Contributo-2018

 

 

FullSizeRenderLA CITTADINANZA SOCIALE EUROPEA: UN PERCORSO INCOMPIUTO *

 

Maria cristina Carta

Assegnista di ricerca di Diritto dell’Unione Europea

nell’Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. La genesi del mercato unico e del diritto alla libera circolazione. – 3. Dalla cittadinanza mercantile al diritto alla mobilità nell’ordinamento dell’Unione europea. – 4. Le originarie contraddizioni: il dichiarato “carattere derivato” vs gli “effetti diretti” della cittadinanza europea. – 5. Segue: Il tentativo di “denazionalizzazione” della cittadinanza sociale europea. – 6. Le criticità della Direttiva 2004/38/CE ed il Caso Dano del 2014. – 7. La discriminazione tra cittadini europei “statici” e “dinamici”. – 8. Le implicazioni della Brexit per il sistema di sicurezza sociale europeo. – 9. Considerazioni conclusive. – Abstract.

 

 

1. – Premessa

 

Il presente contributo si propone di compiere una riflessione sulle trasformazioni in atto nel processo di integrazione europea ed in particolare in quelle insite nell’istituto della cittadinanza europea[1], fortemente messo in discussione da eventi derivanti dalle recenti derive politiche antieuropeiste.

Al riguardo deve osservarsi come l’instabilità dell’originario disegno istituzionale eurounitario non sia emersa quando tutti gli sforzi delle Istituzioni europee erano indirizzati a diffondere la consapevolezza dell’importanza di una “cittadinanza comune” e dei vantaggi da essa derivanti tra cui, in primis, il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio dell’Unione europea. Le criticità di tale istituto, infatti, sono risultate evidenti solo quando esso, abbandonando l’idea di una cittadinanza meramente “mercantile”[2] (market citizenship), è stato posto al centro del dibattito politico ed in particolare quando, per la prima volta, i governi di alcuni Stati membri hanno (maldestramente) tentato di “correre ai ripari” dinanzi alla percezione di una perdita di controllo[3] di fronte alle potenzialità espresse dai diritti derivanti dalla cittadinanza europea[4]. Tale momento non casualmente è coinciso con i consistenti flussi intra-europei connessi al clima di diffuso disagio economico[5] che nei primi anni del XXI secolo ha coinvolto buona parte degli Stati membri UE e pienamente legittimati dalla nuova matrice politica e sociale della cittadinanza UE[6].

L’indagine che si intende condurre analizzerà le “fragilità” del processo di integrazione europea come originariamente immaginato ed i nuovi limiti della cittadinanza europea[7], a distanza di poco più di 25 anni dalla sua istituzione. Partendo da una necessaria premessa sull’instaurazione del mercato unico e sulla libertà di circolazione all’interno dello spazio giuridico europeo[8], particolare focus è riservato alle ragioni insite nel concreto rischio di una forte delegittimazione giuridica e politica della cittadinanza europea, derivante sia dalla messa in discussione della libertà di movimento da essa scaturente, sia dalla deriva “nazionalista” della c.d. cittadinanza sociale europea, oggi caratterizzata da un’evidente quanto ingiustificata discriminazione tra cittadini “dinamici” (c.d. movers) e cittadini “statici”[9].

La parte conclusiva del lavoro, senza alcuna pretesa di completezza in ragione del fatto che ci si muove in una «terra incognita»[10] non esistendo precedenti riguardo al recesso di uno Stato membro dall’Unione ed essendo i negoziati ancora in corso, è dedicata ad alcune riflessioni relative alle implicazioni della Brexit sul sistema di sicurezza sociale europeo.

 

 

2. – La genesi del mercato unico e del diritto alla libera circolazione

 

Prima di esaminare gli aspetti più prettamente giuridici connessi alla cittadinanza europea, si ritiene opportuno richiamare, seppur sinteticamente, le principali tappe del processo evolutivo dell’istituto, indispensabili per la comprensione dei meccanismi che rilevano nella materia in esame.

La Comunità europea nasceva originariamente al fine di istituire un “mercato comune” atto a realizzare gradualmente un’unione economica e monetaria tra gli Stati membri[11]. Nell’ambito della politica di promozione del processo di espansione continua ed equilibrata, il perseguimento di questo obiettivo rendeva necessaria, per un verso, l’eliminazione delle disparità regionali e settoriali e delle restrizioni agli scambi internazionali e, per altro verso, la piena attuazione delle quattro libertà fondamentali di circolazione delle persone, delle merci, dei servizi[12] e dei capitali[13].

In tale contesto, la crescente domanda di mobilità di merci e di persone unitamente alla necessità degli Stati di operare all’interno di una base comune fondata sulla condivisione degli obiettivi e dei mezzi per perseguirli, aveva portato ad un ripensamento dell’intervento pubblico nell’economia[14]. Quest’ultimo, infatti, non poteva più «spiegarsi unicamente all’interno dei confini territoriali nazionali, ma era piuttosto chiamato ad operare in un mercato ed in una politica realmente comunitaria»[15], che premeva per l’affermazione del mercato unico[16] e delle sue nuove regole concorrenziali in uno spazio territoriale decisamente più vasto[17], ormai di livello sostanzialmente continentale.

Ed invero, l’abbattimento delle frontiere interne della Comunità europea, conseguente alla creazione del mercato interno aveva comportato quale effetto indiretto un mutamento del ruolo dei singoli Stati membri, delle istituzioni e degli operatori economici all’interno della Comunità e ciò sia nei rapporti reciproci fra Stati, sia anche e soprattutto nei confronti dei cittadini. In un simile contesto, dunque, ad ogni Stato membro era richiesto di cooperare attivamente con gli altri Stati membri al fine di predisporre regole ed obiettivi comuni per l’affermazione di una reale Unione europea.

 

 

3. – Dalla cittadinanza mercantile al diritto alla mobilità nell’ordinamento dell’Unione europea

 

L’interesse nei confronti della mobilità costituisce oggi un obiettivo di particolare rilevanza per l’ordinamento dell’Unione europea[18] nel cui ambito il diritto di circolazione trova la propria base giuridica in una pluralità di disposizioni contenute sia nei trattati sia in atti di diritto derivato.

Già l’art. 18, primo comma, del TCE (oggi art. 21 TFUE) riconosceva ad ogni cittadino di quella che oggi è l’Unione europea, il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri[19]; tale norma rappresenta indiscutibilmente l’evoluzione della libertà di circolazione che i Trattati di Roma riconoscevano solo ai soggetti economicamente attivi ed ai loro familiari (c.d. cittadinanza mercantile)[20].

In questa prima fase del processo d’integrazione europea, infatti, la libertà di movimento veniva subordinata alla garanzia della sicurezza sociale, ovvero alla parità di trattamento di fatto e di diritto dei lavoratori comunitari[21]. Al contempo l’ex art. 14 TCE (oggi art. 26 TFUE) sanciva, nel contesto del mercato interno, la libera circolazione di merci, persone, servizi e capitali.

Il diritto alla mobilità trova il proprio fondamento nel diritto costituzionale europeo[22] ed è strettamente connesso alla cittadinanza europea che, come ormai da tempo affermato dalla Corte di Giustizia, rappresenta «lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri»[23] e trae la sua concreta operatività dall’applicazione congiunta del diritto di libera circolazione e del principio di non discriminazione[24].

Tale diritto è riconosciuto in primis dall’esplicito riferimento operato dall’art. 3, § 2, TUE[25] del diritto di ogni cittadino dell’Unione a circolare ed a soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri[26]. Il concetto di mobilità, infatti, sintetizza una serie di situazioni giuridiche descritte dall’ordinamento comunitario in virtù di basi giuridiche differenti operando in tale ambito come principio guida in funzione interpretativa od integrativa della disciplina comunitaria[27].

Il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea menziona la mobilità in quattro articoli[28]: l’art. 162 (ex articolo 146 del TCE) sul fondo sociale europeo, avente l’obiettivo di «promuovere all’interno dell’Unione le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori»[29]; l’art. 165 § 2 in materia di istruzione, secondo cui «l’azione dell’Unione è intesa a favorire la mobilità degli studenti e degli insegnanti, promuovendo tra l’altro il riconoscimento accademico dei diplomi e dei periodi di studio»; l’art. 166 § 2 in tema di formazione professionale, in forza del quale «l’azione dell’Unione è intesa a facilitare l’accesso alla formazione professionale ed a favorire la mobilità degli istruttori e delle persone in formazione, in particolare dei giovani»; e l’art. 180 lett. d) che, in materia di ricerca, afferma che tra le azioni svolte dall’Unione, ad integrazione di quelle intraprese dagli Stati membri, vi è anche quella di «impulso alla formazione e alla mobilità dei ricercatori dell’Unione».

Alle citate disposizioni di rango primario, si affiancano quelle contenute in fonti di diritto derivato in materia di mobilità sanitaria, degli studenti, dei lavoratori, dei soggetti inattivi e dei pensionati[30].

Anche la Corte di Giustizia UE, ispirandosi alle costituzioni nazionali, ai Trattati internazionali ed in particolare alla Convenzione europea dei diritti dell’Uomo[31], già a partire dalla nota sentenza Stauder[32] ha svolto con le sue pronunce un ruolo chiave nell’ambito della tutela dei diritti fondamentali, estendendo progressivamente la categoria dei beneficiari del diritto alla libera circolazione.

Nel 2000, anche la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea[33] ha sancito, nel Titolo V e nell’ambito dei valori inerenti alla cittadinanza europea, la libertà di circolazione, stabilendo all’art. 45 § 1 che «ogni cittadino dell’Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri». Tale disposizione, con formulazione analoga all’art. 21 TUE, pur non soffermandosi sui limiti di tale libertà e sui poteri conferiti al Consiglio per agevolare l’esercizio di tale diritto e non entrando nel merito del riparto di attribuzioni tra Unione e Stati membri, riconosce pienamente la libertà di circolazione e soggiorno[34].

Stessa considerazione vale per l’art. 36 della Carta che, al fine di promuovere la coesione sociale e territoriale dell’Unione[35], consente l’accesso ai servizi di interesse economico generale[36] nel rispetto di quanto previsto dalle legislazioni degli Stati membri nonché dall’art. 14 TFUE (ex art. 16 TCE), in considerazione dell’importanza da essi rivestita «nell’ambito dei valori comuni dell’Unione»[37]. La ratio dell’art. 36 della Carta è di mettere in relazione la dimensione sociale comunitaria, come uguale soddisfacimento dei diritti economici e sociali, con le regole della concorrenza[38] e del libero mercato[39].

 

 

4. – Le originarie contraddizioni: il dichiarato “carattere derivato” vs gli “effetti diretti” della cittadinanza europea

 

Come sopra evidenziato[40], con il Trattato di Maastricht del 1992 [41], l’Unione europea ha introdotto per tutti i cittadini degli Stati membri lo status di cittadino europeo, che si aggiunge, arricchendolo, a quello nazionale[42]. Ciò significa sostanzialmente che, trattandosi di una cittadinanza non autonoma bensì derivata (o ancillare)[43], si è cittadini europei in quanto (e non oltre che) cittadini di uno Stato membro.

Un primo limite strutturale[44] dell’istituto in esame si riscontra proprio nel fatto che, sin dalle sue origini, la cittadinanza europea – pur non possedendo il carattere dell’autonomia rispetto agli ordinamenti degli Stati membri da cui deriva[45] – ha dimostrato la propria capacità di imporre modifiche alle legislazioni nazionali. Il potere di controllo sugli effetti dell’automatica estensione della cittadinanza da parte dei governi degli Stati membri, infatti, è in più occasioni venuto meno[46]. Ed invero, dal riconoscimento della titolarità dello status di cittadino europeo sono sovente derivate conseguenze di carattere politico, sociale ed economico dinanzi alle quali la discrezionalità statale, in virtù delle disposizioni di diritto primario e di diritto derivato[47] dell’Unione europea, ha subito delle forti limitazioni soprattutto in materia di libera circolazione e soggiorno dei cittadini europei, che hanno visto fortemente ampliato il proprio spazio d’azione.

Nonostante il dichiarato e rassicurante “carattere derivato” della cittadinanza europea, volta ad attribuire ai cittadini degli Stati membri diritti e tutele complementari che «non si sostituivano in alcun modo alla cittadinanza del singolo Stato»[48], si è sovente contrapposta la capacità della stessa di compiere atti definiti dalla dottrina di “autonomizzazione[49] rispetto agli ordinamenti nazionali da cui formalmente dipende.

L’errore di fondo fu sostanzialmente quello di credere che le nuove disposizioni in materia di cittadinanza europea fossero meramente dichiarative, volte unicamente a cristallizzare e specificare un insieme di diritti preesistenti al Trattato di Maastricht[50] ed in quanto tali incapaci di limitare la sovranità degli Stati membri. Come osservato in dottrina, l’idea del carattere meramente simbolico del nuovo istituto «fece sottovalutare il possibile impatto che le relative disposizioni avrebbero potuto avere sul lungo periodo»[51].

In realtà, è ben presto emerso come le disposizioni dei Trattati, ed in particolare quelle relative alla cittadinanza europea (art. 9 TUE e artt. 20-24 TFUE), non rivestissero un valore solo simbolico ed anzi, poiché dotate di effetto diretto, fossero capaci di ampliare rationae materiae o ratione personae l’ambito di applicazione del diritto comunitario (oggi dell’Unione).

L’affermazione della cittadinanza europea e dei diritti da essa derivanti ha, dunque, portato in progresso di tempo all’instaurazione di un legame (inscindibile?) tra Unione e cittadini degli Stati membri caratterizzato da doveri e diritti loro riconosciti[52].

In tale contesto, la scelta della Corte di Giustizia di ampliare la portata dei diritti di libertà ha attribuito all’Unione una nuova identità. Le norme europee sono divenute condizione di applicabilità dei diritti di cittadinanza che, in quanto espressione della rappresentanza internazionale, possono essere fatti valere dal cittadino di uno Stato membro che si trovi in uno Stato diverso da quello di appartenenza o dal cittadino che vanti una situazione giuridica nei confronti delle istituzioni europee[53].

In ragione di quanto sopra evidenziato, può affermarsi che dall’attribuzione della cittadinanza europea è scaturita una forte valorizzazione della libertà di circolazione delle persone in tutto il territorio UE non più riconosciuta ai soli soggetti economicamente attivi ed ai loro familiari[54] ma estesa erga omnes, in quanto avente natura preminentemente politica.

Al contempo, l’attribuzione di tale cittadinanza ancillare, anche grazie alla valorizzazione del criterio della residenza[55] ha comportato il consolidamento del divieto di discriminazione sulla base della nazionalità quale principio ispiratore delle politiche dell’Unione e di quelle interne[56].

 

 

5. – Segue: Il tentativo di “denazionalizzazione” della cittadinanza sociale europea

 

Come sopra evidenziato[57], l’allora Comunità europea (oggi Unione), acconsentendo ad una “contaminazione” ad opera dei valori e dei principi costituzionali degli Stati membri[58] e recependo i principi di diritto sanciti dalla Corte di Lussemburgo, ha esteso quella che inizialmente era la libertà economica esclusiva dei lavoratori[59] (c.d. cittadinanza mercantile) a tutti i cittadini europei[60].

La cittadinanza europea nel momento in cui, al fine di offrire una migliore tutela[61] ai diritti ed agli interessi dei cittadini degli Stati membri (ex art. 2, a linea 3 TUE), è stata integrata dal diritto di libera circolazione e soggiorno[62], ha acquisito la veste di istituto cardine chiamato a regolare la mobilità delle persone ed a delineare i diritti dei soggetti in movimento[63].

L’attuale impegno dell’Unione per realizzare la mobilità si inserisce nel più ampio disegno di costruzione del «modello sociale europeo» che inizialmente si limitava ad attribuire un riconoscimento sociale comunitario unicamente ai lavoratori migranti, estendendosi in seguito ad un numero sempre più ampio di destinatari[64]. Dopo l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht, infatti, in più occasioni la Corte di Giustizia ha ribadito il principio secondo cui «la libertà di circolazione, e con essa una serie di tutele sociali, spetta anche ai cittadini non attivi»[65]; con ciò volendo sottolineare la ratio della nuova cittadinanza europea che non avrebbe più dovuto soccombere dinanzi a “mere logiche di bilancio”[66], certamente degne di tutela ma non tali da prevalere sui diritti del cittadino[67].

La qualità “mercantile” della cittadinanza così come delineata nei trattati istitutivi del 1957, dunque, non ha impedito un’importante evoluzione dell’istituto in chiave sociale. In più pronunce i giudici di Lussemburgo hanno a tal proposito sottolineato la necessità di un minimo di «solidarietà finanziaria transnazionale tra gli Stati membri»[68].

Da tale affermazione discende un corollario le cui implicazioni non sono di quelle che possono essere ignorate o sottostimate quando si intenda valutare compiutamente, da un punto di vista giuridico, l’evoluzione ed i possibili futuri scenari dell’istituto in esame: la cittadinanza europea ha esplicato i suoi effetti unicamente grazie allo spostamento dei cittadini dal proprio Stato di provenienza nello spazio comune. Ciò a voler significare che sono proprio le libertà di movimento e di soggiorno, unitamente al diritto alla parità di trattamento, ovvero alla non discriminazione sulla base della nazionalità[69], ad aver contribuito ad evidenziare lo stretto legame intercorrente tra il godimento della libertà di circolazione e la concreta fruizione dei diritti ad essa connessi.

Sussiste, dunque, un’evidente contraddizione tra il proclamato carattere di “non autonomia” della cittadinanza UE e gli effetti diretti “indesiderati” derivanti dallo status di cittadino europeo che si riverberano negli Stati diversi da quello di provenienza e si concretano in una sostanziale parificazione del cittadino europeo ai nativi nel godimento dei diritti sociali[70], economici e civili[71].

Di qui il timore di alcuni Stati membri dell’UE di perdere le proprie prerogative sovrane a causa di un preteso “indesiderati” da parte dei cittadini europei dinamici (o mobili) a discapito dei diritti e degli interessi dei nativi.

In questo particolare momento storico-politico dell’UE, dunque, ad invertire la rotta del processo di “autonomizzazione” dalle cittadinanze nazionali è la “frattura” del legame tra il principio di solidarietà fra Stati membri ed il principio di non discriminazione[72].

 

 

6. – Le criticità della Direttiva 2004/38/CE ed il Caso Dano del 2014

 

Il processo di separazione della cittadinanza sociale dal contesto meramente nazionale[73], avviatosi con successo alla fine degli anni 60, ha subìto una netta battuta d’arresto nel momento in cui è stato messo in discussione proprio il carattere sociale dell’istituto, con conseguente rischio di un revirement alla cittadinanza mercantile. Al riguardo, in dottrina è stato osservato che «al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale non ha fatto seguito la creazione di un Welfare sovranazionale»[74], lasciando che la tenuta dei sistemi nazionali di previdenza sociale costituisse «il limite invalicabile alla liberalizzazione integrale della circolazione e del soggiorno per tutti i cittadini UE»[75].

Non è un caso se già nel 2004, a fronte del manifestato timore degli Stati membri di perdere i poteri di controllo sui meccanismi di accesso transfrontaliero ed al fine di sedare l’eccessivo attivismo della Corte di Giustizia nel voler creare una sorta di Welfare europeo di matrice pretoria, le Istituzioni legislative comunitarie abbiano emanato la Direttiva 2004/38/CE[76] relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri.

In essa, tuttavia, è stata introdotta la troppo “generica” nozione di “onere irragionevole”[77], che ben si presta a rappresentare lo strumento chiave per legittimare il “diritto di prelazione” dei cittadini “nazionali” nel fruire delle prestazioni sociali. Ed invero, a causa del deficit di definizione di alcune nozioni in essa previste, è stato per anni consentito agli Stati membri di abusare del margine di interpretazione[78] nel delineare concetti quali quello di “onere eccessivo” e di “risorse sufficienti”. È di facile intuizione comprendere che l’assenza di un’uniformità di definizioni a livello europeo, ha favorito il proliferare di una molteplicità di differenti definizioni nazionali a discapito della corretta e certa applicazione del diritto europeo, con l’evidente rischio per i cittadini europei di ricevere trattamenti diversi a seconda dello Stato membro in cui si trovino ad emigrare.

Non si tratta di disquisizioni meramente teoriche, quanto piuttosto di lacune normative che hanno consentito che dal 2013 in Stati come il Belgio[79], la Germania e la Francia siano esponenzialmente aumentate le espulsioni[80] dei cittadini intra-comunitari inattivi, ovvero di tutti coloro che hanno perso o non hanno reperito un’occupazione entro un termine che in genere va dai sei ai dodici mesi; con evidente violazione del diritto europeo e dei suoi principi generali. La citata direttiva, infatti, pur non mettendo in discussione il potere sovrano degli Stati di procedere all’espulsione qualora ne ricorrano i requisiti, all’art. 16 [81] specifica che il ricorso al sistema di assistenza sociale[82] non è di per sé un motivo automatico di espulsione, essendo piuttosto richiesta una valutazione specifica per ogni caso concreto e da cui si evinca che essa risulti giustificata in quanto rappresenti un “onere irragionevole” per lo Stato sociale[83].

Sul punto, la Corte di Giustizia ha cristallizzato nelle sue pronunce il principio secondo cui la libertà di circolazione e di soggiorno non può essere limitata da disposizioni nazionali che condizionino il soggiorno all’accertamento dell’indipendenza economica del soggetto, essendo peraltro proibito qualsiasi controllo sistematico sulle condizioni di residenza dei cittadini UE[84]. Pur restando indubbia la legittimità di salvaguardare le finanze di uno Stato, dunque, stante la vigente normativa europea, le espulsioni per motivi economici andrebbero prese in considerazione solo in casi eccezionali con obbligo per gli Stati membri di verificare con la dovuta accuratezza se il caso specifico rappresenti un onere irragionevole per lo Stato sociale.

Tuttavia, le sempre più diffuse pratiche abusive di espulsione lasciano pensare il contrario[85], essendo esse spesso adottate in palese violazione del principio di proporzionalità[86]. Al riguardo merita ricordare l’ormai tristemente noto Caso Dano del 2014 in cui il clima politico caratterizzato dalle preoccupazioni relative alla sostenibilità del Welfare degli Stati membri, pare aver condizionato la Corte di Giustizia che, con tale pronuncia, ha di fatto segnato un’inversione di tendenza, ammettendo evidenti deroghe al principio della parità di trattamento in relazione alle prestazioni sociali[87] ed interrompendo il cammino intrapreso dalla c.d. giurisprudenza costituente in materia di diritti e cittadinanza[88].

Vi è chi ritiene che la diretta conseguenza di tale sentenza sia quella di sancire una netta distinzione tra cittadini «buoni e benestanti» e cittadini «cattivi e turisti sociali»[89] laddove a questi ultimi nessuna protezione sociale è dovuta, essendo piuttosto questi sussidi destinati unicamente ai lavoratori meritevoli, con evidente ritorno ad una concezione meramente mercantile della cittadinanza. In tal senso, una certa preoccupazione (soprattutto per l’eccessivo allarmismo che ne sta derivando) desta la recente notizia diffusa dalla trasmissione Cosmo dell’emittente radiofonica tedesca “Radio Colonia”[90], secondo cui il Governo Merkel avrebbe notificato ai cittadini europei inattivi regolarmente residenti in Germania, tra cui oltre cento italiani, una circolare in cui si invitano coloro che non godono “di protezione sanitaria e di mezzi di sussistenza sufficienti” a chiarire la propria posizione entro quindici giorni; con la precisazione che nell’ipotesi in cui entro sei mesi i soggetti interessati da tale provvedimento non dovessero dimostrare di aver reperito un’occupazione (almeno part time) o di stare attivamente cercandone una, essi dovranno fare rientro nel proprio Paese d’origine volontariamente o, se necessario, anche tramite rimpatrio coatto.

Al riguardo, non ci si può esimere dall’osservare come, a fronte di una legittima negazione di una prestazione sociale, ciò che pare discutibile è la decisione di alcuni comuni tedeschi di invitare ad abbandonare il territorio federale, pur trattandosi di cittadini comunitari regolarmente residenti in Germania.

 

 

7. – La discriminazione tra cittadini europei “statici” e “dinamici”

 

Se, come precedentemente evidenziato[91], il carattere distintivo della cittadinanza europea consiste nel riconosciuto diritto alla mobilità[92], una seconda contraddizione insita nell’istituto oggetto di trattazione, è certamente rappresentata dalla sostanziale discriminazione tra cittadini europei “dinamici” o movers e cittadini “statici”.

La mobilità, infatti, non rappresenta un diritto incondizionato, esercitabile da tutti gli european citizens, restando esclusi gli indigenti, ovvero coloro che in assenza di risorse economiche sufficienti sono impossibilitati a circolare e soggiornare nello spazio comune europeo. Per i cittadini statici, dunque, lo spazio dell’Unione si riduce ad essere unicamente il “territorio” dei singoli Stati membri quasi a voler confermare la natura preminentemente economica (e non politica) della cittadinanza europea. Potrebbe, pertanto, ritenersi sussistente un’insormontabile contraddizione tra il riconoscimento della libertà di movimento come elemento costitutivo della cittadinanza europea ed il “carattere condizionato” di tale libertà alle possibilità economiche del singolo cittadino.

La cittadinanza europea, essendo inscindibilmente connessa alla libertà di circolazione, crea, dunque, una sorta di discriminazione fondata sulla “sedentarietà”. Ciò in quanto l’Unione – a cui, come è noto, è vietato ogni tipo di incursione nelle sfere di competenza esclusiva degli Stati – può intervenire esigendo il rispetto della sua normativa (di rango primario e di diritto derivato) solo se sia messa in discussione la libertà di circolazione dei cittadini europei. Da ciò discende quale diretta conseguenza che «si finisce per avere più diritti in quanto cittadini europei mobili»[93]. I cittadini sedentari, invece, non riescono a vedere tutelati i propri diritti di cittadini europei nei confronti del proprio Stato di appartenenza, da cui non si sono mai spostati. In questi casi, infatti, non avendo i cittadini statici esercitato il proprio diritto alla libertà di circolazione, il diritto dell’UE non può trovare applicazione rationae materiae, essendosi la questione configurata in via esclusiva come meramente interna.

Dinanzi ad un simile paradosso, la Corte di Giustizia ha iniziato a svincolare gradualmente il riconoscimento dei diritti di cittadinanza dalla necessarietà di uno spostamento fisico in uno Stato membro diverso dal proprio anche in casi che (apparentemente) riguardavano questioni di competenza esclusiva statale. Uno dei più noti è quello relativo alla vicenda Ruiz-Zambrano del 2011 [94], i cui principi di diritto volti a sancire la separazione della cittadinanza dalla mobilità sono stati successivamente confermati nel Caso Chavez-Vilchez del 2017 [95].

La discriminazione tra differenti tipologie di cittadini europei non riguarda unicamente il problema della negata libertà di circolazione per i cittadini statici, ma entra in gioco anche nella ricordata questione della mancata “europeizzazione” dei sistemi sociali nazionali[96]. Al riguardo deve osservarsi che i cittadini europei statici degli Stati sottoposti alle misure anticrisi[97] rimangono esclusi anche dal sistema di coordinamento europeo della cittadinanza sociale transnazionale. In dottrina è stato evidenziato che «l’Europa, lungi dall’essere uno spazio comune in cui l’eguaglianza è una prospettiva essenziale, è segnata dalle differenze fra sistemi socio-economici»[98]. Basti pensare ai problemi che, nostro malgrado, accomunano diversi Stati membri UE, quali il costante deterioramento dell’accesso alla sicurezza sociale per i cittadini statici dei Paesi in crisi finanziaria (ad esempio la mobilitazione sociale degli ultimi anni in Grecia), gli allarmanti tassi di disoccupazione giovanile e l’esponenziale aumento dei lavoratori che vivono in condizioni di semi-indigenza in un contesto di emarginazione sociale[99].

È indubbio, infatti, che le misure di austerità adottate da taluni Stati in seguito alla crisi economica vadano a discapito non solo dei cittadini dinamici, per cui non trovano più applicazione i principi della solidarietà transnazionale europea[100], ma anche dei diritti sociali dei cittadini sedentari “nativi”, con grave rischio di far definitivamente implodere il modello europeo di cittadinanza politica e sociale.

 

 

8. – Le implicazioni della Brexit per il sistema di sicurezza sociale europeo

 

È certamente “merito” della Brexit (Britain Exit) se il tema della cittadinanza sociale europea[101] è divenuto di stringente attualità, richiamando l’attenzione (o forse sarebbe più opportuno parlare di “preoccupazione”) anche dei “non addetti” al settore.

In merito all’imminente recesso della Gran Bretagna dall’Unione europea[102], infatti, occorre evidenziare come i fautori del “leave[103] abbiano strumentalmente utilizzato la nozione di turismo sociale[104] per convincere gli elettori del fatto che l’uscita dall’UE avrebbe rappresentato l’unico valido strumento per salvaguardare le prerogative sovrane del proprio Stato e limitare efficacemente la protezione sociale e la libertà di movimento (assicurate dai Trattati e dal diritto derivato) verso la “ricca” Gran Bretagna dei cittadini europei, il cui ingresso stava esponenzialmente aumentando in ragione della crisi economica che negli ultimi anni ha colpito numerosi Stati membri[105].

Ed invero, a fronte della storica insofferenza britannica nei confronti delle regole comunitarie[106] e dei vani tentativi di modificare i Trattati Ue nella parte relativa alla libera circolazione ed all’accesso al Welfare[107], l’unico modo per tutelare i diritti e gli interessi dei nativi ed allontanare i cittadini comunitari inattivi[108], che avrebbero potuto rappresentare un peso ritenuto insostenibile per il Welfare britannico, è apparso ai più quello di proporre un referendum “a forte impatto emotivo” sull’opportunità di recedere dall’Ue[109].

A distanza di oltre due anni dall’inizio dei negoziati che entro il 29 marzo 2019 condurranno ad un’Unione europea a 27 [110], può affermarsi che il “Caso Brexit” ha certamente fatto emergere l’importanza dei cc.dd. EU citizens’ rights, ossia i diritti derivanti dal riconoscimento dello status di cittadino europeo agli oltre tre milioni di cittadini europei residenti nel Regno Unito ed al milione di cittadini britannici in Europa.

L’8 dicembre del 2017 con un report congiunto[111] tra i negoziatori dell’Unione europea e i rappresentanti del Governo britannico si è conclusa con successo la prima fase delle trattative per il recesso del Regno Unito dall’Unione europea (c.d. Withdrawal Agreement). Di poco successiva è la prima bozza di accordo (“Draft Agreement on the Withdrawal of the United Kingdom”)[112], pubblicata lo scorso 19 marzo, sulla quale è stata raggiunta “in larga misura” un’intesa tra i negoziatori delle due parti[113]. Pur evidenziando la natura mutevole del negoziato che potrebbe portare dei cambiamenti nei mesi a venire[114], può affermarsi che il Draft Agreement fornisce già una prima base per riflettere sulle ripercussioni che la Brexit avrà sul sistema di sicurezza sociale europeo.

L’accordo, infatti, dedica il Titolo III della Parte seconda al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale[115]; dall’esame del testo emerge la volontà del Regno Unito di rimanere in linea con il sistema di sicurezza europeo che, è bene precisarlo, non gli «ha mai impedito di organizzare autonomamente il proprio sistema di sicurezza sociale ma lo ha solo obbligato ad estendere tutte le prestazioni previste per britannici ai cittadini europei che ne hanno/avessero diritto»[116]. L’art. 29 del citato accordo, infatti, in conformità all’art. 48 TFUE[117], garantisce l’accesso all’attuale sistema di sicurezza europeo per tutti i cittadini, europei o britannici, coinvolti nel processo da prima dell’uscita della Gran Bretagna dall’UE. In buona sostanza, costoro continueranno a godere dell’attuale sistema non solo durante il periodo di negoziazione ma anche nel periodo successivo, conservando i loro benefici intatti.

Questo discorso, tuttavia, potrebbe non valere per i flussi migratori futuri (si pensi a titolo esemplificativo ai disoccupati in cerca di lavoro, che potrebbero trovare maggiori difficoltà nell’entrare nel Regno Unito e godere di prestazioni garantite dal diritto UE quali quelle in denaro di carattere non contributivo). L’attuale bozza di accordo, infatti, nulla dice sulle distinzioni che potrebbero sussistere tra la restrizione al libero movimento dei lavoratori e le restrizioni ai diritti di eguale trattamento sotto il profilo della sicurezza sociale.

Tali nodi a tutt’oggi insoluti evidenziano, a parere di chi scrive, che la vicenda della Brexit scaturisce da un grave “errore di sottovalutazione” dei suoi effetti da parte del governo e degli stessi cittadini britannici, dal momento che essa rappresenta un chiaro esempio in cui al godimento di un diritto non sempre segua la piena consapevolezza della sua portata innovativa; importanza questa che sovente, come avvenuto per un gran numero di britannici oggi dichiaratamente “pentiti”, riemerge solo quando ormai si è giunti ad un “punto di non ritorno”[118].

È recente la richiesta del Sindaco di Londra di un secondo referendum sulla Brexit[119], motivata sull’incapacità del Governo May di condurre adeguatamente i negoziati che perfezioneranno la procedura di recesso dall’Ue ex art. 50 TUE[120] e sul diritto dei cittadini britannici, oggi maggiormente consapevoli, di «avere l'ultima parola sugli effetti dei negoziati, inclusa la possibilità di rimanere in Europa».

 

 

9. – Considerazioni conclusive

 

Dall’analisi svolta emerge come le esaminate contraddizioni della cittadinanza europea possano giungere sino al punto di legittimare gli Stati membri a far regredire tale istituto alla sua originaria condizione economica e nazionale, ridimensionando la sua innovativa valenza sociale ed il carattere “autonomo” e “sovranazionale” che, seppur con evidenti limiti, ha dimostrato di possedere. A parere di chi scrive, infatti, sostenere l’idea che la libertà di movimento non debba più rappresentare un principio assoluto derivante dalla cittadinanza europea, equivale a far perdere di significato ed importanza l’intero processo di integrazione europea. Allo stesso modo, deve osservarsi come il “rinchiudersi dentro i confini nazionali” per difendere un ipotetico diritto di precedenza dei nativi nella fruizione delle prestazioni sociali per timore di un presunto “turismo sociale” e della insostenibilità del welfare statale, rischia di rappresentare il principale volano di ingiustificate discriminazioni sulla base della nazionalità, così vanificando la moderna costruzione della cittadinanza “autonoma” europea.

Al contempo spiace rilevare come anche la recente giurisprudenza della Corte di Giustizia, nel tentativo di rassicurare alcuni Stati membri, pare riflettere l’attuale clima politico e sociale dell’Unione europea, sancendo sostanzialmente la priorità della protezione dei confini statali e dei sistemi di welfare nazionali rispetto alla libertà di circolazione come elemento costitutivo della cittadinanza (anche sociale) sovranazionale. In un’ottica di bilanciamento di interessi, dunque, ciò che sembra prevalere è il recente carattere simil punitivo della cittadinanza europea, oggi inscindibilmente legata al reddito ed a pratiche discriminatorie fondate sull’appartenenza nazionale.

Dinanzi al rischio di insostenibilità del sistema di sicurezza sociale nell’Unione europea[121] probabilmente i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri dovrebbero debitamente considerare fattori quali il costante “invecchiamento” della popolazione ed il fatto che le uniche posizioni lavorative stabili siano di prevalente appannaggio di soggetti over 55 [122]. Solo trovando valide soluzioni a siffatte questioni, infatti, si riuscirà – contrariamente a quanto sinora sostenuto dai socialdemocratici britannici – a non snaturare l’istituto della cittadinanza europea ed a considerare nuovamente il Welfare come «una risorsa e non più come un vincolo»[123].

 

 

Abstract

 

The article deals with changes taking place in the European integration process, with particular reference to European citizenship. On the one hand, the paper examines contradictions in the original definition of the status of European citizen. On the other, new limitations impacting on rights to free movement are considered in the context of serious economic and financial problems which have combined with strong anti-European forces to create fears about loss of sovereignty on the part of some EU member states. Particular emphasis is given to the real risk of a major legal and political de-legitimisation of European citizenship, driven both by challenges to the right to freedom of movement which derives from that citizenship, and from a nationalist drift within European society. This drift is characterised today by a distinction, as clear as it is unjustified, between “dynamic” European citizens (so-called “movers”) and those who are considered “static”.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

* Il presente articolo si inserisce nell’ambito del Progetto della Universidad de Málaga «Los muros en el Derecho Internacional contemporáneo: consecuencias para la seguridad, la dignidad humana y la sostenibilidad» (DER-2015-65486-R) finanziato dal Ministerio de Economía y Competitividad de España e delle attività del Grupo de Investigación «Protección Internacional de los Derechos Humanos, Seguridad y Medioambiente (SEJ-593)» del Plan Andaluz de Investigación.

1 Cfr. B. Caravita, Le trasformazioni istituzionali in 60 anni di integrazione europea, in federalismi.it 14, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=443&content=&content_auth= >.

[2] V. G. Giraudi, La cittadinanza dell’UE tra ‘dialogo civilizzatore’ tra cittadinanze nazionali e rappresentanza politica non competitiva, in I quaderni europei 6, 2014, 42 ss.; C. Margiotta, Cittadinanza europea. Istruzioni per l’uso, Roma-Bari 2014, 125 ss.; L. Appicciafuoco, Lo status sociale dei cittadini europei economicamente non attivi: una “cittadinanza sociale di mercato europeo”?, in Le nuove frontiere della cittadinanza europea, a cura di E. Triggiani, Bari 2011, 279 ss.; A. Rosenthal, La direttiva europea sui lavoratori altamente qualificati: elementi di cittadinanza sociale o di cittadinanza mercantile?, in Le nuove frontiere della cittadinanza europea, loc. cit., 425 ss.

[3] Tale perdita di controllo ha riguardato diversi aspetti tra cui i principali sono rappresentati dall’immigrazione intracomunitaria, dall’allargamento dei diritti civili e delle garanzie sociali dei cittadini comunitari e dall’uguale trattamento e non discriminazione sulla base della nazionalità negli Stati membri ospitanti. In tal senso v. D. Kochenov – B. Pirker, Deporting the Citizens within the European Union: a Counter-Intuitive Trend in Case C-348/09? P.I. v Oberburgermeistern der Stadt Remscheid, in University of Groningen Faculty of Law Research Paper 6, 2013.

[4] V. R. Mastroianni, Stato di diritto o ragion di Stato? La difficile rotta verso un controllo europeo del rispetto dei valori dell’Unione negli Stati membri, in Dialoghi con Ugo Villani, a cura di E. Triggiani – F. Cherubini – I. Ingravallo – E. Nalin – R. Virzo, Bari 2017, 605-612.

[5] Per un approfondito esame del tema v. ex multis, R. Cafari Panico, L’affievolimento dei diritti nella crisi economica e politica dell’Unione europea, in Studi sull’Integrazione europea, a cura di E. Triggiani – U. Villani, 12, 2017, 289-316.

[6] Nell’aprile 2013 i Ministri degli Affari Interni di Germania, Austria e Regno Unito, concordi nel ritenere necessaria la chiusura dei confini intra-europei, al fine di tutelare i propri sistemi di sicurezza sociale e le finanze nazionali, avevano interpellato la Commissione europea denunciando l’abuso del diritto alla libertà di circolazione da parte di cittadini economicamente inattiva e l’inefficacia della direttiva CE 2004/38. Con comunicazione COM(2013)837, la Commissione aveva, per un verso, evidenziato l’assenza di «una relazione statistica tra la generosità dei sistemi di sicurezza sociale e i flussi di cittadini dell’UE» e, per altro verso, ribadito la presenza nella citata direttiva di tutte le norme di garanzia contro eventuali abusi del diritto. V. infra § 5.

[7] S.M. CARBONE, L’Unione europea a vent’anni da Maastricht. Verso nuove regole, Napoli 2013, 169; L. Moccia, Brexit: cronaca di una separazione annunciata e alcune riflessioni di scenario, in La cittadinanza europea 1, 2016, 23, in cui l’autore, con riferimento al futuro del processo d’integrazione europea dopo Brexit, pone in evidenza che: «questo processo si trova di fronte a una inversione di tendenza verso derive nazionalistiche, con possibili ulteriori abbandoni e, comunque, alle prese con un passaggio denso di rischi per il suo futuro».

[8] Tale espressione nel diritto comunitario (oggi dell’Unione) indica l’unione di ordinamenti giuridici determinatasi con l’istituzione dell’Unione europea nel 1992 e di cui sono soggetti gli Stati, i popoli europei ed i singoli cittadini degli Stati membri.

[9] V. infra § 7. Al riguardo vi è chi ha indicato tale distinzione utilizzando le espressioni cittadini “itineranti” e cittadini “sedentari”. In tal senso v. F. Strumia, La metamorfosi della cittadinanza in Europa, Napoli 2013, 9 ss.

[10] V. C. Curti Gialdino, Oltre la Brexit: brevi note sulle implicazioni giuridiche e politiche per il futuro prossimo dell’Unione europea, in federalismi.it 13, 2016, < https://www.federalismi.it/ApplOpenFilePDF.cfm?artid=32126&dpath=document&dfile=29062016165126.pdf&content=Oltre+la+Brexit:+brevi+note+sulle+implicazioni+giuridiche+e+politiche+per+il+futuro+prossimo+dell%27Unione+europea+-+stato+-+dottrina+-+ >.

[11] L’obiettivo principale perseguito dal Trattato di Roma, istitutivo delle Comunità europee, era quello di realizzare un’integrazione progressiva degli Stati europei ed istituire un mercato comune, fondato sulle quattro libertà di circolazione (dei beni, delle persone, dei capitali e dei servizi) e sul graduale ravvicinamento delle politiche economiche. Di conseguenza, gli Stati membri avevano rinunciato a parte della loro sovranità riconoscendo alle Istituzioni comunitarie il potere di adottare atti normativi direttamente applicabili negli ordinamenti nazionali (regolamenti e direttive) e che prevalgono sul diritto interno. Gli attuali Trattati sul funzionamento dell’Unione europea e sull’Unione europea, rispettivamente indicati come TFUE e TUE, sono il risultato delle modifiche apportate al Trattato che istituisce la Comunità economica europea (Trattato CEE), firmato a Roma nel 1957 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1958. Quest’ultimo è stato modificato più volte, in particolare dall’Atto unico europeo entrato in vigore nel 1987, dal Trattato di Maastricht (Trattato sull’Unione europea) entrato in vigore nel 1993, dal Trattato di Amsterdam entrato in vigore nel 1999 e dal Trattato di Nizza entrato in vigore il 1° febbraio 2003 e da ultimo dal Trattato di Lisbona, entrato in vigore il 1° dicembre 2009. A seguito dell’entrata in vigore del Trattato sull’Unione europea, firmato a Maastricht ed entrato in vigore nel novembre 1993, l’espressione “Comunità Economica Europea” è sostituita dall’espressione “Comunità Europea” in tutto il testo del Trattato. Da ultimo, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la denominazione “Comunità europea” è stata sostituita da “Unione europea”.

[12] R. Mastroianni, La libera prestazione di servizi, in G. Strozzi (a cura di), Il diritto dell’Unione europea. Parte speciale, Torino 2017, 241 ss.

[13] V. F. Bestagno, La libera circolazione delle merci, in A. Arena, F. Bestagno, G. Rossolillo, Mercato unico e libertà di circolazione nell’Unione europea, Torino 2016, 1, in cui si precisa che la scelta di utilizzare l’espressione “mercato comune” rispondeva all’esigenza di «rimarcare che nella CEE non si sarebbe instaurata una semplice unione doganale: quest’ultimo concetto indicava infatti i soli due requisiti della libera circolazione delle merci all’interno e dell’istituzione di una tariffa doganale verso l’esterno (cfr. art. 28 TFUE)». Sul punto v. ancora F. Bestagno, L’unione doganale e la politica commerciale comune, in Elementi di diritto dell'Unione europea - Parte speciale, a cura di U. Draetta, N. Parisi, Milano 1999, 18 ss.

[14] Cfr. M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione alla coesione territoriale nell’Unione europea, Napoli 2018, 6 ss.

[15] Così in M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione, cit., 3.

[16] V. F. Bestagno, La libera circolazione delle merci, cit., 2-3, in cui l’autore evidenzia che a partire dall’Atto unico europeo del 1986 «si introdusse e si ampliò l’uso dell’espressione “mercato interno” (internal market), che ha oggi sostituito l’espressione mercato comune» anche all’interno del Trattato di Lisbona, quasi a voler sottolineare «l’obiettivo della creazione di uno spazio senza frontiere interne nel quale è assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali, analogo a quelli esistenti all’interno dei confini nazionali». L’autore pone altresì in evidenza come, in realtà, in altri documenti delle Istituzioni europee sia presente l’espressione “mercato unico” che starebbe ad indicare «l’assoluta unicità del contesto in cui gli operatori economici si trovano ad operare e le merci ad essere scambiate nell’UE»; con la precisazione che «concretamente, non vi sono differenze concettuali rilevanti tra le tre espressioni (mercato comune, interno, unico), che risultano usate in modo intercambiabile specie nei documenti delle istituzioni».

[17] V. amplius A. Arena, F. Bestagno, G. Rossolillo, Mercato unico e libertà di circolazione nell’Unione europea, cit.; P. De Pasquale, L’economia sociale di mercato nell’Unione europea, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, Napoli 2014, 1643 ss.; L. Daniele, Diritto del mercato unico europeo, Milano 2012, 28 ss.; E. Cannizzaro, L.F. Pace, Le politiche di concorrenza, in Aa.Vv., Diritto dell’Unione europea – Parte speciale, Torino 2010, 293 ss.; S. Bastianon, Il diritto comunitario della concorrenza e l’integrazione dei mercati, Milano 2005, 14 ss.; M. Condinanzi, A. Lang, B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, Milano 2003.

[18] Al riguardo v. G. Rinaldi Baccelli, La mobilità come diritto fondamentale della persona, in Continuità territoriale e servizi di trasporto aereo. Atti del convegno Sassari-Alghero, 15 e 16 ottobre 1999, Torino 2002, 25 ss.

[19] I primi due commi dell’art. 18 TCE così recitavano: «Ogni cittadino dell'Unione ha il diritto di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, fatte salve le limitazioni e le condizioni previste dal presente trattato e dalle disposizioni adottate in applicazione dello stesso. 2. Quando un’azione della Comunità risulti necessaria per raggiungere questo obiettivo e salvo che il presente trattato non abbia previsto poteri di azione a tal fine, il Consiglio può adottare disposizioni intese a facilitare l'esercizio dei diritti di cui al paragrafo 1. Esso delibera secondo la procedura di cui all'articolo 251». Tale disposizione è oggi contenuta nell’art. 21 TFUE.

[20] Ex art. 39 TCE (già art. 48 TCEE). Cfr. P. Gargiulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà, in Le nuove frontiere della cittadinanza europea, cit., 229 ss.; P. Barile, P. Caretti, Libertà costituzionali e limiti amministrativi, Trattato di Diritto amministrativo, diretto da G. Santaniello, XII, Padova 1990, 133; P. Giocoli Nacci, F. Mastroviti, La libertà di circolazione e soggiorno, in Libertà costituzionali e limiti amministrativi, Trattato di Diritto amministrativo, loc. cit., 133 ss.

[21] V. Corte di giustizia, sentenza del 11 luglio 1985, Pubblico Ministero c. Robert Heinrich Mutsch, causa C-137-84, in Raccolta, 1985, 2691 ss., in cui i giudici di Lussemburgo affermano che la parità tra cittadini comunitari doveva essere riferita non solo al rapporto di lavoro ma anche ad assicurare «la piena integrazione del lavoratore straniero e della sua famiglia nello Stato membro ospitante».

[22] V. G.G. Carboni, Il diritto alla mobilità dei cittadini europei, in La continuità territoriale della Sardegna. Passeggeri e merci, Low cost e turismo, cit., 7, ove l’autrice sottolinea che «la formazione di un diritto costituzionale europeo si è sviluppata attraverso processi incrociati di recezione ed attraverso la creazione di una fitta rete di interdipendenze fra gli ordinamenti costituzionali degli Stati membri e quello comunitario». In tal senso v. anche P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, Torino 2010, 52.

[23] V. C. giust. Ce 20 settembre 2001, causa C-184/99, Grzelczyk, in Raccolta, 2001, I-6193. In particolare con tale pronuncia la Corte di Lussemburgo aveva enunciato un principio di portata generale secondo cui: «la cittadinanza dell’Unione è destinata ad essere lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri, che abilita quanti fra costoro si trovino nella stessa situazione, a godere dello stesso trattamento giuridico, indipendentemente dalla loro cittadinanza, salve le eccezioni espressamente previste». In senso conforme v. anche C. giust. Ce 15 marzo 2005, causa C-209/03, Bidar, in Raccolta, 2005, I-3681. In tema di diritti dei cittadini europei cfr. C. Morviducci, I diritti dei cittadini europei, Torino 2017, 61 ss.

[24] V. G. Conetti, Manuale di diritto comunitario, a cura di E. Pennacchini, R. Monaco, L. Ferrari Bravo, S. Puglisi, vol. II, Torino 1984, 305 ss.

[25] Tale disposizione stabilisce che: «l’Unione offre ai suoi cittadini uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia senza frontiere interne, in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone insieme a misure appropriate per quanto concerne i controlli alle frontiere esterne, l’asilo, l’immigrazione, la prevenzione della criminalità e la lotta contro quest’ultima».

[26] Così in M.C. Carta, Coesione territoriale e principio di insularità nell’ordinamento dell’Unione europea, in Studi sull’integrazione europea, a cura di U. Villani – E. Triggiani, III, Bari 2015, 599 ss.

[27] In tal senso v. M. Maresca, Il ruolo dei principi nel progetto di trattato costituzionale e il diritto alla mobilità, in Valori e principi nella Costituzione europea, a cura di M. Maresca, Bologna 2004, 61.

[28] V. M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione, cit., 6 ss.

[29] Ai sensi di tale disposizione: «Per migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori nell’ambito del mercato interno e contribuire così al miglioramento del tenore di vita, è istituito, nel quadro delle disposizioni seguenti, un Fondo sociale europeo che ha l’obiettivo di promuovere all'interno dell’Unione le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori, nonché di facilitare l’adeguamento alle trasformazioni industriali e ai cambiamenti dei sistemi di produzione, in particolare attraverso la formazione e la riconversione professionale».

[30] Per un maggior approfondimento di queste tematiche cfr. G.G. Carboni, Il diritto alla mobilità dei cittadini europei, cit., 33; M. Condinanzi, A. Lang, B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, cit., 67 ss.

[31] La Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) è stata adottata il 4 novembre del 1950 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ed è entrata in vigore il 3 settembre 1953. I 47 Paesi che formano il Consiglio d’Europa, sono parte della Convenzione; tra essi i 28 Stati membri dell’Unione europea (27 dopo Brexit).

[32] C. giust. Cee, 12 novembre 1969, causa 29/69, Stauder, in Raccolta, 1969, 419. Sul punto v. M. Cartabia, J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, Bologna 2000, 217 ss.

[33] La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta DFUE) è stata adottata dal Consiglio europeo di Nizza del 2000, riadattata (alle esigenze medio tempore emerse) e riproclamata con alcune modifiche a Strasburgo nel 2007; nel dicembre 2009, con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona, è stato conferito alla Carta lo stesso effetto giuridico vincolante dei trattati (art. 6 TUE). Avendo acquisito il rango di fonte primaria dell’Unione, pertanto, essa non può più essere considerata come normativa di soft law. Cfr. A. ADINOLFI, La rilevanza della Carta dei diritti fondamentali nella giurisprudenza interna: qualche riflessione per un tentativo di ricostruzione sistematica, in Studi sull’integrazione europea 2018, 29 ss.; ID:, La rilevanza esterna della Carta dei diritti fondamentali, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, cit., 27 ss.; A. DI STASI, L’ambito di applicazione della Carta dei diritti fondamentali per gli Stati membri dell’Unione europea: verso nuovi limiti o “confini” tra ordinamenti?, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, cit., 165 ss.; V. Piccone, Il giudice e l’Europa dopo Lisbona, in Diritti fondamentali e politiche dell’Unione europea dopo Lisbona, a cura di P. Puoti, F. Guarriello, S. Civitarese Matteucci, Rimini 2013, 97 ss.; L. Daniele, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e Trattato di Lisbona, in Liber Fausto Pocar, a cura di G. Venturini, S. Bariatti, I, Milano 2009, 235 ss.

[34] Deve altresì evidenziarsi che il Capo IV della Carta dei diritti fondamentali UE, intitolato al principio di solidarietà, prevede una serie di diritti economici e sociali, tra cui il diritto alla sicurezza ed all’assistenza sociale. Per un approfondito esame della materia v. D. Damjanovic – B. De Witte, Welfare Integration through EULaw: the Overall Picture in the Light of the Lisbon Treaty, in U. Neergaard –R. Nilsen – L.M. Roseberry, Integrating Welfare Function into EU Law. From Rome to Lisbon, Copenaghen 2009, 78 ss.

[35] V. A. Lucarelli, Art. 36, in L’Europa dei diritti. Commento alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, a cura di R. Bifulco, M. Cartabia, A. Celotto, Bologna 2001, 251 ss.; M. Ross, Article 16 E. C. and Services of General Interest, in European Law Review 2000, 22 ss.; L.G. Radicati Di Brozolo, La nuova disposizione sui servizi di interesse economico generale, in Diritto dell’Unione europea 1998, 273 ss.

[36] Per una trattazione approfondita del tema v. A. Lucarelli, R. Mastroianni (a cura di), I servizi di interesse economico generale, Napoli 2012.

[37] Cfr. O. PORCHIA, Alcune considerazioni sull’art. 36 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: l’accesso ai servizi di interesse economico generale, in Dir. Ue 4, 2002, 637 ss. I servizi di interesse economico generale non rappresentano delle mere deroghe alla concorrenza ma costituiscono un valido strumento per perseguire politiche pubbliche volte all’eliminazione delle condizioni di svantaggio sociale e territoriale. Da mera deroga al mercato, dunque, il sistema SIEG è divenuto principio comunitario in forza del quale il diritto europeo prevede un peculiare modello di organizzazione dei rapporti tra Stato, impresa e consumer-citizen. L’Unione europea mantiene il potere di dettare i principi di funzionamento, ma la responsabilità dell’erogazione e del finanziamento dei SIEG permane in capo agli Stati. Salvo poi attuare un decentramento degli stessi che, con particolare riferimento al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, ha generato problemi interni. In tal senso v. R. CARANTA, Il diritto dell’Unione europea sui servizi di interesse economico generale e il riparto di competenze tra Stato e Regioni, in Regioni 6, 2011, 1176 ss. Sul punto v. F. CINTIOLI, La dimensione europea dei servizi di interesse economico generale, in federalismi.it 11, 2012, < https://federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=247&content=&content_auth= >; G. CAGGIANO, Il ruolo della Commissione per la compensazione del Servizio Pubblico nella disciplina generale e televisiva, in Studi Sull’integrazione Europea 64, 2006; G. CAGGIANO, Cultura e media nel diritto dell’Unione europea in prospettiva della Brexit, in federalismi.it 18, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34787 >.

[38] Cfr. R. Cafari Panico, Concorrenza, benessere del consumatore e programmi di compliance, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, cit., 1473 ss.

[39] V. G.G. Carboni, Il diritto alla mobilità dei cittadini europei, cit., 15; R. Cafari Panico, Concorrenza, benessere del consumatore e programmi di compliance: nuove tendenze, cit., 1473 ss.

[40] V. supra § 3.

[41] Il Trattato sull’Unione europea (TUE), firmato a Maastricht il 7 febbraio 1992, è entrato in vigore il 1º novembre 1993.

39 Cfr. U. Villani, Istituzioni di Diritto dell’Unione europea, Bari 2017, 119; L.A. Valvo, Lineamenti di Diritto dell’Unione europea. L’integrazione europea oltre Lisbona, Padova 2017, 91; E. Triggiani, La cittadinanza europea per la “utopia” sovranazionale, in Studi sull’integrazione europea III, 2006, 435, in cui l’autore evidenzia la “centralità” della cittadinanza europea sotto il profilo non solo simbolico ma sostanziale, nell’evoluzione dell’intero processo di integrazione europea.

[43] V. C. Morviducci, I diritti dei cittadini europei, cit., 3 ss.

[44] V. C. Margiotta, Cittadinanza europea. Istruzioni per l’uso, cit., 125 ss.

[45] Sussiste, infatti, un legame necessario tra la cittadinanza europea e le cittadinanze nazionali dei singoli Stati membri, essendo questi ultimi competenti in via esclusiva nell’individuazione dei criteri di attribuzione e perdita della cittadinanza nazionale (e conseguentemente anche di quella europea).

[46] Al riguardo basti ricordare il leading case del c.d. Caso Micheletti, Corte di Giustizia, sentenza del 7 luglio 1992, Micheletti ed altri c. Delegazione del Governo della Cantabria, causa C- 369/90, in Raccolta, 1992, 4258. Cfr. H.U. Jessurun D’Oliverira, Annotation Case C-369/90 Micheletti, in Common Market Law Review 30, 1993, 623-637.

[47] Al riguardo si ricorda che le condizioni ed i limiti della libertà di movimento e soggiorno dei cittadini europei sono stabiliti nella Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE. I diritti di sicurezza sociale e di mobilità sono disciplinati dal Regolamento CE n. 883/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale e dal Regolamento CE n. 987/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 settembre 2009, che stabilisce le modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale.

[48] V. Accordo di Edimburgo dell’11 e 12 novembre 1992, ratificato dal Consiglio europeo su sollecitazione della Danimarca, fortemente preoccupata delle possibili conseguenze che avrebbero potuto derivare dall’istituzionalizzazione della cittadinanza europea.

[49] Così in C. Margiotta, I presupposti teorici della cittadinanza europea: originarie contraddizioni e nuovi limiti, in fsjeurostudies.eu 1, 2018, 51 ( http://www.fsjeurostudies.eu/files/FSJ.2018.I.Margiotta.4.pdf ).

[50] V. M. Cartabia, J.H.H. Weiler, L’Italia in Europa. Profili istituzionali e costituzionali, cit., 233-234.

[51] Artt. 8 e seguenti TCE. Sul punto v. D. Kostakopoulu, Ideas, Norms and European Citizenship: Explaining Institutional Change, in Modern Law Review 2, 2005, 233 ss.

[52] Cfr. C. Koenig, A. Haratsch, M. Bonini, Diritto Europeo. Introduzione al diritto pubblico e privato della Comunità e dell’Unione europea, Milano 2000, 206 ss.

[53] Sul nesso tra diritti di cittadinanza, con particolare riferimento alla libertà di circolazione nel diritto comunitario, la Corte di Giustizia si è pronunciata nelle sentenze C. giust. Ue 15 novembre 2011, causa C-256/11, Dereci, in Raccolta, 2011, I-11315, e C. giust. Ue, causa C-34/09, Ruiz-Zambrano, in Raccolta, 2011, I-01177, quest’ultima vertente sui diritti dei c.d. cittadini stanziali, ovvero di coloro che non hanno mai varcato i confini del proprio Stato di origine. Tale pronuncia ha evidenziato come il portato dell’art. 20 TFUE, interpretato estensivamente, possa rappresentare un meccanismo inibitorio per le legislazioni nazionali in materia di controllo dell’immigrazione extracomunitaria. Sul punto, in dottrina, v. C. Mordivucci, I diritti dei cittadini europei, Torino 2014, 49 ss. Sul tema dei rapporti tra diritto UE e ordinamento interno v. amplius F. Munari, Gli effetti del diritto dell’Unione europea sul sistema interno delle fonti, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, cit., 2121 ss.

[54] Cfr. M.C. Carta, Dalla libertà di circolazione alla coesione territoriale nell’Unione europea, cit., 8; P. Gargiulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà, in Le frontiere della cittadinanza europea, cit., 229; J. Ziller Il diritto di soggiorno e di libera circolazione nell’Unione europea, alla luce della giurisprudenza e del Trattato di Lisbona, in Diritto amministrativo IV, 2008, 946.

[55] V. art. 22 TFUE che riconosce il diritto di elettorato attivo e passivo alle elezioni amministrative e del Parlamento europeo ad «ogni cittadino dell’Unione residente in uno Stato membro di cui non è cittadino», con ciò volendo esaltare, in riferimento alle elezioni del PE, il carattere unitariamente rappresentativo dei cittadini degli Stati membri.

[56] Cfr. M. Abagnale, Brexit e cittadinanza europea, in opiniojuris.it 27 febbraio 2018, http://www.opiniojuris.it/brexit-e-cittadinanza-europea/.

[57] V. supra §§ 3 e 4.

[58] V. J. Ziller, I diritti fondamentali tra tradizioni costituzionali e «costituzionalizzazione» della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in Diritti fondamentali e politiche dell’Unione europea dopo Lisbona, cit., 47 ss.

[59] V. G. Rossolillo, La libera circolazione dei lavoratori, in A. Arena, F. Bestagno, G. Rossolillo, Mercato unico e libertà di circolazione nell’Unione europea, cit., 195 ss.

[60] V. supra § 3.

[61] Appare opportuno ricordare che nel 1999 sono state adottate dal Consiglio tre direttive che hanno avuto il merito di estendere la libertà di circolazione e soggiorno ai pensionati, agli studenti e alle persone inattive; si tratta rispettivamente della direttiva 90/364/Cee del 28 giugno 1990; la direttiva 90/366/Cee del 1990, annullata dalla Corte di Giustizia e sostituita dalla direttiva 93/96/Cee del 29 ottobre 1993; e la direttiva 90/363/Cee del 28 giugno 1990. Il riconoscimento della mobilità dei soggetti inattivi era stato preceduto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di libera prestazione dei servizi, che aveva riconosciuto la libertà dei destinatari di recarsi in un altro Stato per beneficiare della prestazione. Sul tema del diverso fondamento della libertà di circolazione prima e dopo il Trattato di Maastricht, cfr. G. Tesauro, Diritto dell’Unione europea, Padova 2012, 443 ss.; M. Condinanzi, B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone fisiche, in Trattato di Diritto amministrativo europeo, diretto da M. Chiti, M. Greco, Milano 2007, 87 ss.

[62] V. C. Koenig, A. Haratsch, M. Bonini, Diritto europeo, cit., 206 ss.

[63] Cfr. T. Pullano, La citoyenneté européenne. Une space quasi étatique, Paris 2014, 73 ss., ove si pone in evidenza che la “sovranità” in Europa consiste nella gestione di una popolazione mobile e gli spazi nazionali vengono superati da un più ampio spazio definito in termini giuridici più che territoriali: i diritti dei cittadini vengono, infatti, fissati dal diritto europeo e non discendono più dai singoli ordinamenti nazionali.

[64] V. P. Gargiulo, La cittadinanza sociale europea tra mito e realtà, cit., 229 ss. Cfr. anche G. Caggiano, Il ruolo della Commissione, cit., 61, in cui relativamente all’importanza rivestita in ambito europeo dai servizi di interesse economico generale, viene precisato che: «la necessità che la disciplina dei SIEG rifletta non solo i principi della concorrenza, ma il diritto fondamentale ai servizi essenziali, rappresenta il nucleo centrale del dibattito sul modello sociale europeo» e ciò in quanto il settore dei SIEG «tocca la qualità della vita dei cittadini europei».

[65] In caso contrario, si sarebbe confermata la concezione esclusivamente economica dei precedenti sistemi di circolazione. In tal senso v. N. Reich, Union Citizenship: Metaphor or Source of Rights, in European Law Journal 1, 2001, 4-23.

[66] Cfr. M. Condinanzi, A. Lang., B. Nascimbene, Cittadinanza dell’Unione e libera circolazione delle persone, cit., 39.

[67] V. Corte di Giustizia, sentenza del 17 settembre 2002, Baumbast e R. c. Secretary of the State for the Home Department, causa C-413/99, in Raccolta, 2002, 7091, in cui viene precisato che la subordinazione ai legittimi interessi economici degli Stati dell’esercizio del diritto di soggiorno del cittadino non nativo, avrebbe dovuto rispettare il principio di ragionevolezza e di proporzionalità. Conseguentemente i provvedimenti adottati dallo Stato membro per limitare la libertà di circolazione e soggiorno di un cittadino europeo al fine di non subire svantaggi economici, avrebbero dovuto essere necessari e proporzionali rispetto al fine perseguito giacché, in caso contrario, si sarebbero tradotti in una illegittima quanto ingiustificata lesione dei diritti di cittadinanza dell’Unione.

[68] V. Corte di Giustizia, sentenza del 20 settembre 2001, Rudy Grzelczyk c. Centre public d’aide sociale d’Ottignies-Louvain-la-Neuve, causa C-184-99, in Raccolta, 2001, 6229, in cui si ribadisce la possibilità di accedere all’assistenza sociale in uno Stato ospitante anche per i soggetti non economicamente attivi. In particolare si afferma che: «uno Stato ospitante non potrebbe – in quanto inammissibile per l’ordinamento comunitario – negare sulla sola base della nazionalità una prestazione sociale al cittadino straniero legittimamente residente sul suo territorio».

[69] V. supra § 4.

[70] V. G. Contaldi, Diritti sociali e programmi di riforme economiche nell'Unione europea, in Dialoghi sul welfare, a cura di G.L. Canavesi, Milano 2014, 42 ss.; E. Triggiani, La complessa vicenda dei diritti sociali fondamentali nell’Unione europea, in Scritti in onore di Giuseppe Tesauro, cit., 693 ss.

[71] V. C. Morviducci, La libera circolazione dei cittadini nell’Unione europea, Torino 2009, 26 ss.

[72] V. C. Margiotta, I presupposti teorici della cittadinanza europea, cit., 53.

[73] Al riguardo, si precisa che il “sistema sociale europeo” era stato creato nel 1958 per mettere a disposizione dei cittadini dell’Unione strumenti imparziali a cui accedere per salvaguardare la libera circolazione o, quantomeno, per mitigare gli svantaggi dovuti alla non armonizzazione dei sistemi di sicurezza sociale dei singoli Stati membri. Cfr. H. VERSCHUEREN, Scenarios for Brexit and social security, in Maastricht Journal of European and Comparative Law 24 (3), 2017, 371 ss. Il vigente art. 48 TFUE al riguardo prevede la necessità di adottare «in materia di sicurezza sociale le misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori». In particolare il sistema di coordinamento deve garantite «[…] ai lavoratori migranti dipendenti e autonomi e ai loro aventi diritto: a) il cumulo di tutti i periodi presi in considerazione dalle varie legislazioni nazionali, sia per il sorgere e la conservazione del diritto alle prestazioni sia per il calcolo di queste; b) il pagamento delle prestazioni alle persone residenti nei territori degli Stati membri».

[74] Così in S. Giubboni - G. Orlandini, La libera circolazione dei lavoratori nell’Unione europea, Bologna 2007, 68 ss.; v. anche E. Fumero - F. Strumia, Stranieri integrati e cittadini emarginati? Profili evolutivi di una nozione sociale della cittadinanza europea, in Materiali per una storia della cultura giuridica 2, 2015, 423-440.

[75] Cfr. M. Ferrara, The Boundaries of Welfare, European Integration and the New Spatial Politics of Social Protection, Oxford 2005. In tal senso v. anche C. Jeorges, What is Left of the Integration through Law Project? A Reconstruction in Conflicts-Law Union, Oslo 2012, 46 ss.

[76] Direttiva 2004/38/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2004 relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE.

[77] V. infra § 7.

[78] Cfr. P. Minderhoud, Directive 2004/38 and Access to Social Assistance Benefits, in Journal on Free Movement of Workers in the European Union 2013, 26-33.

[79] Tra il 2008 e il 2016, il Belgio ha notificato ad un totale di 12.735 cittadini dell’Unione una decisione che metteva fine al loro soggiorno, con annesso ordine di espulsione (ordre de quitter le territoire). Da sole 8 nel 2008, tali decisioni si sono moltiplicate in anni recenti subendo incrementi esponenziali, con un picco di 2.712 nel 2013, fino ad approdare, nel 2016, ad un totale di 1.918.

[80] Nel preambolo della citata direttiva 2004/38, le espulsioni sono definite come lo strumento che più rappresenta la restrizione al diritto di circolazione e residenza. In proposito v. S. Maslowski, The Expulsion of European Union Citizens from the Host Member State: Legal Grounds and Practice, in Central and Eastern European Migration Review 2, 2015, 61-85.

[81] Ai sensi di tale disposizione: «as long as the beneficiaries of the right of residence do not become an unreasonable burden on the social assistance system of the host Member State they should not be expelled».

[82] Per benefici dell’assistenza sociale si intendono quei benefit che lo Stato membro garantisce a coloro che non hanno risorse sufficienti per far fronte ai loro bisogni primari. I lavoratori ed i loro familiari hanno titolo per ricevere le stesse prestazioni assistenziali e sociali dall’inizio del periodo di permanenza nello Stato ospitante. Il principio generale è, dunque, quello di reciprocità piena per i lavoratori nativi e non (e le loro famiglie). Detta reciprocità, invece, allo scopo di evitare sovraccarichi per la spesa sociale dello Stato ospitante, per i non lavoratori (legalmente residenti) risulta “condizionata” al rispetto di specifici requisiti. In particolare, la richiamata normativa europea prevede che per i primi tre mesi ogni cittadino europeo ha il diritto di risiedere nel territorio di un altro Stato europeo senza alcuna condizione o formalità se non quella di avere un valido documento. Dopo i primi tre mesi i cittadini europei necessitano di soddisfare talune condizioni che dipendono dal loro status nel Paese ospitante e che possono essere sinteticamente riassunte come segue: gli studenti e le altre persone “non” attive (i pensionati e le loro famiglie) hanno il diritto di risiedere per più di tre mesi soltanto se hanno un’assicurazione sanitaria completa e sufficienti risorse finanziarie per se stessi e la propria famiglia, allo scopo di non diventare un peso per il sistema assistenziale e sociale del Paese ospitante. Coloro che cercano lavoro possono risiedere sino a sei mesi senza condizioni ed anche oltre a patto che dimostrino che hanno un’effettiva possibilità di trovare lavoro.

[83] V. A. Nico - G. Luchena, Lo Stato sociale sub condicione quale esito delle politiche finanziarie: le “raccomandazioni” europee per l’inclusione, in Studi sull’integrazione europea 2, 2018, 249-266.

[84] Cfr. Corte di Giustizia, sentenza 20 maggio 2014, causa C-333/13, Elisabeta Dano, Florin Dano c. Jobcenter Leipzig, in cui nelle conclusioni dell’Avvocato Generale M. Wathelet si legge che: «una semplice domanda di assistenza sociale non può costituire di per sé un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale di uno Stato membro e causare la perdita del diritto di soggiorno». È, infatti, difficilmente concepibile che l’aiuto accordato ad un solo richiedente, nella sua esiguità, possa essere insostenibile per uno Stato membro.

[85] V. S. Maslowski, The Expulsion of European Union Citizens from the Host Member State: Legal Grounds and Practice, cit., 70, in cui l’autore evidenzia che: «Many Member States have already exercised their power of expulsion. Some do it with discretion and expel a limited number of EU citizens, while other Member States’ expulsion practices are more mediatised because of the huge number of expelled migrants. In the last ten years, cases of expulsion of EU citizens have become increasingly common and mainly concern two types of migrants: EU citizens of Roma origin and noneconomic migrants who pose an unreasonable burden for the host Member State».

[86] L’eccessiva discrezionalità concessa agli Stati ha, da ultimo, consentito alla Germania di introdurre con la riforma del 2016 (modificata nel 2017) il divieto di re-ingresso nel territorio tedesco per un determinato periodo per coloro che abbiano subito un’espulsione di tipo economico.

[87] Cfr. ancora Corte di Giustizia, sentenza 20 maggio 2014, causa C-333/13, Elisabeta Dano, Florin Dano c. Jobcenter Leipzig. Con tale sentenza, la Corte di Giustizia, in Grande Sezione, seguendo le conclusioni dell’avvocato generale Melchior Wathelet, ha affermato la compatibilità con il diritto UE della normativa tedesca che nega prestazioni sociali non contributive ai cittadini di altri Stati membri, allorché questi non godano di un diritto di soggiorno in forza della direttiva 2004/38 nello Stato membro ospitante, oppure non dispongano di risorse economiche sufficienti per non divenire un “onere eccessivo” per il sistema interno di sicurezza sociale. La Corte, citando espressamente al punto 76 il fenomeno del “turismo sociale” precisa che il criterio delle risorse economiche sufficienti «mira ad evitare che i cittadini dell’Unione economicamente inattivi utilizzino il sistema di protezione sociale dello Stato membro ospitante per finanziare il proprio sostentamento». La particolarità di tale pronuncia consiste nel fatto che la Corte, nell’attribuire particolare rilevanza alle condizioni di autosufficienza economica, ha subordinato il diritto alla parità di trattamento al possesso non di “risorse economiche tout court”, ma di risorse “proprie”; in tal modo reinterpretando la direttiva 2004/38 come «strumento di controllo dell’accesso al welfare per i cittadini migranti, piuttosto che come strumento per facilitare la libertà di circolazione». Così C. Margiotta, I presupposti teorici della cittadinanza europea, cit., 64.

[88] V. D. THYM, When Union Citizens turn into illegal migrants: The Dano Case, in European Law Review 2, 2015, 249-262; C. SANNA, La crisi economica impone restrizioni alla libera circolazione delle persone?, in Eurojus.it 2014, < http://rivista.eurojus.it/la-crisi-economica-impone-restrizioni-alla-libera-circolazione-delle-persone/ >.

[89] Così in E. Spaventa, Citizenship: Reallocating Welfare Responsibilities to the State of Origin, in P. Koutrakos, N.N. Shuibhne, P. Syrpis, Exceptions from Eu Free Movement Law, Oxford 2016, 32-43.

[90] Durante il servizio a cura della giornalista Luciana Mella, andato in onda il 19 settembre 2018 è stato precisato che in base alla vigente normativa tedesca (Freizügigkeitsgesetz/EU vom 30. Juli 2004 (BGBl. I S. 1950, 1986), das zuletzt durch Artikel 6 des Gesetzes vom 20. Juli 2017 (BGBl. I S. 2780) geändert worden ist. Stand: Zuletzt geändert durch Art. 6 G v. 20.7.2017 I 2780), dopo un anno di lavoro, si matura il diritto al sussidio di disoccupazione, che ha la durata di 6 mesi. Per altri 6 mesi, nel caso se ne faccia richiesta, si possono percepire prestazioni di sostegno sociale. Superato questo periodo, se non si risiede in Germania da almeno cinque anni, o si svolge una prestazione lavorativa di almeno 10,5 ore settimanali, non si ha più diritto alle prestazioni assistenziali. Alcuni comuni tedeschi, dopo aver ricevuto l’informazione da parte dei Jobcenter (gli uffici del lavoro locali) di richieste di rinnovo di aiuto sociale, oltre i 6 mesi garantiti, avendo accertato l’insussistenza dei requisiti di legge (5 anni di residenza o prestazione lavorativa di almeno 10,5 ore settimanali), hanno "consigliato" agli italiani, e agli altri stranieri di origine europea, di lasciare la Germania, a meno che non dimostrino di essere alla ricerca di un lavoro. 

[91] V. supra § 3.

[92] Sul nesso tra diritti di cittadinanza, con particolare riferimento alla libertà di circolazione nel diritto comunitario, la Corte di Giustizia si è pronunciata nella nota sentenza Corte di giustizia, 15 novembre 2011, causa C-256/11, Dereci, in Racc., 2011, I-11315. Cfr. D.G. Rinoldi – N. Parisi, Mobilità globale? Migrazioni e altri movimenti incidenti sull'integrazione europea al tempo delle libertà e dei conflitti, in Le sfide dell'Unione europea a 60 anni dalla Conferenza di Messina, a cura di L. Panella, Napoli 2016, 201-236.

[93] Cfr. C. Margiotta, I presupposti teorici della cittadinanza europea, cit., 56.

[94] Corte di giustizia, causa C-34/09, Ruiz-Zambrano, in Raccolta, 2011, I-01177, vertente sui diritti dei cc.dd. cittadini stanziali, ovvero di coloro che non hanno mai varcato i confini del proprio Stato di origine. Sul punto, in dottrina, v. C. Morviducci, I diritti dei cittadini europei, cit., 49.

[95] Corte di Giustizia, Grande Sezione, sentenza del 10 maggio 2017, causa C-133/15, Chavez-Vilchez e alti c. Comitato di Previdenza Sociale dei Paesi Bassi, reperibile online.

[96] V. supra § 5.

[97] V. F. Fabbrini, The Fiscal Compact, the ‘Golden Rule’ and the Paradox of European Federalism, in Boston College International and Comparative Law Review 36, 2013, 1-38.

[98] In tal senso v. T. Pullano, La citoyenneté européenne, cit., 73-81. 

[99] Cfr. E. Balibar, Crisi e fine dell’Europa, Torino 2016; A.J. MENÉNDEZ, The existential crisis of the European Union, in German Law Journal 5, 2014, 453-526.

[100] V. supra § 5.

[101] V. supra §§ 3, 5 e 6.

[102] V. C. CURTI GIALDINO, Verso la fase due della Brexit: promesse, insidie e risultati parziali del negoziato, in Integrazione europea e sovranazionalità, a cura di G. Caggiano, Bari 2018, 177; B. CARAVITA, Brexit: ad un anno dal referendum a che punto è la notte?, in federalismi.it 16, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=448 >, in cui l’autore definisce Brexit come «la scommessa costituzionale del momento più grave di una struttura federata, che è quella della secessione»; P. Manzini, Brexit: il “lungo addio”, tra diritto dell’Unione europea e diritto internazionale, in Le Istituzioni del federalismo numero speciale, 2017, 89-104.

[103] Il referendum consultivo sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione europea del 23 giugno 2016, che ha visto la partecipazione del 72,21% degli aventi diritto, si è concluso con un voto favorevole all’uscita (leave) per il 51,9%, contro il 48,1% (remain) che ha votato per rimanere nell’Unione. Il voto ha manifestato una spaccatura tra le nazioni del Regno Unito, con Inghilterra (73%) e Galles (71%) favorevoli al recesso dall’Ue e Scozia (67,2%) e Irlanda del Nord (62,6%) che hanno votato per rimanere.

[104] Tale espressione è utilizzata per indicare il fenomeno della circolazione delle persone finalizzata a fruire di benefici non correlati ad una situazione lavorativa o alla richiesta di lavoro. V. A. Poggi, Brexit e lo Stato sociale, in federalismi.it 16, 2017, < https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34671 >.

[105] In tal senso v. C. Margiotta, I presupposti teorici della cittadinanza europea, cit., 49-72.

[106] Il Regno Unito ha sempre avuto un rapporto controverso con l’Unione europea, improntato su un regime che si potrebbe definire “derogatorio” e riassumibile con l’emblematica formula del “yes, but...”. La Gran Bretagna, infatti, non ha adottato l’euro nel 2001 né ha sottoscritto il Fiscal Compact nel 2012, mantenendo in tal modo intatto il proprio potere in materia di politica monetaria e di bilancio; ha, altresì, ottenuto nel 1984 il diritto al c.d. rebate, vale a dire il rimborso di una parte dei contributi versati; non ha, infine, aderito agli accordi di Schengen relativi all’eliminazione graduale dei controlli alle frontiere né si è vincolata alle norme comunitarie previste per la cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale. Al riguardo cfr. P. Selicato, Le conseguenze fiscali dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea (prime valutazioni), in federalismi.it 16, 9 agosto 2017. < https://www.sipotra.it/old/wp-content/uploads/2017/09/Le-conseguenze-fiscali-dell’uscita-del-Regno-Unito-dall’Unione-Europea-prime-valutazioni.pdf >.

[107] Con tale espressione di suole indicare il sistema sociale di uno Stato, volto a garantire a tutti i cittadini la fruizione dei servizi sociali ritenuti indispensabili. Al riguardo si precisa che, benché gli Stati membri abbiano competenza esclusiva nelle materie del welfare, l’accesso a tale sistema di protezione sociale del Paese ove si soggiorna è connesso a due principi cardine dell’ordinamento comunitario: la libertà di circolazione e il divieto di discriminazione (dei lavoratori) fondata sulla nazionalità (artt. 45 e 46 TFUE). V. infra §§ 3, 4, 6 e 7.

[108] In realtà, il clima di “allarme” per la sostenibilità del welfare britannico rispetto agli ingressi intra-Unione nel Paese, riguarda tanto i cittadini inattivi quanto i lavoratori ed i loro familiari in ricongiungimento ai quali è riconosciuto il principio di parità di trattamento ex artt. 7 e 12 del Regolamento CEE 1612/1968 del Consiglio, del 15 ottobre 1968, relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità. Cfr. A. POGGI, Brexit e lo Stato sociale, cit.

[109] Vi è chi, con riferimento all’esito di tale referendum, ha parlato della «più grave crisi del sistema politico-istituzionale inglese a far data dal 1688». Così si è espresso D. Galligan, The Constitution in Crisis 2016, in occasione della Conferenza tenuta l’8 dicembre 2016 presso il Wolfson College, Oxford, la cui sintesi è reperibile online sul sito web di The Foundation for Law, Justice and Society. V. anche F. Bilancia, La Brexit: il più grave sintomo nazionalista della crisi della libertà di circolazione delle persone nell’UE, in eticaeconomica.it 2017, < https://www.eticaeconomia.it/la-brexit-il-piu-grave-sintomo-nazionalista-della-crisi-della-liberta-di-circolazione-delle-persone-nellue/ >; S. Amadeo, Questione 1.1.1 Brexit, reperibile online < https://moodle2.units.it/pluginfile.php/112979/mod_resource/content/1/Brexit_Treccani_def2.pdf >; P. Mindus, European citizenship after Brexit, Basingstoke 2017; P. Manzini, Sulla revoca della notifica di recesso dall'Unione europea, in Dialoghi con Ugo Villani, a cura di E. Triggiani - F. Cherubini - I. Ingravallo - E. Nalin - R. Virzo, Bari 2017, 735-741.

[110] Corre l’obbligo di precisare al riguardo che ai sensi del § 3 dell’art. 50 TFUE i trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell'accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica al Consiglio europeo dell’intenzione di voler recedere dall’Unione europea; fatta salva la possibilità per il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, di decidere all'unanimità di prorogare tale termine.

[111] V. Report TF50 (2017) 19 – Commission to EU 27 dell’8 dicembre 2017 presentato in vista del Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2017, in < www.ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/joint_report.pdf >.

[112] Cfr. Draft Agreement on the Withdrawal of the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland from the European Union and the European Atomic Energy Community highlighting the progress made (coloured version) in the negotiation round with the UK of 16-19 March 2018, 19 March 2018, reperibile online in <https://www.ec.europa.eu/commission/sites/beta-political/files/draft_agreement_coloured.pdf > in cui viene specificata la leggenda relativa ai colori utilizzati.

[113] La bozza di accordo consta di 168 articoli, evidenziati in tre diversi colori volti rispettivamente a significare il raggiungimento di un’intesa (verde), il conseguimento di un accordo politico (giallo), gli aspetti che ancora devono essere negoziati (bianco).

[114] C. Curti Gialdino, Le trattative tra il Regno Unito e l’Unione europea per la Brexit alla luce dei primi due cicli negoziali, in federalismi.it 16, 2017, 2-37, < https://www.federalismi.it/nv14/articolo-documento.cfm?Artid=34677&content=Le+trattative+tra+il+Regno+Unito+e+l%27Unione+europea+per+la+Brexit+alla+luce+dei+primi+due+cicli+negoziali&content_author=%3Cb%3ECarlo+Curti+Gialdino%3C/b%3E > ; Id., Verso la fase due della Brexit: promesse, insidie e risultati parziali del negoziato, in federalismi.it 24, 2017, 1-11, < https://federalismi.it/nv14/editoriale.cfm?eid=461&content=Verso+la+fase+due+della+Brexit:+promesse,+insidie+e+risultati+parziali+del+negoziato&content_auth=%253Cb%253ECarlo+Curti+Gialdino%253C/b%253E >.

[115] I primi tre articoli (28, 29 e 29a) sono focalizzati ad individuare i soggetti aventi diritto ed a stabilire le norme da applicare. Gli altri due articoli (il 30 ed il 31) riguardano l’amministrazione cooperativa e lo sviluppo ed adattamento delle norme, basate in larga parte sul regolamento CE 883/2004, che rimane sostanzialmente invariato. Sul punto v. Com.it.es, La Sicurezza Sociale Europea nel contesto dei negoziati tra Regno Unito ed Unione europea, 12 giugno 2018, reperibile online. < www.comiteslondra.info/brexit/osservatorio-politico/la-sicurezza-sociale-europea-nel-contesto-dei-negoziati-tra-regno-unito-ed-unione-europea/ >.

 

[116] House of Commons Library, Brexit: the draft withdrawal agreement, Briefing Paper n. 8269, 23 March 2018, 22.

[117] V. supra § 6.

106 Dai sondaggi effettuati subito dopo l’esito del referendum del 26 giugno 2016 è emerso che oltre un milione di cittadini britannici che aveva votato in favore del ‘leave’, è risultato essersi pentito e si è mostrato favorevole all’ipotesi di un secondo referendum sul c.d. Bregret, acronimo di Brexit e regret, ovvero il rammarico per l’uscita dall’Ue. In tal senso cfr. S. WALTERS, Theresa May is the only Tory who can stop Boris becoming PM, poll shows as it emerges 1.1million people regret voting Leave, in Daily Mail 26 giugno 2016, reperibile online in < http://www.dailymail.co.uk/news/article-3660294/May-Tory-stop-Boris-PM-poll-shows-emerges-1-1million-people-regret-voting-Leave.html >.

[119] «Sfortunatamente - ha dichiarato lo scorso 16 settembre Sadiq Khan - siamo in una posizione in cui il governo sta intraprendendo negoziati che ci porteranno verso due scenari: o un cattivo accordo, con la possibilità di lasciare l’Unione europea senza sapere quale sarà la nostra futura relazione con Bruxelles, o nessun accordo. Entrambe le opzioni porterebbero gravi danni a Londra e al Paese». Fautori della “linea dura” sull’addio all’Europa e, dunque, in netto contrasto con l’azione portata avanti dal governo inglese per l’uscita della Gran Bretagna dall’UE, sia David Davis, ex ministro del Governo May con delega alla Brexit (sostituito da Dominic Raab, già viceministro della Giustizia ed esponente del fronte pro-Leave durante la campagna referendaria del 2016), sia l’ex ministro degli esteri britannico Boris Johnson, entrambi dimissionari lo scorso 9 luglio.

[120] In virtù dell’art. 50 paragrafi 2 e 3 TUE, l’Unione europea deve concludere con il Regno Unito, entro due anni dalla notifica della propria decisione di recedere dall’Ue datata 29 marzo 2017 «un accordo volto a definire le modalità di recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione». Nell’ipotesi in cui non si dovesse addivenire ad un accordo di recesso, salvo eccezionali proroghe, i Trattati cesseranno di essere applicati al Regno Unito. V. F. Munari, You can’t have your cake and eat it too: Why the UK has not right to revoke its prospected notification on Brexit, 9 dicembre 2016, in sidiblog.org. Per un commento all’art. 50 TUE v. M. Vellano, Commento art. 50 TUE, in Commentario breve ai Trattati sull'Unione europea e sul funzionamento dell’Unione europea, a cura di F. Pocar - M.C. Baruffi, Padova 2014, 150-152.

[121] V. supra §§ 3 e 6.

[122] V. Commissione europea, COM(2017)206, 26 aprile 2017, Documento di riflessione sulla dimensione sociale dell’Europa, in www.ec.europa.eu .

[123] Cfr. M. Rhodes, Alla disperata ricerca di una soluzione: democrazia sociale, thatcherismo e “terza via” nel sistema del welfare britannico, in Nuova Europa e nuovo welfare, a cura di M. Ferrara, Bari 2001, 59.