenuta impossibilità inimputabile dello scambio, o dell’inadempimento rispetto al quale la parte reputi preferibile ‘risolvere’ il contratto; e l’actio in factum strettamente intesa, vale a dire senza demonstratio, per l’evizione – che è ben più del semplice difetto di legittimazione a disporre – dell’ob rem datum, vale a dire della prima datio.

È qui – come da tempo intuiva parte della dottrina – che riemerge la rigorosa lettura di Giuliano ricordata da Paolo nelle Quaestiones (D. 19.5.5.2) e da Ulpiano nell’ad edictum (D. 2.14.7.2): il che impone solo un’ulteriore, duplice precisazione, che concluderà la nostra indagine.

Per un verso, infatti, nell’ipotesi «in cui entrambe le parti abbiano eseguito la traditio, ma uno dei soggetti abbia trasmesso una cosa altrui, la controparte potrà agire con l’actio praescriptis verbis»[272] solamente se si tratti del soggetto per primo esattamente adempiente[273], che dunque realizza il momento perfezionativo – l’initium correlato da Paolo alla genesi dell’obligatio in D. 19.4.1.2 – della fattispecie contrattuale, presupposto dell’oportere ex fide bona civilistico; viceversa, nel caso in cui la prima datio provenga a non domino e determini il fatto evizionale, il permutante che abbia esattamente adempiuto la propria successiva datio può solamente condicere oppure agire con formula in factum concepta, in quanto in questa seconda ipotesi non si riscontra il re fieri della permutatio come figura contrattuale: si dovrebbe, anzi, forse ritenere che la condictio, in questa specifica ipotesi, fosse percepita più come condictio indebiti – per essersi ingiustamente privato il permutante della proprietà per una causa solvendi nonostante l’inesistenza, ignota alle parti che evidentemente fanno affidamento sulla stabilità della prima datio[274], della civilis obligatio di dare ex fide bona – che come condictio quasi’ ob rem dati re non secuta.

Per altro verso, occorre forse evitare di leggere in questo atteggiamento un approccio nel senso di una quasi paradossale ‘diminuzione’ di tutela per il (secondo) permutante evitto, ma esattamente adempiente, ravvisabile nella circostanza che la tutela in factum potrebbe apparire prima facie meno soddisfacente sul piano pratico processuale di quella con intentio al quidquid ob eam rem dare facere oportet ex fide bona: sul piano del risultato pratico, infatti, la tutela in factum e la tutela in ius risultano patrimonialmente equivalenti ove si riconosca nel primo caso, come credo si debba, la condemnatio al quanti ea res erit[275].

 

 

Abstract

 

The research aims to show how the classical Roman law have an approach to the contract’s formation set of problems, and in particular to the formation of the atypical contracts. In this view, the ‘datio ob rem’ indicates a rule of formation, because only with the ‘datio’ the simple ‘conventio’, i.e. the simple agreement, will ‘pass’ in a atypical contract and consequently the parties will have the protection based on the ‘actio praescriptis verbis’.

 

 



 

[Gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione da parte dell’organizzazione scientifica del Convegno, d'intesa con la direzione di Diritto @ Storia]

 

* [ Atti del Convegno di Studi «Nomen contractus. Tutele edittali nella Roma classica», organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Verona (14 maggio 2013), per iniziativa di Tommaso dalla Massara e Carlo Pelloso. n.d.r.]

 

[1] Per vero già suggerito in una precedente ricerca: cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere» e «contractus fiduciae». Prospettive di diritto romano ed europeo, Napoli, 2012, 49 ss., in particolare 152 ss. Peto veniam per i costanti rinvii a questo libro (su cui cfr. le recensioni di P. Lambrini, in LR, II, 2013, 395 ss., e di R.M. Rampelberg, in Iura, LXII, 2014, 377 ss.), imposti unicamente dall’esigenza di evitare una semplice riesposizione di un percorso di indagine già in larga misura delineato: ad esso mi vedo costretto a far riferimento per le prospettive più di dettaglio, e comunque per un completo esame della letteratura inerente al tema del rapporto tra la fiducia ed i nomina contractus.

 

[2] Così, esattamente, R. Meyer-Pritzl, ‘Pactum’, ‘conventio’, ‘contractus’. Zum Vertrags- und Konsensverständnis im klassischen römischen Recht, in Pacte convention contrat. Mélanges en l’honneur du Professeur B. Schmidlin, ed. par A. Dufour, I. Rens, R. Meyer-Pritzl et B. Winiger, Bâle et Francfort-sur-le-Main, 1998, 102.

 

[3] In questo senso cfr. essenzialmente P. Voci, La dottrina romana del contratto, Milano, 1946, 300; M. Brutti, La problematica del dolo processuale nell’esperienza romana, II, Milano, 1973, 662 e nt. 51; A. Schiavone, La scrittura di Ulpiano. Storia e sistema nelle teorie contrattualistiche del quarto libro ‘ad edictum’, in Le teorie contrattualistiche romane nella storiografia contemporanea, a cura di N. Bellocci, Napoli, 1991, 135; M. Talamanca, ‘Conventio’ e ‘stipulatio’, in Le teorie, cit., 211 e ntt. 171 e 172; Id., Contratto e patto nel diritto romano, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 69, nt. 125; A. Burdese, Sulle nozioni di patto, convenzione e contratto in diritto romano, in Sem. compl., V, 1993, 62; Id., Il contratto romano tra forma, consenso e causa, in Le dottrine, cit., 102; Id., Divagazioni in tema di contratto romano tra forma, consenso e causa, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M. Talamanca, VII, Napoli, 2001, 346; T. dalla Massara, Alle origini della causa del contratto. Elaborazione di un concetto nella giurisprudenza classica, Padova, 2004, 67; C. Giachi, Studi su Sesto Pedio. La tradizione, l’editto, Milano, 2005, 523 e nt. 55; 526 e nt. 62; a proposito del dictum Pedii, parla di «consenso inerente a tutti i contratti» B. Schmidlin, Il consensualismo contrattuale tra ‘nomina contractus’ e ‘bonae fidei iudicia’, in Diritto romano, tradizione romanistica e formazione del diritto europeo. Giornate di studio in ricordo di G. Pugliese, a cura di L. Vacca, Padova, 2008, 115; J. Paricio, Contrato. La formación de un concepto, Cizur Menor, 2008, 81. Di recente, contestano questa impostazione, per diverse vie esegetiche, R. Santoro, Su D. 46.3.80 (Pomp. 4 ‘ad Quintum Mucium’), in AUPA, LV, 2012, 580 s.; C.A. Cannata, Labeone, Aristone e il sinallagma, in Iura, LVIII, 2010, 56 (già Id., Der Vertrag als zivilrechtlicher Obligierungsgrund in der römischen Jurisprudenz der klassischen Zeit, in ‘Collatio iuris Romani’. Études dédiées à H. Ankum à l’occasion de son 65e anniversaire, I, Amsterdam, 1995, 66); L. Garofalo, Contratto, obbligazione e convenzione in Sesto Pedio, in Le dottrine, cit., 350; R. Knütel, La ‘causa’ nella dottrina dei patti, in Causa e contratto nella prospettiva storico-comparatistica. Atti del II Congresso Internazionale ARISTEC, Palermo, 7-8 giugno 1995, a cura di L. Vacca, Torino, 1997, 133: sul punto, cfr. peraltro quanto scrivo in «Fiduciam contrahere», cit., 55 s. e ntt. 15, 16 e 17.

 

[4] Con L. Garofalo, Contratto, cit., 340, nt. 2, e 352, nt. 37, F. Gallo, ‘Synallagma’ e ‘conventio’ nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di Diritto romano, II, Torino, 1995, 216, e G. Melillo, ‘Contrahere’, ‘pacisci’, ‘transigere’. Contributi allo studio del negozio bilaterale romano, Napoli, 1994, 178, ritengo (cfr. «Fiduciam contrahere», cit., 62 s.) che il periodo ‘nam et stipulatio - nulla est’ sia una precisazione di Ulpiano: del resto, ove continuasse il discorso di Pedio, sarebbe ragionevole attendersi una costruzione sintattica con subordinazione infinitiva, come nel tratto precedente.

 

[5] G. Romano, ‘Conventio’ e ‘consensus’. (A proposito di Ulp. 4 ‘ad ed.’ D. 2.14.1.3), in AUPA, XLVIII, 2003, 241 ss.

 

[6] G. Romano, ‘Conventio’, cit., 259 ss.

 

[7] G. Romano, ‘Conventio’, cit., 276 ss.; analogamente, G. Pugliese, Lezione introduttiva sul contratto in diritto romano, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 27.

 

[8] Ulpiano, dunque, valuta «le conseguenze giuridiche scaturenti dall’assenza di un elemento giudicato essenziale ai fini del perfezionamento della fattispecie obbligante» (G. Romano, ‘Conventio’, cit., 316); nondimeno, a mio parere ‘nulla est’ significa semplicemente che ‘non v’è stipulatio’, nel senso che la fattispecie non si integra.

 

[9] Mi si perdonerà il ricorso a questa terminologia, che riconosco puramente descrittiva, e quasi empirica, sino forse ad ingenerare l’idea di una riconfigurazione sovrastrutturale della prospettiva romana: è, nondimeno, l’insufficienza delle categorie dogmatiche contemporanee, che qui adopero per quanto possibile ed in adesione alle tesi di G. Benedetti, Dal contratto al negozio unilaterale, Milano, 1969 (rist. anast.: Milano, 2007, con prefazione di G.B. Ferri), passim, ed in particolare 86 s., 100 e 152 s., ad indurmi a questo approccio. Nella logica che emerge da Ulp. D. 2.14.1.3 (e, vedremo, Paul. D. 44.7.3.2) il rapporto consensus-conventio è il presupposto logico – e prima ancora storico, dato che la nozione stessa di obligatio nasce con il riconoscimento della sua fonte consensuale, la sponsio – del fieri della fattispecie, che peraltro – per la genesi di alcune figure, che vedremo esito dell’interpretatio imperiale sui modelli dell’agere re e verbis labeoniano – impone di ricorrere ad un ulteriore meccanismo formativo: di qui l’immagine – che mi propongo di adoperare al di fuori di qualsiasi inutile pretesa di concettualizzazione – di una disciplina procedimentale articolata su due livelli formativi.

 

[10] Cfr. al riguardo la convincente lettura di L. Garofalo, Gratuità e responsabilità contrattuale, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 52 (ed amplius 50 ss.).

 

[11] Nel senso che i verba si devono sentire, le res consegnate al mutuatario (o comunque le cose rubate, od indebitamente pagate) sono tangibili, le litterae con cui si iscrive il nome del debitore si leggono: udito, tatto, vista sono dunque i sensi umani naturalisticamente necessari per la genesi del vincolo. La disciplina ed efficacia procedimentale romana, inerente al fieri della fattispecie, ha il suo perno nella proprietas di verba, res, litterae come destinati alla percezione sensoriale umana.

 

[12] In omnibus negotiis contrahendis, sive bona fide sint sive non sint, si error aliquis intervenit, ut aliud sentiat puta qui emit aut qui conducit, aliud qui cum his contrahit, nihil valet quod acti sit. et idem in societate quoque coeunda respondendum est, ut, si dissentiant aliud alio existimante, nihil valet ea societas, quae in consensu consistit.

 

[13] Sul punto cfr., di recente, J.D. Harke, ‘Si error aliquis intervenit’. Irrtum im klassischen römischen Vertragsrecht, Berlin, 2005, 124 ss. ed in particolare 127 s. per il rapporto tra D. 2.14.1.3 e D. 44.7.57.

 

[14] Da C.A. Cannata, ‘Cum alterius detrimento et iniuria fieri locupletiorem’. L’arricchimento ingiustificato nel diritto romano, in Arricchimento ingiustificato e ripetizione dell’indebito. Atti del VI Congresso Internazionale ARISTEC, Padova-Verona-Padova, 25-26-27 settembre 2003, a cura di L. Vacca, Torino, 2005, 15 e nt. 5.

 

[15] Paul. 2 inst. D. 44.7.3 pr.: Obligationum substantia non in eo consistit, ut aliquod corpus nostrum aut servitutem nostram faciat, sed ut alium nobis obstringat ad dandum aliquid vel faciendum vel praestandum. (1) Non satis autem est dantis esse nummos et fieri accipientis, ut obligatio nascatur, sed etiam hoc animo dari et accipi, ut obligatio constituatur. Itaque si quis pecuniam suam donandi causa dederit mihi, quamquam et donantis fuerit et mea fiat, tamen non obligabor ei, quia non hoc inter nos actum est. (2) Verborum quoque obligatio constat, si inter contrahentes id agatur: nec enim si per iocum puta vel demonstrandi intellectus causa ego tibi dixero ‘spondes’? et tu responderis ‘spondeo’, nascetur obligatio. A me pare che, in fin dei conti, l’animus cui fa riferimento Paolo nel fr. 3.1 esprima, in ultima analisi, la sintesi del rapporto tra consensus e conventio su cui si polarizza il discorso di Ulpiano, tramite Pedio, in D. 2.14.1.3: in questo mi pare plausibile leggere una sostanziale consonanza tra il dictum Pedii annotato da Ulpiano con riferimento alla stipulatio, ed il complessivo discorso che – specie nei fr. 3.1-2 di D. 44.7 – connota l’esposizione istituzionale di Paolo.

 

[16] Così, quasi testualmente, C.A. Cannata, Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo, II, Torino, 2008, 22 e nt. 50.

 

[17] Cfr. in merito anche le interessanti pagine di R. Cardilli, Archetipi dell’‘oportere’ nell’‘oportere ex sponsione’, in ‘Obligatio’-obbligazione. Un confronto interdisciplinare, a cura di L. Capogrossi Colognesi e M.F. Cursi, Napoli, 2011, 1 ss.

 

[18] L’assenza dell’agere litteris nella divisio, configurata come dicotomia e non come tricotomia, può derivare da soppressione in sede compilatoria, come ritiene M. Talamanca, Contratto, cit., 50 e nt. 52. Mi pare allora plausibile, ma in fin dei conti non strettamente necessaria, la ricostruzione del testo proposta da C.A. Cannata, Labeone, cit., 42 (analoga a quella indicata per D. 2.14.1.3, in Id., La nozione di contratto nella giurisprudenza romana dell’epoca classica, in Autour du droit des contrats. Contributions de droit romain en l’honneur de F. Wubbe, éd. P. Pichonnaz, Genève, 2009, 27 e nt. 24): non strettamente necessaria perché, nella prospettiva in testo, è pure ammissibile che, già nel dettato classico, si facesse in entrambi i luoghi riferimento all’agere re et verbis, in quanto originaria configurazione dell’obligatio civilis quiritaria, riconducibile – lo vedremo meglio oltre – recta via a legitima conventio, laddove l’agere litteris ne rappresenta, a mio parere, solo l’estensione.

 

[19] Ce lo conferma, evidentemente, Pomp. 4 ad Q. Muc. D. 46.3.80: Prout quidque contractum est, ita et solvi debet: ut, cum re contraxerimus, re solvi debet: veluti cum mutuum dedimus, ut retro pecuniae tantundem solvi debeat. et cum verbis aliquid contraximus, vel re vel verbis obligatio solvi debet, verbis, veluti cum acceptum promissori fit, re, veluti cum solvit quod promisit. aeque cum emptio vel venditio vel locatio contracta est, quoniam consensu nudo contrahi potest, etiam dissensu contrario dissolvi potest. Sul punto seguo l’esegesi del Cannata, di recente riproposta dall’insigne Autore, con richiamo alla precedente letteratura e in adesione a F. Gallo, ‘Synallagma’ e ‘conventio’ nel contratto. Ricerca degli archetipi della categoria contrattuale e spunti per la revisione di impostazioni moderne. Corso di Diritto romano, I, Torino, 1992, 32 ss., in Materiali, II, cit., 59 ss.: anche per me l’intero passo contiene pensiero di Quinto Mucio; né mi pare convincente, al riguardo, il tentativo di R. Santoro, Su D. 46.3.80, cit., 556 ss., di far risalire la nozione di obligatio non già all’epoca (almeno) decemvirale, ma semmai ad epoca classica, ipotizzando «la esclusione dal tessuto genuino di D. 46.3.80 di ogni riferimento alla obligatio ed al suo fondamentale modo di estinzione costituito dalla solutio-adempimento» (ivi, 612 s.).

 

[20] M. Kaser, Die ‘lex Aebutia’, in Ausgewählte Schriften, II, Napoli, 1976, 441 ss. (già in Studi in memoria di E. Albertario, I, Milano, 1953, 25 ss.), con le ulteriori precisazioni indicate in Id., ‘Ius honorarium’ und ‘ius civile’, in ZSS, CI, 1984, 52 s.

 

[21] Cfr., non diversamente, F. Gallo, ‘Synallagma’, I, cit., 142 ss., e 149 ss.; Id., Contratto e atto secondo Labeone: una dottrina da riconsiderare, in Roma e America. Diritto romano comune, VII, 1999, 22 ss.

 

[22] Per me è partitio (cfr. N. Donadio, L’idea di contratto nel pensiero giuridico romano, in L’idea di contratto nella prospettiva storico-comparatistica. Materiali didattici, a cura di S. Cherti, Padova, 2010, 43; A. Burdese, Sul concetto di contratto e i contratti innominati in Labeone, in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 121) il riferimento ad agere, contrahere, gerere, mentre vedo una divisio nella riconduzione del verbum generaleactum’ alle species dell’agere ‘re e ‘verbis’ (e comunque litteris), una tricotomia correlabile a quella del contrahere, scandita in emptio venditio, locatio conductio, societas. Pur secondo una prospettiva non pienamente coincidente con quella qui suggerita, pensa ad una partitio anche F. Gallo, ‘Synallagma’, I, cit., 100 s., 119, 127 ss.; Id., Contratto, cit., 22; in questo quadro, escludo peraltro che ‘actum’ possa comprendere in sé ‘contractum’ (cfr. F. Gallo, Eredità di Labeone in materia contrattuale, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 149; ma la posizione non si riscontra in Id., ‘Synallagma’, I, cit., 139 ss., 142 ss. e 149 ss.; Id., Contratto, cit., 22 ss.), così come che il gestum fosse scomponibile nell’actum e nel contractum (cfr. ancora ulteriormente Id., Eredità di giuristi romani in materia contrattuale, in Le teorie contrattualistiche nella storiografia contemporanea, a cura di N. Bellocci, Napoli, 1991, 24 s.; Id, Contratto, cit., 19 ss.). Criticamente sul punto cfr. C.A. Cannata, La nozione, cit., 31 e nt. 34, che pensa ad una divisio.

 

[23] Secondo J. Paricio, Contrato, cit., 47 ss., ed in particolare 49 s., sarebbe peraltro possibile ricondurre al contrahere labeoniano anche il mandato (analogamente, ora, cfr. anche S. Viaro, Il mandato romano tra bilateralità perfetta e imperfetta, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 351 ss., in particolare 365), che tuttavia non sembra accostabile ai casi dell’emptio venditio, della locatio conductio e – seppur in termini particolari – della societas considerati nel frammento. In questo quadro, è difficile che anche il mandato rientrasse nell’ultro citroque obligatio considerata da Labeone: è L. Garofalo, Gratuità, cit., 47 ss., ad ipotizzare la possibilità di rapportare il mandato alla categoria del gestum.

 

[24] S. Randazzo, ‘Mandare’. Radici della doverosità e percorsi consensualistici nell’evoluzione del mandato romano, Milano, 2005, 245, che parla di ‘bilateralità asimmetrica’. Mi pare comunque plausibile che per epoca classica matura – sulla base di Gai 3.155 – l’invicem teneri debba intendersi come mera reciprocità – non anche interdipendenza funzionale – dei vincoli generati dalla figura.

 

[25] M. Talamanca, Contratto, cit., 50.

 

[26] Cfr. J. Paricio, Contrato, cit., 46 s.

 

[27] Cfr. sopra, nt. 19.

 

[28] Nel passo di Pomp. 4 ad Q. Muc. D. 46.3.80 – riportato sopra, a nt. 19 – l’avverbio ‘aeque’ non «funge da cerniera tra le due parti del discorso stabilendo una relazione di equivalenza» (R. Santoro, Su D. 46.3.80, cit., 564), ma evidenza la necessità di modificare la disciplina normalmente applicabile alle figure di obligatio sicuramente riconosciute e tutelate dal ius civile, tra le quali non rientrano ancora – in quanto in via di recezione – quelle prodotte da fattispecie come compravendita e locazione, che appunto per Labeone non rientrano nell’agere, ma nel contrahere.

 

[29] Cfr. esattamente G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano, con la collaborazione di F. Sitzia e L. Vacca, 3a ed., Torino, 1991, 528; Id., Lezione, cit., 27 ss.

 

[30] Cfr. esattamente C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 22 e nt. 50.

 

[31] Cfr. ancora C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 71 s. Accanto alla genesi di una struttura formulare autonoma rispetto al condicere, costituita dall’actio ex stipulatu incerti (cfr. C.A. Cannata, op. cit., 72), penso soprattutto alla concessione delle formulae dell’actio rei uxoriae e dell’actio fiduciae (cfr. sul punto M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 148 e 553).

 

[32] Cfr. J. Paricio, Contrato, cit., 34. In realtà, la divisio dell’obligatio suggerita da Gaio è più che altro una proiezione della divisio tra funzione reipersecutoria e funzione penale della tutela in personam (cfr. C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 80 s.) emergente da Gai 4.6-8, sicché – al di là della stretta difficoltà logico-linguistica della scelta adottata – non mostra che il giurista accogliesse una dogmatica realmente distante da quella che emerge dal dictum Pedii in D. 2.14.1.3.

 

[33] L. Garofalo, Gratuità, cit., 52.

 

[34] C.A. Cannata, La nozione, cit., 30. E dunque il dissenso cade, più che altro, sull’esclusione di una prospettiva diacronica – in specie per epoca classica – negli svolgimenti dogmatici in tema di contractus, in quanto, secondo l’insigne Autore, «tutta la giurisprudenza classica impiegò tecnicamente la denominazione di contractus per i soli atti obbligatori che creano obbligazioni consensu, e per tutti questi atti; il che implica la precisazione complementare che anche deposito, comodato e pegno sono contratti, in quanto le rispettive obbligazioni nascono consensu e non re, perché il meccanismo del re obligari è quello dell’obbligazione creata dalla res, e precisamente da una cosa che, entrata nel patrimonio di un soggetto B, spetta invece ad un soggetto A, il quale tuttavia, la cosa essendo di B, non può rivendicarla. Fra le obligationes, nel senso di “atti”, tale è il caso del mutuo» (Id., Labeone, cit., 57).

 

[35] Un’apertura in questa direzione è comunque riconosciuta da C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 89.

 

[36] Negando questa lettura (C.A. Cannata, La nozione, cit., 29 s.; Id., Labeone, cit., 56), il Cannata finisce per considerare «elucubrazioni pseudo-sistematiche a fini didattici» (Id., Labeone, cit., 57) la lettura di Gaio, che innegabilmente – come anche C.A. Cannata, La nozione, cit., 45, riconosce – considera mutuo, stipulatio ed expensilatio come contractus. Sul punto, basti qui richiamare quanto scriveva G. Grosso, Il sistema romano dei contratti, 3a ed.,Torino, 1963, 40 ss., 73 ss., 78 ss., ed in particolare 123 ss. e 132.

 

[37] Per questo percorso, cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 8 ss.

 

[38] Su cui insiste C.A. Cannata, La nozione, cit., 34.

 

[39] N. Irti, ‘Idola libertatis’. Tre esercizi sul formalismo giuridico, Milano, 1985, 79 ss., in particolare 82 ss.

 

[40] C.A. Cannata, Corso di istituzioni di diritto romano, II.1, Torino, 2003, 61.

 

[41] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 536.

 

[42] M. Talamanca, ‘Conventio’, cit., 213 s. e nt. 180.

 

[43] M. Talamanca, ‘Conventio’, cit., 213 s.

 

[44] M. Talamanca, ‘Conventio’, cit., 213, nt. 180.

 

[45] Á. d’Ors, Réplicas panormitanas, III, ‘Conventiones’ y ‘contractus’, in AHDE, XLVI, 1976, 132 s.; 137, in cui peraltro l’Autore pensava alla riconducibilità della fiducia a conventio del ius civile, ma non a contractus. Al riguardo, cfr. quanto osservo in «Fiduciam contrahere», cit., 69 ss.

 

[46] M. Talamanca, Contratto, cit., 71 e nt. 135, 72 e nt. 137; Id., ‘Conventio’, cit., 213 e nt. 179. Per la sostanziale classicità del fr. 1.4 di D. 2.14 si schiera, peraltro, la più recente dottrina: cfr. C.A. Cannata, Labeone, cit., 58; L. Garofalo, Contratto, cit., 360, nt. 52; Id., Gratuità, cit., 67, nt. 156; T. dalla Massara, Alle origini, cit., 68; A. Mantello, Le ‘classi nominali’ per i giuristi romani. Il caso d’Ulpiano, in SDHI, LXI, 1995, 248 ss., in particolare 256 s.; A. Burdese, I contratti innominati, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al profesor J.L. Murga Gener, Madrid, 1994, 65; Id., Recenti prospettive in tema di contratti, in Labeo, XXXVIII, 1992, 218; F. Gallo, Eredità di giuristi romani, cit., 59, nt. 117; A. Schiavone, La scrittura, cit., 135, nt. 26, e 137 ss. Per R. Santoro, Il contratto nel pensiero di Labeone, in AUPA, XXXVII, 1983, 197 ss. e 202 s., la frase esprimerebbe pensiero di Pedio e non di Ulpiano. Sospetta il testo per il riferimento a pignus e stipulatio G. Romano, ‘Conventio’, cit., 252, nt. 47; per l’ipotesi dell’interpolazione di [vel in stipulationem], prospettata da tempo, cfr. fondamentalmente G. Grosso, Da Pedio ai Bizantini in D. 2.14.3.1-4, in Studi in onore di E. Volterra, I, Milano, 1971, 55 ss., con ricognizione ed analisi della letteratura precedente (cfr. inoltre Id., Il sistema, cit., 53 ss.). Per le congetture più risalenti, in termini non conservativi, sia peraltro consentito un rinvio ad Index interpolationum quae in Iustiniani Digestis inesse dicuntur editionem a L. Mitteis inchoatam ab aliis viris doctis perfectam curaverunt E. Levy et E. Rabel, I-III, suppl. I, Weimar, 1929-, ad h.l., nonché alla letteratura citata da R. Santoro, op. cit., 195, nt. 96.

 

[47] L’esegesi qui proposta diverge significativamente da quella indicata, innanzitutto su basi linguistiche che non condivido, da C.A. Cannata, Labeone, cit., 58: «l’enumerazione si sarebbe potuta costruire senza congiunzioni – è il caso in cui noi siamo abituati a mettere delle virgole – o con una sequenza di et, ovvero con una sequenza di vel; ma Ulpiano ha fatto diversamente. I termini dell’enumerazione sono quattro, ed egli ha impiegato un solo vel, che risulta così separare i primi esempi senza congiunzioni (emptio, locatio, pignus) dall’ultimo (stipulatio): perché i primi sono esempi di contractus, mentre l’ultimo è un atto obbligatorio che non è contractus». Nondimeno, la coordinazione è struttura chiastica, in quanto introdotta da un primo vel(ut) e chiusa, per la quarta ipotesi, da un secondo vel, adoperati in senso soggettivo in quanto al giurista interessa più che altro passare dal nomen generale a nomina particolari di conventiones (cfr. quanto osservo in «Fiduciam contrahere», cit., 57 ss.).

 

[48] Cfr. M.A. Fino, L’origine della ‘transactio’. Pluralità di prospettive nella riflessione dei giuristi antoniniani, Milano, 2004, 241 ss., in particolare 243; N. Donadio, L’idea, cit., 47 s.

 

[49] M. Talamanca, ‘Ius gentium’ da Adriano ai Severi, in La codificazione del diritto dall’antico al moderno, Napoli, 1998, 198, nt. 24.

 

[50] R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 70 e nt. 55 per la distanza di questa prospettiva da quella indicata da R. Knütel, La causa, cit., 133: secondo questo Autore, che nega l’endiadi nel dictum Pedii e considera interamente genuino il fr. 1.4, la prima coppia andrebbe riferita, con attenzione al fr. 1.3, alle figure di contractus, la seconda alle obligationes; laddove a mio avviso – a parte la diversa lettura del dictum Pedii, che rappresenta senz’altro un’endiadi – le due coppie si proiettano, semmai, sul discorso contenuto nel fr. 5, sicché la prima va riferita alla iuris gentium conventio, la seconda alla legitima conventio. Si rileverà fra l’altro come le coppie del fr. 1.4 siano disposte a struttura chiastica rispetto alla dicotomia del fr. 5, esattamente come a struttura chiastica è la coordinazione per tramite delle disgiuntive, vale a dire il vel(ut) iniziale ed il vel conclusivo. In sostanza, vi è una struttura chiastica sia nell’elencazione delle quattro figure indicate nel fr. 1.4, sia nel rapporto di esse, per coppie diairetiche, rispetto alla dicotomia della conventio ex privata causa: non credo che tutto questo possa derivare dalle intenzioni di un glossatore.

 

[51] Cfr. in particolare A. Mantello, Le ‘classi nominali’, cit., 255 ss., e S. Tondo, Note ulpianee alla rubrica edittale per i ‘pacta conventa’, in SDHI, LXIV, 1998, 449 ss.

 

[52] S. Riccobono, La formazione della teoria generale del ‘contractus’ nel periodo della giurisprudenza classica, in Studi in onore di P. Bonfante, I, Milano, 1930, 145 s.; Id., Stipulation and the Theory of Contract, translated from the Italian with notes by W. Kerr Wylie, revised and edited wiyh further notes and an introduction by B. Beinart, Amsterdam-Cape Town, 1957, 181 (che corrisponde a ‘Stipulatio’ ed ‘instrumentum’ nel diritto giustinianeo, in ZSS, XLIII, 1922, 341).

 

[53] Ed è su questo punto, ma con le diverse coordinate concettuali esposte in testo, che m’innesto nel discorso di L. Garofalo, Contratto, cit., 337 ss., in particolare 350 ss.

 

[54] M. Talamanca, ‘Conventio’, cit., 212. A conclusioni (solo) in parte analoghe mi pare giunga M. Sargenti, Svolgimento dell’idea di contratto nel pensiero giuridico romano, in Iura, XXXIX, 1988, 59 ss., in particolare 64; non mi pare quindi condivisibile, nelle coordinate concettuali qui seguite, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 65, che considera l’elenco ulpianeo come riferibile a contratti causali.

 

[55] R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 72.

 

[56] C. Cascione, ‘Consensus’. Problemi di origine, tutela processuale prospettive sistematiche, Napoli, 2003, 464 e 466, nt. 239 per i problemi posti da D. 2.14.1.4, tenuto presente dal punto di vista della prima coppia diairetica (emptio/locatio), che si riscontra, come abbiamo visto, anche in Ulp.-Lab. D. 50.16.19 ed in Pomp.-Q. Muc. D. 46.3.80.

 

[57] M. Talamanca, ‘Conventio’, cit., 212 s.

 

[58] C.A. Cannata, Labeone, cit., 56 s.; Id., La nozione, cit., 30 ss.

 

[59] A. Burdese, I contratti innominati, cit., 66 e nt. 11.

 

[60] Neppure nella formula dell’actio fiduciae, imperniata sulla clausola ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione testimoniato da Cic. off. 3.17.70, su cui cfr., di recente, R. Fiori, ‘Bonus vir’. Politica filosofia retorica e diritto nel ‘de officiis’ di Cicerone, Napoli, 2011, 250 e 334 s. Sul punto cfr. O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, 3a ed., Leipzig, 1927, 291 ss., nonché quanto dico in «Fiduciam contrahere», cit., 232 ss.

 

[61] Sul punto cfr. R. Fiori, ‘Ius civile’, ‘ius gentium’, ‘ius honorarium’: il problema della ‘recezione’ dei ‘iudicia bonae fidei’, in BIDR, CI-CII, 1998-1999, 190 s.; nonché Id., ‘Bonus vir’, cit., 134 s.

 

[62] Cic. off. 3.15.61.

 

[63] R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 76 e 114. In una diversa prospettiva d’indagine, ma in fin dei conti in termini non divergenti da quanto si suggerisce in testo, cfr. P. Fuenteseca, Visión procesal  de la historia del contrato en derecho romano clásico, in Estudios de derecho romano en honor de Á. D’Ors, I, Pamplona, 1987, 485 s.

 

[64] R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 61 ss.

 

[65] sch. 2 ad Bas. 11.1.6 (BS, 185):  òEgnwv th#n pou@blikan konbenti@ona. Ma@qe nu^n kai# th#n legiti@man. Legiti@ma eèsti# konbenti@wn hé aèpo# no@mou tino#v hà do@gmatov bebaioume@nh, kaènteu^qen kai# sunista^sa aègwgh#n kai# lu@ousa kata# to# iòpso ièou^re aègwgh@n. Kai# dia# tou^to eòsq èoçte aèpo# yilou^ sumfw@nou ti@ktetai aègwgh# kai# lu@etai kata# to# iòpso ièou^re aègwgh@n, toute@stin, oçtan to# pa@kton uépo# no@mou kurou^tai, oié^on (eiòpw de@ soi pro@teron, po@te aèpo# yilou^ pa@ktou suni@statai aègwgh@) eèa@n tiv traditeu@wn aègro#n ouçtwv eiòphj * traditeu@w soi to#n aègro@n, iòna eòcw tou@tou to#n ouèsoufrou^kton, th#n crh^sin tw^n karpw^n hà th#n pa@rodon.  èEpeidh# tau@thn th#n konbenti@ona hòtoi to# su@mfwnon ièdikw^v no@mov kuroi^ le@gwn eèrrw^sqai ta# eèn thj^ traditi@oni gino@mena su@mfwna [D. 2.14.48; specialiter D. 8.4.6 et D. 8.4.7, i.e. in l. IV de iudiciis, ut infra], du@natai oé traditeu@sav eèkdikh^sai th#n crh^sin tw^n karpw^n. Kai# oçtan eèpaggei@lwmai proiki@zein tina@  [C. 5.11.6], kai# oçte po@liv danei@zousa sumfwnh@sei lamba@nein to@kouv [D. 22.1.30], kai# oçte ièdiw@thv danei@zwn karpou#v sumfwne@sei lamba@nein to@kouv [D. 20.1.11.1 et D. 13.7.33] hà th#n doulei@an, wév eèn twj^ g @. kai# d @. bibli@wj tw^n de# ièoudiki@hv [D. ex ordine l. VII, de iudiciis l. III; D. ex ordine l. VIII, de iudiciis l. IV, ut supra] manqa@neiv.  çWsper ouè^n kai# eèpi# to# eènecu@rwj geno@menon su@mfwnon, kaòn siwphro#n hjù, eòcei ti@ktein aègwgh@n, toute@sti th#n Serbianh@n, wév oé Pau^lov eèn twj^ iz @ dig. fhsi@n [D. 2.14.17.2] (oiè^dav de@, oçti kai# dwrea@, kai# auòth aèpo# yilou^ sumfw@nou, ti@ktei sh@meron to#n eèx le@ge kondikti@kion [C. 8.53.35.5-5e et I. 2.7.2]) ouòtw me#n ouè^n suni@sthsin aègwgh#n hà legiti@ma konbenti@wn. Pw^v de# kata# to# auèto# di@kaion lu@ei aègwgh@n, ma@qe. Peri# th^v fou^rti pakteu@ein no@mov eèpe@treyen, wév manqa@neiv eèn twj^ iz @ dig. tou^ paro@ntov tit. [D. 2.14.17.1]. èEa#n ouè^n tiv pakteu@shj th#n fou@rti mh# kinei^n, lu@etai kata# to# ipso ioure hé fou^rti. çOti ga#r th#n fou^rti kata# to# iòpso ièou^re to# pa@kton aènairei^, manqa@neiv eèn twj^ iz @ dig. tou^ paro@ntov tit. [D. 2.14.17.1]. Kai@toi to# mh# uépo# no@mou ièdikw^v kurou^menon pa@kton, oié^on, ouèk aèpaitw^ se to# cre@ov, dia# paragrafh^v, aèlla# ouè kata# to# ipso ioure th#n aègwgh#n aènairei^, wév manqa@neiv eèn twj^ auètwj^ iz @ dig. kai# wév oé Ouèlpiano#v euèqu#v eèpife@rei [D. 2.14.7 pr.]. L’attribuzione all’Indice di Stefano è in ‘Basilicorum libri LX’, post A. Fabroti curas ope codd. mss. G.E. Heimbachio aliisque collatorum integriores cum scholiis edidit, editos denuo recensuit, deperditos restituit, translationem Latinam et adnotationem criticam adiecit D.C.G.E. Heimbach, VI, ‘Prolegomena et manuale Basilicorum continens’, Lipsiae, 1870, 224. Sul punto cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 82 ss.; in altra prospettiva d’indagine, ma con identico approccio di metodo, si occupa della lezione di Stefano G. Santucci, ‘Pacta adversus leges’. Tracce della Legge delle XII tavole nel commento edittale ulpianeo, in Tradizione romanistica e Costituzione, diretto da L. Labruna, a cura di M.P. Baccari e C. Cascione, II, Napoli, 2006, 1197 ss.

 

[66] Paul. 1 manual. Vat. Fragm. 50: In mancipationibus vel in iure cessione an deduci possit vel ex tempore vel ad tempus vel ex condicione vel ad condicionem, dubium est; quemadmodum si is, cui in iure ceditur dicit: aio hunc fundum meum esse deducto usu fructu ex Kal. Ian. Vel deducto usu fructu usque ad Kal. Ian decimas, vel aio hunc fundum meum esse deducto usu fructu, si navis ex Asia venerit; item in mancipatione: emptus mihi esto [pretio] <hoc aere aeneaque libra?> deducto usu fructu ex Kal. illis vel usque ad Kal. illas; et eadem sunt in condicione. Pomponius igitur putat non posse ad certum tempus deduci nec per in iure cessionem nec per mancipationem, sed tantum transferri ipsum posse. ego didici et deduci ad tempus posse, quia et mancipationem et in iure cessionem lex XII tabularum confirmat. Num quid ergo et ex tempore et condicione deduci possit? sequitur et legatum deduci ad certum tempus posse. Sul punto cfr. ancora R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 102 ss.

 

[67] Cfr. F. Goria, Il giurista nell’impero romano d’Oriente (da Giustiniano agli inizi del secolo XI), in Fontes minores XI, herausgegeben von L. Burgmann, Frankfurt am Main, 2005, 163 e nt. 46. L’insegnamento degli antecessores, infatti, si risolveva nell’«esprimere in lingua greca, per di più spesso chiarendoli e semplificandoli, i testi prevalentemente latini del Corpus iuris»; ed è per questo che «proprio le loro opere hanno costituito il substrato a cui attinsero, per tutto l’impero d’Oriente, la maggior parte delle compilazioni giuridiche successive, al punto che, quando queste ultime si discostano dal testo latino originario, sorge il fondato sospetto che tale discrepanza non sia da attribuire al compilatore più recente, ma risalga al giurista del secolo VI».

 

[68] Cfr. Paul. 15 quaest. D. 46.3.98.8 e Paul. 72 ad ed. D. 45.1.83.5: rinvio a R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 100 s.

 

[69] Cfr. Gai 4.21 e Tit. Ulp. 11.3; sul punto, si veda ancora R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 96 ss.

 

[70] G. Beseler, Romanistische Studien, in ZSS, XLVI, 1926, 134 s.

 

[71] L’opzione testuale ed esegetica qui adottata conduce lontano, per conseguenza, dalla ricostruzione suggerita da P. Cerami, ‘Contrahere cum fisco’, in AUPA, XXXIV, 1973, 338 ss. (e quindi, successivamente, Id., D.2.14.5 (Ulp. 4 ‘ad ed.’), cit., 209 ss.), seguito da A. Schiavone, La scrittura, cit., 138 s. e ntt. 34 e 35, secondo la quale accanto alle conventiones ex causa publica ed ex causa privata Ulpiano avrebbe fatto originariamente riferimento alle conventiones ex causa fiscali.

 

[72] «Aliquis … afferma l’esistenza di persona o cosa non individuabile»: così A. Traina - G. Bernardi Perini, Propedeutica al latino universitario, 6a ed., a cura di C. Marangoni, Bologna, 1998, 206; cfr. quanto osservo in «Fiduciam contrahere», cit., 99.

 

[73] M. Talamanca, ‘Conventio’, cit. 214, nt. 180.

 

[74] In quest’ordine di idee, dissento dunque dai tentativi ricostruttivi con cui si è ricercata la concretizzazione della legitima conventio, anziché in principia normativi nel senso gaiano dell’espressione, in specifiche disposizioni di leges, plebiscita o senatus consulta: cfr. in particolare P. Cerami, D.2.14.5 (Ulp. 4 ‘ad ed.’). Congetture sulle ‘tres species conventionum’, in AUPA, XXXVI, 1976, 167 ss.

 

[75] S. Randazzo, ‘Leges mancipii’. Contributo allo studio dei limiti di rilevanza dell’accordo negli atti formali di alienazione, Milano, 1999, passim, ed in particolare 34 ss. e 155 ss.; cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 161 ss.

 

[76] Su questo passo, trovo convincente in linea di principio, anche per la giustificazione dell’opzione critico-testuale, la recente lettura di B. Biscotti, Dal ‘pacere’ ai ‘pacta conventa’, Milano, 2002, 93 ss.; cfr. anche quanto rilevo in «Fiduciam contrahere», cit., 159 ss., con altra letteratura.

 

[77] Ed in questo mi riallaccio alla lettura di A. Corbino, Intervento, in Poteri ‘negotia’ ‘actiones’ nell’esperienza romana arcaica. Atti del Convegno di diritto romano, Copanello, 12-15 maggio 1982, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1984, 255; Id., La struttura della dichiarazione di acquisto nella ‘mancipatio’ e nella ‘in iure cessio’, in ‘Collatio iuris Romani’. Études dédiées à H. Ankum à l’occasion de son 65e anniversaire, cit., 82; e, quindi, Id., Il formalismo negoziale nell’esperienza romana, 2a ed., Torino, 2006, 29 ss., e 43; cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 184 ss.

 

[78] Riconosceva, ma per una diversa via esegetica, una legitima conventio nella fiducia B. Biondi, Contratto e ‘stipulatio’, Milano, 1953, 81, 118 e 142. Nella prospettiva ricostruttiva che proponevo in «Fiduciam contrahere», cit., 209 ss., il ricorso al rito mancipatorio deve intendersi nella sua struttura gestuale e verbale ‘astratta’, testimoniata da Gai 1.119; penso, infatti, che l’expressio causae più volte attestata, per  le mancipationes, dalle fonti documentarie in nostro possesso costituisca prova non già di un arricchimento in senso funzionale del formulario ordinario della mancipatio, ma semmai dell’esigenza, sentita dalla prassi, di documentare la convenzione sostanziale sottostante al rito, inespressa nel relativo formalismo. D’altro canto, non abbiamo alcuna prova della possibilità di configurare in senso funzionale il formalismo dell’in iure cessio, che pure – al pari della mancipatio – era comunque utilizzato per costituire la fiducia su res nec mancipi. Nel caso della fiducia, dunque, il fiduciario è obbligato, innanzitutto, ‘dalla cosa’, trasferita per atto formale, nel senso più stretto e tecnico dell’obligatio re; la convenzione sostanziale sottostante al gestum per aes et libram, quindi, opera direttamente sul piano del ius civile, orientandone l’effetto in modo da dar vita alla fattispecie fiduciaria e produrre il rapporto obbligatorio. Questa convenzione era percepita come una figura di legitima conventio riconducibile al principium normativo di Tab. 6.1: e dunque quel che noi chiamiamo – con espressione non romana – ‘pactum fiduciae’ altro non era, in sostanza, se non un’applicazione di quel sicuro valere del quodcumque pactum sit in mancipationibus rerum testimoniato da Gai. D. 2.14.48. In quest’ordine di idee, per un verso la convenzione fiduciaria operava unicamente in correlazione con gli atti formali di alienazione, stante la sua debolezza funzionale – cui suppliva evidentemente il formalismo del rito – che impediva di riconoscerla come iusta causa traditionis; per altro verso l’attribuzione patrimoniale al fiduciario creava una proprietà ‘funzionale’, ma non ‘temporanea’.

 

[79] Come si è già più volte rilevato, infatti, «la giurisprudenza pontificale romana introdusse nel patrimonio concettuale del diritto civile la nozione di obbligazione, individuando nella sponsio la sua fonte e creando la legis actio per iudicis postulationem per la sua sanzione» (C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 38).

 

[80] Trovo convincente, al riguardo, l’esegesi di S. Tondo, Note, cit., 449 s.

 

[81] Cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 92 s.

 

[82] B. Albanese, Per la storia del ‘creditum’, in  AUPA, XXXII, 1971, in particolare 155 s., 157 s. e 173. Cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 130 ss.

 

[83] R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 140 ss., in particolare 146.

 

[84] R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 138 s.

 

[85] F. Gallo, Contratto, cit., 33 e nt. 40.

 

[86] Su tutti questi aspetti rinvio a «Fiduciam contrahere», cit., 93 ss. e 111 ss., e ntt. 171 e 173 per la letteratura inerente alla collocazione cronologica dell’ad edictum paolino rispetto a quello ulpianeo.

 

[87] Per la cui riconducibilità a contractus depongono – ma solo per epoca severiana – Papin. 7 resp. D. 33.10.9.2, itp.; Ulp. 30 ad ed. D. 13.7.24 pr., itp.; Ulp. 2 disp. D. 15.1.36, itp.; Mod. 2 diff. Coll. 10.2.2; Mod. 4 resp. D. 13.7.39, itp.: su questi frammenti rinvio al I capitolo di «Fiduciam contrahere», cit., dedicato esclusivamente a questa problematica.

 

[88] A riscontro cfr. Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.1.4 e D. 2.14.7.3; Ulp. 26 ad ed. D. 12.1.9.4; Ulp. 45 ad ed. D. 50.17.34, oltre ovviamente Gai 3.88-90.

 

[89] Con specifico riferimento al pensiero di Ulpiano può farsi riferimento ad Ulp. 29 ad ed. D. 14.6.9.2; Ulp. 76 ad ed. D. 44.4.4.4; Ulp. 26 ad ed. D. 12.1.9.4. Ma in generale, sulla riconducibilità del mutuo a contractus cfr. V. Giuffrè, voce Mutuo (storia), in Enc. dir., XXVII, Milano, 1977, 429 e 434 s.

 

[90] Che non è contraddetta, evidentemente, dall’estensione della stipulatio ai peregrini mediante il ricorso a verba diversi da spondere (Gai 3.93), né il fatto che la mutui datio si costituisca per tramite della traditio, che è negozio di ius gentium (Gai. 2 rer. cott. D. 41.1.9.3) come lo sono i nomina arcaria (Gai 131-132). Su questi aspetti cfr. quanto dico in «Fiduciam contrahere», cit., 140 ss. Per altro verso, diversamente da quanto ritiene A. Burdese, Il contratto romano, cit., 105, Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.3 non mostra che la stipulatio sia considerata dal giurista come sottesa da iuris gentium conventio: al di là dei tagli – innegabili – operati dai Compilatori, il discorso è imperniato sulla meritevolezza della funzione, e prosegue quello avviato in tema di suna@llagma, per poi pervenire al problema della nuda pactio (fr. 7.4). Ne consegue che l’esemplificazione era introdotta per differenziare, con ogni probabilità, la funzione non meritevole dalla funzione assente, senza alcuna specifica incidenza sulla qualificazione della conventio. Il ricorso all’esempio della stipulatio, d’altronde, doveva forse avere – nella più ampia architettura della trattazione – un significato espositivo rafforzativo, analogo a quello desumibile dal fr. 1.3: in altri termini, la figura non si integra, per cui non v’è stipulatio, né in difetto strutturale di consensus, né in presenza di una conventio non meritevole, e ciò addirittura al di là – questo è il punto comune ai due cenni – del formalismo procedimentale, vale a dire il verbis fieri, che ne connota la genesi.

 

[91] Cfr. – è appena il caso di indicare i testi – Gai 3.88-89: e ciò, comunque, a meno di considerare del tutto inaffidabile l’esposizione di Gaio, come fa C.A. Cannata, La nozione, cit., 44 ss., in particolare 47 (dove si parla dei commentarii come del «prodotto di uno sforzo didattico mal concepito di un giurista mediocre»); Id., Labeone, cit., 57 (dove si denunziano «elucubrazioni pseudo-sistematiche a fini didattici»); e comunque di considerare atecniche, ma – almeno a mio avviso – senza una ragione decisiva in tal senso, le espressioni in cui, nelle fonti, sono qualificate come ‘contractus’ figure riconducibili all’antico agere labeoniano (cfr. ancora C.A. Cannata, La nozione, cit., 45, nt. 54).

 

[92] Secondo A. Mantello, Le ‘classi nominali’, cit., 255, «il ventaglio delle ipotesi resta abbastanza ampio», e tale mi pare destinato comunque a rimanere: sia consentito, al riguardo, un rinvio a «Fiduciam contrahere», cit., 66 e nt. 47.

 

[93] Cfr. sul punto C.A. Cannata, Qualche considerazione sui ‘nomina transscripticia’, in Studi per G. Nicosia, II, Milano, 2007, 208 ss., e R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 124 e nt. 202.

 

[94] Sicché non trovo convincente neppure la posizione di A. Schiavone, La scrittura, cit., 144 ss., tendente al sincretismo sulla base di una rilevanza trasversale, nel III secolo, della iuris gentium conventio.

 

[95] Mod. 2 reg. D. 44.7.52.1: Re obligamur, cum res ipsa intercedit. Il testo, a mio avviso, semplicemente compendia un’idea classica, sicché non vedo ragioni significative per dubitarne, specie nella prospettiva di M. Talamanca, ‘Una verborum obligatio’ e ‘obligatio re et verbis contracta’, in Iura, L, 1999, 97, secondo il quale il passo sarebbe «praticamente inintellegibile, stante l’assoluta ambiguità della frase ‘cum res ipsa intercedit’, che può riferirsi tanto alla struttura del contratto quanto all’oggetto del medesimo»: per me l’intercedere è l’interporsi della res ipsa  – che chiude ad un secondo livello la sequenza procedimentale formativa dell’atto, per la cui vincolatività il solo consensus formato non è sufficiente – tra la conventio e l’obbligazione, nella prospettiva di un re fieri non limitato – come nella più antica configurazione dell’agere re e del re contrahere in senso stretto – alla sola attribuzione dominicale. C.A. Cannata, voce Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., XII, Torino, 1995, 424, pensa all’intervento di un glossatore (ed ora Id., Materiali, II, cit., 92 ss., dove l’Autore tende a limitare l’affidabilità del testo al solo fr. 52 pr.), e vede nel passo il modello per la configurazione contemporanea del contratto reale, costituito con l’attribuzione di mera disponibilità materiale: in realtà, però, nella prospettiva del fr. 52.1 l’obbligazione sorge ‘dalla cosa in sé’, sicché semmai l’espressione è significativa dell’ambivalenza del momento determinante per la nascita dell’obbligazione, percepito come interposizione a livello tanto di naturalis possessio (come nei contratti di comodato e di deposito) quanto di attribuzione dominicale (come nel mutuo e nella fiducia). Per un verso, dunque, Modestino ampliava la stretta nozione del re obligari quiritario, accostando all’attribuzione dominicale l’attribuzione possessoria (di naturalis possessio) che connota comodato, deposito e pegno; per altro verso, l’attuale nozione di contratto reale sconta l’eccessiva centralità riconosciuta al principio consensualistico, che quasi di necessità impone alla dottrina civilistica una sorta di ‘avversione’ all’idea della presenza, nel sistema, di figure di consegna implicante trasferimento. Sicché, al riguardo, io credo che nell’attuale dogmatica dei contratti reali meriti di essere recuperata la tesi – adoperata da G. Oppo, Adempimento e liberalità, Milano, 1947 (rist.: Napoli, 1979), 408 ss. (ma cfr. anche a p. 394 s. e 399 s.) per configurare l’adempimento di obbligazioni naturali sulla scorta di G. Andreoli, Contributo alla teoria dell’adempimento, Padova, 1937, 82, e di A. von Tuhr, Der Allgemeine Teil des Deutschen Bürgerlichen Rechts, II.1, München und Leipzig, 1914, 149 s. – che considera più ampiamente la realità come spostamento patrimoniale, quale che sia, costitutivo di fattispecie: profilo che, a mio avviso, giustifica con evidenza, ad esempio, tanto il significato del dato normativo confluito nell’art. 1814 cod. civ., e quindi la realità (per consegna attributiva della proprietà delle cose fungibili) del mutuo, quanto quello cristallizzatosi nell’art. 1803, e quindi la realità (per consegna attributiva di detenzione qualificata) del comodato. È, a mio parere, in questa ambivalenza dell’intercessio ipsae rei che il fr. 52.1 può considerarsi alla base dell’attuale dogmatica del contratto reale: o, meglio, di quella che dovrebbe recuperarsi alla luce della dottrina degli Autori da ultimo ricordati.

 

[96] Cfr. R. Fercia, «Fiduciam contrahere», cit., 45 ss., 125.

 

[97] Mod. 2 reg. D. 44.7.52 pr.: Obligamur aut re aut verbis [aut simul utroque] <aut litteris> aut consensu aut lege aut iure honorario aut necessitate [aut ex peccato]. (1) Re obligamur, cum res ipsa intercedit. (2) Verbis, cum praecedit interrogatio et sequitur congruens responsio. (3) [Re et verbis pariter obligamur, cum et res interrogationi intercedit, consentientes in aliquam rem]. (4) <Consensu obligamur> [Ex consensu obligari] necessario ex voluntate nostra [videmur]. (5) Lege obligamur, < ? > [cum obtemperantes legibus aliquid secundum praeceptum legis aut contra facimus]. (6) Iure honorario obligamur < ? > [ex his, quae edicto perpetuo vel magistratu fieri praecipiuntur vel fieri prohibentur]. (7) Necessitate <obligamur … ?> [obligantur, quibus non licet aliud facere quam quod praeceptum est: quod evenit in necessario herede]. (8) [Ex peccato obligamur, cum in facto quaestionis summa constitit]. (9) Etiam nudus consensus sufficit obligationi, quamvis verbis hoc exprimi possit. (10) Sed et nutu solo pleraque consistunt. Rispetto alla ricostruzione di C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 92-103, ed allo status quaestionis ivi delineato, considero frutto di alterazione – per inserimento, segnatamente, in luogo dell’obligari litteris – il riferimento all’obligatio re et verbis, sia nel fr. 52 pr., sia nel fr. 52.3. Invece, i fr. 52.1 e 52.4 secondo me semplicemente compendiano un’idea classica: con ogni probabilità è realmente di Modestino l’uso del verbo intercedere per spiegare l’obligatio re, uso tenuto presente dal parafraste che aveva inserito meccanismo (e commento) dell’obligatio re et verbis. Concordo con il Cannata, quindi, sull’alterazione del fr. 52 pr. (e del commento, nel fr. 52.8) per quanto concerne l’obligatio ex peccato: Modestino rifiutava, in quanto sentita dogmaticamente impraticabile, anche se non priva di utilità sul piano di una semplice esposizione didattica, la possibilità di distinguere tra obligatio ex contractu ed obligatio ex delicto. Il lege obligari, di cui abbiamo perso in sostanza il commento, doveva riguardare per il giurista ipotesi riconducibili tanto a tutela penale (si pensi ad esempio a furtum e damnum iniuria datum) quanto a tutela reipersecutoria (penso alla tutela, che riposa su dati normativi repubblicani, come chiariva Tit. Ulp. 11.3); analoga prospettiva sottende il iure honorario obligari (si pensi alle tutele avverso dolus malus e quod metus causa, e quindi ai quasi delitti giustinianei, quali tutele penali pretorie; od ai recepta, quali tutele reipersecutorie pretorie). Il necessitate obligari resta questione aperta (su cui si è soffermato in particolare Th. Mayer-Maly, ‘Obligamur necessitate’, in ZSS, LXXXIII, 1966, 47 ss.; Id., Topik der ‘necessitas’, in Études offertes à J. Macqueron, Aix-en-Provence, 1970, 477 ss.); ma è molto difficile che sia davvero riconducibile alla posizione patrimoniale dell’heres necessarius: il nesso è più linguistico che dogmatico, ove si consideri che pur sempre obligatio a persona heredis incipere non potest, sicché la trasmissione di un’obligatio sarebbe paradossalmente reinterpretata come suo fattore produttivo. Se il riferimento all’heres necessarius maschera – come non appare a priori assurdo – un originario discorso su obligationes riferibili a servi, non escluderei che Modestino parlasse di necessitate obligari, in via residuale, per la naturalis obligatio: ove, cioè, il vincolo astrattamente producibile dai fattori già individuati (re, verbis, litteris, consensu, lege, iure honorario) non possa sorgere per la condizione soggettiva di una delle parti, si dovrà nondimeno ritenere sussistente un’obligatio prodotta dalla necessitas. Ciò potrebbe contribuire a spiegare la scelta espositiva della definizione di obligatio contenuta in I. 3.13 pr., dove appunto si legge non già ‘actione’, ma ‘necessitate adstringimur, così da coprire non solo la civilis, ma anche la naturalis obligatio (sia consentito, in merito, un rinvio a R. Fercia, Le obbligazioni naturali, in Trattato delle obbligazioni diretto da L. Garofalo e M. Talamanca, I.3, Obbligazioni naturali e obbligazioni senza prestazione, Padova, 2010, 216 ss., in particolare 218 s.). Infine, i fr. 52.9-10 sono probabilmente classici: il giurista, dopo aver individuato i fattori di produzione del vincolo, ed aver considerato in via residuale anche la necessitas del debitore naturale, doveva soffermarsi a chiarire la distanza teorica e pratica tra due ipotesi tendenzialmente analoghe, l’obligatio verbis e l’obligatio consensu, individuandone la distanza nel sufficere del nudus consensus – che può esprimersi anche con un semplice cenno – nel secondo caso. Al di là delle alterazioni testuali dovute a verosimili glossemi rientrati nel testo, forse nel travaglio della didattica postclassica, emerge bene a mio parere il rifiuto di Modestino da un lato di utilizzare la struttura bilaterale della conventio come ‘comune denominatore’ delle obligationes protette in via reipersecutoria (come faceva Gaio, proiettando la funzione reipersecutoria della tutela sulla categoria descrittiva dell’obligatio ex contractu) e, dall’altra, di creare una divisio tra obbligazioni ‘contrattuali’ ed obbligazioni ‘extracontrattuali’.

 

[98] Nel senso che la tutela in rem è inesprimibile tanto per le figure di contratto reale imperniato su trasferimento (come mutuo e fiducia), quanto per i contratti reali del ius gentium, non foss’altro perché il possessore, ovvero il legittimato passivo in petitorio, è comunque in questi casi il dominus (cfr. C.A. Cannata, Corso di istituzioni di diritto romano, I, Torino, 2001, 421 ss.): di qui – accanto all’emersione della tutela per tramite dei iudicia contraria, che attenua l’unilateralità dell’effetto dell’atto – uno dei presupposti per l’osmosi tra il condicere e la tutela contrattuale, verso la quale tende a trasfigurare ogni qual volta la fonte dell’obligatio re abbia struttura bilaterale. Nondimeno, secondo C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 89, ciò «non crea alcuna analogia fra un contratto di deposito e un mutuo». Dal mio punto di vista, evidenzierei semmai come l’esperienza della ‘Severerzeit’ tenda ad ampliare la nozione originaria del re contrahere – accostando al trasferimento l’acquisto della naturalis possessio – forse riprendendo un filo interrotto: mi riferisco al riconoscimento della condictio, per ragioni equitative (cfr. C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 56) anche nell’ipotesi del furtum, nonostante il ladro non acquisti, evidentemente, la proprietà sulla refurtiva.

 

[99] In adesione alla posizione di C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 103 ss. Ritengo, ad ogni modo, che il parafraste avesse piena consapevolezza dogmatica della distanza tra l’obbligazione ‘contrattuale’, ovvero protetta da tutela reipersecutoria, e obbligazione ‘extracontrattuale’, protetta da tutela penale: diversamente da quanto ritiene il Cannata (op. cit., 111 s.) il re consistere dell’unum genus dell’obligatio ex maleficio non è una rivisitazione ‘intellettualoide’ del re contrahere, ma il segno della consapevolezza della distanza teorica tra le due categorie considerate (ed allo stesso tempo, forse, una sorta di ‘ponte’  tra i due estremi dell’originaria divisio gaiana). Dicendo in Gai. 3 aur. D. 44.7.4 che l’obbligazione extracontrattuale re consistit, ovvero – il che è però forse frutto di glossemi successivi – id est ex ipso maleficio, egli afferma che essa sorge ‘dalla materialità’ del misfatto, sicché il ladro è obbligato ‘dalla cosa rubata’, come il danneggiante ‘dalla cosa danneggiata’. Per l’iniuria, la materialità va intesa nella prospettiva storica della sua genesi, correlata alla materialità delle ipotesi considerate nel noto passo di Paul. l. sing. et tit. de iniuriis Coll. 2.5.5: il che denota appunto la consapevolezza dell’irrilevanza, in questo contesto, della nozione di (in)adempimento. In quest’ordine di idee, le ipotesi di obligatio quasi ex maleficio (Gai. 3 aur. D. 44.7.5.4-6) sono accomunate dall’attenuazione della materialità – il re consistere – del misfatto, sia nel caso della sentenza resa per imprudentiam, sia nei casi della responsabilità per fatto altrui, dove ad essere ‘proprie’ obbligato re, nel senso precisato, è solo l’autore del fatto.

 

[100] C.A. Cannata, La nozione, cit., 39 ss.

 

[101] G. Romano, Nota sulla tutela del contraente evitto nell’ambito dei c.d. contratti innominati. Il caso dell’‘actio auctoritatis’, in Diritto @ Storia, IX, 2010, § 1. Non riesco, in sostanza, a vedere la questione neppure a livello di problema, che secondo me i prudentes non si ponevano in ragione delle finalità di tutela prese in considerazione.

 

[102] Su questo giurista, cfr. le belle pagine di C.A. Cannata, Lo splendido autunno delle due scuole, in Pacte convention contrat. Mélanges en l’honneur du Professeur B. Schmidlin, ed. par A. Dufour, I. Rens, R. Meyer-Pritzl et B. Winiger, Bâle et Francfort-sur-le-Main, 1998, 441 ss.

 

[103] Gai 3.141 e Paul. 33 ad ed. D. 18.1.1. Sul punto cfr. F. Sitzia, voce Permuta (dir. rom.), in Enc. dir., XXXIII, Milano, 1983, 107 ss.; ma la dissensio potrebbe risultare forse meno netta di quanto normalmente si ritenga a seguire l’esegesi di G. Nicosia, Celio Sabino e le dispute su ‘permutatio’ ed ‘emptio venditio’, in Iura, LXII, 2014, 17 ss.

 

[104] F. Sitzia, voce Permuta, cit., 109 ss., in particolare 112.

 

[105] Non mi pare che Pomp. 18 ad Q. Muc. D. 40.7.29.1 consenta di desumere indizi sufficienti per un’adesione di Aristone alla tesi sabiniana, con la conseguente possibilità di ravvisare nella testimonianza di Paul. D. 19.4.1.2 un’evoluzione nel pensiero del giurista, come ipotizza C. Pelloso, ‘Do ut des’ e ‘do ut facias’. Archetipi labeoniani e tutele contrattuali nella giurisprudenza romana tra primo e secondo secolo d..C., in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 114 ss. e 120 ss.: il tratto ‘lex duodecim tabularum emptionis verbo omnem alienationem complexa vide(re)tur’ va riferito, infatti, almeno a mio parere, alla dichiarazione di acquisto nella mancipatio (Gai 1.119; sul punto cfr. esattamente P. Huvelin, Études sur le ‘furtum’ dans le très ancien droit romain, I, Les sources, Paris, 1915, 518 e ntt. 5 e 6), sicché l’interpretazione di Aristone non sembra fondarsi su un’assimilazione della permuta alla compravendita, ma sul particolare significato dell’antico emere, ancora vitale nel formulario dell’atto formale adoperato ai suoi tempi (cfr. E. Stolfi, Il modello delle scuole in Pomponio e Gaio, in SDHI, LXIII, 1997, 43 ss., in particolare 46 e nt. 216, che evidenzia la recuperabilità della norma decemvirale tramite Tit. Ulp. 2.4).

 

[106] Per la correzione dell’inscriptio, cfr. O. Lenel, ‘Palingenesia iuris civilis’, I, Lipsiae, 1889, 1034, nt. 2; ne segue la congettura anche C.A. Cannata, Labeone, cit., 76 e nt. 115.

 

[107] E. Sciandrello, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta nel diritto romano, Trento, 2011, 280.

 

[108] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 436.

 

[109] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 436.

 

[110] Cfr. chiaramente F. Gallo, Eredità di giuristi romani, cit., 57; A. Schiavone, La scrittura, cit., 147; M. Talamanca, ‘Conventio’, cit., 212 e nt. 176; ma mi pare implicita communis opinio in dottrina: cfr. N. Donadio, L’idea, cit., 51 ss.

 

[111] Seguo ancora nei suoi assunti di fondo, e nella terminologia, L. Garofalo, Gratuità, cit., 50 s.

 

[112] Per questa prospettiva, che merita di essere ulteriormente percorsa, cfr. ancora L. Garofalo, Gratuità, cit., 66 ss., 74 ss.

 

[113] Mi pare convincente, in linea di principio, la proposta esegetica che tende a distinguere tra causa in senso funzionale, e suna@llagma (cfr. T. dalla Massara, Alle origini, cit., 127 ss. e 134 ss.; Id., Sul ‘responsum’ di Aristone in D. 2.14.7.2 (Ulp. 4 ‘ad ed.’): l’elaborazione del concetto di causa del contratto, in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 303 ss. e 309 ss., seguito da J. Paricio, Contrato, cit., 63 s.; per la più recente messa a fuoco, Id., Come nasce un’idea: la causa del contratto, in LR, II, 2013, 364 ss. e 370 ss.; cfr. anche A. Burdese, Il contratto romano, cit., 106); nondimeno, a me pare che il suna@llagma sia comunque irriducibile alla datio (criticamente cfr. anche C.A. Cannata, Labeone, cit., 66 ss., in particolare 70 ss.), che dal mio punto di vista rileva sul piano della disciplina formativa, vale a dire del fieri della fattispecie. Dunque il subesse causa, che secondo me va ascritto alla rimeditazione di Ulpiano della proposta di Aristone, ben può identificarsi – ed il problema si sposta nell’individuazione degli apporti dei singoli giuristi alla questione – con uno scambio, ma non solo (si pensi, ad esempio, alla meritevolezza delle convenzioni atipiche unilaterali per epoca severiana, dove peraltro si recuperavano spunti labeoniani): in questo senso, il suna@llagma è una figura di causa. Più precisamente, nella casistica che è alla base del discorso di Aristone e Mauriciano tenuta presente da Ulpiano, il subesse causa si concreta appunto in uno ‘scambio’ (cfr. C.A. Cannata, Contratto, cit., 209 s.), prima ancora che in uno  ‘scopo’ (R. Santoro, La causa delle convenzioni atipiche, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 224 ss.), percepito come assetto generatore dell’obligatio civilis, con conseguente proiezione della datio sul piano – come dicevo – procedimentale, indice esterno di giuridicità della convenzione comunque causalmente giustificata. Il che esclude, fra l’altro, che nella continuità tra Labeone ed Aristone risieda un certo qual fraintendimento della prospettiva indicata dal giurista augusteo, come suggerisce F. Gallo, Eredità di Labeone, cit., 154 ss.

 

[114] Senza peraltro giungere all’estremo di considerare di per sé sola sufficiente «la perfetta ‘datio ut’ convenuta dalle parti quale elemento strutturale del negozio, la quale sola avrebbe implicato, generando il rapporto sinallagmatico, il competere al primo dans dell’actio per l’adempimento della controprestazione»: è quanto, al riguardo, suggerisce C. Pelloso, ‘Do ut des’, cit., 145 ss. (147 per la citazione testuale), così da configurare una «radicale ‘a-contrattualità’ dei nova negotia aristoniani» (ivi, 141). In quest’ordine di idee, in fin dei conti riconducibile alle varianti di una medesima configurazione concettuale pur sempre facente capo ad Accursio – e dunque all’idea della datio come vestimentum della convenzione, come si legge nella gl. causa in l. iurisgentium conventiones, § sed cum nulla, ff. de pactis (D. 2.14.7.4), che per  il lemma ‘causa’ chiariva appunto id est datio, vel factum quod vestiet pactionem – cfr. anche M. Sargenti, Svolgimento, cit., 24 ss.; L. Zhang, Contratti innominati nel diritto romano. Impostazioni di Labeone e di Aristone, Milano, 2007, 167 ss., in particolare 221 ss.; A. Guzmán Brito, Causa del contrato y causa de la obligación en la dogmática de los juristas romanos, medievales y modernos y en la codificación europea y americana, in Roma e America. Diritto romano comune, XII, 2001, 200 s.

 

[115] Cfr. R. Knütel, La causa, cit., 142; A. Giffard, L’‘actio civilis incerti’ et le synallagma (D. 2.14.7), ora in Études de droit romain, Paris, 1972, 197; B. Biondi, Contratto, cit., 90 s.

 

[116] Per le ragioni indicate da C.A. Cannata, Recensione a E. Sciandrello, Studi sul contratto estimatorio e sulla permuta nel diritto romano, Trento, 2011, in Iura, LX, 2012, 343 s.; di recente, cfr. nella medesima prospettiva T. dalla Massara, La causa del contratto nel pensiero di Aristone: della necessità di un concetto, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 201; G. MacCormack, Contractual Theory and the Innominate Contracts, in SDHI, LI, 1985, 131 ss.

 

[117] Così, esattamente, G. Grosso, Il sistema, cit., 87.

 

[118] G. Benedetti, Dal contratto, cit., 109.

 

[119] G. Benedetti, Dal contratto, cit., 113; F. Santoro-Passarelli, Dottrine generali del diritto civile, 9a ed., Napoli, 1996 [rist.: 2002], 136 s.; sul punto cfr. anche V. Roppo, Il contratto, in Trattato di diritto privato a cura di G. Iudica e P. Zatti, Milano, 2001, 200. Non v’è un abisso, in fin dei conti, tra la datio ob rem romana ed il negozio di attuazione ex art. 1327 cod. civ. di cui discute l’attuale dottrina civilistica: da questo punto di vista la sinapsi con il modello romano si coglie forse più facilmente, pur non potendosi comunque identificare i due meccanismi procedimentali, l’uno strumentale alla semplificazione della disciplina formativa, l’altro semmai a suggellare una convenzione che, per determinare il vincolo, abbisogna di un segno esterno di giuridicità. Può qui ulteriormente rilevarsi come la realità del negozio di attuazione non faccia diventare ‘contratto reale’ la figura che si perfezioni con il meccanismo di cui all’art. 1327 cod. civ., esattamente come non può considerarsi obligatio re contracta la figura innominata romana, per la quale può parlarsi unicamente di un re fieri.

 

[120] Non è dunque questo, specificamente, il testo che contiene l’opinione alla quale si relazionava Aristone, come normalmente si ritiene: cfr., da ultimo, C.A. Cannata, Labeone, cit., 36 ss.; d’altro canto, gli esempi addotti nella prima parte di D. 2.14.7.2 non coincidono con il caso esaminato in D. 12.4.16, sicché sul punto mi discosto ulteriormente da quanto scrive C.A. Cannata, op. cit., 89.

 

[121] Cfr. esattamente S. Tondo, Note, cit., 452 s.

 

[122] Contrariamente a quanto, di recente, ritiene L. Zhang, Osservazioni sulla distinzione tra la compravendita e la permuta nel ‘ius controversum’ tra i Sabiniani e i Proculiani, in ‘Fides’ ‘Humanitas’ ‘Ius’, Studii in onore di L. Labruna, VIII, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 6056 ss., in particolare 6057 e nt. 12, 6059, leggendo ‘proportione’ in luogo di ‘pro portione’ in adesione a V. Scialoja, La L. 16. Dig. de cond. causa data 12.4 e l’obbligo di trasferire la proprietà nella vendita romana, ora in Studi giuridici, II, Roma, 1934, 255 ss.; analogamente Id., Contratti, cit., 180 e nt. 41 (ma cfr. anche V. Arangio-Ruiz, La compravendita in diritto romano. Corso di lezioni svolto nell’Università di Roma. Anni 1951-1953, 2a ed., Napoli, 1954, 132). A mio avviso la lettura del Mommsen è, peraltro, preferibile: leggere nel frammento lo schema della proporzione geometrica rispetto a quello dell’analogia sottende in un certo qual modo l’idea della lectio difficilior.

 

[123] Uno spunto in questo senso mi pare sia suggerito da J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’ als Formelaufbauproblem, in ZSS, CVI, 1989, 453 (ma senza un’indagine direttamente riferibile a D. 12.4.16), e da C.A. Cannata, Labeone, cit., 38 e 41 ss.

 

[124] Cfr. per tutti, sul punto, M. Talamanca, voce Vendita (dir. rom.), in Enc. dir., XLVI, Milano, 1993, 380 ss.

 

[125] Sul punto, cfr. esattamente M. Talamanca, voce Vendita, cit., 382 ss. e nt. 823. In sostanza, altro è ritenere integrata l’obbligazione di dar seguito, inter cives, alla mancipatio, intesa come obbligazione di dare facere – realizzare il rito dell’alienazione secondo il modello formale quiritario – ex fide bona; altro è ritenere sussistente il dovere di rem accipientis facere per tramite di quella mancipatio, con conseguente inadempimento per l’ipotesi del difetto di legittimazione a disporre: per questa ragione – in particolare alla luce di Ulp. 34 ad Sab. D. 18.1.25.1: Qui vendidit necesse non habet fundum emptoris facere, ut cogitur qui fundum stipulanti spopondit la prospettiva in testo diverge da quella di recente prospettata da G. Guida, La tutela del compratore in caso di evizione fra garanzia e responsabilità. Soluzioni giurisprudenziali romane e problemi teorici attuali, Napoli, 2013, 45 ss.

 

[126] Come nel ragionamento di Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.1-2: Et si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam, emptio et venditio est: sin autem rem do, ut rem accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem, < ? > in qua actione id veniet, non ut reddas quod acceperis, sed ut damneris mihi, quanti interest mea illud de quo convenit accipere: vel si meum recipere velim, repetatur quod datum est, quasi ob rem datum re non secuta. < ? > sed si scyphos tibi dedi, ut Stichum mihi dares, periculo meo Stichus erit ac tu dumtaxat culpam praestare debes. explicitus est articulus ille do ut des. (2) At cum do ut facias, si tale sit factum, quod locari solet, puta ut tabulam pingas, pecunia data locatio erit, sicut superiore casu emptio: si rem <do>, non erit locatio, sed nascetur vel civilis actio in hoc quod mea interest vel ad repetendum condictio. quod si tale est factum, quod locari non possit, puta ut servum manumittas, sive certum tempus adiectum est, intra quod manumittatur idque, cum potuisset manumitti, vivo servo transierit, sive finitum non fuit et tantum temporis consumptum sit, ut potuerit debueritque manumitti, condici ei potest vel praescriptis verbis agi: quod his quae diximus convenit. sed si dedi tibi servum, ut servum tuum manumitteres, et manumisisti et is quem dedi evictus est, si sciens dedi, de dolo in me dandam actionem Iulianus scribit, si ignorans, in factum [civilem]. Sul fr. 5.1 cfr. oltre, § 14; sul fr. 5.2, cfr. oltre, § 11. Interessa qui solo rilevare come la datio pecuniae, nei contesti in cui l’id quod actum est consenta di ravvisare una conventio riconducibile a figura contrattuale tipica, non possa considerarsi alla stregua di un ob rem datum, risultando piuttosto esecutiva dell’obbligazione di pagare il prezzo (fr. 5.1) o la mercede nella locazione (fr. 5.2). Si rileverà, inoltre, come la tecnica di qualificazione ‘pro portione’ della fattispecie, alla base del ragionamento di Celso, sia riscontrabile anche nel fr. 5.1 delle Quaestiones di Paolo: se il pecuniam dare sta all’emptio come il rem accipere sta alla venditio, allora il pecuniam dare non è datioob rem’, ma solutio pretii.

 

[127] Un interessante spunto in questa direzione è colto da F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’ ed editto alla luce di testimonianze celsine, in Labeo, XLIV, 1998, 17 ss., in particolare 24. Evidenzierei, d’altronde, come la difficoltà di ammettere una figura di ‘vendita reale’ – non già nel senso di obligatio re contracta, ma di figura contrattuale che ‘re fit’: quanto, secondo A. Schiavone, Studi sulle logiche dei giuristi romani. ‘Nova negotia’ e ‘transactio’ da Labeone a Ulpiano, Napoli, 1971, 152, induceva il giurista a negare la configurabilità della figura nominata – finisca per connotare, a più ampio raggio, anche alcuni spunti ricostruttivi contemporanei: secondo Cass. 26 gennaio 1996, n. 611, in Foro it., 1997, I, 1247, infatti, «mentre si riconosce che, prevedendo la legge un contratto reale, le parti possano in luogo di esso elaborare, con effetti minori, un corrispondente contratto consensuale atipico (è questo il fenomeno che la dottrina chiama ‘progressiva erosione’ del modello del contratto reale), è invece da escludere che, essendo dalla legge previsto, per un certo assetto negoziale, il meccanismo regolatore della consensualità, vera e propria ‘via maestra’ nella produzione degli effetti giuridici, le parti possano ad esso derogare, creando un modello reale atipico». Sul punto, cfr. l’interessante analisi di C. Mancini, La realità come scelta ‘atipica’, in Riv. dir. comm., 1999, I, 387 ss., in particolare 445 ss., nonché G. D’Amico, La categoria dei c.d. contratti reali atipici, in Rass. dir. civ., 1984, II, 349 ss.

 

[128] È questa la posizione di S.A. Cristaldi, Il contenuto dell’obbligazione del venditore nel pensiero dei giuristi dell’età imperiale, Milano, 2007, 112 ss., in particolare 115 ss.; nondimeno – e per tacere del fatto che sarebbe davvero strano che Celso non abbia inteso discutere di un profilo tanto significativo, soffermandosi su altri aspetti della questione – la datio pecuniae è senza dubbio una datio ob rem, vale a dire una traditio ex iusta causa: l’accordo sullo scopo pratico del pecuniam tradere non poteva non implicare, con l’individuazione, l’esatta determinazione di un vero e proprio prezzo, tanto è vero che Celso esclude, nel proprio ragionamento, la praticabilità dell’opzione proculiana per la regola del periculum emptoris (cfr., esattamente, le considerazioni di M. Scognamiglio, Note su sinallagma condizionale e ‘periculum rei venditae’ in diritto romano, in La compravendita e l’interdipendenza delle obbligazioni nel diritto romano, II, a cura di L. Garofalo, Padova, 2007, 205). A ragionare nell’ottica di Cristaldi, la datio sarebbe sine causa né si porrebbe il problema della condictio ob rem dati re non secuta, quanto semmai – ove non si ritenga che Celso seguisse l’opzione isolata di Iul. 13 dig. D. 41.1.36 – quello di una condictio sine causa (cfr. fondamentalmente Ulp. 18 disp. D. 12.1.18). E tuttavia, l’esatta attuazione sia della datio pecuniae, sia della datio servi avrebbe implicato la stabilità definitiva dei risultati attributivi: il problema che il giurista si pone consegue al fatto che l’accipiens non procede a servum dare, sicché egli valuta se sussista un’obligatio civilis in tal senso oppure no; nondimeno, orientandosi per questa seconda soluzione, Celso non esclude affatto, per il caso dell’attuazione ‘fisiologica’ dello scambio, la stabilizzazione delle attribuzioni, che sarebbe a monte preclusa ove si ritenesse inconfigurabile la iusta causa della traditio pecuniae.

 

[129] gl. proclivior in l. dedi tibi (secunda), ff. de condictione causa data, causa non secuta (D. 12.4.16): id est ut sit do ut des et hoc probat tribus rationibus, ut subijcit: sed videtur venditio, cum ex una parte est pecunia, ex alia species: ut infra de prescriptis verbis naturalis § i. [D. 19.5.5.1] que est contra. Solutio: hic fuit data pecunia in specie, ut infra de legatis i. plane § ii [D. 30.34.4], quod potuit fieri: ibi vero in quantitate secundum Iohannem. Vel dic secundum Azonem idem etiam si in quantitate in casu huius legis; nam quia appositum fuit pactum de dando Sticho id est de transferenda proprietate Stichi: quod est contra naturam venditionis, dicitur esse innominatus contractus. Est enim dare accipientis facere, ut I. de actionibus § sic itaque [I. 4.6.14] quod venditor facere non tenetur ut infra de actionibus empti et venditi ex empto in prin. [D. 19.1.11.2]. Su questa famosa testimonianza, cfr. R. Volante, Il sistema contrattuale del diritto comune classico. Struttura dei patti e individuazione del tipo. Glossatori e Ultramontani, Milano, 2001,  278 e nt. 31, ma amplius 195 ss. nonché, per il problema del rapporto con la permuta, 266 ss.; M. Talamanca, voce Vendita, cit., 380 s., criticamente sulla possibilità di recupero della posizione assunta da Bassiano. Mi sia consentito di rinviare, inoltre, a quanto rilevo in «Quia vendidit, dare promisit», Cagliari, 2009, 22, nt. 25 e 24, nt. 27, nel discostarmi dalla lettura di S.A. Cristaldi, Il contenuto, cit., passim ed in particolare 110 s.: continuo a negare senz’altro qualsiasi ipotetica equivalenza tra ‘rem praestare’ e ‘rem accipientis facere’, anche alla luce della ancor più recente analisi di G. Guida, La tutela, cit., 38 ss. e 57 ss.; anche se, francamente, non riesco a vedere in queste proposte esegetiche (che entrambe si dichiarano debitrici dei lavori di Letizia Vacca, con specifica attenzione a quelli raccolti in Vendita e trasferimento della proprietà nella prospettiva storico-comparatistica. Materiali per un corso di diritto romano, a cura di L. Vacca, Torino, 1997, ovvero Annotazioni in tema di vendita e trasferimento della proprietà, ivi, 127 ss.; Sulla responsabilità ‘ex empto’ del venditore nel caso di evizione secondo la giurisprudenza tardo-classica, ivi, p. 193 ss., in particolare 214 s.; Ancora sull’estenione dell’ambito di applicazione dell’‘actio empti’, ivi, 221 ss., in particolare 254 s.; La garanzia per evizione e le obbligazioni del venditore nel sistema romano e nel sistema del codice civile italiano, ivi, 266 ss., in particolare 284) una distanza davvero significativa rispetto all’impostazione tradizionale, che non mi pare affatto contraddetta (mi limito, dunque, ancora ad un rinvio a quanto scrivo in «Quia vendidit, dare promisit», cit., 22, nt. 25). Quanto, infine, al problema posto da Paul. D. 19.5.5.1 (si quidem pecuniam dem, ut rem accipiam, emptio et venditio est: sin autem rem <do>, ut rem accipiam, quia non placet permutationem rerum emptionem esse, dubium non est nasci civilem obligationem), ribadisco (cfr. ancora ivi, 24, nt. 27) che il giurista non confronta l’obbligazione del venditore con quella del permutante che abbia ottenuto la proprietà in esito alla prima datio, ma semmai distingue l’obbligazione di dare pecuniam da quella di dare rem dal punto di vista dell’autonomia concettuale delle due figure (contra, S.A. Cristaldi, Il contenuto, cit., 110 s.): in definitiva, accipere rem vale qui, per Paolo, a descrivere genericamente tanto il (risultato del) possessionem tradere del venditore, quanto il (risultato del) dare cui è tenuto il permutante che abbia ottenuto la proprietà della res a seguito della datio posta in essere dalla controparte, laddove il dato realmente rilevante consiste nel distinguere tra pecunia e res, e quindi tra chi sia emptor e chi non possa essere così qualificato, non integrandosi con la permuta la figura nominata dell’emptio venditio (per tutti F. Sitzia, voce Permuta, cit., passim, in particolare 108 e 113).

 

[130] Diversamente si pone questo problema G. Romano, Nota, cit., § 7.

 

[131] Cfr. M. Scognamiglio, Note, cit., 205. Se, dunque, Celso risolve, nella prima delle tre rationes che i Maestri medievali riconoscevano nella l. dedi tibi, un problema di rischio, è evidente che il giurista non negava affatto l’esistenza di una funzione di scambio: scambio che, peraltro, si rivela economicamente equivalente a quello proprio dell’emere vendere, da cui le parti si discostano arbitrariamente sia sul piano procedimentale sia sul piano funzionale.

 

[132] Diversamente, C.A. Cannata, Labeone, cit., 36 ss.

 

[133] Rivedo, dunque, quanto sostenevo in «Quia vendidit, dare promisit», cit., 22, nt. 24.

 

[134] Cels. 8 dig. D. 19.5.2: Nam cum deficiant vulgaria atque usitata actionum nomina, praescriptis verbis agendum est. Al riguardo, ogni tentativo esegetico sarebbe congetturale; nondimeno, è plausibile che «nell’originario contesto dell’opera celsina, la motivazione che ora leggiamo in D. 19.5.2 doveva essere finalizzata … più che ad un generale ed astratto riconoscimento delle convenzioni atipiche, ad una ben precisa direttiva di ermeneutica edittale» (così P. Cerami, ‘Vulgaria actionum nomina’ ed ‘agere praescriptis verbis’, in Iura, XXXIII, 1982, 123, e 126 s.; in questa lettura, peraltro, non si individua una specifica ragione, che vada al di là del «più giusto ed efficace riequilibrio degli interessi»).

 

[135] Cels. 8 dig. [de aestimato] 72 Lenel, in O. Lenel, ‘Palingenesia iuris civilis’, I, cit., 139. Dubita della congettura di Lenel E. Sciandrello, Studi, cit., 121, nt. 122; ma se nel l. VIII dei Digesta celsini si discuteva di compravendita, locazione ed aestimatum, è probabile che la precisazione sul punto sia realmente da riferirsi, più che a questa figura, ad un discorso più generale inerente ad essa.

 

[136] Pomp. 11 ad Sab. D. 13.6.13.2: Si libero homini, qui mihi bona fide serviebat, quasi servo rem commodavero, videamus, an habeam commodati actionem. < ? > nam et Celsus filius aiebat, si iussissem eum aliquid facere, vel mandati cum eo vel praescriptis verbis experiri me posse: idem ergo et in commodato erit dicendum. nec obstat, quod non hac mente cum eo, qui liber bona fide nobis serviret, contraheremus quasi eum obligatum habituri: plerumque enim id accidit, ut extra id quod ageretur tacita obligatio nascatur, veluti cum per errorem indebitum solvendi causa datur. Sul passo cfr. E. Stolfi, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, II, Contesti e pensiero, Milano, 2001, 228 ss., per il recupero celsino da parte di Pomponio. A seguire l’esegesi di A. Burdese, Su alcune testimonianze celsine, in Mélanges en l’honneur de C.A. Cannata, edités par R. Ruedin, Bâle-Genève-Munich, 1999, 6 ss., in particolare 11, e di C.A. Cannata, Das faktische Vertragsverhältnis oder die ewige Wiederkunft des Gleichen, in SDHI, LIII, 1987, 303 s. (ed ora Id., Labeone, cit., 38 e nt. 13), il praescriptis verbis experiri celsino potrebbe correlarsi ad una convenzione onerosa, mediante la quale l’incaricato avrebbe ottenuto un’utilità diversa dal danaro, irriducibile al mandato ed alla locazione, ma a queste affine. In effetti, la duplice prospettazione ascritta a Celso – vel mandati … vel praescriptis verbis – ben può riferirsi agli sviluppi della quaestio quasi certamente perduta: a seconda dell’id quod actum est, si può esperire o l’actio mandati, evidentemente per il facere iubere patrimonialmente neutro per l’incaricato, o l’actio praescriptis verbis, per il caso in cui non lo sia. Non credo, peraltro, che possa indurre a questa lettura la constatata irrilevanza dell’ignoranza bilaterale dello status libertatis del bona fide serviens al momento della conclusione della convenzione (su cui insistono, invece, P. Cerami, ‘Vulgaria actionum nomina’, cit., 131, e F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 16): semmai, essa rileva nel senso che la convenzione tra il dominus ed il servus ‘apparenti’ non può risultare a priori percepibile come un’arbitraria opzione dell’autonomia privata come nel caso di Cels. D. 12.4.16. Seguendo la più recente ricostruzione dell’Autore, che si legge in Materiali, II, cit., 147 ss. e 182 ss., il Cannata individua nel pensiero celsino riportato da Pomponio l’archetipo – come tale percepito da Voet e Vinnen – della costruzione delle figure che generano l’obligatio quasi ex contractu tenuta presente in Gai. 3 aur. D. 44.7.5 pr.-3, ed in I. 3.27: nondimeno, il tratto ‘nec obstat - habituri’ non significa che non è d’ostacolo il fatto che ‘non concluderemmo’ un contratto con il liber homo bona fide serviens con la mens di obbligarlo, ma piuttosto che non è d’ostacolo l’eventualità di aver concluso un contratto con quest’ultimo ‘senza’ la mens di obbligarlo: ciò, a mio avviso, rivela che il giurista escludeva semplicemente l’errore ostativo in persona, ritenendo dunque conclusa una convenzione; l’esempio dell’indebitum presenta, di conseguenza, un comune denominatore con la fattispecie esaminata non riconducibile ad una prospettiva dogmatica, e va limitato alla circostanza che l’obligatio sorge tacita al di fuori dell’agere delle parti. D’altronde, il discorso di J. Voet, Commentarius ad Pandectas, super D. 44.7.5 (che leggo in C.A. Cannata, Materiali, II, cit., 192 s.), e di A. Vinnen, In Quattuor libros Institutionum Imperialium Commentarius Academicus et Forensis, super I. 3.28 [I. 3.27 pr.] (che leggo nell’op. ult. loc. cit., 194 ss.), insiste solamente sulla parte finale (cioè quella relativa all’indebito) di D. 13.6.13.2.

 

[137] Né dunque considero «disorientante la divergenza di orientamenti» ravvisata da T. dalla Massara, Alle origini, cit., 236, tra D. 12.4.16 e D. 19.5.2, proprio perché il giurista non esprimeva orientamenti divergenti.

 

[138] Così, testualmente, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 80; cfr. anche Id., Su alcune testimonianze, cit., 12 s.

 

[139] Mi riferisco all’esegesi di D. 19.5.2 suggerita da P. Cerami, ‘Vulgaria actionum nomina’, cit., 122 s., e da F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 155 ss., nonché, più di recente – specie per i punti di connessione con  la tesi del Cerami, che mi sembrano prevalere su quelli di dissenso, incidenti più che altro sulla possibilità che a far da sfondo all’approccio celsino fosse già intervenuta o meno la ‘codificazione’ dell’editto pretorio – da F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 16 s.; cfr. anche T. dalla Massara, Alle origini, cit., 233 ss., in particolare 240 s. e G. Melillo, ‘Contrahere’, cit., 211 ss., in particolare 217.

 

[140] Sul punto cfr. analogamente A. Mantello, I dubbi di Aristone, Ancona, 1990, 83 ss., 119 ss. e 122 ss. (ed in particolare 123 s.; l’opera è oggi ripubblicata in ‘Variae’, I, Lecce, 2014, 229 ss.), nonché più di recente Id., Le ‘classi nominali’, cit., 258 s.

 

[141] Uno spunto in questa direzione è esattamente suggerito da C.A. Cannata, Der Vertrag, cit., 67.

 

[142] Dovendosi ritenere superata quella che P. De Francisci, Suna@llagma. Storia e dottrina dei cosiddetti contratti innominati, I, Pavia, 1913, 32, considerava la ‘seconda teoria canonica’ – cronologicamente successiva alla prima dottrina, che nella seconda metà dell’Ottocento professava la classicità dell’actio praescriptis verbis – dei contratti innominati, secondo la quale – ed in particolare nella prospettiva di P. Bonfante, Istituzioni di diritto romano, 10a ed., rist. dell’ed. Roma, 1934, a cura di G. Bonfante e G. Crifò, con una prefazione di E. Albertario e una nota di G. Crifò, Milano, 1987, 404 – il riconoscimento e la tutela delle figure sine nomine sarebbe stata al centro di uno ‘Schulenstreit’ tra Sabiniani (per i quali la tutela sarebbe sistematicamente in factum) e Proculiani (per i quali la tutela sarebbe quella in ius concepta, riconducibile all’actio civilis incerti), seppur non – e sul punto non posso che rinviare alla discussione in testo, ed in particolare a quella del prossimo § 10 – nella logica indicata dallo stesso P. De Francisci, op. cit., 39, che finiva per considerare frutto di alterazioni giustinianee i riferimenti all’actio praescriptis verbis, all’actio civilis incerti ed all’actio civilis in factum. Per una sintesi delle grandi linee di tendenza della dottrina più risalente, ad ogni modo, rinvio a F. Sitzia, voce Permuta, cit., 110 ss.; ripropone oggi una distanza scientifica tra posizione proculiana e posizione sabiniana F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 206 ss., nella prospettiva del «filone consensualistico», percorso in particolare, secondo questo Autore, dalla scuola proculiana; ma a me pare – con G. Pugliese, Istituzioni, cit., 528; Id., Lezione, cit., 27 ss.; e, soprattutto, A. Schiavone, Studi, cit., 125 ss. – che l’unica reale possibilità d’individuare una divergenza di vedute – più che uno ‘Schulenstreit’ – tra Sabiniani e Proculiani si percepisca nella verosimile recezione dell’insegnamento pediano da parte dei Sabiniani, «i quali furono costretti a restringere la loro ampia nozione di contractus, escludendone più o meno esplicitamente gli atti leciti produttivi di obbligazione non comprendenti un accordo delle parti» (G. Pugliese, Istituzioni, cit., 528): il che non è eccessivamente distante dalla posizione del Gallo; tuttavia, sul rapporto tra le due scuole, oltre non andrei.

 

[143] Cfr. per tutti G. Pugliese, Istituzioni, cit., 529, e M. Talamanca, Istituzioni, cit., 557.

 

[144] F. Sitzia, voce Permuta, cit., 109.

 

[145] F. Sitzia, voce Permuta, cit., 112.

 

[146] Diversamente C. Pelloso, ‘Do ut des’, cit., 109 s. e nt. 42, ritiene che la tutela praescriptis verbis fosse «molto probabilmente lo strumento ‘processuale’ generalmente proposto dai proculiani per sopperire all’assenza di tutela edittale per i tipi negoziali permutativi».

[147] Di «colloquio costruttivo» parla S. Tondo, Note, cit., 454. Io penso ad una corrispondenza epistolare, come ipotizzava W. Kunkel, Herkunft und soziale Stellung der römischen Juristen, 2a ed., Graz-Wien-Köln, 1967, 320 e nt. 668; sul punto cfr. anche C.A. Cannata, Lo splendido autunno, cit., 441.

 

[148] Uno spunto in questa direzione è nella riflessione di F. Gallo, Ai primordi del passaggio dalla sinallagmaticità dal piano delle obbligazioni a quello delle prestazioni, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 170; Id., ‘Synallagma’, II, cit., 119 s.; mi pare, comunque, non condivisibile la correzione al testo di D. 2.14.7.2 (ivi, 163 ss.): la proposta di sostituzione del termine ‘actionem’ a ‘obligationem’ – seguita anche da R. Santoro, La causa, cit., 224 ss. – consegue alla mancata percezione, in dottrina, del valore formativo della datio.

 

[149] Pur con innegabili punti di contatto, questa prospettiva non mi pare coincidente con quella suggerita da P. Gröschler, Auf den Spuren des Synallagma. Überlegungen zu D. 2.14.7.2 und D. 50.16.19, in Antike - Recht - Geschichte. Symposion zu Ehren von P.E. Pieler, Frankfurt am Main, 2009, 51 ss.: secondo questa lettura, Labeone configurerebbe il suna@llagma come ‘Gegenseitigkeit der Leistungen’, muovendo dall’idea, propria del pensiero greco, che vi riconosce una  ‘Zweckverfügung’; Aristone, muovendosi nel campo delle convenzioni sine nomine, recupererebbe l’idea della ‘Zweckverfügung’, incentrata sull’esecuzione della prestazione.

 

[150] M. Talamanca, voce Società (dir. rom.), in Enc. dir., XLII, Milano, 1990, 820.

 

[151] Il che mi pare ben evidenziato, in particolare, da B. Albanese, ‘Agere’, ‘gerere’ e ‘contrahere’ in D. 50,16,19. Congetture su una definizione di Labeone, in SDHI, XXXVIII, 1972, 240; e, più ampiamente per la reciprocità dei vincoli, ivi, 245 s.

 

[152] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 558; analogamente, direi, C.A. Cannata, Labeone, cit., 51 ss., ed in particolare 55. L’adesione a questa ricostruzione mi porta lontano da quella di R. Santoro, Il contratto, cit., 150 ss., in particolare 152 s., che esclude di leggere il pensiero di Labeone sotto il profilo della bilateralità delle azioni come delle obbligazioni, in quanto suna@llagma e ultro citroque obligatio devono semmai interpretarsi come atto obbligatorio consensuale (ivi, 283 ss.): ed in questo consisterebbe la continuità tra Labeone ed Aristone; allo stesso modo, peraltro, mi pare poco plausibile anche la lettura di chi, come G. Melillo, ‘Contrahere’, cit., 155 ss., in particolare 170 s., polarizza la definitio sull’obligatio intesa nei termini latissimi di rapporti vincolati. Ancora diversamente, cfr. quindi F. Gallo, Ai primordi, cit., 72; Id., ‘Synallagma’, II, cit., 90 ss. in particolare 102, seguito da T. dalla Massara, Ancora sul valore del richiamo al ‘synallagma’ in Labeone e in Aristone, in Studi in onore di R. Martini, I, Milano, 2008, 849 s., secondo il quale «la sinallagmaticità di Aristone ... fa riferimento a un rapporto tra prestazioni anziché tra obbligazioni». Ma in realtà – come mi propongo di chiarire in testo – la chiave di lettura della datio è la disciplina formativa della fattispecie, laddove il suna@llagma rappresenta lo scambio – cfr. anche Gy. Diósdi, Contract in Roman Law. From the Twelve Tables to the Glossators, Budapest, 1981, 90 – che anima il significato pratico della conventio; significato pratico che Ulpiano generalizza nel più ampio subesse causa.

 

[153] M. Talamanca, La tipicità dei contratti romani fra ‘conventio’ e ‘stipulatio’ fino a Labeone, in ‘Contractus’ e ‘pactum’. Tipicità e libertà negoziale nell’esperienza tardo-repubblicana. Atti del Convegno di diritto romano e della presentazione della nuova riproduzione della ‘littera Florentina’, Copanello, 1-4 giugno 1988, a cura di F. Milazzo, Napoli, 1988, 99.

 

[154] M. Talamanca, La tipicità, cit., 99; analogamente, ma più marcatamente verso il riconoscimento del rapporto tra autonomia privata e costruzione di figure atipiche, A. Schiavone, Studi, cit., 98 ss.; F. Gallo, ‘Synallagma’, I, cit., 223 ss.; A. Burdese, I contratti innominati, cit., 73 ss.; J. Paricio, Contrato, cit., 51 ss.

 

[155] M. Talamanca, La tipicità, cit., 101 ss.

 

[156] Non è distante da questa ricostruzione, in fin dei conti, quella di G. MacCormack, Contractual Theory, cit., passim, ed in particolare 138 s. e 151 s.

 

[157] Cfr., a riscontro, Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16.1: Permisisti mihi, ut sererem in fundo tuo et fructus tollerem: sevi nec pateris me fructus tollere. nullam iuris civilis actionem esse Aristo ait: an in factum dari debeat, deliberari posse: sed erit de dolo. Sul punto cfr., esattamente, J. Paricio, Contrato, cit., 65 s.; R. Knütel, La causa, cit., 136; G. MacCormack, Contractual Theory, cit., 140 s.: rispetto al frammento considerato nel fr. 16 pr. qui manca la bilateralità funzionale, sicché il discorso di E. Stolfi, Studi, II, cit., 232 ss. in ordine alla connessione tra i fr. 16 pr. e 16.1 non mi trova concorde. La bilateralità – che, nell’ottica di D. 2.14.7.2, andrebbe riferita alla programmazione di obbligazioni interdipendenti – non può ravvisarsi, come propone L. Zhang, Contratti, cit., 185 s.,  nella possibilità – che comunque non mi pare prospettata neppure implicitamente – per il dominus fundi di acquistare la proprietà dei vegetali seminati, e «raccogliere eventualmente dei frutti maturi».

 

[158] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 515 s.

 

[159] Cfr. ad esempio Ulp. 32 ad ed. D. 19.5.20, pr. e 2, dove si reinterpretano spunti di Labeone; nonché Ulp. 29 ad Sab. D. 13.6.10.1 ed Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.1-2. Su questi problemi, con specifica attenzione a D. 19.5.20.2, D. 13.6.10.1 e D. 19.5.17.2, cfr. R. Fercia, La responsabilità per fatto di ausiliari nel diritto romano, Padova, 2008, 249 ss. e 258 ss. Secondo E. Sciandrello, Studi, cit., 185 ss., nello schema aristoniano non rientrerebbe neppure l’aestimatum: il che è corretto ove si ritenga dimostrato che la datio non implichi trasferimento.

 

[160] Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.3: Quod si faciam ut des et posteaquam feci, cessas dare, nulla erit civilis actio, et ideo de dolo dabitur. (4) Sed si facio ut facias, haec species tractatus plures recipit. nam si pacti sumus, ut tu a meo debitore Carthagine exigas, ego a tuo Romae, vel ut tu in meo, ego in tuo solo aedificem, et ego aedificavi et tu cessas, in priorem speciem mandatum quodammodo intervenisse videtur, sine quo exigi pecunia alieno nomine non potest: quamvis enim et impendia sequantur, tamen mutuum officium praestamus et potest mandatum ex pacto etiam naturam suam excedere (possum enim tibi mandare, ut et custodiam mihi praestes et non plus impendas in exigendo quam decem): et si eandem quantitatem impenderemus, nulla dubitatio est. sin autem alter fecit, ut et hic mandatum intervenisse videatur, quasi refundamus invicem impensas: neque enim de re tua tibi mando. sed tutius erit et in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis praescriptis verbis dari actionem, quae actio similis erit mandati actioni, quemadmodum in superioribus casibus locationi et emptioni. Al riguardo, non escluderei che nel fr. 5.3 il problema del ‘facio ut des’ fosse preso in considerazione in termini più ampi di quanto ci è pervenuto: il taglio parrebbe aver risparmiato quanto doveva essere correlabile – alla luce del complessivo andamento di D. 19.5.5 e del progetto espositivo indicato nel fr. 5 pr., che sembra avere come perno la condictio, esaminata peraltro dal punto di vista dei suoi rapporti con altre figure di tutela: cfr. oltre, § 14 – al cuore della prospettiva ricostruttiva del giurista, ovvero la (im)possibilità (quale ne sia la ragione, sulla quale non è possibile qui soffermarci: nelle fonti abbiamo traccia, con riferimento all’assunzione del vincolo di facere, della sola condictio liberationis: cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 613) di condicere il risultato patrimoniale di un ‘facere ob rem’, che porta ad ammettere in via residuale l’actio de dolo. In questo quadro, quanto si legge nel fr. 5.4, relativo alla tutela dell’interesse positivo nel caso del ‘facio ut facias’, doveva essere configurabile allo stesso modo nel caso del ‘facio ut des’. Del resto, se Ulpiano, in D. 2.14.7.2, approvava la critica di Mauriciano a Giuliano per l’ipotesi del ‘do ut facias’ eseguito esattamente solo dal punto di vista del facere, con conseguente esperibilità della civilis incerti actio, sarebbe singolare che Paolo la negasse nel caso del ‘facio ut des’. Escluderei, in ogni caso, che il riferimento all’actio de dolo nel fr. 5.3  costituisca (cfr., in termini esattamente critici, M. Talamanca, op. cit., 556) una possibile generalizzazione (od anche solamente condivisione) della soluzione giulianea ricordata nel fr. 5.2. In sostanza, al di là dei tagli (evidenti ed innegabili) operati su questi passi delle Quaestiones paoline, mi pare che emerga un quadro tendenzialmente coerente, nel senso che l’azione con significato pratico risolutorio è la condictio quando ricorrano le dationes ob rem (‘do ut des’, ‘do ut facias’ nel linguaggio che connota il Digesto), oppure l’actio de dolo quando ricorra l’intervenuta prestazione di un facere, per la quale è sentita impraticabile la via del condicere; mentre per la tutela dell’interesse positivo sembra trasversalmente esperibile per le quattro ipotesi, nonostante la significativa problematicità della questione nel caso del ‘facio ut’ (in ragione dell’oscillazione delle fattispecie tra locazione e mandato nominati in insulis fabricandis et in debitoribus exigendis) che emerge dal complessivo andamento del fr. 5.4, l’actio praescriptis verbis. Oltre gli esempi addotti da Paolo nel fr. 5.4, riterrei ricorrere questa ipotesi nella soluzione ulpianea del ‘comodato reciproco’ (Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.3), in cui le due dationes attributive di naturalis possessio rappresentano un ‘facio ut facias’. In questo quadro, riconoscerei al totius ob rem dati tractatus paolino una coerenza più significativa di quella prospettata da C.A. Cannata, Labeone, cit., 96 ss. e 99 s., trovando tuttora in linea di principio persuasiva – con qualche riserva, in particolare, sull’actio de dolo nel fr. 5.3, che a mio parere è data in via residuale semplicemente per l’impossibiltà di condicere – la lettura di G. Grosso, Il sistema, cit., 164 ss.

 

[161] Al riguardo, va osservato come la tutela praescriptis verbis, al di fuori dell’esperienza strettamente labeoniana e dopo la riflessione aristoniana, non sia (più) stata riconosciuta per convenzioni sine nomine non correlate all’esecuzione della prima prestazione, come invece ipotizza C.A. Cannata, Labeone, cit., 74 ss. (ma non diversamente già Id., Contratto, cit., 208 ss.), che peraltro fa due soli esempi, a mio avviso non persuasivi. In Ulp. 42 ad Sab. D. 19.5.15, infatti, l’indicare è il facere che perfeziona la figura contrattuale (si tratta di un indico ut certum aliquid des): la conventio non è nuda nel senso che vi è un subesse causa, ma la tutela è concessa solamente in ragione dell’intervenuto indicare; in Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.3 è irrilevante il profilo durativo del programma negoziale, essendo sufficiente per l’integrazione della fattispecie l’esecuzione del (solo) ‘primo’ comodato: per dirla con Labeone, unuscuiusque enim contractus initium spectandum et causam (mi avvalgo, evidentemente, dell’espressione conservata da Ulp. 31 ad ed. D. 17.1.8 pr.).

 

[162] Rinvio, per lo status quaestionis, a T. dalla Massara, Alle origini, cit., 177 ss.

 

[163] M. Sargenti, ‘Actio civilis in factum’ e ‘actio praescriptis verbis’: ancora una riflessione, in ‘Iuris vincula’. Studi in onore di M. Talamanca, VII, Napoli, 2001, 237 ss., in particolare 276 ss., e ciò specie ove, a priori, si neghi continuità scientifica agli spunti labeoniani correlati alla definitio conservata da D. 50.16.19 ed alla possibilità di agere praescriptis verbis (Id., Labeone: la nascita dell’idea di contratto nel pensiero giuridico romano, in Iura, XXXVIII, 1987, 53 ss. e 62 ss.); al riguardo, per un’efficace critica, cfr. F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 10 ss. L’idea non è nuova in dottrina: si pensi, in particolare, alla tesi dei ‘contratti pretori’ professata da P. Voci, La dottrina, cit., 231 ss., secondo il quale la tutela delle figure innominate, per diritto classico, sarebbe ancorata ad una costruzione formulare in factum (sul punto, criticamente, cfr. F. Sitzia, voce Permuta, cit., 112 e nt. 44).

 

[164] Cfr. sul punto C.A. Cannata, Labeone, cit., 54.

 

[165] Cfr. i plurimi contributi di A. Burdese, Sul riconoscimento civile dei c.d. contratti innominati, in Iura, XXXVI, 1985, 23 e 27; Id., Osservazioni in tema di c.d. contratti innominati, in Estudios en homenaje al profesor J. Iglesias, I, Madrid, 1988, 127 ss. e 137 ss.; Id., Sul concetto, cit., 131 ss.; Id., Recenti prospettive, cit., 215; Id., I contratti innominati, cit.,  73 s. e 77; ed i plurimi contributi, nella medesima direzione, di M. Talamanca, Contratto, cit., 61 s.; Id., La tipicità, cit., 100 ss.; Id., Istituzioni, cit., 557; Id., Note su Ulp. 11 ‘ad ed’. D. 4.3.9.3. Contributo alla storia dei c.d. contratti innominati, in Scritti in onore di E. Fazzalari, I, Introduzione alla giurisprudenza, diritto privato, diritto pubblico, Milano, 1993, 207 e nt. 34 e 235; Id., Pubblicazioni pervenute alla Direzione, in BIDR, XCII-XCIII, 1989-1990 [ma pubbl. 1993], 733 ss.; cfr. quindi, più di recente, E. Stolfi, Studi, II, cit., 212 ss., in particolare 221 e nt. 344; M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’. Atypische Geschäftshinalte und klassisches Formularverfahren, Berlin, 2002, 71 ss. e 108 s.; L. Zhang, Contratti, cit., 165 ss. e 221 ss.; E. Sciandrello, Studi, cit., 363 ss., su cui si vedano le considerazioni di C.A. Cannata, Recensione a E. Sciandrello, op. cit., cit., 342 ss. Per F. Gallo, Contratto, cit., 28 s. sarebbe di stretto diritto la formula dell’azione indicata da Aristone, di buona fede quella proposta da Mauriciano, a scioglimento del dubbio precedentemente palesato in Id., ‘Synallagma’, II, cit., 116 s., ed in particolare 118; D. Mantovani, Le formule del processo privato romano. Per la didattica delle Istituzioni di diritto romano, 2a ed., Padova, 1999, 50 e nt. 107, 58 e nt. 164, prospetta la ricostruzione che fa capo alla dottrina professata  fondamentalmente dal Burdese e dal Talamanca, pur rilevando – a p. 59, nt. 164 – la problematicità della distinzione fondata su azione incerti di stretto diritto, ed azione pure incerti di buona fede, alla luce dell’interferenza dimostrata da Lex Rubr. c. 20, lin. 26-27 e 36 (in FIRA, I, 2a ed., 169 ss.), dove è traccia di un oportere ex f(ide) b(ona) nella conceptio verborum di un’actio incerti ex stipulatu (cfr. Id., op. cit., 50 e nt. 109). Il che si spiega bene, del resto, a seguire B. Schmidlin, Il consensualismo, cit., 106 ss. (nonché Id., Das Nominatprinzip und seine Erweiterung durch die ‘actio praescriptis verbis’. Zum aktionenrechtlichem Aufbau der römischen Konsensualverträge, in ZSS, CXXIV, 2007, 66 ss. e 73 ss.): il modello da cui, ‘per addizione’, si sviluppa l’intentio con la clausola di buona fede va ricercato nell’actio incerti ex stipulatu. Sul punto, ad ogni modo, cfr. la recente indagine di G. Gulina, ‘Stipulatio’ e ‘fides bona’. Il fondamento della pretesa dedotta con la formula fittizia del capitolo XX della ‘lex Rubria de Gallia Cisalpina’, in Studi in onore di R. Martini, II, Milano, 2009, 371 ss.

 

[166] Cfr. ancora A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82; su questa medesima posizione cfr. quindi, da ultimo, T. dalla Massara, La causa, cit., 184.

 

[167] M. Talamanca, Pubblicazioni, cit., 734.

 

[168] Con questa espressione M. Talamanca, La tipicità, cit., 102, optava per l’opposta ricostruzione.

 

[169] C.A. Cannata, Contratto e causa nel diritto romano, ora in Le dottrine del contratto nella giurisprudenza romana, a cura di A. Burdese, Padova, 2006, 200 ss. e nt. 14 di p. 202, seguito da L. Garofalo, Contratto, cit., 350, nt. 33; più ampiamente, ora, C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, in Iura, LVII, 2008-2009, 9 ss., in particolare 15 ss.; ma precedentemente si veda già M. Kaser, ‘Oportere’ und ‘ius civile’, in ZSS, LXXXIII, 1966, 37 ss., la sintesi in Id., Das römische Privatrecht, I, 2a ed., München, 1971, 582 s., nonché le ulteriori riflessioni in Id.,‘Ius honorarium’, cit., 95 ss., in particolare 99. Per l’idea di una pluralità di espressioni comunque riducibili ad un’unica tutela dell’interesse positivo, cfr. infine anche G. Grosso, Il sistema, cit, 164. Più di recente, ma solo con riferimento alla configurazione del rapporto tra praescriptio e demonstratio, cfr. P. Gröschler, ‘Actiones in factum’. Eine Untersuchung zur Klage-Neuschöpfung im nichtvertraglichen Bereich, Berlin, 2002, 19 s.

 

[170] B. Schmidlin, Il consensualismo, cit., 114 ss., in particolare 127 s. e nt. 57; Id., Das Nominatprinzip, cit., 79 ss. e 83 ss.; Id., La fonction de la ‘demonstratio’ dans les actions de bonne foi, in Studi in onore di C. Sanfilippo, V, Milano, 1984, 723 s.

 

[171] Espressione, questa, che sul piano tecnico si stabilizza con riferimento diretto ad ‘actio’, e non ad un più generico ‘agere’, con Pomponio, come rileva A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82.

 

[172] Che si riscontra, come noto, in Papin. 8 quaest. D. 19.1.1.1-2 (dovendosi ritenere alterato Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.2, come vedremo oltre, § 11) e che appare problematicamente riferibile tanto al linguaggio di Labeone, quanto a quello di Papiniano: sul punto, cfr. M. Talamanca, La tipicità, cit., 100 e nt. 250; non condivido, sul punto, i sospetti al testo di A. Burdese, I contratti innominati, cit., 75, e Sul concetto, cit., 134, e penso, con C.A. Cannata, Contratto, cit., 200, che l’espressione ‘actio civilis in factum’ possa attribuirsi a Labeone.

 

[173] Penso, in particolare, a Nerat. 1 resp. D. 19.5.6; Papin. 11 resp. D. 19.5.9; Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16 pr., su cui oltre in testo.

 

[174] Cfr. Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.16.2; Ulp. 18 ad Sab. D. 7.5.5.1; Pomp. 22 ad Sab. D. 12.6.22.1; Marci. 3 reg. D. 12.6.40.1; Iul. 8 dig. D. 12.7.3; Ulp. 38 ad ed. D. 13.1.12.2; Paul. 3 ad Sab. D. 19.1.5.1; Paul. 5 ad Sab. D. 19.1.8 pr.; Iul. 16 dig. D. 23.3.46 pr.; Iul. 39 dig. D. 30.60; Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3; Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2; Paul. 31 ad ed. D. 46.2.12.

 

[175] Cfr. Papin. 27 quaest. D. 22.1.4 pr. e Pomp. 22 ad Sab. D. 19.5.16 pr.; Pomp. 6 ad Sab. D. 34.3.8.6.

 

[176] Per il rapporto tra incerti agere (genus formulare) e condictio incerti (species), penso soprattutto a Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3-4; per il rapporto tra incerti agere ed actio praescriptis verbis, a Papin. 27 quaest. D. 19.5.8. Per la specificazione dell’incerti agere rispetto al titolo sostanziale della pretesa, cfr. Papin. 27 quaest. D. 22.1.4 pr. e Pomp. 6 ad Sab. D. 34.3.8.6.

 

[177] Si pensi a Lab. 6 post. a Iav. epit. D. 16.3.33 e Iul. 60 dig. D. 39.5.2.4, in cui l’incerti agere va contestualizzato nella condictio incerti; a Papin. 17 quaest. D. 7.5.8, Marcell. 7 dig. D. 23.3.59.1, Ulp. 5 disp. D. 30.75.4, Paul. 3 ad Sab. D. 33.2.1, relative alla tutela testamentaria; Ulp. 47 ad Sab. D. 2.5.3, Ulp. 31 ad ed. D. 4.8.27.7 e Papin. 11 resp. D. 45.1.121 pr., relativi alla tutela ex stipulatu.

 

[178] R. Santoro, Aspetti formulari della tutela delle convenzioni atipiche, in Le teorie contrattualistiche romane nella storiografia contemporanea, a cura di N. Bellocci, Napoli, 1991, 85 ss. L’indagine s’incentra, in particolare, su costituzioni imperiali del III secolo, e – sul piano della riflessione dei prudentes – su Papin. 4 resp. D. 23.4.26.3 (dove, peraltro, mi sembra difficile intravedere l’actio praescriptis verbis), nonché sul nesso, sul piano delle scelte formulari, con le figure di actio utilis via via concesse per la tutela di area aquiliana e per la superficie: la prospettiva che emerge, in sostanza, mi pare colga spunti importanti per la configurazione della questione a muovere, in particolare, dall’epoca severiana. Anticipa all’epoca adrianea la sussunzione dell’agere praescriptis verbis «nella prospettiva dell’actio utilis» F. Gallo, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 12.

 

[179] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 318.

 

[180] Mi pare, peraltro, che l’unico indice realmente probante per ragionare in questa direzione sia un rescriptum di Severo Alessandro, Imp. Alex. A. Pomponiis C. 2.4.6.1:  Verum si fides placitis praestita non est, in id quod interest diversam partem recte convenietis: aut enim, si stipulatio conventioni subdita est, ex stipulatu actio competit, aut, si omissa verborum obligatio est, utilis actio, quae praescriptis verbis rem gestam demonstrat, danda est (a. 230). Sul punto, cfr. R. Santoro, Aspetti, cit., 93 ss.

 

[181] C.A. Cannata, Contratto, cit., 200.

 

[182] L’espressione ‘id est praescriptis verbis’ ricorre sei volte nel Corpus iuris, e sistematicamente ha l’aria di un glossema: a volta inutile, in quanto a mio parere meramente esplicativo della rapporto tra genus formulare e sua species, dato che appare sostanzialmente scontato il riferimento a quella specifica configurazione formulare (Diocl. et Max. AA. et CC. Augustinae C. 8.53.9, a. 293; Ulp. 4 ad ed. D. 2.14.7.2; Ulp. 42 ad Sab. D. 19.5.15; Gai. 10 ad ed. prov. D. 19.5.22), a volte nocivo in quanto erroneamente omologante (Ulp. 30 ad Sab. D. 19.5.13.1 e Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2, sui quali cfr. oltre, nel prossimo § 13). Sul punto, cfr. peraltro le considerazioni di P. Gröschler, ‘Actiones in factum’, cit., 41.

 

[183] Ulp. 71 ad ed. D. 43.26.2.2: Et naturalem habet in se aequitatem, namque precarium revocare volenti competit: est enim natura aequum tamdiu te liberalitate mea uti, quamdiu ego velim, et ut possim revocare, cum mutavero voluntatem. itaque cum quid precario rogatum est, non solum hoc interdicto uti possumus, sed etiam praescriptis verbis actione, quae ex bona fide oritur (cfr. oltre, § 13). Si noterà, del resto, il medesimo atteggiamento del giurista in Ulp. 32 ad ed. D. 19.3.1 pr.: Actio de aestimato proponitur tollendae dubitationis gratia: fuit enim magis dubitatum, cum res aestimata vendenda datur, utrum ex vendito sit actio propter aestimationem, an ex locato, quasi rem vendendam locasse videor, an ex conducto, quasi operas conduxissem, an mandati. melius itaque visum est hanc actionem proponi: quotiens enim de nomine contractus alicuius ambigeretur, conveniret tamen aliquam actionem dari, dandam [aestimatoriam] praescriptis verbis actionem: est enim negotium civile gestum et quidem bona fide. quare omnia et hic locum habent, quae in bonae fidei iudiciis diximus. Sul passo, cfr. esattamente C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 21 ss., anche per l’emendazione testuale; per l’ammissibilità della clausola di buona fede in questo caso, cfr. anche E. Sciandrello, Studi, cit., 147 s.

 

[184] «Le due ‘eleganti citazioni’» – vale a dire quella di Pedio nel fr. 1.3, e quella di Aristone nel fr. 7.2 – «si corrispondono anche nell’importanza riconosciuta loro da Ulpiano: si potrebbe dire che con esse si esprimono i principi fondamentali che fanno da sfondo alla ricostruzione del fenomeno contrattuale delineata entro il libro 4 ad edictum»: così T. dalla Massara, Sul ‘responsum’, cit., 290. In effetti, l’eleganza trova un comune denominatore nel ‘Geschichtsverständnis’ dei prudentes: elegante è il recupero, da parte di Pedio, della genesi stessa del concetto di obligatio, rapportabile alla legislazione decemvirale, come effetto di un atto consensuale, la sponsio; elegante è il recupero, da parte di Aristone, di quella esigenza, essenzialmente quiritaria, di un indice formale di giuridicità dell’atto, quella proprietas di gaiana memoria che connota la disciplina formativa della fattispecie contrattuale innominata.

 

[185] Per un’ipotesi di conceptio verborum cfr. C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 24.

 

[186] Mi discosto, dunque, dall’esegesi di A. Burdese, I contratti innominati, cit., 80, e di L. Zhang, Contratti, cit., 212, nt. 35.

 

[187] Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17.3: Si, cum unum bovem haberem et vicinus unum, placuerit inter nos, ut per denos dies ego ei et ille mihi bovem commodaremus, ut opus faceret, et apud alterum bos periit, commodati non competit actio, quia non fuit gratuitum commodatum, verum praescriptis verbis agendum est.

 

[188] Sul punto cfr. l’indagine di F. Procchi, «Si quis negotiandi causa emisset quod aedificium…». Prime considerazioni su intenti negoziali e speculazione edilizia nel principato, in Labeo, XLVII, 2001, 411 ss.

 

[189] Concordo dunque, su questi punti, con F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 58 ss. e con A. Schiavone, Studi, cit., 145 ss.; contra, A. Burdese, Il contratto romano, cit., 99 s.

 

[190] Diversamente, invece, F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 59, che – sempre muovendo dal problema della duplicità di formulae qui criticata – identifica la tutela con l’azione praescriptis verbis labeoniana, escludendo quella di stretto diritto aristoniana. Il nesso forte tra le soluzioni dei due giuristi traianei (Aristone, in D. 2.14.7.2, e Nerazio, in D. 19.5.6) non può, peraltro, alla luce di quanto rilevato nel precedente § 8, considerarsi in antitesi con l’impostazione di Cels. D. 12.4.16, come ritiene J. Paricio, Celso contra Neracio, in Festschrift für R. Knütel zum 70. Geburtstag, herausgegeben von H. Altmeppen, I. Reichard, M.J. Schermaier in Verbindung mit W. Ernst, U. Manthe, R. Zimmermann, Heidelberg, 2009, 849 ss., in particolare 851 ss.

 

[191] Escludo, dunque, la donazione modale ipotizzata da L. Zhang, Contratti, cit., 212.

 

[192] E. Stolfi, Studi, II, 232 ss., in particolare 233.

 

[193] Anche in questo caso mi discosto dall’esegesi di A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82.

 

[194] C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit.,43.

 

[195] Così C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 44. Diversamente, pur con evidenti perplessità, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 83, seguito da L. Zhang, Contratti, cit., 217 s.

 

[196] A. Burdese, I contratti innominati, cit., 83.

 

[197] Anche di recente ritenuta genuina: cfr. U. Babusiaux, Papinians ‘Quaestiones’. Zur rhetorischen Methode eines spätklassischen Juristen, München, 2011, 193; M. Artner, ‘Agere praescriptis verbis’, cit., 217 e nt. 210.

 

[198] Comunque perno della fattispecie contrattuale: cfr. G. MacCormack, Contractual Theory, cit., 144.

 

[199] Diversamente, per tutti questi casi trattati da Papiniano, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 83; lo segue L. Zhang, Contratti, cit., 216 e nt. 149.

 

[200] Impp. Diocl. et Max. AA et CC Protogeni C. 4.64.6: Rebus certa lege traditis, si huic non pareatur, praescriptis verbis incertam civilem dandam actionem iuris auctoritas demonstrat (s.d.), su cui cfr. in particolare C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 47 s.

 

[201] Cfr. esattamente C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 38.

 

[202] D. Mantovani, Le formule, cit., 50, nt. 107; amplius, sul problema del ricorso al condicere con questa funzione processuale, C.A. Cannata, Materiali per un corso di fondamenti del diritto europeo, I, Torino, 2005, 94 ss.

 

[203] Cfr. C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 41 s.

 

[204] È in questi termini che si sviluppa la critica di C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 32 ss., in particolare 34 e 40, ad A. Burdese, Sul concetto, cit., 136 ss.

 

 

[205] Ipotizzata da A. Burdese, I contratti innominati, cit., 75, e – ultima indicazione in ordine di tempo – sostanzialmente ribadita nella Prefazione del curatore a Le dottrine, cit., 13 (e quindi Id., Panoramica sul contratto nelle dottrine della giurisprudenza romana, in ‘Fides’ ‘Humanitas’ ‘Ius’, Studii in onore di L. Labruna, I, a cura di C. Cascione e C.M. Doria, Napoli, 2007, 576 s); criticata da R. Santoro, Aspetti, cit., 83 ss., in particolare 122 ss., che invece pensa – nella medesima prospettiva indicata da W. Selb, Formeln mit Unbestimmter ‘intentio iuris’. Studien zum Formelnaufbau, I, Wien-Köln-Graz, 1974, 21 ss. – ad un’unica figura di tutela con intentio in ius concepta: l’actio praescriptis verbis altro non sarebbe se non un’actio utilis, il che, se vogliamo, è intrinsecamente plausibile sul piano, generalissimo, dell’ermeneutica e delle tecniche edittali; l’Autore, peraltro, non prende posizione in ordine alla presenza della clausola di buona fede (R. Santoro, op. cit., 85), che comunque sembra data per assente (R. Santoro, op. cit., 86). Nella medesima prospettiva indicata da Selb e da Santoro si colloca quindi l’indagine di J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’, cit., 434 ss., in particolare 447 ss.

 

[206] E. Stolfi, Studi, cit., 212 s. e nt. 314, A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82; Id., Sul riconoscimento, cit., 19 ss.; pur con qualche perplessità, J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’, cit., 456 s.

 

[207] E. Stolfi, Studi, II, cit., 212.

 

[208] Il che mi pare agevolmente ricavabile dalle fonti: cfr. Iul. 8 dig. D. 12.7.3, Iul. 16 dig. D. 23.3.46 pr., Iul. 39 dig. D. 30.60, Iul. 49 dig. D. 43.26.19.2, Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3-4, ed appunto Ulp. 13.1.12.2., in cui è riferito pensiero di Giuliano; Ulp. 11 ad ed. D. 4.4.16.2 e Paul. 3 ad Sab. D. 19.1.5.1, in cui è riferito pensiero di Pomponio in tema di condictio (E. Stolfi, Studi sui ‘libri ad edictum’ di Pomponio, I, Trasmissione e fonti, Napoli, 2002, 516 ss.; Id., Studi, II, cit., 142 e nt. 31), e quindi Pomp. 22 ad Sab. D. 12.6.22.1; per epoca severiana, Ulp. 18 ad ed. D. 7.5.5.1; Marci. 3 reg. D. 12.6.40.1; Paul. 5 ad Sab. D. 19.1.8 pr.; Paul. 31 ad ed. D. 46.2.12.

 

[209] «L’usucapione classica» – scrive M. Talamanca, Istituzioni, cit., 421 s. – «sanava un vizio dell’atto mediante il quale era stato ottenuto il possesso della cosa, atto che avrebbe dovuto portare  all’acquisto della proprietà, ma i cui effetti non si erano prodotti, perché mancava la legittimazione di chi disponeva della cosa stessa (acquisto a non domino), o perché il trasferimento non era stato effettuato nella forma dovuta (traditio di res mancipi)».

 

[210] In questo seguo C.A. Cannata, Labeone, cit., 73 s.

 

[211] P. Lambrini, ‘Actio de dolo malo’ e accordi privi di tutela contrattuale, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 237 ss., in particolare 239 e 242; un poco diversamente, C. Pelloso, ‘Do ut des’, cit., 147 e nt. 110, con altra letteratura; T. dalla Massara, Alle origini, cit., 105 e nt. 34; contra, a mio avviso esattamente, C.A. Cannata, Labeone, cit., 72 s.

 

[212] Non diversamente, in fin dei conti, R. Knütel, La causa, cit., 138 s.

 

[213] C. Pelloso, ‘Do ut des’, cit., 157 s.; C.A. Cannata, Labeone, cit., 83 e nt. 130.

 

[214] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 556.

 

[215] Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.3: Quod si faciam ut des et posteaquam feci, cessas dare, nulla erit civilis actio, et ideo de dolo dabitur.

 

[216] Che, sul piano pratico, corrisponde all’interesse positivo: diversamente, cfr. C. Pelloso, ‘Do ut des’, cit., 159 ss., in particolare 172. Sul problema formulare, cfr. M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, 2a ed., München, 1996, 317, con altra letteratura.

 

[217] M.F. Cursi, L’eredità dell’‘actio de dolo’ e il problema del danno meramente patrimoniale, Napoli, 2008, 88. È questa la ragione della correzione al testo (dove, peraltro, sarei più propenso ad ascrivere ad un glossema pregiustinianeo la rilevata alterazione): non ritengo, al riguardo, che possa argomentarsi dall’espressione dare actionem, ove si consideri che la stessa è senza dubbio trasversalmente riferibile sia all’actio in factum pretoria senza demonstratio e con intentio al si paret - si non paret, sia all’actio praescriptis verbis, in quanto entrambi i rimedi presuppongono un intervento manipolativo pretorio (cfr. a riscontro, ma gli esempi si potrebbero moltiplicare, il dari actionem di Paul. 5 quaest. D. 19.5.5.4, od il danda est di Imp. Alex. A. Pomponiis C. 2.4.6.1, a. 230).

 

[218] M.F. Cursi, L’eredità, cit., 90. Non mi pare, dunque, che il problema della sussidiarietà possa porsi nei termini ipotizzati da G. Romano, Nota, cit., § 6, né da C.A. Cannata, Labeone, cit., 83.

 

[219] Che la condictio ob rem dati re non secuta offrisse un rimedio per quanto concerne sia la regola di rischio contrattuale, sia l’interesse negativo in caso di inadempimento, risulta già da Cels. D. 12.4.16, dove il rimedio restitutorio per la mors servi è dato in ragione di una ben precisa opzione in tema di rischio contrattuale, mentre negli altri casi (altruità del servus; correlato rifiuto di ob evictionem promittere) è dato in funzione di ‘risoluzione per inadempimento’. Questa prospettiva – che, per adoperare una categoria moderna, sembra rispecchiare per certi versi la nostra attuale distinzione tra ‘risoluzione per impossibilità sopravvenuta’ e ‘risoluzione per inadempimento imputabile’, trasportata sul piano del colore funzionale di un rimedio restitutorio – appare a mio avviso affinarsi per epoca severiana: nell’ipotesi del do (pecuniam, come in Papin. 2 quaest. D. 19.5.7) ut manumittas, la nostra condictio viene correlata alla fuga del servus da manomettere oppure alla sua morte da Ulp. 2 disp. D. 12.4.5.3-4: Sed si accepit pecuniam ut servum manumittat isque fugerit prius quam manumittatur, videndum, an condici possit quod accepit. et si quidem distracturus erat hunc servum et propter hoc non distraxit, quod acceperat ut manumittat non oportet ei condici: plane cavebit, ut, si in potestatem suam pervenerit servus, restituat id quod accepit eo minus, quo vilior servus factus est propter fugam. plane si adhuc eum manumitti velit is qui dedit, ille vero manumittere nolit propter fugam offensus, totum quod accepit restituere eum oportet. sed si eligat is, qui decem dedit, ipsum servum consequi, necesse est aut ipsum ei dari aut quod dedit restitui. quod si distracturus non erat eum, oportet id quod accepit restitui, nisi forte diligentius eum habiturus esset, si non accepisset ut manumitteret: tunc enim non est aequum eum et servo et toto pretio carere. (4) Sed ubi accepit, ut manumitteret, deinde servus decessit, si quidem moram fecit manumissioni, consequens est, ut dicamus refundere eum quod accepit: quod si moram non fecit, sed cum profectus esset ad praesidem vel apud quem manumittere posset, servus in itinere decesserit, verius est, si quidem distracturus erat vel quo ipse usurus, oportere dici nihil eum refundere debere. enimvero si nihil eorum facturus, ipsi adhuc servum obisse: decederet enim et si non accepisset ut manumitteret: nisi forte profectio manumissionis gratia morti causam praebuit, ut vel a latronibus sit interfectus, vel ruina in stabulo oppressus, vel vehiculo obtritus, vel alio quo modo, quo non periret, nisi manumissionis causa proficisceretur. Nel fr. 4.3 Ulpiano delinea i presupposti, a seconda delle circostanze di fatto ipoteticamente configurabili, del rimedio restitutorio nel caso della inimputabilità della fuga servi, e dunque come regola di rischio in base alla quale allocare il pregiudizio patrimoniale che ne consegue; nel fr. 4.4, per la mors servi, egli delinea i confini, all’interno del condicere, di quel che, sul piano teorico, rappresenta il discrimine tra regola di responsabilità (sub specie di quello che per noi sarebbe un inadempimento imputabile suscettibile di determinare la risoluzione) e regola di rischio (sub specie di quello che per noi sarebbe l’impossibilità sopravvenuta suscettibile di determinare la risoluzione), così  da colorare la funzione pratica del condicere. Un analogo atteggiamento emerge in Ulp. 26 ad ed. D. 12.4.3.3, dove peraltro il presupposto per la condictio in funzione ‘risolutoria’ si correla alla rilevanza del dies: Quid si ita dedi, ut intra certum tempus manumittas? si nondum tempus praeteriit, inhibenda erit repetitio, nisi paeniteat: quod si praeteriit, condici poterit. sed si Stichus decesserit, an repeti quod datum est possit? Proculus ait, si post id temporis decesserit, quo manumitti potuit, repetitionem esse, si minus, cessare.

 

[220] In questo concorso di tutele, che vede, per epoca classica matura, la condictio ob rem dati re non secuta alternarsi all’actio praescriptis verbis, può forse trovarsi – ma si tratta di uno spunto che impone una più ampia indagine sulle vie per le quali il diritto europeo ha progressivamente configurato il rapporto tra domanda di risoluzione e domanda di adempimento – una chiave di lettura della «scelta» che l’art. 1453, comma 1, cod. civ. offre al contraente, il quale può «chiedere l’adempimento o la risoluzione del contratto, salvo, in ogni caso, il risarcimento del danno». La legittimazione è data, in linea di principio, al ‘contraente’, abbia o non abbia eseguito la propria prestazione (cfr. V. Roppo, Il contratto, cit., 954; R. Sacco, I rimedi sinallagmatici, in R. Sacco - G. De Nova, Il contratto, 3a ed., Torino, 2004, 624): ma, alla luce della prospettiva emergente dalle fonti romane, viene da chiedersi se non la si debba riconoscere, piuttosto, al «contraente fedele» (l’espressione è di A. Luminoso, I rimedi generali contro l’inadempimento del contratto, in A. Luminoso - U. Carnevali - M. Costanza, Risoluzione per inadempimento, I.1, in Commentario del Codice Civile Scialoja-Branca a cura di F. Galgano, Bologna-Roma, 1990, 17): uno spunto normativo per ragionare in senso ‘aristoniano’, del resto, si rinviene nell’art. 2932, comma 2, cod. civ., secondo cui la tutela costitutiva, ove si controverta in tema di contratti con effetto reale ex art. 1376, non può essere concessa se la parte che ha proposto la domanda «non esegue la sua prestazione o non ne fa offerta nei modi di legge, a meno che la prestazione non sia ancora esigibile».

 

[221] C.A. Cannata, Sul problema della responsabilità nel diritto privato romano, Catania, 1996, 93.

 

[222] Basti pensare all’interconnessione di questioni sia di rischio sia di responsabilità sottostanti al condicere discusso da Ulp. 2 disp. D. 12.4.5.4, poco sopra riportato. In questa prospettiva, non noto alcunché di singolare nell’argomentazione di Ulpiano: la sua prospettiva euristica, nel fr. 5.4, è quella di individuare lo spettro operazionale della condictio ob rem dati re non secuta, ed è solo per questo che si tace dell’actio praescriptis verbis, la quale resta senza dubbio l’altro rimedio esperibile.

 

[223] In ragione della condemnatio al quanti ea res est: cfr. esattamente M. Talamanca, Istituzioni, cit., 555 s.; sul problema formulare, cfr. M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 317.

 

[224] In adesione alla tesi di C.A. Cannata, Sul problema, cit., 121 ss., ed in particolare 122.

 

[225] Sarebbe dunque plausibile, anche se a mio parere indimostrabile, la congettura testuale proposta da C.A. Cannata, Labeone, cit., 83 e nt. 130.

 

[226] Cfr. per questa sintesi G. Pugliese, Lezione, cit., 31, anche per la citazione testuale.

 

[227] «Omologa» per T. dalla Massara, Alle origini, cit., 235 (ed analogamente L. Zhang, Contratti, cit., 180 ss., e J. Paricio, Contrato, cit., 60); identica per P. Collinet, L’invention du contrat innommé: le responsum d'Ariston (Dig. 2, 14, 7, 2) et la question de Celsus (Dig. 12, 4, 16), in Mnemosyna Pappulias, unter der Aegide der Archivs für griechische Rechtsgeschichte der Akademie Athen, herausgegeben von P.G. Vallindas, Athen, 1934, 97.

 

[228] Cfr. M. Talamanca, La tipicità, cit., 86 s.; più di recente, C.A. Cannata, L’‘actio in factum civilis’, cit., 9 ss., che legge nel nomen conservato dal Digesto un riferimento classico alla formula (ivi, 13 s.).

 

[229] Cfr. Iul. 8 dig. D. 12.7.3, Iul. 16 dig. D. 23.3.46 pr., Iul. 39 dig. D. 30.60, Iul. 60 dig. D. 39.5.2.3-4.

 

[230] Sul punto, per la genuinità della condictio incerti e l’origine institicia del tratto ‘id est praescriptis verbis’, cfr. P. Biavaschi, Ricerche sul ‘precarium’, Milano, 2006, 139 ss.

 

[231] Considero, infatti, ascrivibile a lemma sabiniano il riferimento all’impossibilità di esperire contro il precarista una civilis actio che figura in Ulp. 29 ad Sab. D. 47.2.14.11: Is qui precario servum rogaverat subrepto eo potest quaeri an habeat furti actionem. et cum non est contra eum civilis actio (quia simile donato precarium est) ideoque et interdictum necessarium visum est, non habebit furti actionem. plane post interdictum redditum puto eum etiam [culpam] <custodiam?> praestare et ideo et furti agere posse, ed in Paul. 13 ad Sab. D. 43.26.14: Interdictum de precariis merito introductum est, quia nulla eo nomine iuris civilis actio esset: magis enim ad donationes et beneficii causam, quam ad negotii contracti spectat precarii condicio. Sul passo di Ulpiano cfr. esattamente P. Biavaschi, Ricerche, cit., 315, nt. 109, ed amplius 314 ss. per lo status quaestionis. Per Ulpiano, del resto, il precario è simile non già al donatum, ma al comodato (Ulp. 1 inst. D. 43.16.1.3), il che contribuisce a pensare che nella prima parte del passo circoli pensiero di Sabino. La chiusa – ascrivibile ad un nucleo di pensiero di Ulpiano – rimane comunque problematica per via della connessione tra culpam praestare (per di più post interdictum redditum) e legittimazione attiva all’actio furti del precarista, ove si consideri che, come noto, la legittimazione del non dominus dovrebbe correlarsi alla responsabilità per custodia. Il passo di Paolo, a questo punto, esprime sostanzialmente i medesimi concetti provenienti dalla medesima fonte – vale a dire Sabino – che ritroviamo nella prima parte di quello di Ulpiano: sicché l’ipotesi che esso riporti «una digressione di ordine storico» (P. Biavaschi, op. cit., 288) va solo ripensata nel senso che Paolo riporti, esattamente come Ulpiano, pensiero sabiniano. In questo quadro, non convince la lettura di P. Zamorani, ‘Precario habere’, Milano, 1969, 201 ss., condizionata dalla prospettiva che ascrive Ulp. D. 43.26.2.2, Iul. D. 43.26.19.2, Paul. D. 43.26.14 e Ulp. D. 47.2.14.11 a fattura compilatoria.

 

[232] P. Cerami, Il comodato, in Derecho romano de obligaciones. Homenaje al profesor J.L. Murga Gener, Madrid, 1994, 311.

 

[233] Al comodato, del resto, per Ulpiano è simile il precarium: Ulp. 1 inst. D. 43.26.1.3.

 

[234] Cfr. P. Biavaschi, Ricerche, cit., 317 s., pur senza dover ipotizzare, a mio parere, ad una «via subordinata» per l’esperimento dell’actio. In questa stessa logica, del resto, mi pare il giurista si muova nel ricordare una soluzione di Viviano per una fattispecie analoga in Ulp. 28 ad ed. D. 19.5.17 pr.: Si gratuitam tibi habitationem dedero, an commodati agere possim? et Vivianus ait posse: sed est tutius praescriptis verbis agere. Sulla posizione di Viviano, e sulla problematicità che essa implicava in epoca severiana, implicita nell’opzione di praescriptis verbis agere, cfr. C. Russo Ruggeri, Viviano giurista minore?, Milano, 1997, 136 ss., in particolare 139 e nt. 171.

 

[235] M. Talamanca, voce Società, cit., 823.

 

[236] Parrebbe, del resto, superata anche la posizione di Sabino ricordata da Gai 3.141, su cui cfr. F. Sitzia, voce Permuta, cit., 108.

 

[237] Secondo M. Talamanca, La ‘societas’. Corso di lezioni di diritto romano, edizione postuma a cura di L. Garofalo con note di F. Sitzia e C.A. Cannata, Padova, 2012, 110, «la struttura del negozio prevale, in questo caso, per quanto attiene all’identificazione della fattispecie contrattuale, sulla funzione economico-sociale dello stesso»; cfr. quindi Id., voce Società , cit., 823 e nt. 100.

 

[238] Non crea problemi la chiusa, in cui si fa il caso della creazione di un condominio in conseguenza dell’assunzione dell’obbligazione di pati aedificare: si configura, cioè, una communio ex societate – come quella che emerge in Ulp. 31 ad ed. D. 17.2.52.10 – che come tale non ha valore formativo della fattispecie contrattuale (cfr. M. Talamanca, La ‘societas’, cit., 111).

 

[239] Uno spunto per ragionare in questo senso, seppur in una differente prospettiva ricostruttiva, mi viene dalle considerazioni di F. Wieacker, ‘Societas’. Hausgemeinschaft und Erwerbsgesellschaft. Untersuchungen zur Geschichte des römischen Gesellschaftsrechts, I, Weimar, 1936, 315, nonché Id., Das Gesellschaftverhältnis des klassischen Rechts, in ZSS, LXIX, 1952, 324 s.: sul problema della distinzione tra societas e figure di scambio, cfr. M. Talamanca, voce Società, cit., 821 e nt. 75, 823 e nt. 97.

 

[240] A. Burdese, I contratti innominati, cit., 81.

 

[241] G. Klingenberg, Das ‘pactum de tributis agnoscendis’, in TR, LIV, 1986, 260 s.

 

[242] Cfr. da ultimo, in merito, S. Randazzo, ‘Mandare’, cit., 246 ss.; nonché la fondamentale analisi di V. Arangio-Ruiz, Il mandato in diritto romano. Corso di lezioni svolto nell’Università di Roma, anno 1948-1949, Napoli, 1949, 188 ss., in particolare 192.

 

[243] A. Burdese, I contratti innominati, cit., 82; J. Kranjc, Die ‘actio praescriptis verbis’, cit., 456 s.; E. Stolfi, Studi, II, cit., 212 s.

 

[244] «Prima di Pomponio» – scrive E. Stolfi, Studi, II, cit., 212, nt. 314 – «il ricorso all’agere (mai actio) praescriptis verbis è espressamente attestato … solo per Labeone …, Celso …, Giuliano … e Gaio», considerando, per Giuliano, anche Afr. D. 19.5.24; ma, proprio per Giuliano, in D. 43.26.19.2 e D. 19.5.13.1 il sintagma ‘id est praescriptis verbis’ è frutto, come si è detto, di un glossema esplicativo; ed in D. 19.5.24 finirebbe appunto per correlarsi ad actio. D’altronde, seppur sulla base di quella semplice suggestione che deriva dalla scelta compilatoria di intersecare le parole di Papin. 8 quaest. D. 19.5.1.2 con quelle di Iul. 8 dig. D. 19.5.3, neppure va escluso che Giuliano non ricorresse affatto alla terminologia ‘praescriptis verbis’, dato che il tratto ‘in quam necesse est confugere’ va correlato, nella frase che risulta da questo ‘centone giuridico’, alla in factum civilis actio del fr. 1.2: ovvero l’espressione che O. Lenel, ‘Palingenesia iuris civilis’, I, cit., 358 e nt. 1, congetturava nella ricostruzione di Iul. 14 dig. [de aestimato] 238 Lenel; e ciò tanto più ove si consideri che, come rileva A. Mantello, Le ‘classi nominali’, cit., 265 ss., la prospettiva giulianea parrebbe legarsi più al dato ‘sostanzialistico’ delle contractus appellationes che al dato ‘processualistico’ su cui insistono, nella catena di frammenti 1 pr.-3 di D. 19.5, Celso e Papiniano.

 

[245] Diversamente cfr. F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit.,176 ss., in particolare 198 s.: in D. 19.5.24, l’espressione ‘praescriptis verbis’ sarebbe genuina (mentre non lo sarebbe in D. 19.5.13.1 ed in D. 43.26.19.2). In buona sostanza, Giuliano non avrebbe considerato figura contrattuale il ‘do ut facias’ (D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2, nonché D. 19.5.13.1, dove si discute di una convenzione che il Gallo considera commutativa, e segnatamente un ‘do ut facias’, in una logica a mio parere non condivisibile), mentre in D. 19.5.24 vi sarebbe una fattispecie contrattuale irriducibile appunto al ‘do ut facias’, ed integrante un’«ipotesi di bilateralità oggettiva eventuale» (ivi, p. 201).

 

[246] In termini assai drastici, cfr. C.A. Cannata, Labeone, cit., 93, 96, 99; più prudente A. Burdese, I contratti innominati, cit., 79.

 

[247] Per la quale non può dirsi, in astratto ed a priori, che mostri con evidenza una netta cesura tra lo schema di Aristone ed il pensiero di Giuliano, come invece ritiene F. Gallo, ‘Synallagma’, II, cit., 179; e ciò anche in considerazione del fatto che nulla dimostra con sicurezza che Giuliano consentisse la tutela praescriptis verbis sulla base di un criterio di prossimità (F. Gallo, op. cit., 183 ss. e 216, nt. 29).

 

[248] Sviluppo qui uno spunto già emerso in dottrina (cfr. per tutti A. Burdese, Sul riconoscimento, cit., 51 s.; A. Schiavone, Studi, cit., 161, nt. 243; C.A. Maschi, Il diritto romano nella prospettiva storica della giurisprudenza classica, Milano, 1957, 214) che correlava l’actio in factum di Paul. D. 19.4.1.1 all’actio in factum giulianea di Ulp. D. 2.14.7.2.

 

[249] C.A. Cannata, Labeone, cit., 76 ss.

 

[250] Accogliendo i risultati cui perviene C. Giachi, Studi, cit., 1 ss., in particolare 6 e 42.

 

[251] Nel senso che una permutatio inter cives deve risolversi nell’acquisto del dominium ex iure Quiritium, foss’anche per intervenuta usucapio, che è comunque modo di acquisto iure civili; nei rapporti con i peregrini, deve ritenersi sistematicamente sufficiente la traditio, che – quale istituto del ius gentium – faceva acquistare a questi ultimi la proprietà iuris peregrini. Mi pare, infatti, che si pongano per la permutatio, al riguardo, gli stessi problemi che sorgono per la compravendita: e dubito anch’io, con M. Talamanca, Istituzioni, cit., 587, che la configurazione dell’obbligazione del venditore di possessionem tradere debba di necessità ricondursi all’impossibilità, per i peregrini sforniti di ius commercii, di ricorrere agli atti formali di alienazione quiritari. La struttura della compravendita consensuale è, semmai, frutto di un’esigenza di semplificazione; vendita e permuta, sottese da iuris gentium conventiones, impongono rispettivamente di rem praestare, e di rem dare ex fide bona in modo da assicurare l’acquisto della proprietà secondo l’ordinamento giuridico proprio della civitas dell’accipiens.

 

[252] Diversamente, E. Sciandrello, Studi, cit., 285 s., ritiene necessario il trasferimento che, con nostra opzione dogmatica, può dirsi derivativo: ma, nel modo di pensare dei Romani, riterrei – tanto più ove si consideri che Aristone valutava la permuta come vicina alla compravendita – che fosse sufficiente l’acquisto anche a non domino per usucapione, od in conseguenza di atto traslativo inidoneo, stante la tutela Publiciana, e senza che ciò contraddica l’essenza del re fieri della figura. Distinguerei, dunque, nettamente tra difetto di legittimazione a disporre ed intervenuta evictio: la posizione pediana, probabilmente, era rimasta isolata.

 

[253] C. Giachi, Studi, cit., 541, ed amplius 539 ss. per l’ipotesi che Pedio, di fronte al problema del rapporto tra vendita e permuta, sia stato il primo giurista – muovendo dalla prospettiva emergente da Ulp. D.2.14.1.3 – «a isolare tutti gli elementi indispensabili – la conventio e l’autonomia contrattuale della permuta reale – per comporre questo quadro».

 

[254] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 436.

 

[255] M. Talamanca, Istituzioni, cit., 436.

 

[256] «Ove si agisse con un iudicium bonae fidei» – osserva M. Talamanca, Istituzioni, cit., 516 – «le obbligazioni di dare (come l’obbligazione del compratore e del conduttore a trasferire la proprietà della somma di denaro che costituiva il prezzo od il canone di affitto …) mantenevano – nelle linee essenziali – le loro caratteristiche sostanziali, ma venivano valutate in base alla fides bona». In sostanza, l’adempimento della civilis obligatio del permutante avviene pro soluto esattamente come pro soluto avviene l’adempimento, da parte dell’emptor, dell’obbligazione – interna all’oportere ex fide bona – di pagare il prezzo (cfr. C.A. Cannata, Corso, I, cit., 308 ss., in particolare 312).

 

[257] Alla stregua, dunque, di una ‘seconda’ datio ob rem.

 

[258] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 637.

 

[259] La tutela per l’adempimento, infatti, «poteva essere intentata soltanto se una delle parti avesse già adempiuto»: M. Talamanca, Istituzioni, cit., 556.

 

[260] Secondo E. Sciandrello, Studi, cit., 288 ss. e 296 ss., la tutela in factum per il fatto evizionale incide sulla prima datio (a non domino) quando sia stata esattamente eseguita la seconda, con conseguente produzione di effetti obbligatori; ed il contesto sarebbe correlabile alla posizione di Giuliano (D. 2.14.7.2 e D. 19.5.5.2). Nondimeno, osserverei che, a ragionare in questi termini, la tutela dovrebbe essere non già in factum, ma in ius concepta, nella forma dell’actio praescriptis verbis.

 

[261] Diversamente cfr. F. Sitzia, voce Permuta, cit., 112.

 

[262] Dissento, dunque, su un punto dall’esegesi di F. Sitzia, voce Permuta, cit., 112, secondo il quale «se l’obbligazione nasce nella permuta soltanto nel momento in cui uno dei soggetti ha eseguito la sua prestazione di dare, cioè di trasferire la proprietà, non si avrà permuta nell’ipotesi di traditio di cosa altrui in quanto non vi è stato alcun trasferimento di proprietà»: questa è, a mio parere, la posizione della fine del I secolo, superata successivamente con il recupero della posizione di Giuliano, che prevale in epoca severiana per quanto concerne la permutatio.

 

[263] Diversamente, secondo F. Sitzia, voce Permuta, cit., 113, «non sarà necessario attendere che si verifichi l’evento dell’evizione, dal momento che la parte che ha trasmesso una cosa altrui sarà comunque inadempiente».

 

[264] Pervengo, quindi, ma per diversa via e comunque muovendo da una diversa lettura di D. 19.4.1.1, ad una soluzione solo apparentemente coincidente con quella suggerita da E. Sciandrello, Studi, cit., 288 s. e 296 s., il quale, tuttavia, ritenendo che nel fr. 1.1 l’evictio possa riferirsi alla prima datio, ma successivamente all’esatta attuazione della seconda, parla di tutela pretoria pur riconoscendo la genesi dell’obbligazione. In realtà, l’evizione dell’ob rem datum preclude a monte l’integrazione della fattispecie, sicché la convenzione rimane in una  sfera acontrattuale presidiata unicamente in via onoraria alla stregua di un mero fatto.

 

[265] C.A. Cannata, Labeone, cit., 78 e 81 s.

 

[266] V’insiste, invece, C.A. Cannata, Labeone, cit., 81; più convincentemente Id., L’‘actio in factum civilis’, cit., 48.

 

[267] Cfr. per tutti M. Talamanca, Istituzioni, cit., 554 s.

 

[268] Così, esattamente, C.A. Cannata, Labeone, cit., 76. Nel discorso di Paolo, ad ogni modo, l’ob rem datum è considerato, rispetto alle sue quattro species (do tibi ut des, aut do ut facias, aut facio ut des, aut facio ut facias), come categoria sovraordinata suscettibile di comprendere anche il factum: il che, più che indizio di rimaneggiamento, connota forse l’intervenuta equiparazione del facereob rem’ al dareob rem’, nel senso che l’intervenuta acquisizione del risultato patrimoniale del facere è idoneo, come il dare, a vincolare la controparte ad una civilis obligatio.

 

[269] Paul. 5 quaest. D. 19.5.5 pr.: Naturalis meus filius servit tibi et tuus filius mihi: convenit inter nos, ut et tu meum manumitteres et ego tuum: ego manumisi, tu non manumisisti: qua actione mihi teneris, quaesitum est. in hac quaestione totius ob rem dati tractatus inspici potest. qui in his competit speciebus: aut enim do tibi ut des, aut do ut facias, aut facio ut des, aut facio ut facias: in quibus quaeritur, quae obligatio nascatur. Il totius ob rem dati tractatus contenuto nei fr. 5.1-5.4, in cui si esaminano in quattro articuli le quattro species della datio ob rem, è strumentale a risolvere la quaestio proposita, come si legge nel fr. 5.5: Si ergo haec sunt, ubi de faciendo ab utroque convenit, et in proposita quaestione idem dici potest et necessario sequitur, ut eius fiat condemnatio, quanti interest mea servum habere quem manumisi. an deducendum erit, quod libertum habeo? sed hoc non potest aestimari. Ne consegue che Ego, nei confronti di Tu, può esperire l’actio praescriptis verbis, vale a dire la stessa tutela indicata nel fr. 5.4 in insulis fabricandis ed in debitoribus exigendis. Noterei solo come, per quest’ultima soluzione, si rivelino in una certa misura inadeguate le nostre categorie concettuali dell’interesse ‘negativo’ e ‘positivo’: con un’autoproiezione condizionata dalla nostra configurazione dell’«interesse, anche non patrimoniale, del creditore» consacrata nel verbum legis di cui all’art. 1174 cod. civ., ci saremmo magari attesi che il giurista indicasse come parametro della valutazione l’interesse, evidentemente non patrimoniale, del pater alla manumissio del proprio naturalis filius: un interesse che, peraltro, non può entrare nella stima della condemnatio, esattamente come – riterrei – non è data in sede aquiliana alcuna aestimatio per il liberum corpus, né più in generale per l’affectio o l’utilitas singulorum (sicché il passo esprime in fin dei conti la stessa logica sottesa da Paul. 2 ad Plaut. D. 9.2.33 pr., in cui si esamina appunto, in chiave aquiliana, l’occisio del naturalis filius). E quindi, la condanna è parametrata all’unico dato patrimonialmente valutabile nel caso di specie, precisandosi altresì come non possa stimarsi, al riguardo e nella medesima logica, l’avere un liberto.

 

[270] Cfr., in senso esattamente critico, M. Talamanca, Istituzioni, cit., 556: l’actio de dolo era data da Giuliano nei confronti del dante causa consapevole del proprio difetto di legittimazione a disporre, sicché a priori non pare plausibile che Paolo estendesse in via generale questa forma di tutela.

 

[271] D’altro canto, il progetto espositivo di Paolo – incidente non già su ‘figure contrattuali’, ma sulla pluralità di prospettive interpretative che connotano gli aspetti l’ob rem datum, in modo da chiarire quae obligatio nascatur (fr. 5 pr.) – visto alla luce del complessivo andamento dell’intero discorso confluito in D. 19.5.5 induce a ritenere che al centro del tractatus vi fossero essenzialmente i presupposti di esperibilità della condictio, esaminata peraltro non già in termini ‘atomistici’, ma semmai nei suoi rapporti con altre figure di tutela, tra le quali principalmente quella per l’interesse positivo, vale a dire l’actio praescriptis verbis: il risultato del taglio del fr. 5.3 avrebbe, a questo punto, solo limitato l’originaria esposizione ad un profilo inerente alla questione centrale, ovvero l’esperibilità in via residuale dell’actio de dolo non essendo consentita la condictio di un facere; il che, dunque, non implica l’esclusione della tutela praescriptis verbis. Infatti, vale – a mio parere – anche in questo caso, seppur solo nei suoi assunti di fondo, la prospettiva esegetica della Cursi, secondo la quale «la fluidità delle tutele residuali consente di sfumare anche la rigidità del criterio di sussidiarietà dell’azione di dolo: il principio vale infatti soltanto rispetto agli strumenti tipici di cui l’azione di dolo completa le lacune legate naturalmente alla tipicità del sistema» (M.F. Cursi, L’eredità, cit., 88; dissento, nondimeno, dall’ipotesi secondo la quale in D. 19.5.5.3 Paolo avrebbe generalizzato la soluzione di Giuliano ricordata nel fr. 5.2). Qui l’azione è sussidiaria rispetto alla condictio, rimedio edittale consolidato, senza che al riguardo venga in rilievo l’actio praescriptis verbis, che tale non può considerarsi neppure per epoca severiana, non essendo – con tutta evidenza – uno strumento edittale tipico.

 

[272] F. Sitzia, voce Permuta, cit., 113. D’altronde, avrei difficoltà a pensare ad una tutela in ius concepta, come l’actio praescriptis verbis, nel momento in cui – a seguire lo spunto pediano in Paul. D. 19.4.1.3 – la fattispecie non si sia integrata in senso civilistico.

 

[273] Vedrei la stessa soluzione – la tutela praescriptis verbis – per l’ipotesi della contestualità delle due dationes, una delle quali determini il fatto evizionale: in questo caso, l’elemento formativo – l’initium – è dato comunque dalla datio proveniente a domino, contestuale – e quindi rilevante in chiave formativa – a quella proveniente a non domino. Val la pena di evidenziare come la ‘contestualità’ dello scambio debba intendersi in senso non già puramente cronologico, ma giuridico, ovvero, nella prospettiva di uno ‘scambio a contanti’ (basti pensare al modello dell’originaria mancipatio causale arcaica); la ‘contestualita’ va allora esclusa quando sia possibile giuridicamente isolare una datio (ob rem appunto) strumentale a vincolare la controparte ad una seconda datio corrispettiva.

 

[274] L’esecuzione della prima datio nella consapevolezza del difetto di legittimazione a disporre varrebbe, con ogni probabilità, ad escludere la sussistenza della causa solvendi in occasione della seconda, che presuppone la buona fede bilaterale nell’addivenire all’accordo solutorio: sul punto, sarebbe allora vitale la distinzione tra atto di disposizione a non domino dell’ignorans ed atto di disposizione del sciens prospettata da Giuliano e ricordata da Paul. D. 19.5.5.2.

 

[275] In ragione della configurazione della pretesa, irriducibile tanto a rimedio restitutorio quanto a tutela ex poenali causa: sul punto cfr. M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht, cit., 317. Non può non osservarsi, d’altro canto, come se da un lato l’attore perda il vantaggio dell’intentio di buona fede – che implica una valutazione ad ampio spettro dell’atto e del rapporto –, dall’altro la deduzione del factum imponga pur sempre al convenuto che non si limiti alla sua negazione di proporre le proprie difese mediante la richiesta di exceptiones.