Memorie-2017

 

 

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DA ROMA ALLA TERZA ROMA

XXXVII SEMINARIO INTERNAZIONALE DI STUDI STORICI

 

Campidoglio, 21-22 aprile 2017

 

Ortayliİlber Ortayli

Università di Galatasaray

Istanbul

 

GLI EFFETTI DEL COSMOPOLITISMO ROMANO SULL’IMPERO OTTOMANO:

L’AMMINISTRAZIONE DELLE CITTÀ. MUSULMANI E NON MUSULMANI

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Nella geografia del primo grande impero mediterraneo del mondo, l’amministrazione romana delle città continua a sorprendere ed affascinare, ancor oggi, non solo i non specialisti, ma anche i romanisti di tutto il mondo, a ragione della sua ricchezza etnica. Essere la città che domina la vita economica dei continenti, la città in cui si concentra l’arte e l’amministrazione nel mondo mediterraneo, non è qualità propria di Roma. Nel periodo in cui Roma entrava nella scena della storia, le città del mondo mediterraneo esistevano già da duemila anni e continuavano a dare esempi brillanti. La particolarità di Roma è data dalla sua abilità di creare un mondo cosmopolita nel vero senso della parola. Tale cosmopolitismo non consisteva solo nelle differenze religiose e non era esclusivo della classe nobile della città, ossia dei patrizi o del clero. Forse, si può parlare di un cosmopolitismo parziale, che cominciò a farsi vedere durante il periodo ellenistico in varie zone, come Alessandria d’Egitto, Efeso, Pergamo, Edessa ma a Roma, questo venne istituzionalizzato. A parte i patrizi, i plebei che diventarono ricchi (e, tra i plebei, quelli che combinavano le loro culture con quella romana, come Plutarco o San Paolo), non erano, infatti, i caratteri che si potevano vedere prima del mondo romano. Questo cosmopolitismo oltrepassò le epoche. Passa dalla religione politeista di Roma alle religioni monoteiste. La struttura imperiale romana passa alle monarchie medievali e conseguentemente, nell’era delle nazioni, alle monarchie moderne e alle repubbliche del XIX secolo. Ciò è vero: anche nei periodi in cui veniva riconosciuta la dominazione di una sola religione, lo spirito romano riconosceva i diritti ai praticanti delle altre religioni. Nel XV secolo, l’Impero ottomano, subendo una trasformazione cosmopolita di questo genere, si presentò come un impero musulmano nel mondo mediterraneo. Nel XIX secolo questo cosmopolitismo si istituzionalizzò nell’amministrazione della città. L’istituzionalizzazione si realizzò seguendo di più le impronte del diritto romano che la tradizione e i fondamenti della consuetudine imperiale. Poiché il XIX secolo è il periodo di romanizzazione dell’Impero ottomano. Si deve dire chiaramente cosa intendiamo dire qui con la parola “romanizzazione”. Prima di tutto si tratta della codificazione. Poi il progresso relativo all’uguaglianza tra diverse religioni nell’ambito dell’applicazione del diritto. Prima del “Gülhane Hatt-ı Şerifi” o “Tanzimat Fermanı del 1839” la rappresentazione musulmana e non musulmana nelle province, basata sulla consuetudine imperiale e sugli editti (ferman) del Sultano, aiutava l’amministrazione, ma da allora in poi questo impiego diventò l’oggetto della codificazione e dell’istituzione. Il cosmopolitismo della Roma eterna si dimostra nelle città, nei villaggi e infine, come vedremo poi, nella costituzione ottomana del 1876 e nel primo parlamento ottomano riunito 140 anni fa, nel marzo del 1877 [1].

Nel periodo classico (secoli XIII-XVIII), nelle città dell’Anatolia e dell’Iran del periodo dei Selgiuchidi e poi nell’amministrazione delle città in Iran durante il periodo della dinastia dei Safavidi e nell’Asia minore durante il periodo dell’Impero Ottomano, si vede una struttura amministrativa centralista, così come era nell’antica Bisanzio, nell’impero dei Sassanidi e nel mondo musulmano sotto la dinastia dei Abbàsidi. Gli imperi dovevano sovraintendere alla produzione e alla sicurezza delle strutture agricole. La produzione delle zone rurali veniva controllata dalle città e in questi controlli aveva un ruolo di primaria importanza la conoscenza dello “Stato” della vita delle città: a) la quantità di produzione; b) il numero dei lavoratori da impiegare; c) la qualità della merce prodotta. Ciò comportava anche il controllo delle materie prime in entrata e la determinazione del prezzo del prodotto in uscita che venivano attuati da parte dello Stato e dalle unioni degli artigiani (collegium) o dai hirfet o dalle piccole tesorerie locali. Possiamo dire senza dubbio che ad ogni mestiere corrispondeva un hirfet (gilda, Zunftwesen). Le gilde erano  corporazioni di arti e mestieri, generalmente dominate da gruppi etnici e religiosi. Ciò, ad esempio, si vede con chiarezza nella grande opera del XVI secolo, la moschea di Solimano (Süleymaniye Camii), costruita dall’architetto Sinan in onore di Solimano il Magnifico. I carpentieri, gli scalpellini, i fabbri ed altri artigiani appartenevano a diversi gruppi etnici. I musulmani turchi facevano le vetrate. Gli scheletri scoperti nel porto Teodosiano di Istanbul (risalente al V secolo), nel quartiere di Yenikapı ci forniscono dei dati interessanti. In effetti, la maggior parte di questi scheletri, aventi un’età media di trentacinque anni, sembrano aver subito fratture e distorsioni[2]. I medici che si occupavano di ortopedia erano ingegnosi e capaci. Questi medici erano probabilmente membri o impiegati stipendiati dal collegium dei poveri artigiani del porto. Quindi, in questo porto, le persone che si guadagnavano da vivere con il facchinaggio o facendo lavori simili, pesanti e faticosi, dovevano avere una relazione molto stretta con i medici. Pur non essendo previsto dalle leggi della città, far parte di un mestiere non era casuale e non si poteva peraltro parlare di una mobilità sufficiente. Si tratta della trasmissione di un retaggio. Nell’impero ottomano l’apprendista, per diventare maestro, doveva affrontare e superare un esame dinanzi al collegium. Questo esame, contenente tracce della trazione medievale, assomigliava all’esame fatto nelle università per diventare docente. Nelle città medievali del Mediterraneo orientale non esistevano le elezioni. Questa è la tradizione dell’Impero romano pagano e delle città europee che hanno recepito questo diritto. Il qadi, magistrato della città, nell’Impero ottomano faceva pure i lavori del sindacato. Si tratta di una procedura interessante. Il qadi era un ufficiale nominato che rappresentava il padiscià, cioè il califfo: era il magistrato dinanzi al popolo, rappresentava lo Stato. Il qadi era responsabile dei lavori municipali. Per questo motivo, poteva anche rappresentare il popolo di fronte allo Stato. Quando, ad esempio, si doveva richiedere il permesso per l’apertura di un bazaar oppure per la trasformazione di una moschea piccola in una moschea adatta alla preghiera di Cuma. Il qadi, essendo l’esperto della Sharia, controllava anche le fondazioni al fine della prevenzione della corruzione. Ma, nello stesso tempo, contestava la confisca di redditi delle fondazioni da parte dello Stato nel nome della Sharia o dei millet. Quando l’impero dei turchi entrò nella prima guerra mondiale, il governo confiscò i redditi delle fondazioni in nome dell’esercito[3].Ma tale tentativo venne contestato da parte di Sheikh ul-Islam, il quale, con una manifestazione, chiese le dimissioni del governo.

La soluzione di alcuni problemi finanziari, come l’imposta che gravava sui non musulmani, veniva lasciata ai loro Consigli. Questi Consigli venivano chiamati “Demosgerentos”. Ad esempio, nel 1573 venne conquistata l’isola di Cipro e i poteri del “Consiglio locale” dei greco-ciprioti (Demosgerentos), diminuiti sotto la dominazione della Repubblica di Venezia, vennero ampliati[4]. Le questioni relative al diritto delle persone e della famiglia spettavano ai patriarchi e ai rabbini capi. È il caso dell’autonomia giuridica. Peraltro, a volte, alcuni armeni appartenenti alla communitas armena andavano dinanzi ad un qadi musulmano per le azioni di divisione dell’eredità, dato che la divisione dell’eredità dei musulmani era molto vicina a quella degli armeni ortodossi per consuetudine e mentalità. Le competenze appartenenti ai magistrati, ai capi militari e ai responsabili della finanza erano separati, così come accadeva anche nella Roma classica. Ricordiamo l’eparhia, lo stratega e il logoteta di Bisanzio. La distinzione tra questi dirigenti esisteva anche nell’Impero ottomano. La direzione delle scuole, la censura dei libri, la raccolta delle imposte, dette cizye (capitatio), erano affidati ai patriarcati. La forza di polizia ottomana era responsabile dall’applicazione delle pene stabilite dai patriarcati. Ricordiamo l’evento più tipico della storia dell’Impero romano, ossia il rispetto di Ponzio Pilato per la decisione e l’ordine di esecuzione del Sinedrio. Nel XIX secolo, all’interno delle communitas non musulmane, autonome dai patriarcati, vennero fondati dei consigli popolari. Ad esempio, il consiglio popolare armeno, il consiglio popolare greco. Nell’ambito di laicizzazione del XIX secolo, questi consigli, insieme al conseil laïque degli ebrei, condividevano l’autonomia della communitas dalle autorità spirituali.

Nel XIX secolo, il più importante sviluppo per l’amministrazione delle città fu peraltro la romanizzazione giuridica. Il primo passo fu l’adozione del Codice penale francese del 1810, nel 1840, 1851 e 1858. L’adozione del Codice di procedura penale francese del 1808 venne realizzato solo più tardi, nel 1879 [5]. Ciò è stato molto importante, in quanto la struttura del diritto penale islamico non permetteva l’interpretazione o l’applicazione del diritto pretorio, ma con l’emanazione di questo codice, per una prima volta, quel diritto entrò in vigore. Il passo seguente fu la romanizzazione giuridica nel campo del diritto commerciale e nel diritto commerciale marittimo. Col tempo, nell’ anno 1870, si passò dal sistema islamico di giurisdizione monocratica ai tribunali collegiali in cui erano presenti anche gli avvocati e i procuratori. Nel campo del diritto amministrativo, della formazione delle amministrazioni municipali delle città, della formazione dei consigli, si passò al sistema francese e, quindi, a quello romanista. Per questo motivo, da allora in poi, nell’amministrazione delle città si evidenziava il ruolo non del qadi (magistrato della Sharia), ma dei sindaci e dei membri eletti di diverse religioni. In occasione delle elezioni, l’eleggibilità non era fondata sul possesso della cittadinanza ma sul pagamento delle tasse o il possesso di beni immobili etc. La religione non aveva importanza. In questo modo, nelle democrazie locali, si entrava con chiarezza nella via della romanizzazione. Si tratta di uno sviluppo rilevante per il XIX secolo, nel periodo del nazionalismo.

Nei consigli locali, nei consigli delle città e in quelli delle province, a parte i dirigenti dello Stato che rappresentavano il centro, la metà dei rappresentanti del popolo erano non musulmani. Nel XIX secolo, anche tra i dirigenti dello Stato si vedeva questa composizione mista. Nel consiglio libanese i membri di tutte le religioni venivano individuati sulla base di un regolamento e il sindaco era sempre cristiano. Fino alla caduta dell’impero c’era un membro armeno greco, poi un membro fanarioto greco e un membro greco-cattolico. Una situazione simile esisteva anche a Creta, in Rumelia, a Samo (il principato di Samo). Questo cosmopolitismo continuò sulla base di un regolamento.

Infatti la prima assemblea generale dell’Impero ottomano era formata da due camere: senato (meclis-i ayan) e camera dei deputati (meclis-i mebusan). E un terzo dei membri del senato era composto da non musulmani. Si pensi ad esempio a Pascia Marko o il logoteta del patriarcato. La stessa situazione esisteva anche nella camera dei deputati. Un terzo dei membri della camera dei deputati non erano musulmani e tra i membri c’erano delle persone di etnia diversa come arabi, bosniaci, curdi. Quindi, i turchi rappresentavano più della metà dei membri. Questa situazione si rifletteva anche sul governo. Nel XIX secolo, non esisteva alcun altro impero nel mondo che aveva un parlamento e un governo così diversificati. Le cerimonie imperiali avevano una teatralità vivace con la presenza dei vari rappresentanti.

E’ certo che la caduta dell’Impero, realizzatasi alla fine della prima guerra mondiale, ha fatto prevalere il termine “turco” e questo nome è diventato il nome dello stato. Ma le istituzioni di diritto romano hanno continuato a vivere e si sono sviluppate sempre di più. Nel 1926 venne recepito il Codice civile svizzero come ultimo passo della romanizzazione giuridica. Possiamo dire che, in questo modo, la nuova Turchia, erede dell’impero, ha completato il processo di romanizzazione.

 

 



 

[Un evento culturale, in quanto ampiamente pubblicizzato in precedenza, rende impossibile qualsiasi valutazione veramente anonima dei contributi ivi presentati. Per questa ragione, gli scritti di questa parte della sezione “Memorie” sono stati valutati “in chiaro” dal Comitato promotore del XXXVII Seminario internazionale di studi storici “Da Roma alla Terza Roma” (organizzato dall’Unità di ricerca ‘Giorgio La Pira’ del CNR e dall’Istituto di Storia Russa dell’Accademia delle Scienze di Russia, con la collaborazione della ‘Sapienza’ Università di Roma, sul tema: LE CITTÀ DELL’IMPERO DA ROMA A COSTANTINOPOLI A MOSCA) e dalla direzione di Diritto @ Storia]

 

[1] İlber Ortaylı, From the Ottoman Experiment in Local Government to the first Constitutional Parliament of 1876-77, in The Turkish Yearbook of International Relations, XXI, 17 ss.

 

[2] C. Pulak, R. Ingram, and M. Jones, Eight Shipwrecks from the Theodosian Harbor Excavations at Yenikapı in Istanbul, in International Journal of Nautical Archaeology, 44.1, 39 ss. C. Pulak, R. Ingram, and M. Jones, The Shipwrecks at Yenikapı: Recent Research in Byzantine Shipbuilding, in Maritime Studies in the Wake of the Byzantine Shipwreck at Yassıada, Turkey, edited by D.N. Carlson, J. Leidwanger, and S.M. Kampbell. College Station: Texas A&M University Press, 102 ss.

 

[3] İlber Ortaylı, Some Observations on the Institution of Qadi in the Ottoman Empire, in Bulgarian Historical Review, Sophia 1982/1, 57 ss.

 

[4] A. H. de Groot, Ķubrus, EI² (İng.), V, 301 s.

 

[5] İlber Ortaylı, Laïcité et romanisation du droit dans l’État ottoman et la République turqui, in Aa. Vv. Être en société. Le lien social à l’épreuve des cultures, a cura di A. Petitat, Québec 2010, 233 ss.