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Gabrielli-foto-cvI canali non istituzionali della propaganda politica: la retorica e la creazione del consenso*

 

CHANTAL GABRIELLI

Università di Firenze

 

 

Nel 92 a.C. con un editto censorio Lucio Licinio Crasso e Gneo Domizio Enobarbo imposero la chiusura delle scuole di retorica latina aperte da appena un anno a Roma. Il principale obiettivo di queste scuole, fra cui ben nota per il suo potere attrattivo sui giovani era quella di L. Plozio Gallo, consisteva nel fornire, in primo luogo a chi non conosceva la lingua greca, gli strumenti culturali e tecnici necessari per l'oratoria politica. Principale fonte sull'editto è Svetonio, un passo del de grammaticis et rhetoribus, confluito nelle Noctes Atticae di Aulo Gellio[1], a cui devono aggiungersi le riflessioni dell'ottimate Cicerone contenute nel de oratore e, fra l'altro, espresse proprio dal censore del 92 Licinio Crasso, principale protagonista del dialogo[2]. Alla luce di una documentazione letteraria di non univoca lettura, il contenuto e le finalità del drastico intervento hanno alimentato, anche di recente, il dibattito storiografico[3]. A due posizioni contrapposte si può, in sostanza, ricondurre la storiografia moderna, divisa fra quanti del provvedimento convalidavano solo l’incidenza culturale e pedagogica dell’istruzione retorica sui giovani e quanti ne sostenevano esclusivamente il valore politico, sottolineando l’appartenenza, fra l'altro su basi documentarie tenui[4], del retore Plozio Gallo alla corrente popularis e alla cerchia dei mariani[5]. Cercando di evitare una interpretazione storiografica che enfatizzando l'uno o l'altro aspetto finisca per apparire riduttiva, vorrei riprendere in esame questa misura restrittiva in relazione alla complessità della politica romana di quegli anni.

Un editto censorio, che negava l'insegnamento dei rhetores Latini a Roma, incideva senza dubbio su un aspetto della vita culturale e della formazione educativa dei giovani, ma questo fattore non va disgiunto dal contesto storico e dal tessuto sociale di quel periodo. L’episodio si situa negli anni precedenti la guerra sociale, uno dei periodi più convulsi della tarda repubblica. La spaccatura all’interno della classe dirigente romana causata dalle vicende graccane era sempre più marcata, la questione degli Italici ancora irrisolta, e insostenibili erano ormai diventate le pressioni dei nuovi gruppi politici emergenti che chiedevano un'equiparazione di diritti e pari opportunità di benefici. Solo tre anni prima, nel 95 a.C., il censore Licinio Crasso, in qualità di console, aveva fatto approvare la lex Licinia Mucia insieme al collega Quinto Mucio Scevola, al fine di sbarrare la via alle aspirazioni degli alleati attraverso restrizioni al diritto di cittadinanza e processi sui casi sospetti; ne consegue che anche l'editto de coercendis rhetoribus latinis avesse una finalità politica e rientrasse, come è stato interpretato[6], tra le misure antitaliche prese dalla parte più conservatrice della nobilitas, e più specificatamente apparisse dans la politique intérieure et dans la lutte des partis[7] l'ennesimo segnale dell'irrigidimento degli ottimati contro ogni tentativo di minarne l'esclusivo appannaggio al potere. Sappiamo, infatti, che il principale requisito per accedere alle cariche politiche e avere parte attiva nel governo della res publica consisteva nell'istruzione retorica in greco, caratteristica distintiva dell'educazione dei giovani dell'aristocrazia romana. L’educazione oratoria di base si impartiva esclusivamente attraverso un insegnamento privato tenuto da maestri greci, come è noto per le lezioni che si svolgevano fra le mura domestiche della lussuosa dimora dello stesso censore Licinio Crasso e per un pubblico, necessariamente circoscritto, di giovani allievi. Le 'nuove' scuole di retorica latina avevano, invece, introdotto profondi cambiamenti nel sistema educativo tradizionale romano. In primo luogo quelle scuole erano pubbliche, pubblici i corsi di lezioni che in esse si tenevano: i giovani vi accedevano liberamente, passandovi intere giornate (ad quos iuventus in ludum conveniat ... ibi homines adolescentulos dies totos desìdere). Svetonio parla di un nuovo genere di istruzione, ma tale novitas, proprio perché fuori dalla consuetudine e dal mos maiorum, non era condivisibile né tanto meno correttamente proposta: novum genus disciplinae instituerunt …Haec nova quae praeter consuetudinem ac morem maiorum fiunt, neque placent neque recta videntur[8]. Quelle scuole proponevano un approccio educativo che alterava quanto i maiores avevano stabilito sulla formazione dei giovani in merito sia alle discipline da apprendere che alle tipologie di scuole da frequentare[9]. Così, avvalendosi del fatto che l’educazione dei giovani rientrasse nella sfera della cura morum censoria, Licinio Crasso insieme al collega Domizio Enobarbo impose la chiusura di scuole che destabilizzavano l’ordine costituito. Per quanto la tradizione letteraria riporti contrasti tra i due censori del 92, legati ad approcci alla politica così divergenti da portare entrambi poco dopo a dimettersi dalla carica[10], nelle fonti manca la benché minima allusione ad un eventuale dissenso fra i due magistrati sull’emanazione dell’editto. Questa sostanziale unità nell’attaccare una precisa proposta educativa, oltrepassando i dissapori personali, parrebbe dimostrare non solo la volontà della nobilitas di dare un messaggio di rigore in difesa del mos, ma anche di non divulgare in maniera incontrollata un'arte, quella della parola, che poteva rivelarsi un'arma politica pericolosissima, capace di trovare tutte le argomentazioni utili per persuadere e manipolare le coscienze, al fine di creare consenso intorno a singole proposte di legge o articolati programmi di riforme. La padronanza della retorica era, inoltre, uno strumento molto efficace per facilitare la scalata su per le rampe delle cariche politiche: il sapiente dominio dell’arte del parlare poteva consentire l’accesso al cursus honorum anche a fasce sociali in precedenza escluse.

Nell’ottica di una contrapposizione fra modelli educativi vanno in parte incanalate le sottolineature svetoniane sull’editto. Tale antitesi non deve, però, a mio avviso, essere ricondotta esclusivamente alla consueta valutazione culturale e sociale del Latine docere rivolto ai ceti italici e ai notabili municipali che conoscevano solo il latino in opposizione allo studio della retorica in greco, prerogativa propria della nobilitas, ellenizzata e bilingue, ipotesi che ha avuto molta fortuna nella storiografia moderna[11]. A ciò si aggiunga un’altra questione, altrettanto importante, ovvero il fatto che la retorica latina cercasse di acquisire pari dignità con quella greca e che la cultura dei domi nobiles italici volesse affermare la propria indipendenza dai modelli ellenici, quasi la propria autoctonia[12]. Il provvedimento, con una finalità a prima vista solo culturale, mostra, in realtà, anche la radicale trasformazione che aveva attraversato la classe dirigente romana nel giro di un secolo: la nobilitas più tradizionalista e conservatrice che con Catone il censore nei primi decenni del II secolo a.C. aveva saputo opporre i mores Romani all'ellenismo, ora era ridotta a difendere per sé il privilegio di conoscere la retorica ellenica e combatteva il tentativo di creare una retorica latina alternativa a quella[13]. Del resto si era in ‘un’età in cui politica e letteratura si mescolavano’[14]. Per i contemporanei, come sosteneva Gabba, era facile scorgere in un atteggiamento filoellenico di una parte della cultura romana precise posizioni di determinati ambienti politici dell’oligarchia. Non è dato sapere come la corrente popolare reagisse all’ingresso di idee lontane dalla tradizione romana. È pur vero che quando l’alessandrinismo venne introdotto a Roma in quegli anni da parte del circolo culturale che ruotava intorno all’aristocratico Quinto Lutazio Catulo, all’interno di quel cenacolo vi erano membri, come Porcio Licino, Vario Edituo e Q. Valerio Sorano, con tendenze antioligarchiche e atteggiamenti filopopolari. Con molta probabilità il mondo culturale romano di quell’epoca, attraverso gli atteggiamenti e gli indirizzi dei suoi rappresentanti, rifletteva l’antitetica configurazione degli orientamenti politici interni alla classe dirigente. Ed è, dunque, in questa complessa temperie che va inserito l’editto censorio, da interpretarsi piuttosto, a mio avviso, come uno dei tanti tasselli che contribuirono a delineare un ampio programma politico di profondo rinnovamento della società romana con l’allargamento della cittadinanza agli Italici e conseguentemente l’accesso alle magistrature ai loro notabili, e che investiva anche la cultura e quindi passava attraverso canali nuovi della propaganda politica.

Non si tratta, però, di semplificare la questione ad un mero conflitto fra una cultura plebea e una cultura aristocratica quanto piuttosto di considerare fra i tanti fattori di novità anche l’apertura dell’insegnamento della retorica ad un pubblico di discenti ben più ampio e sganciato dalle consuete rigidità sociali. Di questo avviso sono le considerazioni, pienamente condivisibili, di Narducci[15]. Nei suoi lavori sull’eloquenza ai tempi di Cicerone venne rivolta costante attenzione agli effetti di quella misura restrittiva, e dato soprattutto rilievo al fatto che le scuole di retorica latina non fossero rivolte a una élite rigorosamente selezionata in base a criteri clientelari, secondo la consuetudine, ma a chiunque potesse permettersi il pagamento di una retta, che garantiva uno stipendio ai rhetores. Il versamento di una retta, per quanto di importo non quantificabile, doveva essere un fattore ulteriormente discriminante per la selezione dei frequentatori di quelle scuole, e, in sostanza, solo persone con una certa disponibilità economica potevano permettersi l’accesso alla scuola. Di conseguenza, variegato doveva apparire il bacino di utenza di tali istituti, dove si offriva un’istruzione ‘specialistica’ e ‘professionale’ nella tecnica retorica e si difendeva l'importanza della lingua latina, oscurando la necessità del bilinguismo, esclusivo appannaggio della classe dirigente. Ed è probabile che tali scuole rappresentassero un polo attrattivo non solo per i giovani che, per origini sociali e inclinazioni politiche, restassero esclusi dal tirocinio aristocratico e dai legami di clientela, ovvero membri del ceto equestre e notabili municipali, ma anche per gli stessi giovani aristocratici. Seguendo gli studi di David[16] sull’attività processuale di quegli anni e tenendo conto dell’apertura del diritto all’accusa nei confronti di un senatore anche a personaggi che non appartenevano all’aristocrazia, possiamo prendere in considerazione l'ipotesi che fra gli utenti di questa tipologia di scuole vi fossero membri del ceto equestre interessati ad acquisire una conoscenza che permettesse di istituire, nei tribunali, un controllo politico sull’operato dei senatori. Da non escludere inoltre la presenza di figli di famiglie emergenti italiche; che potevano puntare con il loro nuovo bagaglio tecnico ad avere successo nell’accusa contro un membro del senato, circostanza che garantiva loro proficui vantaggi, tra cui l’agognata acquisizione del diritto di cittadinanza. Infine le giovani leve dell’aristocrazia, adolescentuli di quindici-sedici anni, anziché dedicarsi alla pratica forense (tirocinium fori), con molta probabilità potevano essere attratti dal ludus di Plozio che proponeva una prosecuzione di tipo scolastico della loro preparazione. In questo modo continuando a studiare, fra l’altro con esercitazioni in lingua latina e dibattendo pubblicamente negli ambienti della scuola su argomenti politici di scottante attualità, i fanciulli ritardavano il loro ingresso nel foro e conseguentemente l’inizio del loro cursus honorum[17].

La mancanza di restrizioni, su base clientelare, all’ingresso di queste scuole e l’impostazione innovativa della metodologia di insegnamento apparivano fattori estremamente pericolosi agli occhi dell’élite conservatrice, perché capaci di sconvolgere le forme di reclutamento della classe dirigente e allo stesso tempo di scardinarne l’iter educativo tradizionale. Ed in questo è emblematico il caso di Cicerone, che homo novus si rammarica in una lettera inviata ad un certo M. Titinnio di non aver potuto frequentare da giovane (puer), la scuola di Plozio Gallo, dissuaso da alcuni suoi potenti protettori, doctissimi homines, fra cui è plausibile annoverare il censore Licinio Crasso[18]. Interessante è la definizione che Cicerone nel de oratore dà, per bocca dello stesso Licinio, del ludus dei rhetores Latini come fucina di inpudentia e audacia, giudizio che chiaramente smorzava l’entusiasmo dimostrato in gioventù. Quei nuovi maestri non avrebbe insegnato nulla se non ad essere presuntuosi, era invece essenziale per l’oratore avere il pieno dominio di tutto lo scibile del tempo e vantare un’adeguata preparazione culturale. L'accusa di inpudentia può acquisire ulteriore peso, in relazione al fatto che tra le novità introdotte dalle scuole di retorica latina vi fosse la possibilità, come appena indicato, che gli allievi si confrontassero in pubblico su temi del presente, allenandosi alla discussione politica ed all’esercizio della critica in un confronto aperto di idee e posizioni talvolta anche molto distanti[19]. Presenza di esercizi declamatori sulla realtà del tempo e l’uso mirato di sententiae è peraltro rintracciabile proprio in un manuale di eloquenza scritto fra l’88/86 e l’82 a.C., la Rhetorica ad Herennium. Nato come replica di orientamento democratico e popularis al divieto del 92 di tenere scuola e quindi di trasmettere per via orale un sapere tecnico, il testo contiene esplicita menzione di avvenimenti della storia contemporanea: quali vittime della violenza ottimate, caduti per la causa democratica, compaiono, per esempio, in lugubre teoria i fratelli Tiberio e Gaio Gracco, Saturnino, Marco Livio Druso e Sulpicio Rufo[20]. Ben diversa, invece, risultava l’impostazione di un altro manuale di retorica di quegli anni, il de inventione, opera giovanile di Cicerone, così attento, invece, a evitare la formulazione di esempi storici del mondo romano e a rifuggire dagli avvenimenti contemporanei, tanto da non accennare al bellum sociale e limitarsi a dire sui Gracchi[21], di cui ne ammira la capacità oratoria, di ritenere erroneo far risalire la causa di tantae seditiones al matrimonio fra Cornelia e Tiberio Gracco!

Vani si rivelarono, in sostanza, i tentativi dell’oligarchia ottimate di ostacolare lo sviluppo della retorica latina. Gli effetti negativi della misura restrittiva del 92 non ebbero lunga durata: il retore Plozio risulta nuovamente attivo tra l’88 e l’87 a.C. come primus Romae Latinam rhetoricam docuit[22], mentre la composizione del trattato della Rhetorica ad Herenium negli anni subito seguenti dimostra come la retorica latina si stesse, nonostante tutto, affermando, superando preconcetti e divieti di una parte della classe dirigente romana ostile alle istanze, non solo politiche ma anche culturali, dei nuovi gruppi emergenti.

 

 



 

*Comunicazione presentata al 14E Congrès International de la Fiec, -Session Thematique. 11. Creating political opinion- tenuto a Bordeaux, 25-30 agosto 2014. Sono debitrice al Prof. Guido Clemente per i proficui confronti scientifici sul tema; resta ovvio che è mia la responsabilità di quanto scritto.

 

[1] Svet., de gramm. et rhetor., 25.1 = Gell., NA, 15.11.2: De iisdem interiecto tempore Cn. Domitius Aenobarbus, L. Licinius Crassus censores ita edixerunt: “Renuntiatum est nobis esse homines qui novum genus disciplinae instituerunt ad quos iuventus in ludum conveniat; eos sibi nomen imposuisse Latinos rhetoras; ibi homines adolescentulos dies totos desidere. Maiores nostri quae liberos suos discere et quos in ludos itare vellent instituerunt. Haec nova quae praeter consuetudinem ac morem maiorum fiunt, neque placent neque recta videntur. Quapropter et his qui eos ludos habent et his qui eo venire consuerunt, videtur faciundum ut ostenderemus nostram sententiam, nobis non placere“.

 

[2] Cic., de orat., III.93-95: Verborum eligendorum et collocandorum et concludendorum facilis est vel ratio vel sine ratione ipsa exercitatio; rerum est silva magna, quam cum Graeci iam non tenerent ob eamque causam iuventus nostra dedisceret paene discendo, etiam Latini, si dis placet, hoc biennio magistri dicendi exstiterunt; quos ego censor edicto meo sustuleram, non quo, ut nescio quos dicere aiebant, acui ingenia adolescentium nollem, sed contra ingenia obtundi nolui, corroborari impudentiam. [94] Nam apud Graecos, cuicuimodi essent, videbam tamen esse praeter hanc exercitationem linguae doctrinam aliquam et humanitate dignam scientiam, hos vero novos magistros nihil intellegebam posse docere, nisi ut auderent; quod etiam cum bonis rebus coniunctum per se ipsum est magnopere fugiendum: hoc cum unum traderetur et cum impudentiae ludus esset, putavi esse censoris ne longius id serperet, providere. [95] Quanquam non haec ita statuo atque decerno, ut desperem Latine ea de quibus disputavimus tradi ac perpoliri, patitur enim et lingua nostra et natura rerum veterem illam excellentemque prudentiam Graecorum ad nostrum usum moremque transferri, sed hominibus opus est eruditis, qui adhuc in hoc quidem genere nostri nulli fuerunt; sin quando exstiterint, etiam Graecis erunt anteponendi.

 

[3] Recentemente offre un’utile rassegna sulle interpretazioni storiografiche precedenti G. MANZONI, Sulle tracce di Plozio Gallo, in A. VALVO (a cura di), Analecta Brixiana 2, 2007, 159-178.

 

[4] Eccessiva enfasi è stata attribuita all'apprezzamento di Mario sulle capacità oratorie di Plozio Gallo nel passo ciceroniano: Cic., Arch., 20: Itaque ille Marius item eximie L. Plotium dilexit, cuius ingenio putabat ea, quae gesserat, posse celebrari.

 

[5] Vd. in primis M.T. LUZZATO, Lo scandalo dei ‘retori latini’. Contributo alla storia dei rapporti culturali fra Grecia e Roma, in Studi Storici 43, 2002, 301-346; già C. BARBAGALLO, Stato, scuola e politica a Roma repubblicana, in RFIC 38, 1910, 481-514; mentre sull'aspetto politico si segnala R. PICHON, L’affaire des Rhetores Latini, in REA 6, 1904, 37-41. Nega alcun effetto pratico dell'editto: A. MANFREDINI, L’editto “De coercendis rhetoribus latinis del 92 a.C., in SDHI 42, 1976, 99-148.

 

[6] G. ZECCHINI, Cesare e la cultura greca, in de Rebus Antiquis 1, 2011, 63-72, consultabile online: http://bibliotecadigital.uca.edu.ar/repositorio/revistas/cesare-retorica-greca-zecchini.pdf [Data di consultazione: 05.06.2014], 66 e ID., Il pensiero politico romano. Dall'età arcaica alla tarda antichità, Roma 1997, 46.

 

[7] PICHON, L’affaire des Rhetores Latini cit., 37.

 

[8] Svet., de gramm. et rhetor., 25.1 (= Aul. Gell., NA, 15.11.2).

 

[9] Svet., de gramm. et rhetor., 25.1 (= Aul. Gell., NA, 15.11.2): Maiores nostri quae liberos suos discere et quos in ludos itare vellent  instituerunt.

 

[10] Per le fonti: T.R.S. BROUGHTON, The Magistrates of the Roman Republic, II, Cleveland 1952, 17; J. SUOLAHTI, The Roman Censors. A Study on Social Structure, Helsinki 1963, 444 nt. 7, 440-445.

 

[11] A titolo esemplificativo ZECCHINI, Cesare e la cultura greca cit.

 

[12] ZECCHINI, Cesare e la cultura greca cit., 66-67.

 

[13] ZECCHINI,  Il pensiero politico romano cit., 46.

 

[14] E. GABBA, Politica e cultura in Roma agli inizi del I secolo a.C., in E. GABBA, Esercito e società nella tarda repubblica romana, Firenze, La Nuova Italia, 1973 (= ID., in Athenaeum 41, 1953, 259-272 ), 175-191, 185-187.

 

[15] E. NARDUCCI, Le risonanze del potere, in G. CAVALLO, P. FEDELI, A. GIARDINA (a cura di), Lo spazio letterario di Roma Antica, II vol., Roma 1990, 545-553; ID., Cicerone e l'eloquenza romana: Retorica e progetto culturale. Roma-Bari 1997, 146 ss.; ID., Introduzione a Cicerone, 2a ed., Bari 2005, 10-11; ID., Cicerone. La parola e la politica, Roma-Bari 2009, 28-33.

 

[16] J.-M. DAVID, Promotion civique et droit à la parole: L. Licinius Crassus, les accusateurs et les rhéteurs latins, in MEFRA 91, 1979, 135-181.

 

[17] LUZZATTO, op. cit., 301-346; MANZONI, op. cit., 168.

 

[18] Svet., de gramm. et rhetor., 26.1-2: L. Plotius Gallus. De hoc Cicero in epistula ad M. Titinnium sic refert: “Equidem memoria teneo pueris nobis primum Latine docere coepisse Plotium quendam. Ad quem cum fieret concursus et studiosissimus quisque apud eum exerceretur, dolebam mihi idem non licere. Continebar autem doctissimorum hominum auctoritate, qui existimabant Graecis exercitationibus ali melius ingenia posse“. Hunc eundem -nam diutissime vixit- M. Caelius in oratione quam pro se de vi habuit significat dictasse Atratino accusatori suo actionem subtractoque nomine hordearium eum rhetorem appellat deridens ut inflatum ac levem et sordidum.

 

[19] Il controllo sul dibattito politico usualmente veniva esercitato a Roma nelle contiones, e spettava al magistrato che presiedeva decidere chi doveva parlare: T.E. KINSEY, Latin Rhetoricians, in Revue belge de philogie et d’histoire, 59.1, 1981, 56-59, 58.

 

[20] Rhet. ad Heren., 4.31: Hic unum nomen in commutatione casuum volutatum est. Plura nomina casibus conmutatis hoc modo facient adnominationem: "Tiberium Graccum rem publicam administrantem  prohibuit indigna nex diutius in eo commorari. Gaio Gracco similis occisio est oblata, quae virum rei  publicae amantissimum subito de sinu civitatis eripuit. Saturninum fide captum malorum perfidia <per>  scelus vita privavit. Tuus, o Druse, sanguis domesticos parietes et voltum parentis aspersit. Sulpicio, qui paulo ante omnia concedebant, eum brevi spatio non modo vivere, sed etiam sepelire prohibuerunt.

 

[21] Cic., de inv., I.5; I.91.

 

[22] Hieron. ad. a. 88 (Chron. 150 Helm).