Memorie

 

 

Garofalo-fotoLuigi Garofalo

Università di Padova

 

LIVIO E IL DIRITTO ARCAICO: UNA PROSPETTIVA PARTICOLARE *

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Abstract: In the first decade, Livy provides a very rich variety of information concerning the archaic law of Rome. Some data are not tenable; anyway, the Paduan author has always positively affected the cultural education and the legal sense of his readers. The works of painters, men of letters, and philosophers, who have exploited such information, have promoted the same effect. More precisely, this essay focuses on some of these works: in particular, Rubens', Calasso's, David's, Corneille's, and Sloterdijk's.

 

Livy - Roman history - archaic law - pedagogical value -  references in art, literature, and philosophy - examples - Rubens - Calasso - David - Corneille - Sloterdijk.

 

 

1. –

 

Chi tratta di Livio in rapporto al diritto arcaico è solito evidenziare da un lato l’importanza delle sue informazioni circa le istituzioni giuridiche della civitas monarchica e protorepubblicana, dall’altro l’incerta attendibilità delle stesse, che obbliga lo studioso a vagliarle criticamente, ponendosi anzitutto l’intricato problema delle fonti donde discendono e della relativa validità sul piano storiografico.

Ebbene, un approccio così rigoroso, scientificamente ineccepibile, non è quello che orienta queste pagine, tese piuttosto a mettere in luce che la narrazione di Livio, e in specie quella inerente a vicende che involgono il risalente diritto romano, ha inciso fortemente, in via diretta o mediata, sulla formazione culturale e sulla sensibilità giuridica delle tante generazioni succedutesi a partire dall’epoca di Augusto, ancorché intessuta di elementi leggendari.

Da secoli e secoli, infatti, il lettore di Livio, almeno quello non iniziato al mestiere di storico, trae dal suo racconto sui primi secoli dell’urbe dati che, per quanto non veridici, concorrono a formarne la mentalità, il modo di pensare anche, se non soprattutto, nel campo del diritto: e così, per proporre un esempio banale, venendo a sapere della cacciata di Tarquinio il Superbo, uomo poco incline al rispetto delle regole dell’ordinamento, è portato a vedere nell’osservanza del diritto un valore da perseguire, a prescindere dall’eventuale inesattezza del resoconto in merito all’evento. Ma neppure chi non abbia mai sfogliato i libri del Patavino può dirsi immune dal condizionamento esercitato dalla ricostruzione che vi si rinviene dei fatti a rilevanza giuridica più lontani nel tempo: sono invero talmente numerose le opere che essa ha ispirato nel campo della filosofia, della letteratura e delle arti figurative che ben difficilmente qualcuno, a digiuno di Livio, sarà riuscito a evitare il loro contatto, sottraendosi così all’onda lunga della forza pedagogica che sub specie iuris sprigiona la prima deca del nostro autore.

Proprio di alcune opere del genere mi occuperò ora, muovendo comunque da Livio.

 

 

2. –

 

Inizio dalle pagine, in 8.6.9-10 e 8.9.1-11.1, dedicate alla devotio di Decio Mure, il console del 340 a.C. che, consacrando agli dei se stesso e le forze nemiche, aveva propiziato la vittoria del suo esercito su quello dei Latini nell’ambito di una battaglia svoltasi in Campania, forse nei pressi del Vesuvio.

L’episodio descrittovi, è stato opportunamente rilevato, illustra al meglio la virtus eroica[1]: ma è anche altamente istruttivo sotto il profilo del diritto, instillando un sentimento di fiducia verso il rito apprestato dall’ordinamento e additando a cittadino ideale colui che informa la propria condotta al bene supremo della comunità di appartenenza, a costo della vita.

Eppure, non è per nulla sicuro che la devotio del nominato Decio Mure sia autentica[2]. Essa può infatti costituire, come più d’uno sostiene con argomenti non privi di fondamento, un’anacronistica duplicazione della devotio del figlio omonimo, databile al 295, anno in cui il medesimo, da console, combatteva i Galli e i Sanniti a Sentino. Ma è altresì ipotizzabile, in sintonia con una diversa e però più debole congettura, che anche questa seconda devotio rappresenti, al pari della prima, un’anticipazione di quella del terzo Decio Mure, figlio del Decio Mure intermedio, occorsa nel 279, nel mentre egli, come console, lottava contro Pirro ad Ascoli Satriano[3].

Almeno una delle tre devotiones, e con ogni probabilità quella di mezzo – che è poi la meglio documentata, secondo la dottrina più attenta[4] –, deve comunque aver avuto effettivamente luogo. Diversamente sarebbe stato ben difficile il consolidarsi della salda tradizione, raccolta da Livio e da altri scrittori dell’antichità, che riconosceva a merito di più esponenti dei Decii, vissuti in un arco di tempo alquanto ristretto, l’esecuzione del rito. Voglio dire, in altri termini, che a fondamento di quella tradizione poteva sì esserci una falsificante rielaborazione dei dati provenienti dalla concreta esperienza di matrice annalistica, ma non così estesa da sconfinare nella pura invenzione. Una trama narrativa che ricollegasse la devotio anche a uno soltanto dei Decii nonostante nessuno di loro vi avesse mai dato corso presumibilmente non sarebbe riuscita a insediarsi in modo stabile nella memoria storiografica della comunità cittadina, pronta invece ad accogliere per sempre la notizia, benché forse non vera, dell’iterazione all’interno della stessa stirpe di un atto eroico certamente compiuto da uno dei suoi appartenenti.

A prescindere da questa notazione, che attiene a un versante qui non di primario interesse, ciò che mi preme rilevare è che la devotio del più anziano Decio Mure, così come magistralmente rievocata da Livio, sarebbe stata ripresa da scrittori e pittori di epoche varie. E se tra gli uni spicca il nome di Francesco Petrarca, che di essa tratta nel capitolo XI del suo De viris illustribus[5], tra gli altri è d’obbligo menzionare Rubens.

Sulle otto tele, ora esposte in una sala del palazzo viennese che ospita le collezioni private dei Principi del Liechtenstein[6], in cui egli ripropone per immagini le pagine del Patavino giova intrattenersi, allo scopo di mostrare la fedeltà dell’artista tanto alla narrazione presa a riferimento quanto agli insegnamenti ai quali questa era preordinata. Tralascerò peraltro le due che chiudono il ciclo – probabilmente ultimato nel 1618 –, dove, quasi a commento della gloriosa azione del protagonista, Rubens raffigura le personificazioni dell’abnegazione militare e della vittoria che ne costituisce il corollario e un trofeo di complessa composizione, segno tangibile del trionfo in guerra.

Nel primo dipinto Decio Mure, dall’alto di un podio, parla con ampia e serena gestualità ad alcuni soldati, i quali portano le insegne delle varie unità pronte allo scontro con le truppe dei Latini, anch’esse accampate non lontano da Capua. Racconta loro, attoniti nello sguardo, del presagio notturno su cui indugia Livio in 8.6.9-10. Si tramanda, scrive il Patavino, che a Decio Mure e all’altro console, Tito Manlio, fosse apparsa nel sonno la stessa figura umana, più grande e più imponente del normale, la quale diceva che dall’una delle due parti il comandante e dall’altra l’esercito dovevano essere offerti ai Mani e alla madre Terra: e questo perché la vittoria sarebbe toccata a quel popolo e a quella parte il cui comandante, attraverso il rito della devotio – che oggi sappiamo con maggior sicurezza comune a diverse popolazioni italiche –, avesse consacrato a quelle divinità le legioni nemiche e con queste se stesso[7].

Riferisce ancora Livio, in 8.9.1, che i due consoli, prima di muovere all’assalto il proprio esercito, immolaverunt, ossia eseguirono sacrifici di animali, secondo un cerimoniale complesso, ricavandone indicazioni diverse: pienamente favorevoli quanto a Tito Manlio, parzialmente negative per Decio Mure, poiché il fegato della vittima da lui offerta agli dei e da questi gradita risultava inciso malamente, come un aruspice aveva mostrato allo stesso Decio. Ebbene, è proprio questo il tema del secondo quadro, in cui a dominare sono l’aruspice, il quale senza staccare gli occhi da Decio Mure gli addita le viscere, posate su un piatto retto da un altro officiante, dall’infausto aspetto, e il console, che, portandosi le mani sul petto, sembra prendere consapevolezza del suo destino e nel contempo manifestarne l’assoluta accettazione[8].

Iniziata la battaglia, annota Livio in 8.9.2-4, l’ala destra dell’esercito romano, agli ordini di Tito Manlio, non rivelava segni di cedimento, al contrario di quella sinistra, capeggiata da Decio Mure. Vista la difficoltà del momento, questi aveva allora deciso di consacrare le forze avversarie e se stesso agli dei, onde ottenerne l’aiuto indispensabile per risollevare le sorti del confronto. E subito si era rivolto a Marco Valerio, pontifex publicus populi Romani, affinché lo guidasse nel compimento del rito della devotio. Sulla scorta delle sue direttive, aveva poi espletato la procedura, come ricorda Livio in 8.9.5-9. Attingendo al racconto che vi è fatto, Rubens, nella terza tela, ritrae il console di fronte al sacerdote, con il corpo avvolto nella toga pretesta leggermente flesso in avanti in una sorta di deferente inchino, i piedi sopra un giavellotto, il capo velato e una mano che tocca il mento, nel mentre recita la formula solenne il cui testo è riportato per intero dallo stesso Livio[9], tradotto così da Luciano Perelli[10]: «o Giano, o Giove, o padre Marte, o Quirino, o Bellona, o Lari, o dei stranieri e indigeni, o divinità che avete potere su di noi e sui nemici, o dei Mani, vi prego, vi venero, vi chiedo e son certo di ottenere la grazia, che benigni concediate al popolo romano dei Quiriti forza e vittoria, e che gettiate terrore, paura e morte fra i nemici del popolo romano dei Quiriti. Come ho dichiarato con le mie parole, così offro in voto [ma è secondo me preferibile volgere il devoveo dell’originale con il nostro consacro, nel senso, proprio anche del latino consacro o consecro, di rendo sacre] agli dei Mani e alla Terra le legioni e le forze ausiliarie dei nemici insieme con me stesso a pro della repubblica del popolo romano dei Quiriti, dell’esercito, delle legioni e delle forze ausiliarie del popolo romano dei Quiriti».

Il quarto quadro ha per protagonisti Decio Mure, in procinto di balzare sul suo possente cavallo per lanciarsi tra i nemici, e i littori, che egli congeda con un gesto eloquente. Aveva infatti impartito loro, scrive Livio in 8.9.9, l’ordine di raggiungere Tito Manlio, per informarlo dell’acquisita condizione di devotus. Il console, che porta la veste in un modo particolare, ossia con il cinto gabino menzionato da Livio, si staglia su uno sfondo in cui s’intravedono le rovine del tempio romano di Minerva Medica, volute da Rubens in ricordo del suo soggiorno italiano[11].

Ai due eserciti contrapposti, narra ancora Livio in 8.9.10-14, Decio Mure, scagliatosi in battaglia, sembrava dotato di un aspetto alquanto più venerabile e augusto di quello umano, quasi fosse stato inviato dal cielo. Il terrore e il panico promananti dalla sua figura avevano turbato le prime file dei Latini, per poi diffondersi entro l’intero schieramento nemico. Dovunque il console si dirigesse con il suo destriero, qui i Latini erano presi dalla paura non altrimenti che se fossero stati colpiti dall’influsso di una stella maligna. Poi era caduto al suolo coperto di dardi: e da quel luogo le coorti dei Latini, in preda a un evidente sgomento, erano fuggite, lasciando deserta un’ampia parte del teatro di guerra. Contemporaneamente i Romani, liberato l’animo dal timore religioso, avevano riacceso lo scontro. Il quale, continua Livio in 8.10.1-9, si sarebbe infine risolto a totale vantaggio loro, anche in virtù dell’abilità mostrata nella conduzione del combattimento da Tito Manlio, che, pur nell’infuriare della lotta, non aveva comunque omesso di onorare la morte del collega con il pianto e le lodi. Punto culminante di questo racconto è naturalmente la morte di Decio Mure, superbamente rappresentata nel quinto dipinto. Vi si vede, al centro, il console che, trafitto dalla lancia di un soldato, scivola dalla groppa del suo magnifico cavallo bianco, avvicinandosi ai corpi senza vita disseminati al suolo. In questo movimento, favorito dall’impennata dell’animale, egli mantiene il capo rivolto verso l’alto, da dove provengono raggi di luce, a simboleggiare il riconoscimento divino della sua straordinaria nobiltà spirituale, che lo ha portato fino al sacrificio supremo.

Il sesto e ultimo quadro illustra le poche righe che Livio, in 8.10.10, riserva alle esequie di Decio Mure. A dire dello storico, onoranze funebri degne dell’eroica fine del console si erano tenute, al cospetto di Tito Manlio, all’indomani della felice conclusione del conflitto, non appena ritrovato il cadavere di Decio, che giaceva fra i corpi esanimi di tantissimi nemici, con i dardi ancora conficcativi. Ispirandosi alla Gemma Augustea, un antico cammeo che oggi si trova al Kunsthistorisches Museum di Vienna, Rubens immagina il funerale alla stregua di un sontuoso trionfo. A risaltare nella scena è un letto d’oro riccamente intagliato sul quale è composta la salma del console, ammantata della veste rossa ricorrente in tutte le precedenti tele. Accanto svetta Tito Manlio, che indica con l’avambraccio un trofeo con armi e teste mozzate dei nemici, emblema della vittoria. Al suono delle tube, in cui soffiano soldati collocati sullo sfondo, altri personaggi tagliano la legna per la cremazione e altri ancora raccolgono un prezioso bottino di vasi e di gioielli, mentre alcuni Latini incatenati si prostrano in segno di sottomissione e le loro donne, con i figli piangenti, vengono allontanate a viva forza[12]. Quasi a enfatizzare l’orgoglio collettivo del momento, impermeabile, come sottolinea Burckhardt, a qualsiasi sentimento di raccolta mestizia[13].

Appassionante alla lettura di Livio, l’epopea del console lo è altrettanto, se non più, grazie alla tavolozza di Rubens, capace di infondere vitalità e sentimenti al protagonista e ai personaggi collaterali, rappresentati secondo una scala vicina al reale in mutevoli contesti pienamente credibili. L’osservatore, al centro di un’esperienza artistica che lo assorbe per l’intero, come volevano i canoni del barocco[14], viene dunque toccato nel profondo, non avvertendo soltanto quello straripante appagamento estetico che gli deriva dalle sapienti forme e dai seducenti colori che animano le scene dipinte da Rubens. Afferrate, grazie alla magia delle tele, le idealità che furono proprie del popolo romano soprattutto durante la repubblica, dal primato della civitas informata al duplice principio della pax deorum e della libertas all’eccellenza del singolo che ridonda a vantaggio della collettività, egli rivive, quasi che il fiammingo avesse trasfuso nella sua coscienza il registro emotivo e civico dominante in quel tempo lontano, le tensioni interiori di Decio Mure, del collega di consolato e dei soldati, che all’eroe guardavano trepidanti: provando quindi nella solitudine della propria intimità i moti della pietas, intesa come afflato e doveroso rispetto nei confronti del mondo divino e umano, parti di un unitario ordinamento d’indole giuridica, dell’affidamento nel rito compiuto correttamente, della constantia, nel senso di equilibrio, fermezza e perseveranza nel volere e nell’agire, del generoso rischio della vita a protezione e gloria degli altri di cui si è responsabili.

Ma non sono stati soltanto scrittori e pittori a rifarsi al racconto di Livio sulla devotio del Decio Mure console nel 340 a.C.: vi hanno infatti attinto anche filosofi, come Agostino, il quale ricorda l’eroe repubblicano in un passo del De civitate Dei, in 5.18, e intellettuali dall’accentuata sensibilità antropologica, come Roberto Calasso.

Ecco infatti quanto costui annota a proposito dei colpevoli dell’attacco alle torri gemelle in un suo libro uscito a Milano nel 2010, sotto il titolo L’ardore: anziché affaticarsi nella ricerca di qualche parola con cui qualificarli, «meglio sarebbe stato aprire Livio e constatare che gli assassini-suicidi islamici molto avevano a che fare con una oscura istituzione sacrificale dell’antica Roma, la devotio». Essi, a ben vedere, «riprendono, con variazioni, il rito romano della devotio testimoniato da Livio attraverso la vicenda di Decio Mure, il console che nel 340, combattendo contro i Latini sotto il Vesuvio, dopo essersi votato agli dei inferi si gettò a cavallo fra le schiere nemiche e, trafitto più volte, cadde inter maximam hostium stragem», come si legge in 8.10.10 degli Ab urbe condita libri[15].

E poco importa che l’accostamento non persuada, pur dovendosi dare atto a Calasso che non si attagliava agli aggressori l’attributo di ‘codardi’, perché così non possono essere definiti individui che si uccidono con piena determinazione e con massima violenza, e nemmeno quello di kamikaze, posto che il termine designa militari giapponesi che compivano azioni di guerra, mentre gli assassini-suicidi islamici erano civili che agivano in tempo di pace[16]. Per quanto appaia irriducibile alla devotio del primo Decio Mure di cui parla Livio un’impresa criminosa compiuta da ignoti, che vi perdono la vita per causa propria, ai danni di una moltitudine di individui impegnati nella quotidianità civile e non giustificata da un rapporto di belligeranza, nondimeno la somiglianza vista da Calasso mette a nudo ciò che qui più interessa: il ruolo rimarchevole giocato dalle testimonianze di Livio che toccano l’ambito del diritto arcaico, veritiere o meno che siano, su un segmento importante del pensiero di un autore contemporaneo dai molti lettori e dunque, indirettamente, sulle opinioni di costoro.

 

 

3. –

 

Ancora le testimonianze di Livio di cui ho testé detto sono alla base di molteplici lavori di un altro pittore celebre: Jacques-Louis David, esponente di primo piano del neoclassicismo europeo[17].

Alfiere dei valori politici e giuridici dei rivoluzionari francesi e poi vicinissimo a Napoleone, di essi, non unico in questo, aveva individuato gli antecedenti nelle virtù civiche dei romani, espresse in sommo grado in episodi che la tradizione veicolata dal Patavino e non solo da lui situa nei primi secoli dell’urbe: quali quelli della sfida fra gli Orazi e i Curiazi, del processo contro l’Orazio superstite uccisore della sorella e dell’esecuzione capitale, voluta dal console Bruto, dei suoi figli, colpevoli di aver cospirato a favore della restaurazione della monarchia.

Un tassello della prima vicenda diventa allora il soggetto di un quadro famosissimo, ultimato nel 1784 e dal 1826 al Louvre[18], intitolato Il giuramento degli Orazi. Al suo centro vediamo i tre fratelli romani che, chiamati a battersi contro i tre fratelli prescelti da Alba Longa, prestano il giuramento di fedeltà alla patria, rendendo il saluto militare alle spade con cui lotteranno, che il padre tiene in alto davanti a loro[19]. Sul lato destro della composizione distinguiamo invece un gruppo di donne che piange la tragedia incombente: Camilla, sorella dei tre Orazi e fidanzata di uno dei tre Curiazi, la quale, vestita di bianco, posa la testa sulle spalle di Sabina, a sua volta sorella dei tre Curiazi e sposa di uno degli avversari, mentre la madre di questi consola i nipotini[20].

Rispetto a questo dipinto, peraltro, non possiamo affermare che dipenda direttamente da Livio, per la semplice ragione che egli, similmente a tutti gli autori antichi, non fa cenno del giuramento che vi è immortalato, come puntualmente annota Edgar Wind[21]. E non lo fa, va sottolineato, nonostante il suo resoconto, in 1.24-25, sia ampio e dettagliato. Certo non si può escludere che David abbia liberamente creato una scena comunque stimolatagli dalla lettura di Livio o dalla visione, a teatro, dell’Horace di Pierre Corneille, una tragedia, con qualche sensibile variazione rispetto al testo di Livio, uscita a stampa nel 1641 [22], in cui pure non compare il rito del giuramento[23]. Ma è più probabile che l’artista, come sostiene Wind, si sia lasciato influenzare dai consigli di alcuni amici letterati, che di un giuramento degli Orazi sapevano in quanto avevano assistito, forse al pari dello stesso David, a rappresentazioni teatrali, anche in forma di ‘ballet tragique’, di adattamenti del dramma di Corneille, in cui era presente o abbozzata la scena del rito[24].

Esposto a Parigi nel 1785, il quadro in parola avrebbe raccolto un successo tale da propiziare la nascita, già nel corso dell’anno seguente, di una composizione operistica, Les Horaces, con testo di Guillard e musica di Salieri. Priva di seguito, il suo libretto, in una versione riveduta, sarebbe poi servito per una nuova produzione operistica, messa inizialmente in scena nel 1800 alla presenza di Napoleone. Come scrive Wind, «con la scelta del soggetto si voleva indubbiamente onorare nel Primo Console un figlio della Rivoluzione. Ma molti degli antichi co-rivoluzionari di David si rifiutavano di condividere la sua idolatria per il nuovo eroe. Essi intravedevano nella crescente autorità di Bonaparte una nuova versione del ‘tyran’. Fu organizzata una congiura per assassinarlo a teatro. La polizia era stata però preavvertita, e i cospiratori furono prelevati dal teatro senza che l’esecuzione dell’opera venisse disturbata. Il momento scelto per l’assassinio era quello in cui il giuramento stava per essere pronunciato sulla scena. Contrariamente alle intenzioni di David, l’immagine aveva conservato il suo significato rivoluzionario»[25].

È invece sicuramente modellato su Livio un disegno di David che si trova al Louvre, dal titolo eloquente: Orazio difende suo figlio. Vi si vede l’Orazio padre che supplica la folla mentre il figlio sopravvissuto al combattimento con i Curiazi, eretto e fiero al suo fianco, sta per essere arrestato da uno dei littori; e poi Sabina, la moglie, che siede piangente sui gradini accanto al cadavere di Camilla, la figlia uccisa dal fratello superstite, perché, sappiamo appunto da Livio, disperata per l’uccisione del Curiazio suo fidanzato; infine, sullo sfondo, due giudici, i duumviri perduellionis di cui parla Livio, circondati dai littori, che osservano lo spettacolo dai loro scranni[26].

Se ora diamo la parola a Livio, efficacemente riassunto da Bernardo Santalucia, abbiamo conferma che in lui sia da vedere la fonte di David, eventualmente per il tramite di Charles Rollin, autore della Histoire romaine, un manuale del 1738 molto popolare negli anni della giovinezza di David, in cui, a proposito della vicenda giudiziaria nei confronti dell’Orazio sororicida, è Livio a essere seguito[27]. Ecco dunque, nella sintesi dello studioso fiorentino, il racconto del Patavino conservato in 1.26. «Orazio, dopo l’uccisione dei tre fratelli Curiazi, torna a Roma con le spoglie della sua vittoria. La giovane sorella, fidanzata a uno dei Curiazi, riconoscendo il mantello dell’amato, prorompe in pianto, invocando il nome dell’ucciso. Orazio, sdegnato, la apostrofa aspramente e la trafigge con la spada. Trascinato in giudizio dinanzi al re Tullo Ostilio, questi rimette la causa a due magistrati nominati ad hoc, i duumviri appunto, affinché essi giudichino il grave misfatto. La legge relativa al crimine era terribile nel suo tenore (Livio parla di lex horrendi carminis): ‘Duumviri perduellionem iudicent; si a duumviris provocarit, provocatione certato; si vincent, caput obnubito; infelici arbori reste supendito; verberato vel intra pemerium vel extra pomerium’. I duumviri condannano Orazio, e già il littore si appresta ad eseguire la sentenza quando Orazio, auctore Tullo, clemente legis interprete, si appella al popolo: ‘Provoco’ inquit. Il popolo, memore della recente vittoria dell’eroe sui Curiazi e impietosito dalle parole del padre, lo manda assolto, imponendogli tuttavia il compimento di un sacrificio espiatorio»[28].

Proprio Santalucia ha posto l’accento «sugli infiniti dubbi che suscita questa narrazione», a partire dal motivo per cui «Orazio fu processato per perduellio anziché per omicidio, avendo egli ucciso la sorella»[29]: ma si tratta di dubbi che possono al più minare la nostra fiducia nella credibilità della narrazione liviana, attenendo quindi a un profilo per noi secondario. Anche a volerlo considerare, peraltro, dovremmo constatare, con lo stesso Santalucia, «che se la vicenda di Orazio è effettivamente leggendaria, non lo è altrettanto la lex horrendi carminis da cui Livio ha derivato l’impianto procedurale della sua narrazione. Tale legge, almeno nel suo nucleo essenziale, è indubbiamente autentica, e da essa si possono trarre precise illazioni circa i modi di svolgimento del giudizio duumvirale»[30]. Non è improbabile, aggiunge lo studioso, «che la tradizione annalistica – alla quale Livio si rifaceva – abbia tramandato, sia pure distorcendolo, il ricordo di una ‘cause célèbre’ effettivamente svoltasi nell’età regia. Un eroe popolare di quell’epoca remota era stato probabilmente condannato a morte dai duumviri perduellionis e poi graziato, per benevolo intervento del re, dall’assemblea cittadina. L’atto di rimessione ai comizi era dispeso esclusivamente dalla volontà del sovrano e non aveva nulla a che fare con la provocatio ad populum. Ma gli annalisti, nell’intento di dimostrare che l’illustre istituto già esisteva in epoca monarchica, sia pure sotto forma di facoltà discrezionale del re, immaginarono che Tullo Ostilio inserisse nel testo (autentico) della lex horrendi carminis la clausola si a duumviris provocarit, provocatione certato, suggerendo poi all’eroe di avvalersene per portare la causa davanti all’assemblea. Livio fonda la sua narrazione su tale elaborazione annalistica ed introduce anch’egli nel dettato della legge la clausola di provocazione. Così pure, sulla scia degli autori a cui attinge, ascrive la benevola innovazione a Tullo Ostilio, che appunto per ciò è detto clemens legis intepres. Espressione – giova rilevarlo – non del tutto esatta, poiché in realtà Tullo non interpreta la legge, ma la integra in modo da rendere possibile l’appello al popolo. È, in altri termini, un benevolo ‘arrangiatore’ piuttosto che un benevolo ‘interprete’ dell’antico testo normativo»[31].

La decisione ultima del popolo in un arcaico giudizio capitale, attestata da Livio e considerata verosimile da Santalucia, rappresenta proprio il dato che stava più a cuore a David: lasciandola agevolmente supporre nel suo disegno, egli esprimeva infatti le sue convinzioni democratiche. Come osserva Wind, la raffigurazione schizzata dall’artista indica in lui, «sette anni prima della Rivoluzione, un campione della giustizia popolare. La morale della scena in cui il padre dell’eroe si appella al popolo contro i duumviri potrebbe essere sintetizzata dal titolo che Rollin aveva dato al suo racconto dell’episodio: Le peuple sauve Horace»[32].

Come ha scritto Philippe Daverio, era però un’altra l’opera di David destinata ad assurgere a «vero manifesto del desiderio di repubblica in una Francia in subbuglio che stava preparandosi a decapitare il monarca ormai domo e costituzionale»: terminata nel fatidico 1789, anno della presa della Bastiglia, essa, visibile al Louvre, illustra un episodio che il titolo, I littori portano a Bruto i corpi dei suoi figli, evoca immediatamente[33].

A parlarne sono Livio, in 2.5.5-8, e vari altri autori antichi, tutti concordi nel riferire che il primo console repubblicano aveva decretato la messa a morte dei figli scoperti a tramare per la restaurazione dei Tarquini[34]: ma è presumibile che proprio al Patavino abbia attinto, direttamente o meno, David.

 

 

4. –

 

Detto di alcuni tra i pittori e gli scrittori che nelle loro opere si sono ispirati al racconto di Livio concernente la civitas arcaica e il diritto che vi era praticato, senza curarsi della sua precisione storiografica, intendo portare l’attenzione su Peter Sloterdijk, uno dei protagonisti del dibattito filosofico contemporaneo, per mostrare che anche in seno ai pensatori c’è chi dà credito a quel racconto, rinunciando alla puntigliosa verifica della sua credibilità e modellando anzi su di esso la propria riflessione: idonea dunque a diffondere la conoscenza del Patavino, di per sé capace di influire sulla coscienza giuridica di chi l’abbia acquisita pur mediatamente.

Addentriamoci allora in due lavori di Sloterdijk relativamente recenti, apparsi in Germania tra il 2010 e il 2011 e intitolati, nella versione italiana pubblicata a Milano nel 2012, La mano che prende e la mano che dà e Stress e libertà.

Nel primo libro l’autore esordisce rilanciando una sua proposta, già enunciata nelle colonne di un prestigioso quotidiano tedesco, la Frankfurter Allgemeine Zeitung, a partire da un articolo del 10 giugno 2009: prendere in seria considerazione l’idea della graduale conversione dell’odierno sistema fiscale nazionale da rituale burocratico, fondato sul prelievo obbligatorio d’imposte, in prassi basata sulla corresponsione di contributi volontari dei cittadini a beneficio della collettività, sull’assunto che «soltanto un’etica del dare potrebbe superare la stagnazione della cultura politica attuale». Assunto a sua volta conseguente alle acquisizioni maturate da Sloterdijk nel campo dell’antropologia e della filosofia morale, le quali, egli scrive, consigliano «di compensare la dilagante erotizzazione della nostra civiltà, dominata dalle emozioni di appropriazione, attraverso una maggiore enfasi sui moti timotici, riconducibili cioè all’orgoglio e al dono»[35].

Ebbene, per dare peso a quella che sembra una vera e propria provocazione, l’autore non esita a esplorare il passato oltre al presente, alla ricerca delle modalità di riempimento dei forzieri delle compagini pubbliche sperimentate fino a oggi, in quanto solo «individuandole esplicitamente possiamo giudicare meglio quali di esse siano accettabili per una comunità democratica»[36].

Nella sua ricostruzione, «al primo posto vanno menzionati i ‘saccheggi’ della tradizione bellico-predatoria», praticati per tanto tempo da non pochi amministratori delle casse statali. «Per vari secoli», nota al riguardo Sloterdijk, «i cittadini di Roma si abituarono all’esenzione dalle tasse, perché l’efficace politica di spoliazione ai confini esterni dell’Impero in espansione rendeva ampiamente superflue le imposte dall’interno. Soltanto sotto Augusto i saccheggi della periferia, non più sufficienti, dovettero essere integrati con una tassazione interna». Ma anche Napoleone ricorreva alla coattiva contribuzione dei vinti, specie per finanziare le campagne militari, riscuotendo così l’apprezzamento di molti francesi. E pure il regime nazionalsocialista godeva del favore della grande maggioranza dei tedeschi poiché si batteva «per assaltare il patrimonio di ebrei benestanti e per espropriare i concittadini ebrei più poveri». Donde la constatazione che «nelle moderne comunità di lotta l’arcaico schema della ‘speranza di far bottino’ è tanto efficace quanto lo era nelle antiche società guerriere», avendo a base legittimante la superiorità culturale o razziale della parte che prende[37].

Naturalmente secondo Sloterdijk forme di arricchimento del tipo indicato non sono ammesse «per la regolazione dei fabbisogni dei collettivi democratici». In uno Stato di diritto, infatti, «i saccheggi esterni devono essere totalmente sostituiti da entrate legittime interne, le quali non possono che derivare dalla stessa popolazione fiscalmente attiva». Il che induce a chiedersi fino a quale limite la tassazione a carico dei cittadini venga percepita come conforme al diritto e a partire da quale livello sia invece considerata come una sorta di prosecuzione dei saccheggi esterni tramite strumenti amministrativi. La sensibilità attuale, afferma l’autore, «ritiene sopportabili valori massimi intorno al 50 per cento», calcolati in base al criterio progressivo: a conferma di un’evoluzione della mentalità «notevole sul piano psicostorico e senza precedenti nella storia della morale», se appena si ricorda che ancora il re prussiano Federico il Grande pensava a «una progressività dal 2 al 10 per cento», ritenendola adeguata politicamente e moralmente, in quanto colpiva sì i più forti sotto il profilo economico, ma con moderazione. Oggi, dunque, la tassazione, ove oltrepassasse il tetto del 50 per cento, si atteggerebbe alla stregua dell’ossimorico «furto legale» di cui parlava già Tommaso d’Aquino nel XIII secolo[38].

Altra via attraverso la quale si producono introiti statali, prosegue l’autore, è quella delle imposte, che ha a suo fondamento una consolidata e mai tramontata «tradizione autoritaria e assolutistica». Ora, come già nell’Ancien Régime, infatti, i balzelli, che vanno a colpire «ogni sorta di reddito, patrimonio, merce e servizio», sono oggetto di decisioni prese dall’alto, giustificate in ragione delle esigenze di funzionamento dell’apparato pubblico, unico in grado di garantire ai singoli le condizioni per vivere accettabilmente[39].

Osserva peraltro Sloterdijk che questo sistema non risponde alle istanze democratiche che si vorrebbero centrali all’interno degli ordinamenti progrediti, le quali reclamano una politica tributaria frutto della partecipazione di tutti i cittadini, che dovrebbero perciò essere opportunamente coinvolti in ogni fase del procedimento fiscale, «dall’incasso all’allocazione delle risorse», quindi ben al di là della loro indiretta implicazione in occasione dell’approvazione parlamentare della legge di bilancio[40].

Al criterio della «retro-espropriazione» si ispira quello che per Sloterdijk è «il terzo metodo per procurare e giustificare le tasse nella collettività moderna». Figlio della concezione che il socialismo e il radicalismo di sinistra avevano del ruolo spettante al fisco nella società capitalistica, questo criterio postula l’esistenza di un ceto di ricchi che va espropriato in quanto esso stesso ha espropriato e mira alla redistribuzione delle risorse in vista della realizzazione della giustizia sociale[41].

Ma la base «argomentativa e morale» di questo modello appare al filosofo quanto mai debole, «perché dipende dall’ipotesi, più suggestiva che conforme alla realtà, di uno sfruttamento dei soggetti attivi da parte dei loro datori di lavoro». Alle nostre latitudini e nel torno di tempo attuale, egli scrive, «il mito del furto perpetrato dai ricchi ai danni dei poveri nonché del contro-furto, moralmente legittimo, compiuto dallo Stato impegnato sul versante sociale a beneficio degli svantaggiati non passa più l’esame»[42].

Idonea a generare, del tutto legittimamente, le entrate della mano pubblica è infine l’erogazione «di donatori e benefattori inseriti nella tradizione filantropica». Quest’ultima, a detta di Sloterdijk, è sostenuta «dalla convinzione cristiana, umanistica e solidaristica», radicata nella morale popolare, secondo cui «ai possidenti si addice cedere ai non possidenti e alle organizzazioni che li soccorrono (su in alto, fino alle casse statali) una parte adeguata, ossia non irrilevante, del proprio surplus». Ma a indurre alla beneficenza è anche, per l’autore, la percezione della medesima, sempre più diffusa, in termini di «prezzo per avere la pace, pagato a una società esposta alla minaccia di soccombere a causa dei conflitti dovuti alla disuguaglianza»[43].

Non è comunque alla generosità dei singoli, sottolinea Sloterdijk, che oggi si affida l’erario: ad alimentarlo sono infatti i trasferimenti monetari imposti ai cittadini da un sistema fiscale che rappresenta un «amalgama» della seconda e terza modalità di acquisizione di proventi da parte dello Stato e proprio per questo è espressione di una «visione antidemocratica», confliggente con il principio della sovranità popolare. Per superare questa insopportabile situazione, continua l’autore, non resta allora che una strada: trasformare progressivamente «il grande versamento nelle casse dello Stato» da tributo pagato dai sottoposti a favore di un potere sempre vittorioso ovvero da adempimento di un debito stabilito unilateralmente dal Leviatano a carico dei sudditi in «dono attivo a vantaggio della collettività, offerto con cognizione di causa e volontà di contribuire». Se le tasse, come è stato detto, sono il prezzo da corrispondere per avere una società civile, «nulla ci vieta di interpretare la frase nel senso che pagare per avere condizioni civili necessita, a sua volta, di civiltà»: e questa, conclude sul punto Sloterdijk, «si otterrebbe qualora la tassazione si avvicinasse al polo della cognizione e della libera scelta»[44].

Nella prospettiva indicata, dunque, «‘democrazia’ sarebbe sinonimo di ‘scuola di generosità’», grazie alla quale l’atto del donare a scopi sovrapersonali col tempo smetterebbe di essere soltanto un capriccio morale privato, coltivato da pochi. In una società rimodellata «dallo spirito del dare», il gesto della beneficenza diventerebbe di certo sempre più comune, recando alla fiscalità pubblica gran parte di ciò che oggi incamera o anzi dovrebbe introitare. E di pari passo il nuovo habitus originato dalla cultura del dare libererebbe in misura crescente «le energie necessarie a superare gli indegni relitti della cleptocrazia statale di matrice tardoassolutistica e la loro prosecuzione nella logica della contro-espropriazione, profondamente radicata nella Sinistra classica»[45].

Propedeutica, in vista dell’epocale riforma auspicata da Sloterdijk, potrebbe a suo avviso essere qualche correzione all’attuale disciplina tributaria, che ad esempio sgravasse i contribuenti di una parte del carico fiscale e consentisse loro di predeterminare le destinazioni delle proprie risorse offerte in dono alla comunità statale, scegliendo tra le attività educative, la difesa dell’ambiente, la ricerca medica, lo sviluppo urbanistico, la protezione degli animali e così via. In questo modo, «dopo una lunga era di passività imposta, i finanziatori reali della collettività, riconosciuti finalmente come parte che dà, sperimenterebbero nuovamente che cosa significhi avere una viva responsabilità nei confronti di progetti partecipati ‘interiormente’ e oggetto di ‘investimento’ personale grazie alle proprie donazioni»[46].

Resistere al cambiamento che Sloterdijk invoca significa per lui esporsi al forte rischio che i cittadini, percossi sempre più da un apparato fiscale ingordo e delusi come non mai da una dispendiosissima macchina statale incurante delle loro reali intenzioni e protesa a depotenziarne il ruolo in ogni campo, maturino sentimenti di ribellione, destinati a sfociare in un travolgimento degli attuali assetti dichiarati democratici in favore di nuove architetture istituzionali maggiormente garanti della partecipazione politica[47].

Istruttiva, al riguardo, si rivela per il filosofo la vicenda di Roma. All’origine della res publica troviamo infatti l’orgoglio e l’indignazione di un popolo, cioè quelle «passioni psicopolitiche primarie» che anche oggi potrebbero scatenarsi e raggiungere un punto tale da generare comportamenti collettivi eversivi, idonei a fondare un nuovo ordine più vicino alle istanze dei singoli[48]. Ad accenderle verso la fine del VI secolo a.C., secondo la narrazione di Livio in 1.57-2.1, di cui segue il filo Sloterdijk, era stata la violenza recata a Lucrezia, moglie di Collatino, da Sesto Tarquinio, figlio del re Tarquinio il Superbo, che aveva portato al suicidio della vittima consumato al cospetto dei suoi cari e subito dopo all’azione «rivoluzionaria» della massa incollerita, culminata nella cacciata del monarca e nell’avvio di un’inedita esperienza costituzionale, imperniata su due consoli che «si tengono reciprocamente in scacco, mentre la loro rielezione annuale previene ogni nuova possibile confusione tra ufficio e persona». Le «energie» della comunità cittadina si convertono in pari tempo in «aspirazioni a conseguire prestigio attraverso l’eccellenza, come normalmente avviene nelle meritocrazie»; e diventa inarrestabile «la macchina repubblicana più intelligente che l’umanità abbia mai costruito nella propria storia», destinata a raggiungere un grado di efficienza ineguagliabile con l’integrazione del tribunato della plebe. Insomma, continua Sloterdijk, «dalla loro sincronica irritazione verso la scatenata superbia del governante le persone semplici impararono che, da quel momento, avrebbero voluto chiamarsi cittadini» ed esserlo veramente, recitando un ruolo di primo piano nella «vita pubblica», in modo da assicurare un persistente clima di concordia civile[49].

Ma pure ora, per l’autore, la collettività statale ha buoni motivi per sentirsi irata nei riguardi di chi ne è a capo e perfino per immaginare di insorgere nel tentativo di rifondare la posizione dei cittadini, sempre più disattivati, a partire dall’ambito dei tributi. «Anche se l’arroganza è diventata anonima e si nasconde in sistemi mossi da processi coercitivi specializzati», egli scrive, «i cittadini comunque avvertono, di tanto in tanto e abbastanza chiaramente, di essere ormai le pedine di un gioco, soprattutto in qualità di contribuenti e di destinatari di discorsi vuoti alla vigilia delle elezioni». Il pericolo di una reazione della massa, analoga a quella del 509 a.C., è dunque quanto mai concreto: a conferma che «la politica dell’utile spoliticizzazione del popolo sta fallendo»[50].

Né, precisa lo studioso, varrebbe a placare il timore di un moto dal basso quale quello paventato supporre, in coda a molti interpreti, che l’epoca attuale rimandi a quella romana postrepubblicana, quando i cittadini andavano perdendo il loro peso a fronte di un potere, vieppiù concentrato nell’organo imperiale, che si esplicava attraverso l’amministrazione burocratica e l’organizzazione di spettacoli d’intrattenimento volti a narcotizzare le folle[51]. Certo i due periodi considerati hanno in comune il tendenziale prosciugamento delle prerogative dei cittadini: ma oggi questi, pur pensando alla stregua degli antichi stoici ed epicurei che «burocrazia, spettacolo e collezioni private finiscano per delineare l’orizzonte ultimo», non fruiscono, al contrario dei loro antenati, di compensazioni in grado di impedire «pubbliche mobilitazioni delle componenti timotiche dimenticate» e prima ancora l’insorgere negli animi di pulsioni di orgoglio e di indignazione non soffocabili[52].

Invero, osserva al riguardo Sloterdijk, i gruppi di comando imperiali «ebbero a disposizione la possibilità di fare praticabili offerte sostitutive dinnanzi alle pretese timotiche provenienti dal proprio universo civico, nonostante gli evidenti segnali di decadenza postrepubblicana». Ad esempio, furono capaci di destare nel civis l’orgoglio per la prestazione civilizzatrice resa da Roma; legarono i popoli della periferia al centro «attraverso il ‘soft power’ romano»; accordarono «alle masse instabili delle città la partecipazione al teatrale narcisismo del culto imperiale». Per converso, l’odierna classe politica dimostra una totale inettitudine nella risposta alle istanze timotiche dei cittadini, comprovata dal sentimento di disprezzo che nei suoi confronti nutre un’ampia parte della collettività, costantemente rilevato dai sondaggisti. E se proprio «la parola deputata a definire il polo negativo della scala timotica viene impiegata così spesso, abbiamo l’opportunità di capire in quale misura la regolazione psicopolitica della nostra collettività sia fuori controllo»[53].

Preso atto che la moderna democrazia rappresentativa non è in grado di realizzare ciò che ai Cesari riusciva, e cioè «conciliare l’imperativo sistemico della disattivazione postrepubblicana dei cittadini con l’imperativo psicopolitico del loro appagamento timotico», l’autore prefigura due vie d’uscita, l’una delle quali rovinosa sul piano della ricchezza comune, l’altra dagli esiti comunque temibili: «disattivare i cittadini premiando la loro apatia o paralizzarli per mezzo della rassegnazione». Puntare sulla prima opzione implica assicurarsi la compiacenza e l’inerzia di cittadini progressivamente spogliati della loro essenza dispensando agli stessi favori economici in realtà insostenibili; scommettere sulla seconda, d’altro canto, significa giocare col fuoco, perché la rassegnazione può convertirsi in ogni momento nel suo contrario, ossia in aperta indignazione e manifesta ira civile: basta infatti che un tema sensibile risvegli prepotentemente le coscienze ed ecco che queste sprigionano le loro energie destabilizzanti, ben difficilmente arginabili. E qui il cerchio si chiude, dal momento che, come facilmente intuibile, il tema che più di ogni altro può catalizzare impulsi irrefrenabili verso il rovesciamento degli assetti esistenti e l’istituzione di nuove forme di politicizzazione dei cittadini è per Sloterdijk quello del fisco. «L’ambito in cui i cittadini del nostro emisfero sono disattivati in misura maggiore concerne la loro qualità di contribuenti», annota infatti il pensatore. E questo perché lo Stato, anziché lodare chi paga le tasse in quanto dà, proponendosi di tramutare gradualmente il prelievo tributario da gesto coercitivo in gesto volontario e personalizzato, in un dono cioè, opprime i cittadini, privandoli della possibilità di una concreta partecipazione nella messa a punto del congegno impositivo e considerandoli eterni debitori di somme esorbitanti sempre propensi all’inadempimento. Costruito dunque in modo completamente sbagliato dal punto di vista psicopolitico, l’attuale sistema fiscale, stante la concreta impraticabilità dell’alternativa data per possibile in astratto, è esposto al rischio di una morte improvvisa, decretata da una massa di cittadini sospinti, come già nel 509 a.C., dall’orgoglio e dall’indignazione e protesi alla riaffermazione del loro ruolo costruttivo anche nel campo dei tributi[54].

Gli avvenimenti del 509 a.C. che segnano il passaggio dell’ordinamento romano dalla fase monarchica a quella repubblicana tramandati da Livio sono ampiamente richiamati anche in Stress e libertà: un volumetto in cui Sloterdijk, persuaso che la civitas dei consoli, insieme a qualche lascito della Grecia classica, costituisca «il modello storico delle società civili solidali» della modernità[55], riflette su queste e in particolare sulla loro capacità di perdurare nel tempo, vincendo le forze disgregatrici che vi si agitano attraverso la creazione e il mantenimento di uno stato di stress fra i rispettivi appartenenti.

Le popolazioni degli Stati attuali, spiega l’autore, si configurano come corpi politici estesi, che constano di milioni di membri per lo più convinti «di essere effettivamente e fatalmente uniti l’uno all’altro in virtù di una collocazione spaziale comune e di presupposti storici condivisi», ancorché il loro stile di vita appaia informato a un marcato «individualismo», inevitabile stella polare in un contesto collettivo in cui «si riconosce a ogni singolo essere umano la dignità di un assoluto sui generis». Ebbene, ad alimentare l’anelito alla coesione in capo ai membri di masse così strutturate, continua lo studioso, è il fatto che esse originano «campi di forza stress-integrati» ovvero «sistemi di preoccupazioni autostressanti e permanentemente proiettati in avanti». E questi «possiedono stabilità solo nella misura in cui riescono, nell’avvicendarsi dei temi quotidiani e annuali, a mantenere il proprio specifico tono di irrequietezza». Detto altrimenti, un aggregato nazionale rimane tale nel tempo se è in grado di preservare «un’inquietudine comune»; se cioè «in esso un costante flusso tematico di stress, più o meno intenso, provvede alla sincronizzazione delle coscienze» e alla loro integrazione in una «comunità di cura e di eccitazione che si rigenera di giorno in giorno». Il che palesa il ruolo insostituibile giocato al riguardo dai mezzi di informazione, essendo questi a immettere incessantemente nella collettività motivi di preoccupazione, tra i quali i destinatari compiono la propria scelta, comunque destinata a generare una tensione reattiva che finisce per salvaguardare l’esistenza del gruppo organizzato[56].

Ricondotte allo stress le ragioni della vitalità dei macrocorpi politici di oggi, Sloterdijk vede una conferma della sua teoria negli eventi che, secondo la tradizione di cui è portavoce Livio, hanno portato all’instaurazione della res publica romana, per lui idonei anche a rivelare, con «chiarezza archetipica», il legame tra stress e libertà[57]. Quegli eventi, scrive il filosofo dopo averli adeguatamente rievocati, dando ampio spazio alla figura di Lucrezia, comprovano che una forma di governo dispotica quale quella voluta da Tarquinio il Superbo «costituisce un sistema di stress che produce effetti finché coloro che la subiscono scelgono di evitare lo stress», ovvero – nel linguaggio d’uso generale – scelgono l’obbedienza, la rassegnazione, la sottomissione, scartando l’opzione della ribellione. Nel lessico tecnico, «la rivolta antitirannica rappresenta una ‘massima cooperazione di stress’ dei dominati per l’eliminazione di un’oppressione da parte del potere divenuta insopportabile». E ciò val quanto dire che «le rivoluzioni scoppiano quando, in momenti critici, i collettivi rivalutano intuitivamente il proprio bilancio di stress e giungono alla conclusione per cui l’esistenza in una posizione sottomessa che cerca di evitare lo stress risulta infine più costosa dello stress della rivolta». Insomma, in casi estremi prende il sopravvento un’idea che può essere formulata così: «meglio morti che ancora schiavi»[58].

Proprio questa idea, dunque, è per Sloterdijk all’origine di quella «forma di vita» nota come res publica. E invero, egli ricorda attingendo al solito Livio, diffusasi nella città la notizia di quanto era accaduto a Lucrezia, «un’ondata di indignazione senza precedenti assale gli animi, i Romani si riuniscono, un consenso emotivo unisce l’assemblea che, per la prima volta, si concepisce libera e civile. L’odiato potere sovrano viene rovesciato, i tiranni vengono scacciati, mai più un borioso sarà all’apice della comunità romana». Come a dire che la nascita della libertà repubblicana è frutto dell’indignazione collettiva, capace di trasformare «tutti coloro che ne sono coinvolti in un gruppo di stress offensivo, che si tramuta in comunità politica». Ecco allora ciò che impariamo a proposito del rapporto tra stress e libertà, in particolare politica: quando essa «entra in territorio europeo, lo fa nella forma di un’esplosione di rabbia di migliaia di persone», motivata dall’arroganza del potere, manifestatasi attraverso il despota in carica e un suo figlio, Sesto Tarquinio, cresciuto nella presunzione (come non di rado accade alla prole dei tiranni, precisa l’autore, che sul punto chiama in causa quella di Muammar Gheddafi). Si radica così nella psicologia politica dei Romani una tensione antimonarchica destinata a persistere nel tempo: tanto che «i tardi Cesari dovettero evitare il titolo di rex e celare la propria autocrazia dietro il costante appello al senato e al popolo di Roma»[59].

Anche nella Grecia antica, riconosce peraltro Sloterdijk, l’obiettivo della libertà era germogliato all’interno di un fronte antitirannico. E pure lì ciò che si definiva libertà, eleutheria nella lingua del tempo, «stava a indicare innanzitutto il desiderio di vivere in maniera autodeterminata – secondo i patrioi nomoi, secondo gli usi dei padri – in seno al proprio popolo e non doversi sottomettere all’arbitrio dispotico di un singolo diventato troppo grande, e tanto meno alla magnificenza del Re dei Re persiano»[60].

Comune all’universo giuridico greco e romano era quindi, nella prospettiva di Sloterdijk, il modo di concepire la libertà: non riducibile alla semplice facoltà di esprimere il pensiero personale e nemmeno ricostruibile in termini di paradigma di quelli che oggi qualificheremmo come diritti umani, essa si risolveva in una sfaccettata posizione attiva garantita dall’ordinamento ai cittadini in quanto integranti un popolo, ossia, privilegiando la sostanza, nella loro «prerogativa di non essere guidati da altro che non siano le proprie consuetudini, gli usi e le istituzioni che hanno forgiato i componenti del collettivo sin dalla gioventù». Donde, «se libertà significa scelta della dipendenza, senza altri vincoli, di un collettivo dalle proprie origini», la naturale reazione del collettivo stesso, in nome di questo bene condiviso, quando succedessero «episodi particolari capaci di mettere in discussione il potere sovrano delle consuetudini, la ‘moralità dei costumi’»[61].

Ovviamente non sfugge a Sloterdijk che nella modernità è venuto sviluppandosi un altro modo di intendere la libertà, che pur non ha obnubilato il primo. Specie a partire da Rousseau, egli osserva al riguardo, l’idea di libertà descrive anche la condizione del singolo che «è solo con se stesso e contemporaneamente del tutto distaccato dalla propria identità usuale», che «si è allontanato dalla società, ma è altresì isolato dalla propria persona implicata nel tessuto sociale», che lascia dietro di sé «il mondo dei temi delle preoccupazioni collettive e se stesso come parte di quel mondo»[62]. Ed è appunto in esito all’affacciarsi della nuova nozione di libertà, implicante la pretesa del soggetto di sottrarsi al giogo opprimente del reale ovvero di affrancarsi dallo stress procuratogli dall’appartenenza a un macrocorpo politico, che si è diffusa quella tendenza all’individualismo destinata a farsi sempre più forte, al punto da mettere in pericolo la stessa coesione dei gruppi sociali e imporre pertanto a questi – o, meglio, a chi li controlla e ambisce alla loro sopravvivenza – una produzione ulteriore di stress unificante tramite l’inoculazione per via mediatica di nuovi argomenti idonei a destare agitazione nel popolo[63]. Non può non colpire, annota sul punto il filosofo, che nel corso degli ultimi decenni, attraverso la tecnica indicata, varie compagini nazionali siano riuscite a preservarsi dalla frantumazione nonostante tanti loro membri abbiano coltivato la pratica dell’estraniamento sociale, optando per uno stile di vita al riparo dalle incombenze e dagli assilli gravanti sui cittadini integrati nella comunità, per il quale si attagliano espressioni verbali come «sballare, oziare, ciondolare, lasciarsi andare, rilassarsi, vivere di sussidi, rinviare e lasciar andare»[64]. A dimostrazione che i dispositivi atti a generare stress collettivo ultimamente operanti risultano quanto mai efficaci, tenuto anche conto che essi debbono misurarsi con un reale sempre più pesante per il singolo, da qualche tempo avvinto dai tentacoli del commercio globalizzato e della speculazione finanziaria di stampo planetario[65].

A fronte di questa situazione, termina Sloterdijk, non resta che riscrivere «il significato di libertà individuale e civiltà liberale», al fine di limitare le sacche di asocialità e parallelamente contenere entro confini accettabili lo stress che funge da collante interno ai macrocorpi politici. Per il che è necessario collegare la libertà in parola all’orgoglio ovvero a «quell’elevazione spontanea sull’ordinario che i Greci chiamavano thymos». Agganciata alla disposizione d’animo nobile, che dà impulso alla «vita donativa», la libertà del singolo, in quanto designa un’apertura all’improbabile, «rimane fedele alla propria sostanziale negatività anche nella svolta verso l’attività pratica, perché, in qualsiasi evenienza, essa esprime il rifiuto della tirannia del probabile. Chi agisce in libertà si ribella alla meschinità che non può più tollerare». Collateralmente, è doveroso rigenerare il fondamento del pensiero liberale, assumendo quale suo presupposto il «riconoscimento che gli uomini non sono solo esseri avidi, spinti dalla cupidigia, dipendenti e bramosi, che pretendono il via libera per la soddisfazione dei propri bisogni e per la propria sete di potere», dato che essi portano in sé anche il potenziale per un atteggiamento «generoso, superiore e di larghe vedute». Attraverso questa duplice ridefinizione, che involge la libertà individuale e la civiltà liberale, si potranno dunque avere più azioni generose a opera di cittadini indottivi dalla loro ricerca di vie alternative e nobili per emanciparsi almeno in parte «dalle costrizioni vincolanti approntate dalla collettività»[66].

Sorvolando sull’orizzonte dischiuso da Sloterdijk, e auspicando comunque un futuro dominato dall’uomo nobile e generoso, viene invece da chiedersi, a fronte della fiducia che ancora una volta il pensatore mostra circa la verosimiglianza storica del racconto di Livio relativo all’instaurazione della repubblica, se effettivamente esso sia credibile: senza per questo mettere al centro del discorso un problema che, nell’ambito di questo contributo, rimane marginale.

Come risaputo, accanto agli studiosi che lo ritengono attendibile almeno in via tendenziale, troviamo gli scettici più o meno radicali. Ora, peraltro, sembrano prevalere i primi, che possono contare anche su nuove evidenze portate alla luce dagli archeologi. Uno di questi, anzi, il noto Andrea Carandini, nel 2011, a Milano, ha dato alle stampe un libro interessante ancorché divulgativo, intitolato ‘Res publica’. Come Bruto cacciò l’ultimo re di Roma, nel quale, affidandosi con senso critico alle fonti letterarie, e dunque anche a Livio, e valorizzando giudiziosamente i ritrovamenti conseguenti agli scavi anche recenti, ricostruisce proprio i fatti del 509 a.C. che hanno condotto al passaggio dalla monarchia alla repubblica: a suo avviso da intendersi non solo come mutamento di regime, ma pure come transizione «dal cosmopolitismo spregiudicato, lussuoso e lussurioso dei Tarquini a uno stile di vita basato sulla severità dei padri verso i figli, sulla castità delle mogli e sulla frugalità dei magistrati», doti immortalate «nelle menti dei Romani, anche se sempre meno seguite, specialmente a partire dal II secolo a.C., quando si rovesceranno su Roma cascate di materiali preziosi», provenienti dai popoli vinti[67]. Ebbene, ciò che qui maggiormente rileva, vista l’importanza che alla vicenda di Lucrezia riferita da Livio riconnette Sloterdijk, è che alla stessa Carandini dà ampio risalto, argomentando a favore della sua plausibilità storica e distaccandosi così da coloro, e non sono pochi, che la relegano nel mondo del mito. Ecco infatti com’egli conclude le pagine dedicate alla celebre matrona: «la Repubblica è in primo luogo una questione istituzionale e morale, che mette in crisi le forme politiche e i costumi rilasciati dell’epoca precedente. E a Roma i costumi fanno parte integrante della libertà politica, mancando in quel tempo la libertà individuale. Di qui, la centralità narrativa dello stupro di Lucrezia, dovuta a ragioni morali, storicamente comprensibili, più che esclusivamente mitiche»[68].

Ma anche a ritenere che la figura di Lucrezia non appartenga alla realtà, non dovrebbe dimenticarsi quanto osserva Maurizio Bettini nel saggio che apre Miti romani, un volume di Licia Ferro e Maria Monteleone uscito a Torino nel 2010: e cioè che la fabula, quale potrebbe essere il racconto, anzitutto di Livio, di cui la donna è protagonista, per il fatto di arrivare da lontano, tramandata da una generazione all’altra in via orale e poi con la scrittura, godeva di una particolare autorevolezza – quella stessa che i cives riconoscevano alla tradizione in genere –, sebbene talora inglobasse tratti di fantasia, non di rado innestati su nuclei di verità allo scopo di accrescere il valore esemplare della vicenda narrata[69]. Se così è, proprio perché la storia di Livio imperniata su Lucrezia, più o meno autentica che sia, mai sarebbe stata revocata in dubbio all’interno della società romana, comprensibilmente e giustificatamente Sloterdijk non si carica del problema della sua eventuale falsità, pur poggiandovi per l’intero l’articolata riflessione di cui ho dato conto. Questa, invero, apparirebbe priva dell’asse portante se, pressati dall’esigenza di ripulire la tradizione relativa ai primi secoli di Roma ripresa da Livio dalle probabili o anche solo possibili incrostazioni mitiche, le sfilassimo il sostegno rappresentato dalla memoria della reazione emotiva del popolo all’indomani della fine disgraziata di Lucrezia, sfociata nell’edificazione della repubblica e nella coessenziale conquista della libertà politica da parte dei suoi membri.

Una conquista, si potrebbe peraltro aggiungere a riprova della nuova posizione dal contenuto eminentemente attivo di cui veniva a beneficiare il cittadino, che comportava – come si trae anche da Livio, che ne parla in passi famosi sui quali non mi attardo – la sua ammissione al voto, nell’ambito delle varie assemblee in cui era dislocato, in occasione della scelta di quasi tutti i magistrati, dell’approvazione dei testi normativi e della pronuncia del verdetto al termine dei processi per i crimini più gravi, a cominciare da quelli sanzionati con la pena estrema; ma anche la facoltà dello stesso cittadino di opporsi con la forza, sua ed eventualmente di altri, al detentore del potere il quale, esorbitando dai limiti della propria carica, ne minacciasse la morte in spregio all’interposta provocatio ad populum: una garanzia a presidio della vita e poi anche del patrimonio individuale e in parallelo della competenza esclusiva della comunità a decidere de capite e sui beni personali a fronte di specifiche accuse, talmente fondamentale che già da un’epoca risalente a ciascuno era legislativamente consentito di uccidere chi osasse istituire magistrati, salva dapprima l’eccezione del dittatore, esonerati dal rispetto della stessa.

 

 

5. –

 

Qualche riga, in conclusione, voglio riservarla al lettore comune di Livio e non al fruitore di opere di tipo artistico, letterario e filosofico che si rifanno al suo racconto. Come dicevo all’inizio, egli ritrae dalle pagine del nostro autore, specie con riferimento al risalente diritto della civitas, spunti in grado di incidere sul proprio modo di intendere la fenomenologia giuridica.

Al riguardo, potrei menzionare, perché paradigmatico, il brano in 3.55.7-12, dove Livio, rievocato il contenuto della legge Valeria Orazia de tribunicia potestate del 449 a.C., dà conto di una disputa interpretativa generata dal tenore letterale delle sue previsioni. Stando allo scrittore, più in particolare, la legge in questione statuiva la sacertà a Giove a carico di colui il quale recasse offesa ai tribuni della plebe, agli edili e ai giudici decemviri, con la conseguenza che qualsiasi consociato avrebbe potuto privarlo della vita senza incorrere in alcuna sanzione, stabilendo altresì che i suoi beni fossero venduti con devoluzione del ricavato a beneficio del tempio di Cerere, Libero e Libera. A fronte di questo dettato normativo, aggiunge il Patavino, si erano formate due opinioni: l’una, meglio argomentata, volta a escludere che in virtù del medesimo fossero coperti dall’inviolabilità, in aggiunta ai tribuni che già lo erano per effetto del giuramento plebeo del 494 a.C., anche gli edili e i giudici decemviri; l’altra, destinata a soccombere, diretta a estendere l’inviolabilità, data per sancita in capo ai tribuni, agli edili e ai giudici decemviri dal testo legislativo, ai consoli e ai pretori[70].

Ebbene, prendere conoscenza di questo dibattito interno alla giurisprudenza romana, generalmente considerato come ben rappresentato da Livio, aiuta non solo a comprendere lo sviluppo storico del pensiero giuridico romano, ma anche a maturare la consapevolezza che le prerogative di chi esercita un potere pubblico traggono origine e sono disciplinate dal diritto, che qualsiasi formulazione legislativa da sempre si presta a molteplici ricostruzioni ermeneutiche, che la forza di queste dipende in larga parte da motivazioni di ordine scientifico elaborate in seno alla cerchia di coloro che coltivano professionalmente lo studio giuridico e via dicendo.

Tutta la narrazione di Livio, ma in particolare quella che occupa la prima deca, d’altro canto, è volta all’ammaestramento, anche nel campo giuridico: più che il severo accertamento dei fatti teso a espungere dalla memoria il non autentico, proprio della storiografia scientifica, a Livio interessava la riproposizione, mediante una forma letteraria bella e accattivante, di vicende educative dall’angolo della virtù etica e dello spirito civico, al quale non sentiva estraneo il diritto. Significativo, al proposito, è quanto egli scrive nella Praefatio, al tratto 9-11: «… a questo piuttosto vorrei che ciascuno guardasse con grande attenzione, con quale genere di vita e quali costumi, con quali uomini e quali virtù in pace e in guerra sia stato creato e ingrandito l’impero; e più innanzi vorrei che mi seguisse con l’animo, per vedere come venendo meno a poco a poco la disciplina morale i costumi dapprima si siano rilassati, poi sempre più siano discesi in basso, ed infine abbiano preso a cadere a precipizio, finché si è giunti a questi tempi, in cui non siamo più in grado di sopportare né i nostri vizi né i rimedi. Questo soprattutto è utile e salutare nello studio della storia, l’avere davanti agli occhi esempi di ogni genere testimoniati da un’illustre tradizione; di qui potrai prendere ciò che devi imitare per il bene tuo e del tuo Stato, di qui ciò che devi evitare, perché turpe nei moventi e negli effetti. D’altra parte, se non mi trae in inganno l’amore all’opera intrapresa, nessun popolo mai fu più grande o più virtuoso o più ricco di buoni esempi, né vi fu città in cui così tardi siano penetrati l’avidità e il lusso, né dove così grande e durevole onore sia stato reso alla povertà ed alla semplicità di vita: come è vero che quanto minori erano le ricchezze, tanto minore era la cupidigia».

Come rileva Perelli, cui si deve anche la traduzione dello squarcio di Livio ora citato[71], è dunque naturale che la parte più caratteristica della sua opera sia la deca iniziale, «dove la materia gli offre maggior agio di applicare i suoi moduli esemplari, in quanto la scarsezza del materiale documentario gli consente di idealizzare i personaggi e di conferire loro un valore simbolico. Questo processo di idealizzazione e di inserimento in canoni paradigmatici risale già alla tradizione storiografica precedente e all’epos nazionale, che nella Roma dei padri vedevano il modello delle virtù etico-politiche e la repubblica perfetta; Livio riassume e porta al culmine questo processo»[72].

E così anche il diritto arcaico che affiora dalle sue pagine si fissa nella memoria degli innumerevoli lettori che da millenni vengono leggendo la prima deca e contribuisce ad affinarne la capacità di orientarsi nella selva del giuridico, nonostante il dubbio che in qualche punto esso non sia storicamente attendibile. 

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti della sezione “Memorie” sono stati oggetto di valutazione “in chiaro” da parte della direzione di Diritto @ Storia]

 

* Lo scritto trae origine da una relazione che ho presentato a Padova il 22 ottobre 2015, nell’ambito del «Convegno internazionale di studi su Tito Livio» organizzato dal Centro di ricerca interdipartimentale costituto in seno all’Ateneo per approfondire la conoscenza della figura e dell’opera dello storico romano, di cui nel 2017 ricorre il bimillenario della morte.

 

[1] Cfr. G.M. Masselli, La leggenda dei ‘Decii’: un percorso fra storia, religione e magia, in Ead., Riflessi di magia. Virtù e virtuosismi della parola in Roma antica, Napoli, 2012, 12.

 

[2] Cfr. C. Guittard, Tite-Live, Accius et le rituel de la ‘devotio’, in Comptes-rendus des séances de l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres, CXXVIII, 1984, 581 ss.

 

[3] Cfr., per una sintetica ed efficace discussione delle fonti e della letteratura sulla saga dei Decii, L. Sacco, ‘Devotio’, in Studi Romani, LII, 2004, 318 ss.

 

[4] Cfr. L. Sacco, ‘Devotio’, cit., 319 s.

 

[5] Cfr. G.M. Masselli, La leggenda dei ‘Decii’, cit., 13, nt. 19.

 

[6] Cfr. Liechtenstein Museum. Vienna. Le collezioni, trad. it., a cura di J. Kräftner, Monaco - Berlino - Londra - New York, 2004.

 

[7] Cfr. R. Baumstark, Peter Paul Rubens. Tod und Sieg des römischen Konsuls Decius Mus, Vaduz, 1988, 25 ss.

 

[8] Cfr. R. Baumstark, Peter Paul Rubens, cit., 41 ss.

 

[9] Cfr. R. Baumstark, Peter Paul Rubens, cit., 59 ss.

 

[10] Cfr. Storie di Tito Livio (Libri VI-X), a cura di L. Perelli, Torino, 1979, 317.

 

[11] Cfr. R. Baumstark, Peter Paul Rubens, cit., 71 ss.

 

[12] Cfr. R. Baumstark, Peter Paul Rubens, cit., 107 ss.; A. Stockhammer, Sale di esposizione, in Liechtenstein Museum, cit., 250.

 

[13] Cfr. J. Burckhardt, Rubens, trad. it., a cura di A. Bovero, Milano, 2006, 148.

 

[14] Cfr. A. Stockhammer, Sale di esposizione, cit., 257.

 

[15] La duplice citazione proviene da p. 438.

 

[16] Cfr. R. Calasso, L’ardore, cit., 437 s.

 

[17] Cfr. David, con un testo di P. Daverio, Milano, 2015, 34.

 

[18] Cfr. S. Bruno, I capolavori, in Louvre, Milano, 2006, 118.

 

[19] Cfr. M. Kemp, L’arte nella storia. 600 a.C. - 2000 d.C., trad. it., Torino, 2015, 114.

 

[20] Cfr. David, cit., 37.

 

[21] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico. Studi sul linguaggio figurativo del Settecento inglese, a cura di J. Anderson e C. Harrison, trad. it., Milano, 2000, 163.

 

[22] Cfr. P. Corneille, Teatro, a cura di M. Ortiz, I, Firenze, 1964, 653.

 

[23] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico, cit., 163.

 

[24] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico, cit., 164 ss.

 

[25] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico, cit., 175.

 

[26] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico, cit., 159 s.

 

[27] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico, cit., 160 s., nt. 5.

 

[28] Cfr. B. Santalucia, Osservazioni sui ‘duumviri perduellionis’ e sul procedimento duumvirale, in Du châtiment dans la cité. Supplices corporels et peine de mort dans le monde antique, Roma, 1984, 440.

 

[29] Cfr. B. Santalucia, Osservazioni sui ‘duumviri perduellionis’, cit., 440

 

[30] Cfr. B. Santalucia, Osservazioni sui ‘duumviri perduellionis’, cit., 441.

 

[31] Cfr. B. Santalucia, Osservazioni sui ‘duumviri perduellionis’, cit., 448 s.

 

[32] Cfr. E. Wind, ‘Humanitas’ e ritratto eroico, cit., 162.

 

[33] Cfr. Cfr. David, cit., 9.

 

[34] Cfr. L. Garofalo, Il processo edilizio. Contributo allo studio dei ‘iudicia populi’, Padova, 1989, 12 s. e nt. 16.

 

[35] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 8 ss.

 

[36] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 29.

 

[37] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 29 ss.

 

[38] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 23 e 31 ss.

 

[39] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 33 s.

 

[40] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 34 s.

 

[41] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 35 ss.

 

[42] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 37.

 

[43] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 38 s.

 

[44] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 39 ss.

 

[45] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 49 ss.

 

[46] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 52 ss.

 

[47] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 55 ss.

 

[48] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 114 s.

 

[49] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 105 ss.

 

[50] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 115 s.

 

[51] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 103 ss.

 

[52] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 109 ss.

 

[53] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 116 s.

 

[54] Cfr. P. Sloterdijk, La mano che prende, cit., 120 ss.

 

[55] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 18.

 

[56] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 9 ss.

 

[57] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 17.

 

[58] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 33 s.

 

[59] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 19 ss.

 

[60] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 21.

 

[61] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 21 ss.

 

[62] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 23 ss.

 

[63] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 33 e 36 ss.

 

[64] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 45 s.

 

[65] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 63 ss.

 

[66] Cfr. P. Sloterdijk, Stress e libertà, cit., 66 ss.

 

[67] Cfr. A. Carandini, ‘Res publica’, cit., 11 s.

 

[68] Cfr. A. Carandini, ‘Res publica’, cit., 157 s.

 

[69] Cfr. M. Bettini, Racconti romani «che sono lili’u», in Miti romani, cit., XVI ss.

 

[70] Cfr. L. Garofalo, ‘Iuris interpretes’ e inviolabilità magistratuale, in Id., Studi sulla sacertà, Padova, 2005, 53 ss.

 

[71] Cfr. Storie di Tito Livio (Libri I-V), a cura di L. Perelli, Torino, 1974, 109 e 111.

 

[72] Cfr. L. Perelli, Introduzione, in Storie di Tito Livio (Libri I-V), cit., 35.