Convegno
prigione e territorio
percorsi di integrazione dentro e fuori le
carceri
Università di Sassari – 26-27 maggio 2017
(Aula Segni di Giurisprudenza / Aula Magna)
Condizioni detentive e Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo[1]
Chief Justice Emeritus, Malta
Giudice
della Corte europea dei Diritti dell’Uomo
Strasburgo [2]
SOMMARIO: 1. Il tema. –
2. La CEDU. –
3. I primi anni. – 4. CPT e svolte giurisprudenziali. – 5. La dignità umana. – 6. L’effetto cumulativo. – 7. Regimi speciali di incarcerazione.– 8.
L’ergastolo. – 9. Il sovraffollamento.
Innanzi tutto desidero ringraziare la
dottoressa Sechi, il Comune di Sassari, l’Università di Sassari e tutti gli
altri promotori di questo convegno per l’invito che mi è stato esteso a
partecipare.
Il tema del convegno è certamente di grande
attualità, anche se magari al giorno d’oggi le condizioni delle quali si parla
di più non sono tanto quelle che riguardano i prigionieri nelle carceri ma i
detenuti nei centri di accoglienza per rifugiati o richiedenti asilo. Già nel
luglio del 1910, un giovanissimo segretario di stato per gli affari interni nel
governo di sua maestà britannica, Winston Churchill, dichiarò nella Camera dei
Comuni che si poteva giudicare un’intera società dal modo in cui trattava i
propri prigionieri[3]. Credo che tutti voi qui
presenti apprezziate il fatto che c’è un legame intimo tra le condizioni
detentive nelle nostre prigioni e fenomeni come il tasso di criminalità e di
recidivismo, il radicalismo – islamico o di altro genere – e la percentuale del
bilancio annuale dello Stato che è allocata per mantenere le prigioni e quelli
che la società decide di alloggiare lì dentro. Un documento del Parlamento Europeo
pubblicato nel gennaio di quest’anno ha calcolato che nel 2014 le prigioni nei
paesi dell’Unione Europea avevano all’incirca mezzo milione di detenuti – se
aggiungiamo a questi i Paesi del Consiglio d’Europa che non sono membri
dell’Unione Europea, la cifra diventa astronomica specialmente a causa di Paesi
come la Federazione Russa, l’Ucraina, l’Albania e la Turchia.
Il mio compito oggi è di parlarvi della
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) con riferimento alle condizioni
detentive. Penso che gli organizzatori abbiano inteso questo mio piccolo
discorso iniziale come una specie di hors
d’oeuvre, un antipasto, dopo il quale voi potrete slanciarvi con molta
filosofia e ancor più metodologia sul tema in esame. Ho accettato volentieri di
presentare i punti salienti della giurisprudenza della CEDU perché ritengo che
questa possa dare lo spunto, o magari anche degli spunti al plurale, per vedere
la problematica nella sua giusta prospettiva. In questo mio breve intervento
cercherò di focalizzare l’attenzione sui temi principali affrontati dalla Corte
di Strasburgo.
Alcune precisazioni. Che cosa non è la Corte di Strasburgo (CEDU). La
CEDU non è un’entità o organo che determina la politica carceraria di un
determinato Paese o dei diversi Paesi che sono firmatari della Convenzione
Europea dei Diritti dell’Uomo (Convenzione), anche se devo ammettere che alcune
sentenze, mal intese da chi non ha una giusta conoscenza del vero contesto nel
quale opera la CEDU, possono dare questa idea sbagliata. Quello che chiamerei
l’ambito operativo della CEDU riguardo a tutte le materie sulle quali deve
esprimersi, è delimitato dagli Articoli 1 e 19 della Convenzione[4].
L’obbligo di assicurare i diritti sanciti dalla Convenzione incombe in primo
luogo sullo Stato firmatario. Solo se questo viene meno, interviene la CEDU.
Per di più, la CEDU può intervenire soltanto quando tutte le vie di ricorso
interne sono state esaurite[5], vale a
dire anche in casi dove tali vie di ricorso non esistono ovvero dove si ritiene
che le vie di ricorso non sono adeguate. Da qui derivano due principi: quello
del ruolo sussidiario della CEDU, e l’altro del margine di apprezzamento dello
Stato. Quest’ultimo principio è più legato a quelle disposizioni della
Convenzione che permettono agli Stati di interferire con, o di limitare, un
diritto fondamentale – ad esempio, gli Articoli 8, 9, 10 e 11 – e perciò esso
non si può invocare con riferimento all’Articolo 3 che non ammette alcuna
deroga. Detto ciò, però, nel quadro generale della politica carceraria di un
determinato Paese, lo Stato ha un margine di azione abbastanza ampio. Infatti,
a seconda del Paese, le condizioni detentive possono essere regolate da uno
svariato numero di disposizioni legislative: da norme di diritto costituzionale
a norme di diritto penale o penitenziario.
Una seconda precisazione. Ogni qualvolta la
CEDU è del parere che ci sia stata una violazione della Convenzione riguardo a
un determinato ricorrente o a determinati ricorrenti, l’esecuzione di quella
sentenza non è di competenza della Corte medesima, bensì del Comitato dei
Ministri del Consiglio d’Europa. Questo comitato è lo stesso organo – un organo
squisitamente politico – che nel 2006 approvò, tramite una sua Risoluzione, le
Regole Penitenziarie Europee rivedute. Queste Regole – una forma di cosiddetta
“soft law” – apparvero per la prima volta sulla scena europea nel 1973; furono
in seguito riformulate nel 1987 e rivedute di nuovo nel 2006, questa versione
avendo come ultima disposizione la Regola 108 che prevede espressamente che «Le
Regole penitenziarie europee devono essere aggiornate regolarmente». La
versione del 2006 di queste Regole ha introdotto una nuova serie di concetti
relativi in particolare alla salute dei prigionieri nel quadro carcerario. Per la
prima volta, per esempio, si parla espressamente, nella Regola 39, dell’obbligo
delle autorità penitenziarie di proteggere la salute dei detenuti di cui si
occupano; come anche della necessità che i servizi medici carcerari siano (cito
testualmente dalla Regola 40) «organizzati in stretta relazione con
l’amministrazione sanitaria generale della collettività locale o dello Stato».
Ora, perché mi riferisco in particolare a
queste Regole Penitenziarie Europee? Credo che molti di voi sapranno già la
risposta. Queste Regole, come anche uno svariato numero di altre risoluzioni
del Comitato dei Ministri e dell’Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa,
formano un corpo di letteratura o cosiddetta “soft law”, alla quale la CEDU fa
riferimento ogni qualvolta che viene adita per determinare, nel contesto della
Convenzione, qualche punto concreto a proposito delle condizione detentive o
carcerarie. A queste risoluzioni si devono aggiungere gli “standard generali”
pubblicati dal Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e delle Pene o
Trattamenti Inumani o Degradanti del Consiglio d’Europa – la cosiddetta CPT. Ci
si chiede spesso se è questa “soft law” che ispira le decisioni della CEDU
(come potrebbe apparire a prima vista dalle sentenze) o se, all’inverso, sono
le decisioni della CEDU che ispirano – alcuni direbbero addirittura, spronano –
lo sviluppo di questo corpo di letteratura. Non mi azzarderei a dare una
risposta scientifica – mi limito a dire che, a mio parere, sembra che ci sia
una relazione simbiotica fra la CEDU e questi documenti.
Il fatto innegabile è che la CEDU è stata
molto lenta nel riconoscere la realtà della situazione carceraria in Europa, e
questo anche con riferimento ai cosiddetti vecchi Stati membri del Consiglio d’Europa,
in altre parole prima dell’apertura verso i Paesi del centro ed est Europa.
Alla fine dell’anno scorso, c’erano più di 79.700 ricorsi pendenti presso la
CEDU. Il 18% di questi – vale a dire più di 14.300, erano ricorsi dove si
invocava l’Articolo 3 della Convenzione, e perciò ricorsi ai quali si concede
automaticamente l’esame prioritario secondo l’Articolo 41 del Regolamento della
Corte. Come spiega il Professore (e mio amico) Dirk van Zyl Smit in un suo
libro pubblicato insieme ad una professoressa belga[6] nei
primi trent’anni dell’esistenza della CEDU, ci furono soltanto 72 casi che
furono riferiti dall’allora Commissione alla Corte, e fra questi 72 soltanto 15
avevano a che fare con l’incarcerazione o le condizioni detentive. Questi primi
casi dimostravano già le forze e le debolezze nell’applicazione di uno
strumento generale sui diritti fondamentali che non era focalizzato su prigioni
e prigionieri. Molte delle doglianze dei ricorrenti relative alle loro
condizioni di detenzione non superavano la soglia stabilita dalla Commissione
in quanto la teoria prevalente allora era che la privazione della libertà, a
causa dell’incarcerazione secondo la legge, comportava automaticamente la
perdita di altri diritti e di altre libertà. Fu soltanto nel 1975 che questa
teoria – cosiddetta delle “limitazioni inerenti” – fu abbandonata dalla CEDU
con la sentenza Golder[7] del 21
febbraio di quell’anno. Come molti casi che hanno in modo incisivo
contrassegnato la giurisprudenza della CEDU con riferimento alle varie disposizioni
della Convenzione, questo caso nasceva nel Regno Unito. E non riguardava le
condizioni detentive nel quadro dell’Articolo 3 della Convenzione – la
violazione che la CEDU riscontrò era dell’Articolo 6 – il diritto di accesso ad
una corte – e dell’Articolo 8 – il diritto al rispetto della propria
corrispondenza. Il signor Golder scontava una condanna di quindici anni per
rapina a mano armata, ed era detenuto nella famigerata prigione di Parkhurst,
nell’Isola di Wight. Voleva scrivere al suo avvocato per intraprendere azioni
legali per diffamazione a mezzo stampa contro una guardia carceraria. Questo
non lo poteva fare a causa dei regolamenti interni delle prigioni in
Inghilterra. La CEDU, sotto l’allora presidenza di Giorgio Balladore Pallieri, mise
da parte la teoria delle “limitazioni inerenti”, affermando invece che quelle
che erano rilevanti con riguardo alle restrizioni del diritto di un detenuto
alla propria corrispondenza erano le “necessità ordinarie e ragionevoli”
dell’incarcerazione, ma che in ogni caso e come regola generale i diritti
fondamentali dei prigionieri potevano essere limitati soltanto nello stesso
modo dei diritti di quelli che erano fuori dalle prigioni. Nove anni dopo, nel
caso Campbell and Fell v. the United
Kingdom[8], sentenza del 28 giugno
1984, la CEDU stabilì per la prima volta il diritto dei prigionieri di essere
assistiti da un avvocato in quelle procedure disciplinari che potevano
comportare una riduzione sostanziale del periodo di riduzione della pena per
buona condotta, ovvero la perdita di una parte considerevole del beneficio
della liberazione anticipata, con il risultato che il prigioniero doveva
rimanere in prigione per molto più tempo del previsto.
Per quel che riguarda le condizioni detentive
in generale, i rapporti del CPT sono stati decisivi per la CEDU; e cominciando
dalla fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, troviamo che la
CEDU comincia a cambiare un po’ tono, tralasciando quella timidezza che si
poteva notare prima specialmente nelle decisioni della Commissione. Due
sentenze sono, a mio parere, di maggior rilievo: Selmouni v. France del 28 luglio 1999 e Peers v. Greece del 19 aprile 2001 [9]. In
queste due sentenze vediamo un mutamento giurisprudenziale, anche se la
sentenza Selmouni riguardava in
verità non un prigioniero, bensì una persona in mano alla polizia durante le
indagini preliminari. Nel caso Selmouni la
Grande Camera non aveva alcun dubbio che le lesioni che aveva subito il
ricorrente, e che risalivano al tempo nel quale era detenuto dalla polizia,
erano state cagionate dagli stessi agenti. La questione che si poneva era se
questo trattamento equivaleva ad una forma di tortura, o ad un trattamento
inumano o degradante. Per la Corte non c’era alcun dubbio che il trattamento al
quale era stato sottoposto Selmouni era tale da far nascere in lui sentimenti
di paura, angoscia e inferiorità. Era anche un trattamento che aveva cagionato
nel soggetto un dolore fisico notevole, anche se magari non tutte le percosse
avevano lasciato tracce esterne. Considerando il trattamento nella sua
totalità, la CEDU fu del parere che qui si trattava di tortura e non di mero
trattamento inumano o degradante. E poi aggiunse – e questo è il punto, credo,
più significativo – traduco dal paragrafo 101 di quella sentenza: «… la Corte è
del parere che azioni che in passato venivano qualificate come azioni ‘inumane
e degradanti’ possono essere riqualificate in modo diverso in futuro. Secondo
la Corte, la necessità di assicurare un sempre più alto livello di protezione
nel campo dei diritti e delle libertà fondamentali comporterà inevitabilmente
una più rigorosa valutazione delle violazioni dei valori fondamentali delle
società democratiche»[10]. Parole
pesanti che echeggiano la teoria della Convenzione come strumento vivo che
dev’essere interpretato alla luce delle condizioni attuali e non di quelle
degli anni cinquanta quando la Convenzione fu firmata. Questa teoria fu
propugnata per la prima volta nel 1978 nel caso Tyrer v. the United Kingdom 25 aprile 1978, dove la CEDU qualificò
la punizione corporale che ancora si infliggeva su ordine dell’autorità
giudiziaria nell’Isola di Man come trattamento degradante in violazione
dell’Articolo 3 della Convenzione[11].
Il caso Peers
– una sentenza della seconda sezione della CEDU – riguarda invece la
detenzione in un carcere. Il ricorrente, cittadino britannico e
tossicodipendente, era stato arrestato ad Atene perché sospettato di traffico
di stupefacenti. Per quasi due mesi fu detenuto con un'altra persona in una
cella originariamente destinata ad una sola persona, con minima possibilità di
circolare fuori dalla cella, in un caldo descritto come soffocante (anche
perché la cella non aveva alcuna finestra e neanche ventilazione adeguata), e
dovendo anche usufruire di servizi igienici nella propria cella, che non davano
il minimo di privacy alle due persone
ivi alloggiate. La Corte rilevò anche che le autorità competenti non avevano
fatto alcuno sforzo per cercare di rimediare a questa situazione. L’importanza,
a mio parere, di questa sentenza[12] sta nel
fatto che la Corte ha respinto in modo decisivo l’eccezione, sollevata dal
governo greco, che per riscontrare una violazione dell’Articolo 3 in tali
situazioni si debba provare che ci sia stata un’intenzione positiva di umiliare
o di degradare. La Corte – paragrafo 74 – fu chiarissima a questo proposito:
l’assenza di tale intenzione non è decisiva – quel che è decisivo è se
oggettivamente l’insieme delle circostanze ovvero delle condizioni diminuiscano
la dignità umana del soggetto e facciano insorgere in lui sentimenti di
angoscia e di inferiorità conducenti alla sua umiliazione e degrado e
possibilmente anche a stroncare la sua resistenza fisica o morale.
Il richiamo alla dignità umana – che,
ricordiamo, è un’espressione usata soltanto nel preambolo della Convenzione (e
non in una disposizione sostantiva o procedurale della medesima) ma che è
l’oggetto di una tutela specifica nella Carta dei diritti fondamentali
dell’Unione Europea[13] – lo si
riscontra in molte altre decisioni della CEDU che riguardano le condizioni
detentive. Nel contesto specifico dell’uso della forza fisica nei confronti di
persone detenute, la CEDU ha sempre ribadito che l’uso, su una persona
detenuta, di tale forza fisica che non sia strettamente necessaria per
realizzare o conseguire uno scopo legittimo – come, ad esempio, impedire ad un
detenuto di commettere atti di violenza su altre persone o prevenire la sua
evasione – è “in principio” una violazione dell’Articolo 3 della Convenzione.
Perché “in principio”? Perché la Corte ha sempre anche voluto assicurarsi che
un atto di forza fisica, a meno che non si tratti di una forma di tortura,
raggiunga almeno una certa soglia di severità o di gravità per essere l’oggetto
della sanzione dell’Articolo 3. In altre parole, non ogni trattamento che
importa sofferenza o umiliazione è sanzionato dall’Articolo 3 – altrimenti si
finirebbe per sminuire la portata di tale disposizione. Questa posizione sembra
che sia stata alterata dalla recente decisione di Bouyid v. Belgium[14],
decisione della Grande Camera del 28 settembre 2015, dove io, con altri due
giudici, dovetti pronunciarmi contro il modo di ragionare della maggioranza di
quattordici miei colleghi. Il caso riguardava due giovani, uno di loro
diciassettenne, che mentre erano in questura per essere interrogati dalla
polizia, ricevettero ognuno, in due momenti separati, uno schiaffo da un agente
di polizia esasperato di fronte alla loro spavalderia e arroganza.
Indubbiamente quell’atto di schiaffeggiare era censurabile sia disciplinarmente
sia anche penalmente e per fatto illecito. Sfortunatamente le vie di rimedio
interne non ebbero alcun risultato poiché il pubblico ministero decise di non procedere
contro i due agenti (e per questa ragione fu allora possibile invocare la
giurisdizione della CEDU). La maggioranza della CEDU ritenne che il semplice
fatto di un atto degradante in quanto lesivo della dignità umana era
sufficiente di per sé per riscontrare una violazione dell’Articolo 3 della
Convenzione, senza la necessità di tener conto dell’impatto di tale atto sul
soggetto e di tutte le circostanze per decidere se la soglia di severità e di
gravità richiesta dell’Articolo 3 fosse stata raggiunta.
Ma ritorniamo a situazioni dove non c’è
l’uso di forza fisica. La giurisprudenza della CEDU ha sempre ritenuto che,
fatta eccezione per lo spazio, oggettivamente riscontrabile, delle celle, per determinare
se le condizioni detentive siano o meno in violazione dell’Articolo 3 della
Convenzione, si deve tener conto dell’effetto cumulativo che queste condizioni
hanno sul soggetto. Per illustrare il principio si può fare riferimento alla
sentenza del 6 novembre 2012 nel caso Strelets
v. Russia[15]. Qui c’era, per così
dire, una sovrapposizione di condizioni detentive con condizioni di trasporto
verso le corti. Fra giugno del 2004 e giugno del 2005 il ricorrente venne
trasportato 42 volte dal carcere alla corte, e viceversa. La corte era così
distante che, per arrivarci, il ricorrente doveva alzarsi alle sei del mattino
quando nessuna prima colazione era disponibile nel carcere. Ritornava nella
cella alle dieci di sera, quando la cucina era chiusa. Alcuni di questi
spostamenti avvennero in giornate consecutive. In queste occasioni egli rimase
senza cibo. La CEDU affermò i quattro principi della dottrina nel contesto
della privazione legale della libertà:
(1) per esservi una violazione
dell’Articolo 3, la sofferenza e l’umiliazione deve estendersi oltre
l’inevitabile sofferenza e umiliazione inerenti alla perdita della libertà
personale;
(2) che nell’esecuzione di un ordine di
detenzione, lo Stato deve rispettare la dignità umana e perciò non deve
assoggettare il detenuto ad una angoscia o a disagi di un’intensità al di là
dell’inevitabile inerente alla detenzione;
(3) che in ogni caso si deve tener conto
della salute del singolo detenuto e del suo benessere anche nel quadro
detentivo;
(4) che quando si valutano le condizioni
detentive si deve tener conto dell’effetto cumulativo di queste sul soggetto.
In questo caso la CEDU fu del parere che
l’effetto cumulativo della malnutrizione assieme alla privazione del necessario
riposo del ricorrente nei giorni in cui doveva comparire in aula, era stata di
un’intensità tale da indurre nel soggetto un elemento di sofferenza fisica e di
angoscia mentale, ambedue aggravate dal fatto che tale trattamento si
verificava proprio nei giorni del suo processo quando il soggetto aveva più
bisogno della sua capacità di concentrazione e di prestare attenzione a quello
che accadeva in tribunale[16].
Una domanda che la CEDU si pone spesso è la
seguente: questo fatto, questa condizione o questo effetto cumulativo si poteva
evitare con un ragionevole grado di impegno da parte delle autorità carcerarie?
Questa domanda, naturalmente, presuppone che le autorità carcerarie abbiano un
certo margine di libertà d’azione nel quadro delle leggi interne. Il tipico
caso è quello di Jakóbski v. Poland[17],
sentenza del 7 dicembre 2010, dove la doglianza del ricorrente riguardava non
l’Articolo 3 bensì l’Articolo 9 della Convenzione – il diritto alla libertà di
pensiero, coscienza e religione. Il ricorrente scontava una pena di otto anni
per stupro. Si dichiarava buddista, e chiedeva che gli fosse dato del cibo che
non contenesse alcun tipo di carne. Le autorità carcerarie rifiutarono questa
richiesta perché secondo le loro ricerche la religione buddista non obbligava
espressamente, ma soltanto suggeriva, una dieta vegetariana, e anche perché
ritennero che sarebbe stato troppo costoso (oltre ad altri problemi di
amministrazione interna) per loro preparare del cibo speciale ogni volta che un
detenuto domandava una dieta particolare per motivi religiosi. La CEDU fu di
parere contrario. Richiamandosi in primo luogo al primo comma del Regolamento
22 delle Regole Penitenziarie Europee[18], la
CEDU precisò che quello che domandava il ricorrente non richiedeva l’acquisto
di prodotti particolari o che il cibo fosse cotto o preparato in qualche
maniera speciale (come era stato il caso in alcuni altri ricorsi, piuttosto
antichi, che la Commissione e la Corte dovettero esaminare). La CEDU non fu
convinta che la cucina della prigione sarebbe andata in tilt se al ricorrente
fosse stato fornito ogni giorno un piatto di verdure senza alcuna carne, e
perciò ritenne che ci fu una violazione dell’Articolo 9 della Convenzione.
Diverse sentenze della CEDU hanno anche ritenuto
inaccettabile, perché lesive dei diritti fondamentali, le pratiche esistenti in
alcuni Paesi secondo le quali un detenuto ritenuto ad “alto rischio” o
“pericoloso” viene automaticamente – e uso la parola “automaticamente” in un
senso particolare, come spiegherò fra poco – ammanettato ogni qualvolta si
sposta da una parte del carcere all’altra, ed in alcuni casi anche assoggettato
ad una perquisizione intima della persona, a meno che le autorità non
dimostrino con argomenti rilevanti e sufficienti che nel caso particolare tali
misure invasive erano necessarie. A queste pratiche si può aggiungere, per
esempio, la messa in isolamento. Si deve essere qui un po’ attenti per non
essere fraintesi: come la CEDU ha chiaramente spiegato nella sentenza Piechowicz v Poland[19] del 17
aprile 2012, i cosiddetti “regimi speciali di incarcerazione” non sono di per
sé stessi in contrasto con l’Articolo 3 – sarebbe assurdo pensare che lo Stato
non possa prendere le misure necessarie per assicurare sia la protezione dei cittadini
sia l’integrità del regime interno del carcere. Ma lo Stato deve assicurare che
questi regimi siano compatibili con il rispetto per la dignità umana, e che
l’attuazione in concreto di dette misure, individualmente o nel loro insieme,
non vadano al di là di quello che è strettamente necessario[20].
Perciò, un sistema penitenziario che ritiene ogni persona recidiva come persona
pericolosa senza tener conto della natura dei reati in questione e della
personalità del soggetto; o che non permette il regolare riesame di questo status particolare per determinare se
sia ancora necessario; o che non contro-bilanci l’isolamento con misure atte ad
attenuare l’effetto psicologico dell’isolamento, specialmente se è un
isolamento per lungo tempo: questo sistema penitenziario avrebbe dei problemi
nel quadro dell’Articolo 3 della Convenzione. Dove, invece, si può ritenere che
quello che è stato fatto era assolutamente necessario per assicurare
l’integrità del regime interno del carcere, allora in quel caso, anche se le
misure potrebbero sembrare ripugnanti, non si avrà una violazione dell’Articolo
3. Il caso classico direi che è Lindström
and Mässeli v. Finland[21],
sentenza della Quarta Sezione del 14 gennaio 2014. In Finlandia, dove il
problema della droga nelle carceri sembra che sia grave quanto il problema
dell’alcool al di fuori, c’era una procedura secondo la quale quando un
detenuto fosse sospettato di avere ingerito della droga per poi spacciarla
dentro il carcere, lo si metteva in isolamento, gli si faceva togliere i
vestiti e indossare invece una tuta di plastica sigillata al collo, ai polsi e
alle caviglie, e gli si dava un lassativo. Quando il lassativo cominciava ad
agire, il detenuto doveva informare le guardie per poi essere portato in un
gabinetto per fare i suoi bisogni sotto osservazione. I due ricorrenti in
questione si lamentavano che questa procedura aveva comportato un trattamento
degradante, anche perché le guardie non li avevano portati al gabinetto in
tempo utile, con delle ovvie conseguenze. La CEDU fu del parere che, tenuto
conto della necessità assoluta di assicurare un ambiente carcerario senza
droga, non si poteva dire che la pratica della tuta di plastica raggiungeva la
soglia necessaria per una violazione dell’Articolo 3. Però la Corte trovò che
c’era stata una violazione dell’Articolo 8 della Convenzione – rispetto della
vita privata – non per il fatto dell’uso della tuta o della somministrazione
del lassativo, bensì a causa del fatto che l’interferenza nella vita privata,
anche se aveva per scopo la pubblica sicurezza e la prevenzione dei reati, non
era sorretta da una disposizione legislativa chiara – in altre parole, non si
poteva dire che questa pratica era “prevista dalla legge”. Al contrario, nel
caso Biržietis v. Lithuania[22] il
divieto assoluto di portare la barba in prigione era chiaro nei regolamenti
carcerari. Il problema riscontrato dalla CEDU consisteva nella mancanza della
«necessità in una società democratica», ovvero nell’assenza di un elemento di
proporzionalità fra l’interferenza – il divieto non ammetteva eccezioni – e i
fini legittimi di tale interferenza elencati nel secondo comma dall’Articolo 8.
Secondo le autorità lituane questi fini erano la difesa dell’ordine dentro il
carcere e la protezione della salute, ovvero ragioni di igiene. In altre
parole, lo Stato in questo caso non aveva dimostrato alcuna ragione impellente
che potesse giustificare tale divieto assoluto[23].
È proprio a quest’ordine di idee – ovvero
l’esame del caso in concreto per vedere se quello che si fa vada oltre il
necessario – che si ispirano, anche se in modo indiretto, due sentenze che, a
mio parere, sono importanti nel quadro della pena carceraria a vita,
l’ergastolo: mi riferisco alle sentenze, ambedue della Grande Camera della
CEDU, Vinter and Others v. the United
Kingdom (9 luglio 2013)[24] e Murray v. the Nertherlands (26 Aprile
2016)[25]. Ora,
la pena carceraria a vita pone dei problemi di natura etica che io lascerò ad
altri di analizzare: mi limiterò soltanto a precisare che la pena dell’ergastolo
non è di per sé in contrasto con alcuna disposizione della Convenzione, purché
venga erogata da un tribunale imparziale e indipendente secondo l’Articolo 6, e
purché nel caso concreto ci sia un giusto bilanciamento di proporzionalità con
il reato del quale il soggetto è stato giudicato colpevole. Già negli anni 70 e
80, la CEDU si espresse diverse volte, anche se magari obiter, nel senso che nell’ipotesi in cui la pena fosse
manifestamente sproporzionata al fatto, si poteva riscontrare una violazione
dell’Articolo 3 – e questa, infatti, fu anche una delle varie linee di pensiero
della corte nel caso Tyrer al quale
ho già fatto riferimento. In realtà ed in ultima analisi, si può anche dire che
già in quegli anni la CEDU si era espressa, sempre obiter, nel senso che essendo la libertà la regola e la privazione
della libertà l’eccezione, si doveva far ricorso alla prigione soltanto quando
le altre misure previste dalla legge non fossero state adeguate per ristabilire
l’ordine nel tessuto sociale. Cominciando nel 2008 con la sentenza della Grande
Camera Kafkaris v. Cyprus[26], la
CEDU si pronunciò sempre di più a favore della possibilità di una riduzione di
una condanna a vita, nel senso che laddove non c’era la possibilità – de facto o de jure – di una riduzione, si profilava all’orizzonte la
possibilità di un contrasto con l’Articolo 3. Fu soltanto, però, nella sentenza
Vinter che la Corte cristallizzò il
pensiero precedente, ritenendo che per essere compatibile con l’Articolo 3
della Convenzione, una condanna a vita deve soddisfare due condizioni: la
prima, già ribadita in sentenze precedenti, è la possibilità di un’eventuale
scarcerazione; la seconda, più importante credo, è che al momento della
sentenza ci deve essere già una procedura stabilita per legge che regoli il
processo di revisione della sentenza per determinare se ci siano o meno i
presupposti inerenti alla pena per cambiare una sentenza indeterminata in una
determinata, per rilasciare il prigioniero, o addirittura per mantenere lo status quo. La CEDU fu chiara, però,
nell’affermare che non era suo compito determinare dopo quanto tempo doveva
esserci questa revisione, o se la revisione doveva essere fatta da un tribunale
amministrativo o da un tribunale ordinario; ma aggiunse che non si poteva
pretendere che un detenuto si prodigasse a cambiare la sua vita, magari la sua
attitudine verso la società, a co-operare con i programmi di riabilitazione e
via dicendo senza avere almeno un minimo incentivo, costituito dalla
consapevolezza che in un determinato momento, anche se nel lontano futuro, la
sua condanna sarebbe stata rivista[27]. I
brani riprodotti in calce, più che un principio giurisprudenziale, credo che
costituiscano un’affermazione di buon senso.
Il caso Murray
è un po’ differente, ma ricongiunge il discorso della cura medica dei detenuti
con quello dell’irriducibilità delle condanne all’ergastolo. E come accade
spesso con i casi che fanno un po’ scalpore a livello nazionale o
internazionale, il ricorrente era una persona che aveva commesso un reato
veramente orrendo – l’omicidio di una ragazzina di sei anni nell’isola di
Curaçao. Fu originariamente condannato a vent’anni, ma in seguito ad un appello
del pubblico ministero, la Corte d’Appello per le Antille Olandesi lo condannò
all’ergastolo. Questa fu del parere che, anche se Murray aveva la piena facoltà
di intendere e di volere al momento dell’omicidio, egli aveva dei problemi di
natura psichiatrica e perciò raccomandò che gli fosse somministrata la terapia
necessaria per rafforzare la sua personalità riconosciuta debole. A quel tempo
però – l’omicidio risale al 1979 – le Antille Olandesi non disponevano di un
carcere psichiatrico, e fu ritenuto che non sarebbe stato giusto trasferirlo in
Europa perché questo avrebbe reso impossibile il contatto con la sua famiglia.
Dopo aver scontato tredici anni, contraddistinti da numerosi incidenti in
carcere, anche episodi di estorsione e di abuso di stupefacenti, nel 1999
Murray fu trasportato all’isola di Aruba, per essere ancora più vicino alla famiglia.
Qui si notò un evidente miglioramento del suo carattere e della sua condotta in
generale. In seguito fece diversi ricorsi per ottenere la libertà vigilata, ma
queste sue richieste furono sempre rigettate perché, secondo gli esperti,
Murray costituiva ancora un pericolo per la società. Nel 2014 fu finalmente
graziato e rilasciato dal carcere per il solo fatto che era stata diagnosticata
una malattia terminale e infatti Murray morì prima della sentenza della Grande
Camera. La Terza Sezione della CEDU, con decisione unanime, non riscontrò
alcuna violazione dell’Articolo 3 perché ritenne che, quando Murray fece il suo
primo ricorso per la revisione della sua sentenza e per la possibilità di
liberazione, era già in vigore nel diritto penitenziario per le isole in
questione il necessario dispositivo per tale revisione. La Grande Camera
invece, anch’essa con decisione unanime, fu del parere opposto, ritenendo che
anche se era vero che c’era questo dispositivo, in realtà il ricorrente non
aveva mai la possibilità di ottenere un esito favorevole alle sue richieste di
liberazione poiché non gli era mai stata somministrata la terapia medica – in
questo caso, psichiatrica – necessaria durante tutto il periodo di
incarcerazione. Perciò non aveva alcuna possibilità di vedere il suo status di persona pericolosa cambiare in
uno status che poteva permettere la
liberazione. In altre parole, un diritto non deve essere solamente teorico o
illusorio, ma deve essere pratico ed effettivo[28].
Nessun discorso sulle condizioni detentive
sarebbe completo senza qualche riferimento specifico al problema del
sovraffollamento. Già nel 2009 la CEDU affermò, nella sentenza Orchowski v. Poland[29] che la
mancanza di risorse non poteva di regola giustificare condizioni detentive così
carenti da rendere la detenzione incompatibile con l’Articolo 3, aggiungendo
che gli Stati dovevano organizzarsi ed organizzare il loro sistema penale in
modo tale da assicurare la dignità dei detenuti malgrado le difficoltà
finanziarie o logistiche. E la Corte continuò – cito testualmente dal par. 153
– «Se lo Stato non è in grado di assicurare che le condizioni nelle prigioni
siano compatibili con i requisiti dell’Articolo 3, dovrà allora abbandonare la
politica penale rigida al fine di ridurre il numero delle persone detenute o di
attuare un sistema alternativo di mezzi punitivi»[30]. Nel
quadro del sovraffollamento, che, naturalmente, non può che contribuire
negativamente sulle condizioni carcerarie, si deve anche riconoscere il
contributo delle cosiddette “sentenze pilota”. La sentenza pilota è
un’invenzione della CEDU, ritenuta indispensabile dopo l’apertura del Consiglio
d’Europa verso i Paesi del centro e dell’est Europa, Paesi che hanno portato
con loro dei problemi sistemici seguiti da un così grande numero di ricorsi che
la CEDU rischiava di affondare. La prima sentenza pilota era Broniowski v. Poland[31] del
2004, seguita poco dopo da Hutten-Czapska
v. Poland[32]. Ambedue riguardavano il
diritto al rispetto della proprietà. Con la prima sentenza, circa 80.000 casi
che sarebbero finiti nel grembo della CEDU furono, in effetti, rimandati
davanti alle autorità giudiziarie polacche per essere decisi a livello
nazionale secondo le indicazioni date dalla CEDU; mentre Hutten-Czapska sventò l’arrivo a Strasburgo di più di 100.000
ricorsi da parte di proprietari di appartamenti dati in affitto. Nel febbraio
del 2001 la CEDU decise di codificare, per così dire, le regole relative alle
sentenze pilota introducendo l’Articolo 61 del Regolamento della Corte. In
poche parole, che cos’è la sentenza pilota? Dove dai fatti di uno o più ricorsi
la CEDU intravede un problema strutturale o sistemico o intravede un’altra
disfunzione simile che ha dato luogo, o potrebbe dare luogo, alla presentazione
di altri ricorsi analoghi, la Corte seleziona uno o più ricorsi simili e nel
deciderli indica in modo più o meno specifico quello che si deve fare a livello
nazionale per far fronte al problema in disamina. La sentenza viene, di regola,
trasmessa al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa che vigila
sull’esecuzione, ovvero decide quando lo Stato
soccombente si sia conformato alle indicazioni date dalla CEDU per risolvere il
problema strutturale o sistemico. Molte di queste sentenze pilota sono state di
grande successo, come dimostra riguardo all’Italia il caso Torreggiani[33] del
2013, con riferimento al quale nelle successive sentenze[34] la CEDU
ha riconosciuto l’attuazione da parte dello Stato italiano delle misure
necessarie sia per risolvere il problema sia per provvedere ad un rimedio
interno – che prima non c’era – per tutti quelli che si lamentavano del
sovraffollamento nelle carceri.
L’ultima sentenza della Grande Camera a
riguardo del sovraffollamento è Muršić
v. Croatia dell’ottobre dell’anno scorso[35]. Anche
se tecnicamente non è una sentenza pilota – addirittura la Corte ha rilevato
che non intravedeva, per il momento almeno, un problema strutturale nelle
carceri croate – questa sentenza è certamente importante perché delinea i
principi che saranno seguiti da ora in avanti dalla CEDU per quel che riguarda
le celle con più di una persona dentro. Il ricorrente si lamentò principalmente
delle dimensioni della cella che condivideva con altri detenuti, e in
particolare denunciò che in alcuni periodi della sua detenzione nella prigione
di Bjelovar i detenuti usufruivano di meno di 3 metri quadri per persona, e in
altri periodi fra 3 e 4 metri quadri per persona. La Grande Camera riaffermò
che lo “standard” prevalente nella giurisprudenza della Corte è di un minimo di
tre metri quadri per persona – e non, come suggerito dalla CPT – 4 metri
quadri. Nel momento in cui questo spazio va al di sotto dei 3 metri quadri per
persona, ci sarà una forte presunzione nel senso della violazione dell’Articolo
3, a meno che le autorità non dimostrino qualche ragione straordinaria per
questo spazio così ridotto – per esempio, un incendio che ha devastato alcune
celle, e allora diventa necessario ridistribuire i detenuti in altre celle per
pochi giorni mentre si fanno le riparazioni. Dai documenti nella disponibilità
della Corte, questa era soddisfatta che le condizioni nella prigione di
Bjelovar erano, in modo generale, condizioni adeguate, ma c’era stata una
violazione dell’Articolo 3 per il solo fatto che il ricorrente era stato
detenuto per 27 giorni consecutivi in una cella con altri detenuti dove
lo spazio per persona era stato di meno tre metri quadri. Rispetto ad altri
periodi dove Muršić era stato in una cella simile ma per pochi giorni, o in
celle dove lo spazio per persona variava fra i 3 e i 4 metri quadri per
persona, la CEDU non affermò che c’era stata una violazione, ritenendo che lo
spazio ristretto nella cella era stato compensato con il fatto che durante il
giorno c’era ampia possibilità di andare in giro nei corridoi e nei cortili
della prigione, essendo la cella usata soltanto per dormirci dentro.
E vengo allora alla linea di fondo. Come
s’inquadrano i diritti fondamentali nel contesto delle carceri o di altri
luoghi di detenzione? Una nostra cancelliera, la Dottoressa Karen Reid, autrice
di un testo sulla Convenzione che io raccomanderei a tutti, ha così riassunto i
termini del discorso[36]: in
primo luogo la detenzione o prigione importa soltanto in principio la perdita
della libertà e non degli altri diritti fondamentali sanciti dalla Convenzione
e che gli Stati firmatari si sono impegnati ad assicurare ad ogni persona
sottoposta alla propria giurisdizione. Questi altri diritti fondamentali
subiranno qualche interferenza soltanto in quanto questa possa dimostrarsi
assolutamente necessaria nel contesto detentivo. Ciò nonostante, le condizioni
detentive non devono mai comportare un trattamento inumano o degradante, e gli
Stati firmatari hanno l’obbligo positivo di tutelare la sicurezza e la salute
dei detenuti. In secondo luogo, i detenuti sono, quasi per definizione, in una
situazione di particolare vulnerabilità dato che quasi tutti gli aspetti della
loro vita quotidiana sono sottoposti ai controlli delle autorità; questa realtà
richiede allora un maggior grado di attenzione e di sensibilità ogni qualvolta
si adoperano delle misure che incidono sulla vita dei prigionieri.
[Un evento
culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile
qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per
questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “D & Innovazione”
sono stati valutati “in chiaro” dai promotori del Convegno “Prigione e territorio. Percorsi di
integrazione dentro e fuori le carceri”, dal curatore della pubblicazione e
dalla direzione di Diritto @ Storia]
[1] Relazione presentata al
convegno tenutosi il 26 e 27 maggio, 2017 presso l’Università di Sassari sul
tema Prigione e Territorio: percorsi di integrazione
dentro e fuori le carceri. Il convegno è stato promosso dalla medesima
Università, dal Comune di Sassari e dal Consiglio dell’Ordine Forense di
Sassari, con la collaborazione del Tribunale di Sorveglianza di Sassari e della
Camera del Commercio di Sassari. Il relatore ringrazia la Dottoressa Daniela
Cardamone, giudice distaccato presso la Cancelleria della Corte europea dei
Diritti dell’Uomo, per le rifiniture linguistiche apportate al testo originale
della relazione.
[2] Chief Justice Emeritus, Malta; giudice della Corte europea dei
Diritti dell’Uomo, Strasburgo, eletto in relazione a Malta. Le opinioni
espresse sono del relatore e non riflettono necessariamente quelle della corte
o del Consiglio d’Europa, del quale la corte è un organo.
[3] «We must not forget that when every material improvement has been
effected in prisons, when the temperature has been rightly adjusted, when the
proper food to maintain health and strength has been given, when the doctors,
chaplains and prison visitors have come and gone, the convict stands deprived
of everything that a free man calls life. We must not forget that all these
improvements, which are sometimes salves to our consciences, do not change that
position. [...] The mood and temper of the public in regard to the
treatment of crime and criminals is one of the most unfailing tests of the
civilisation of any country. A calm and dispassionate recognition of the rights
of the accused against the state, and even of convicted criminals against the
state, a constant heart-searching by all charged with the duty of punishment, a
desire and eagerness to rehabilitate in the world of industry all those who
have paid their dues in the hard coinage of punishment, tireless efforts
towards the discovery of curative and regenerating processes, and an
unfaltering faith that there is a treasure, if you can only find it, in the
heart of every man these are the symbols which in the treatment of crime and
criminals mark and measure the stored-up strength of a nation, and are the sign
and proof of the living virtue in it» Winston CHURCILL, House of
Commons speech, given as Home Secretary, July 20, 1910.
[4] ARTICOLO
1 Obbligo di rispettare i diritti dell’uomo: «Le
Alte Parti contraenti riconoscono a ogni persona sottoposta alla loro
giurisdizione i diritti e le libertà enunciati nel Titolo primo della presente
Convenzione».
ARTICOLO 19 Istituzione
della Corte: «Per assicurare il
rispetto degli impegni derivanti alle Alte Parti contraenti dalla presente Convenzione
e dai suoi Protocolli, è istituita una Corte europea dei Diritti dell’Uomo, di
seguito denominata “la Corte”. Essa funziona in modo permanente».
[5] ARTICOLO
35 Condizioni di ricevibilità: 1. «La Corte non può
essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, come
inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti
ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna
definitiva».
[6] D. VAN ZYL SMIT – S. SNACKEN, Principles of European Prison Law and Policy, Oxford 2011.
[7] Golder v. the United Kingdom 21 February 1975 (Application no. 4451/70 – Court in
plenary session).
[8] Campbell and Fell v. the United Kingdom 28 June 1984 (Application no. 7819/77; 7878/77 – Grand
Chamber).
[9] Selmouni v. France 28 July 1999 (Application
no. 25803/94 – Grand Chamber); Peers v. Greece 19 April 2001 (Application no. 28524/95 – Chamber, Second Section).
[10] § 101: «… having
regard to the fact that the Convention is a ‘living instrument which must be
interpreted in the light of present-day conditions’… the Court considers that
certain acts which were classified in the past as ‘inhuman and degrading
treatment’ as opposed to ‘torture’ could be classified differently in future.
It takes the view that the increasingly high standard being required in the
area of the protection of human rights and fundamental liberties
correspondingly and inevitably requires greater firmness in assessing breaches
of the fundamental values of democratic societies».
[12] §§ «74. In the light
of the foregoing, the Court considers that in the present case there is no
evidence that there was a positive intention of humiliating or debasing the applicant.
However, the Court notes that, although the question whether the purpose of the
treatment was to humiliate or debase the victim is a factor to be taken into
account, the absence of any such purpose cannot conclusively rule out a finding
of violation of Article 3» (cfr. V. v. the United Kingdom [GC], no.
24888/94, § 71, ECHR 1999-IX).
«75. Indeed, in the
present case, the fact remains that the competent authorities took no steps to
improve the objectively unacceptable conditions of the applicant’s detention.
In the Court’s view, this omission denotes lack of respect for the applicant.
The Court takes into account, in particular, that, for at least two months, the
applicant had to spend a considerable part of each 24-hour period practically
confined to his bed in a cell with no ventilation and no window, which would at
times become unbearably hot. He also had to use the toilet in the presence of
another inmate and be present while the toilet was being used by his cell-mate.
The Court is not convinced by the Government’s allegation that these conditions
did not affect the applicant in a manner incompatible with Article 3. On the
contrary, the Court is of the opinion that the prison conditions complained of
diminished the applicant’s human dignity and aroused in him feelings of anguish
and inferiority capable of humiliating and debasing him and possibly breaking
his physical or moral resistance. In sum, the Court considers that the
conditions of the applicant’s detention in the segregation unit of the Delta
wing of Koridallos Prison amounted to degrading treatment within the meaning of
Article 3 of the Convention. There has thus been a breach of this provision».
[13] Articolo 1 Dignità
umana: «La dignità umana è inviolabile.
Essa deve essere rispettata e tutelata».
[14] Bouyid v. Belgium 28 September 2015 (Application no. 23380/09 – Grand Chamber).
[16] §§ «62. Having regard
to the foregoing, the Court considers that in the circumstances of this case
the cumulative effect of malnutrition and inadequate sleep on the days of court
hearings must have been of an intensity such as to induce in the applicant
physical suffering and mental fatigue. This must have been further aggravated
by the fact that the above treatment occurred during the applicant’s trial,
that is, when he most needed his powers of concentration and mental alertness.
The Court therefore concludes that the applicant was subjected to inhuman and
degrading treatment contrary to Article 3 of the Convention».
«63. Accordingly,
there has been a violation of that provision».
[17] Jakóbski v. Poland 7 December 2010 (Application no. 18429/06 – Chamber, First Section).
[18] Regole Penitenziarie
Europee Regime alimentare 22.1.: «I detenuti devono beneficiare di un
regime alimentare che tenga conto del loro sesso, della loro età, del loro
stato di salute, della loro religione, della loro cultura e della natura del
loro lavoro».
[19] Piechowicz v. Poland 17 April 2012 (Application no. 20071/07 – Chamber, Fourth Section).
[20] §§ «162. While, as stated above, those
special prison regimes are not per se contrary to Article 3, under that
provision the State must ensure that a person is detained in conditions which
are compatible with respect for his human dignity, that the manner and method
of the execution of the measure do not subject him to distress or hardship of
an intensity exceeding that unavoidable level of suffering inherent in detention
and that, given the practical demands of imprisonment, his health and
well-being are adequately secured» (v. Kudła, cit., §§
92-94; and Van der Ven, cit., § 50).
«163. The Court, making its assessment
of conditions of detention under Article 3, will take account of the cumulative
effects of those conditions, as well as the specific allegations made by the
applicant (vedi Dougoz v. Greece, no. 40907/98, ECHR 2001-II, § 46). In
that context, it will have regard to the stringency of the measure, its
duration, its objective and consequences for the persons concerned» (cfr. VAN DER VEN, cit., § 51, e paragrafo
159 sopra).
[21] Lindström and Mässeli v. Finland 14 January 2014 (Application no. 24630/10 – Chamber, Fourth
Section).
[23] § «58.Taking into account all the
circumstances of the present case, the Court considers that the applicant’s
decision on whether or not to grow a beard was related to the expression of his
personality and individual identity, protected by Article 8 of the Convention,
and that the Government has failed to demonstrate the existence of a pressing
social need to justify an absolute prohibition on him growing a beard while he
was in prison. There has accordingly been a violation of Article 8 of the
Convention».
[24] Vinter and Others v. the United Kingdom 9 July 2013 (Applications nos. 66069/09, 130/10 and
3896/10 – Grand Chamber).
[25] Murray v. the Netherlands 26 April 2016 (Application no. 10511/10 – Grand Chamber).
[26] Kafkaris v. Cyprus 12 February 2008 (Application no. 21906/04 – Grand Chamber).
[27] Vinter and Others: §§ «120. However, the Court would emphasise
that, having regard to the margin of appreciation which must be accorded to
Contracting States in the matters of criminal justice and sentencing … it is
not its task to prescribe the form (executive or judicial) which that review
should take. For the same reason, it is not for the Court to determine when
that review should take place …».
«121. It follows from this conclusion that,
where domestic law does not provide for the possibility of such a review, a
whole life sentence will not measure up to the standards of Article 3 of the
Convention».
«122. … Furthermore, in cases where the
sentence, on imposition, is irreducible under domestic law, it would be
capricious to expect the prisoner to work towards his own rehabilitation
without knowing whether, at an unspecified, future date, a mechanism might be
introduced which would allow him, on the basis of that rehabilitation, to be
considered for release. A whole life prisoner is entitled to know, at the
outset of his sentence, what he must do to be considered for release and under
what conditions, including when a review of his sentence will take place or may
be sought. Consequently, where domestic law does not provide any mechanism or
possibility for review of a whole life sentence, the incompatibility with
Article 3 on this ground already arises at the moment of the imposition of the
whole life sentence and not at a later stage of incarceration».
[28] Murray: «125. Having regard to the foregoing, the
Court finds that the lack of any kind of treatment or even of any assessment of
treatment needs and possibilities meant that, at the time the applicant lodged
his application with the Court, any request by him for a pardon was in practice
incapable of leading to the conclusion that he had made such significant
progress towards rehabilitation that his continued detention would no longer
serve any penological purpose. This finding likewise applies to the first, and
in fact only, periodic review that was carried out of the applicant’s life
sentence. This leads the Court to the conclusion that the applicant’s life
sentence was not de facto reducible as required by Article 3».
[29] Orchowski v. Poland 22 October 2009 (Application no. 17885/04 – Chamber, Fourth Section).
[30] «153. The Court is aware of the fact that solving the systemic problem
of overcrowding in Poland may necessitate the mobilisation of significant
financial resources. However, it must be observed that lack of resources cannot
in principle justify prison conditions which are so poor as to reach the
threshold of treatment contrary to Article 3 of the Convention (v., fra le
altre, Nazarenko v. Ukraine, no. 39483/98, § 144, 29 April 2003)
and that it is incumbent on the respondent Government to organise its
penitentiary system in such a way that ensures respect for the dignity of
detainees, regardless of financial or logistical difficulties (v. Mamedova
v. Russia, no. 7064/05, § 63, 1 June 2006). If the State is unable to
ensure that prison conditions comply with the requirements of Article 3 of the
Convention, it must abandon its strict penal policy in order to reduce the
number of incarcerated persons or put in place a system of alternative means of
punishment».
[31] Broniowski v. Poland 22 June 2004 (Application no. 31443/96 – Grand Chamber).
[33] Torreggiani and Others v. Italy 8 January 2013 (Application nos. 43517/09, 46882/09,
55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 and 37818/10 – Chamber, Second Section).
[34] Gennaro Stella and ten other applications v. Italy 16 September 2014 –
Committee Decision, Second Section;
Rondon Rexhepi and seven other
applications v. Italy 16 September 2014 – Committee Decision, Second Section.
[36] «A convicted
prisoner’s deprivation of liberty does not mean that he loses protection of the
other fundamental rights in the Convention. The enjoyment of these must,
however, inevitably be tempered by the exigencies of his situation and the
requirements of security will weigh in any balancing exercise of justification.
Where ill-treatment is concerned, Contracting States are under an obligation
not only to refrain from inflicting treatment contrary to Art. 3 but to take
the steps necessary to protect the safety and health of prisoners under their
responsibility».
«A large proportion of
the cases before the Commission and the Court have been introduced by
prisoners, who are perhaps in a particularly vulnerable position, almost, if
not all, aspects of their lives being subject to regulation by authority. The
potential for interference and restriction in fundamental rights and freedoms
is considerable and reflected by the wide number of issues raised in prisoner
cases». K. Reid, A
Practitioner’s Guide to the European Convention on Human Rights, 4ª ed., London 2012, 630.