Descrizione: Contributo-2018 

 

Descrizione: Sau foto - CopiaLE RADICI TEORICHE DELL’AUTOGOVERNO MEDIEVALE*

 

RaFFAELLA Sau

Università di Sassari

 

 

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Dal sincretismo aristotelico-tomista alla teoria repubblicana. – 3. Il buongoverno e l’ossessione repubblicana. – 4. L’età della discordia. – 5. La piccola repubblica. – 6. Fra il cittadino e il suddito. – Abstract.

 

 

 

1. – Premessa

 

Dal punto di vista della teoria politica, la vicenda storica del comune medievale è particolarmente interessante. Essa si dipana infatti all’interno di una cornice ideologico-culturale amorfa, che manifesta tutta l’ambiguità del non essere più qualcosa e non ancora qualcos’altro. Le città-stato del medioevo non sono una mera riproposizione delle città-stato greche e nemmeno della res publica romana. D’altra parte non hanno se non una confusa consapevolezza delle conseguenze che si svilupperanno, a partire dal Rinascimento, dalla nuova relazione che esse inaugurano fra governanti e governati intesi, questi ultimi, ancora prevalentemente in termini organicistici nonostante l’uso della distinzione, per la verità non concettualmente chiara, fra populus e civis[1]. Inoltre, il medioevo è totalmente dominato e condizionato, da un punto di vista politico e culturale, dalla dimensione religiosa. Una dimensione che assume un carattere non comparabile con quello, pure presente, dell’esperienza greca e romana. Non a caso, mentre per i greci e i romani la legittimità delle diverse forme politiche non è determinata né condizionata dal rapporto con la dimensione religiosa, che costituisce lo sfondo culturale e assiologico condiviso, la storia dei Comuni medievali e i tentativi teorici di giustificazione di quella forma di governo coincidono con la storia e la teorizzazione della distinzione fra legittimità discendente e legittimità ascendente del potere, coincidono in sintesi con la lotta per il riconoscimento di una indipendenza autentica rispetto alla regalità teocratica.

L’obiettivo di questo lavoro è, dunque, duplice. Da un lato intende illustrare il processo di elaborazione del vocabolario repubblicano che, avviato nell’alto medioevo, costituirà la base teorica del comune autonomo prima di essere sistematizzato dall’Umanesimo e dal Rinascimento, soprattutto ad opera di Machiavelli. Il secondo obiettivo è invece quello di valutare le proprietà euristiche e le capacità esplicative della teoria repubblicana del governo esaminando, attraverso una (ri)lettura critica del suo Statuto, l’organizzazione politica e le relazioni sociali che caratterizzano la Città di Sassari nei secoli XIII e XIV, al fine di approfondire alcuni nodi interpretativi legati all’attuazione dei principi dell’autonomia comunale.

 

 

2. – Dal sincretismo aristotelico-tomista alla teoria repubblicana

 

L’indeterminatezza della natura politico-ideologica assieme a una evoluzione discontinua di istanze, valori e prassi caratterizzanti hanno portato molti studiosi a negare l’esistenza di un pensiero politico che ispirasse la nascita delle repubbliche medievali[2]. Del resto, l’esperienza medievale dell’autonomia politica delle città ha avuto origine in un quasi vuoto ordinamentale (il passaggio dall’Impero romano al Sacro romano impero), affermandosi attraverso stratificazioni di consuetudini, prassi spontanee e benevolenza delle autorità universali riconosciute de jure e dunque, si è sostenuto, non sarebbe stata supportata da una teoria e da un linguaggio in grado di contrastare il paradigma della teoria del potere discendente, emblematicamente espresso dalla formula di Paolo di Tarso “Non est potestas nisi a Deo[3]. In effetti, ciò che ha attratto l’attenzione degli studiosi dei Comuni medievali è più la storia istituzionale, legata alla fase di codificazione statutaria, che quella delle sue basi ideologiche. Questo ha portato per molto tempo a privilegiare le analisi focalizzate quasi esclusivamente sull’utilizzo degli strumenti giuridici dell’epoca (dei Glossatori prevalentemente) tenendo in secondo piano la trama di discorsi, nessi linguistici e rappresentazioni ideali che invece lasciavano trasparire una chiara prospettiva valutativo-normativa tutt’altro che spontanea o peggio, improvvisata[4]. L’inversione di questa tendenza deve molto agli studi di Walter Ullmann[5] e soprattutto a quelli di Quentin Skinner[6]. Ullmann ricostruisce minuziosamente i passaggi che, dal Mille in poi, incrinano la solidità della regalità teocratica. Centrale, in questo passaggio, è l’esperienza fornita proprio dai Comuni autonomi dell’Italia centro settentrionale, modelli di governo repubblicano che si configurano come vere e proprie città-stato. L’affermazione dei princìpi portanti del potere ascendente è qui più che evidente. Innanzitutto, sostiene Ullmann, per la presenza di Statuti che contengono le norme di organizzazione, esercizio e limiti del potere politico e amministrativo. Ma anche perché si istituisce un rapporto di tipo rappresentativo fra chi ricopre incarichi di governo e la città nel suo complesso e perché gli eletti assumono la responsabilità personale dell’esercizio della funzione di fronte agli elettori. Le repubbliche medievali si reggono e funzionano dunque attraverso la partecipazione “popolare”, almeno finché dura la fase consolare e quella podestarile, sebbene si tratti di una partecipazione popolare non totalmente inclusiva. Il Comune, infatti, è pur sempre un ente inserito in un contesto che riproduce le caratteristiche basilari della società medioevale, cioè di una società cetuale, rigidamente stratificata e profondamente inegualitaria[7]. E tuttavia, il sorgere e la capacità di autorganizzazione interna, soprattutto all’interno delle zone urbanizzate, delle gilde, delle confraternite e delle corporazioni di arti e mestieri sono segnali importanti dell’incidenza nella vita quotidiana di pratiche che possono essere ascritte alla dimensione di un potere di “governo” che nasce dal basso e ascende verso l’alto[8].

Muovendo da obiettivi diversi, ossia ricercando le origini del pensiero politico moderno che ha nel “momento machiavelliano” il suo snodo centrale, anche Skinner attribuisce all’esperienza comunale la valenza “rivoluzionaria” segnalata da Ullmann. Tra i due studiosi vi è tuttavia una differenza significativa che riguarda innanzitutto le fonti dottrinarie a cui attingono per definire la specificità del regime repubblicano medievale. In Skinner, in particolare, il linguaggio che si afferma durante l’esperienza comunale serve a tracciare una linea di continuità fra il pensiero politico della Roma repubblicana e la teoria neo-romana della libertà, ossia quel filone teorico che attraversa l’età moderna e che informa di sé, molto più che il liberalismo, il processo antiassolutistico fino alle rivoluzioni americana e francese. Per questo egli attribuisce alla traduzione cristianizzata di Aristotele un’importanza secondaria rispetto alla lettura di Ullmann. Le opere di Aristotele, infatti, soprattutto nell’interpretazione fornita da Tommaso d’Aquino, sono utili all’elaborazione di teorie sul potere ascendente ma non danno pienamente ragione della rielaborazione e dell’affermazione in epoca medievale della teoria repubblicana dello stato libero. Al contrario, quando esamina la portata rilevantissima per la teoria dell’autogoverno medievale delle opere di Marsilio da Padova e di Bartolo di Sassoferrato, Skinner sostiene che in questi autori «la difesa delle libertà repubblicane deve essere capita e situata contro l’ortodossia tomistica»[9]. Egli crede piuttosto che sia al vocabolario della Roma repubblicana che si rivolga l’attenzione degli apologeti medievali dell’autonomia comunale. Un vocabolario che, non casualmente, arriva a maturazione nella seconda metà del XIII secolo, nel momento in cui si manifestano già le patologie del regime comunale con l’inasprirsi del conflitto fra fazioni interne e prima ancora che fossero elaborate le teorie più compiute della giustificazione giuridica dell’autonomia comunale. E’ proprio in quella fase infatti che affiora, forse non del tutto consapevolmente, l’autocoscienza civica: nel momento in cui si rischia di perdere l’autonomia e la libertà, sostiene Skinner, si raffinano gli strumenti linguistici che, nell’incitare alla difesa della libertà cittadina ne sostanziano teoricamente il valore. E non è un caso che gli Statuti, ossia la più “provocatoria” – in quanto emanati da un potere de facto - e concreta dimostrazione di autonomia legislativa praticata dai comuni medievali, fioriscano prima ancora che la dottrina giuridica fornisca loro uno strumento legale su cui fondare la propria autonomia e quindi arginare le pretese alla subordinazione sempre avanzate dal potere imperiale. 

 

 

3. – Il Buongoverno e l’ossessione repubblicana

 

La teoria repubblicana del governo emerge, in epoca comunale, da una frattura culturale prima che politica. Si tratta di una discontinuità, inizialmente poco visibile, rispetto alla rappresentazione del mondo tipica dell’uomo medievale che è definita, com’è noto, prevalentemente dalla teologia cristiana. Sebbene infatti l’egemonia della visione religiosa e dei suoi custodi investa sia la conservazione e la trasmissione del sapere classico, sia l’arte e la filosofia (che in questa fase presenta confini labili e incerti con la teologia), il confronto delle idee non può dirsi esclusivamente circoscritto all’ambito ecclesiastico[10]. È da questa ipotesi che Skinner muove per ricostruire i passaggi verso un’ideologia laica autosufficiente. In effetti, sostiene, «alla fine del XIII secolo i protagonisti dell’autogoverno repubblicano potevano disporre di due distinte tradizioni dell’analisi politica [che] resero possibile ai protagonisti della libertà repubblicana di concettualizzare e difendere i valori peculiari della loro esperienza politica»[11].

Della minuziosa ricostruzione di Skinner è sufficiente qui cogliere il nesso fra quattro sviluppi culturali che caratterizzano il XIII secolo: il primo riguarda l’evoluzione della retorica nel momento in cui si afferma come strumento propagandistico, sia come Ars Dictaminis che come Ars Agendi, e non più solo come disciplina accademica riservata agli studenti di diritto; il secondo è rappresentato dall’emergere di una letteratura politica, anch’essa derivata dall’Ars Dictaminis, consistente in raccolte di consigli destinati ai podestà; il terzo riguarda la diffusione del pensiero politico della Roma repubblicana, veicolata, a partire dalla seconda metà del ‘200 dall’Umanesimo e dalla filosofia scolastica, non più all’insegna dello stoicismo, e quindi del distacco dagli affari politici, bensì come esempio di impegno e virtù civile. Sono questi gli impulsi che preparano il terreno per il superamento dell’approccio dei Glossatori, fino allora dominante, al problema del conflitto fra sovranità imperiale e autonomia comunale che sarà esemplarmente risolto, almeno teoricamente, a vantaggio delle rivendicazioni dei Comuni con le opere di Marsilio e Bartolo nella prima metà del Trecento.

L’Ars Dictaminis si afferma come una nuova forma di annalistica e cronaca cittadina che scardina il monopolio dei chierici nella narrazione delle vicende politico-militari dei comuni. Nei primi decenni del XIII secolo infatti, sostiene Skinner, «alcuni giuristi, dictatores ed altri esponenti laici delle discipline legate alla retorica iniziarono per la prima volta ad occuparsi della storia della loro città. Fece così la sua comparsa una forma completamente nuova di storiografia civica dettata da uno stile più retorico e di un tono più consapevolmente propagandistica di tutto quello che si era tentato precedentemente»[12] anche perché la cronaca diventa secondaria rispetto alla divulgazione dell’ideologia repubblicana. Da Boncompagnone da Signa (Liber de Obsidione Ancone) a Rolandino da Padova, il fine ideologico è sempre dominante: «tutta la cronaca è infatti concepita come una celebrazione della libertà repubblicana, da trattare come un valore politico fondamentale che è necessario difendere se in pericolo»[13].

Particolarmente interessante per la comprensione dell’impianto istituzionale marcatamente repubblicano degli Statuti è invece la comparsa della letteratura sui consigli ai magistrati e ai podestà. Il primo di questi trattati, l’anonimo Oculis pastoralis, che risalirebbe al 1222, ma anche il Liber del regimine civitatum di Giovanni da Viterbo sono opere che riflettono ancora profondamente l’uso del linguaggio e della simbolica scritturale[14]. Il riferimento al “timor di Dio” è l’orizzonte all’interno del quale si deve espletare l’esercizio del potere del podestà. Si tratta tuttavia di testi che anticipano questioni, come si vedrà, che negli Statuti diventeranno centrali in una prospettiva “laicizzata” della funzione di governo. Mi riferisco in particolare all’enfasi che queste opere assegnano alla corretta condotta dei podestà e alla definizione del buongoverno tarata sulla contrapposizione fra vizi e virtù dei governanti, che negli Statuti sarà declinata in funzione anti-corruttiva e a garanzia del controllo “popolare” dell’esercizio del potere.

Che questo vocabolario arrivi agli Statuti depurato del suo primario significato religioso è plausibile anche alla luce della contemporanea diffusione dei testi politici di Cicerone, di Sallustio, di Catone ad opera di pre-umanisti come Brunetto Latini e della riflessione critica sull’aristotelismo e l’ortodossia dell’interpretazione del diritto compiuta da autori come Mersilio e Bartolo.

Skinner attribuisce all’Umanesimo un’importanza decisiva per l’elaborazione della teoria repubblicana. Innanzitutto per il contributo alla definizione del concetto di libertà, intesa come indipendenza e assenza di dominio, ossia come facoltà di autoregolazione non arbitraria del governo della società. Gli umanisti, inoltre, «procedettero a sviluppare un’ideologia consacrata non solamente a sostenere i valori centrali delle libertà repubblicane, ma anche volta ad analizzare le cause della loro vulnerabilità e ad accertare quali fossero i metodi migliori per tentare di assicurarne la continuità»[15]. Il debito verso la cultura romana e ciceroniana è in questo senso chiarissimo. Come del resto le analogie di contesto, cioè la crisi del sistema. Come Cicerone, questi scrittori assistono alla progressiva decadenza dei costumi (la corruzione), dei valori e delle istituzioni  repubblicane (le fazioni). Come Cicerone, assistono all’invocazione e all’imposizione di un ordine nuovo che per garantire la pacificazione sociale deve ridurre la libertà. Il filo conduttore della trattatistica politica diviene, in questo modo, la preoccupazione per l’avvento dei “nuovi despoti”.

È interessante notare che da queste analisi emerge una concezione del buongoverno diametralmente opposta a quella che si affermerà in tarda epoca moderna e che meriterebbe ancora oggi una maggiore attenzione poiché riguarda l’endemica questione del rapporto fra politica e corruzione. Infatti, se la filosofia politica moderna riterrà di arginare il problema della corruzione attraverso la creazione di istituzioni forti, i teorici repubblicani hanno sempre sostenuto che la corruzione prescinde dalla qualità delle istituzioni essendo piuttosto intimamente correlata alla qualità degli uomini:  «se gli uomini preposti alle istituzioni di governo sono corrotti, non ci si deve aspettare che le migliori istituzioni possibili siano in grado di formarli o frenarli, mentre se gli uomini sono virtuosi, la salute delle istituzioni sarà un fatto di secondaria importanza»[16].

Da questo assunto dipendono in gran parte le categorie portanti del pensiero politico repubblicano, che consentono di isolarne l’originalità e la specificità. 

Letteralmente repubblica significa «cosa pubblica», «cosa del popolo», e denota, nel vocabolario dei latini, una comunità politica sovrana governata dalle leggi e organizzata intorno a due principi fondamentali: il perseguimento del bene comune in quanto scopo primario dell'azione del governo; la libertà dei cittadini intesa come assenza di dipendenza da una volontà arbitraria[17]. Res publica è un termine che evoca dunque l'idea del controllo del potere politico e che si contrappone pertanto al principio monarchico che incarna (nell'esperienza dei romani e) da Cicerone in poi, l'idea del potere arbitrario. La definizione di Cicerone, per la verità, come è pur noto, non è che una declinazione delle due principali interpretazioni del buongoverno (inteso o come il governo nell’interesse di tutti o come il governo sottoposto ai vincoli della legge) che risalgono a Platone e Aristotele e che sono state variamente reinterpretate nella storia del pensiero politico successivo. Nelle Leggi, Platone sostiene infatti: «dove la legge è sottomessa ai governanti ed è priva di autorità, io vedo pronta la rovina delle città; dove invece la legge è signora dei governanti e i governanti sono i suoi schiavi, io vedo la salvezza delle città (...)». Nel IX libro della Repubblica, egli aveva invece definito il malgoverno come il governo di chi persegue solo il proprio interesse e nella figura del tiranno (che usa il potere per soddisfare i propri piaceri e i desideri illeciti) aveva indicato la sua espressione parossistica. Non diversamente Aristotele giustifica la sua preferenza per il governo delle leggi, sostenendo che la legge (che ha un carattere generale a differenza del comando del capo di turno), «non ha passioni che necessariamente si riscontrano in ogni anima umana»[18].

Come giustamente è stato osservato, le due interpretazioni del buongoverno (la prima riguardante la domanda: chi governa?, la legge o il sovrano?; la seconda, come si governa?, per il bene proprio o per l’interesse di tutti?) sono circolari: «il governo delle leggi è buono se le leggi sono buone e sono buone le leggi che hanno di mira il bene comune»[19].

Questi ultimi due principi non sono tuttavia necessariamente connessi a una forma specifica di governo. Sono per esempio compatibili con tutte le forme buone di governo teorizzate da Aristotele (monarchia, aristocrazia e politia). La differenza fra Aristotele e Cicerone (e poi Machiavelli) sta allora nel credere o nel dubitare che leggi buone possano discendere da un potere non sufficientemente limitato o che può in qualunque momento rompere gli argini entro i quali deve operare[20].

E’questa l’ossessione repubblicana, radicata peraltro in una concezione antropologica fondata non tanto sulla malvagità dell’uomo quanto piuttosto nella possibilità della sua corruttibilità[21]. Timore che Cicerone ha creduto di superare equiparando il buongoverno al governo misto e che le civitates medievali hanno cercato di imitare equiparando l’ideale del buongoverno a quello della Roma dell’età repubblicana.

La rielaborazione duecentesca degli ideali repubblicani può essere considerata dunque come una variazione o attualizzazione delle sintesi ciceroniane del tema del buongoverno: il valore portante, la libertà intesa come assenza di dominio, si realizza stabilendo un rigido legame fra il governo esercitato in base alla legge e il perseguimento dell’interesse comune. Ne discendono tuttavia una serie di corollari non secondari per la qualificazione popolare dei regimi repubblicani. Il primo riguarda le qualità che capacitano la partecipazione rispetto all’esercizio del potere. In questo senso è costante, da Compagni a Latini a Dante, l’idea che «la nobiltà tradizionale debba essere ignorata e che possono essere idonei individui appartenenti a tutte le classi sociali, con l’unica condizione che essi posseggano una sufficiente larghezza di vedute che permetta loro di opporsi al dominio degli interessi settoriali». La virtù è dunque intesa come «proprietà puramente personale, una conquista individuale piuttosto che l’appartenenza a famiglie che il caso ha voluto siano antiche o ricche»[22]. Il secondo, concerne invece l’attribuzione al “popolo” (piuttosto che, come si è detto, alle istituzioni) del compito di tutelare e salvaguardare il sistema politico dalle degenerazioni e dall’avanzata, che nella seconda metà del Duecento si faceva sempre più realistica, dei signori e dei tiranni.

 

 

4. – L’età della discordia

 

Al di là della trama celeberrima, semplificata dal dramma amoroso, la vicenda di Giulietta e Romeo, o meglio il conflitto fra Montecchi e Capuleti, racconta molte cose sulla storia dei Comuni medievali italiani, sulla loro trasformazione e sulle ragioni che ne causarono il tramonto. Il conflitto fra Montecchi e Capuleti infatti (e in generale fra guelfi e ghibellini, neri e bianchi), per quanto probabilmente frutto di immaginazione romanzesca, evoca emblematicamente le atmosfere turbolente delle città-stato medievali: il fazionalismo, la corruzione, il logoramento del rapporto di fiducia fra governo e cittadini, la prevalenza degli interessi particolari su quelli della città. Tutte istanze che, a partire dalla seconda metà del XIII secolo, alimentano aspri conflitti interni alle città promossi, nella maggior parte dei casi, dalle frange popolari, ossia da coloro che erano esclusi dai diritti politici e quindi dalla cittadinanza attiva, di volta in volta sostenuti o osteggiati dalle aristocrazie e oligarchie locali[23]. I moti popolari che emersero nelle più importanti repubbliche dell’Italia centro settentrionale ottennero però, nel migliore dei casi, l’allontanamento delle famiglie nobiliari dai ruoli di governo e l’insediamento di oligarchie mercantili.

È noto che l’impulso popolare non produsse mai una vera e propria “democratizzazione” delle repubbliche. Casomai accelerò il processo verso l’istituzione delle Signorie. Il fazionalismo infatti sovvertì la scala dei valori su cui si fondava la preferibilità della res publica corroborando l’idea (con l’autorevole sostegno di Tommaso d’Aquino) che la pace fosse preferibile alla “libertà” e all’indipendenza e che il regime monocratico garantisse meglio la stabilità e la grandezza delle città.

Questa polarizzazione, che caratterizza tutta la fase discendente dei comuni italiani, costituisce il retroterra polemico che ispira, agli inizi del Trecento, le opere più compiute sull’autogoverno cittadino. Si tratta, com’è noto, del Defensor pacis di Marsilio da Padova e delle opere di Bartolo di Sassoferrato fra cui il De regimini civitatis, il De tyranno, il De Statutis. Gli elementi combinati delle opere di questi due autori forniscono al governo repubblicano ciò che fino a quel momento era stato pensato e discusso in modo confuso e asistematico. Mentre, infatti, la dottrina politica di Marsilio, che contrappone il civis al fidelis, subordinando la Chiesa all’autorità della civitas[24], impernia sulla figura del civis il ruolo determinante e imprescindibile per il governo della società, la dottrina giuridica di Bartolo pone le basi giustificative del diritto-potere dei cives di governare se stessi. Marsilio dunque, come ha osservato Skinner, fornisce ai Comuni l’argomento contro la chiesa mentre Bartolo gli fornisce l’argomento contro l’impero[25].

L’eccezionalità di queste opere, e probabilmente anche il loro isolamento nell’orizzonte della filosofia medievale, risiede nel rifiuto della lettura mediata dei testi classici, Aristotele innanzitutto (e il diritto romano in secondo luogo), che all’epoca dominava il dibattito nella forma dell’adattamento alla cosmologia cristocentrica realizzata da Tommaso.

Pur essendo diverse per linguaggio, metodi e approcci, nelle dottrine di Marsilio e di Bartolo si possono individuare medesimi presupposti e finalità convergenti sia di tipo normativo sia relative alla contingenza storica. I presupposti risiedono nella concezione dell’autosufficienza della legge positiva che consentirà loro di teorizzare il governo fondato sul consenso popolare al fine di contrastare, anche in termini propagandistici, l’avanzata dei “tiranni”.

Per Marsilio «la legge è fatta, non data, ed è fatta dalla comunità dei cittadini»[26]. Il punto è chiaramente espresso nel Defensor Pacis: «Diciamo dunque, d'accordo con la verità e l'opinione di Aristotele, nella Politica, libro III capitolo VI, che il legislatore o la causa prima ed efficiente della legge è il popolo o la sua parte prevalente, mediante la sua elezione o volontà espressa con le parole nell'assemblea generale dei cittadini, che comanda che qualcosa sia fatto o non fatto nei riguardi degli atti civili umani sotto la minaccia di una pena o punizione temporale»[27].  L’universitas civium dunque detiene il potere. Più semplicemente, il legislatore è il popolo, cioè il vero sovrano, poiché superiorem non recognoscens[28].

Il nesso fra diritto positivo e sovranità popolare, che scardina la concezione della legge come donum Dei, laicizzando la sfera della politica, è pure al centro della complessa e articolata opera di Bartolo. Il suo intento è dimostrare come la diffusione del diritto consuetudinario (jus commune) e l’affermarsi dell’autonomia statutaria dei Comuni non solo dimostrano la fallacia delle concezioni discendenti del governo e della legge (ossia dei principi della regalità Dei gratia) ma anzi, ne rappresentano una sorta di confutazione fattuale: se il popolo produce e si conforma al diritto consuetudinario (che emerge spontaneamente dagli usi e costumi praticati dal popolo stesso e non certo calati da volontà esterne) allo stesso modo può produrre il diritto positivo, cioè può fare leggi e Statuti[29]. Riferito alle pretese di autonomia dei comuni, questo non significa sostenere che il loro potere è legittimo solo perché è effettivo (esercitato de facto) ma che è effettivo perché fondato sul consenso dei cittadini.

Il primo obiettivo di Bartolo è quello di contestare l’approccio dei Glossatori nell’applicazione del diritto romano circa le prerogative dell’imperatore. Il metodo usato da Bartolo è ancora quello dei Glossatori, cioè prevalentemente il commento al Digesto, ma il ragionamento geometrico che egli segue ne rovescia le conclusioni. I Glossatori estendevano all’imperatore i diritti che il codice di Giustiniano attribuiva al princeps. Pertanto, se il contesto socio-politico (nella fattispecie la rivendicazione dei comuni all’autonomia) non era coerente con quei principi, il contesto doveva essere cambiato e riportato nel solco del diritto vigente. Reinterpretando il diritto civile romano, Bartolo postula invece il principio opposto: quando la legge entra in conflitto con i fatti è la legge che deve essere riportata in conformità ai fatti. Da ciò egli deriva due conseguenze profondamente innovative: la negazione dell’universalità della sovranità, e dunque la possibilità del pluralismo degli ordinamenti politici sovrani; l’estensione ai Comuni della qualità di essere sibi princeps all’interno del proprio “regno”, simili in tutto, dunque, nelle prerogative che rendono l’imperatore sovrano nel suo regno.

I due argomenti sono sviluppati nello stile della risposta a quesiti comunemente discussi dai giuristi nel conflitto secolare fra sovranità imperiale e rivendicazioni comunali. Il primo viene illustrato nel commento alla parte del Digesto dedicata a definire il diritto di delega a svolgere competenze giurisdizionali, che è tipicamente prerogativa di chi esercita la sovranità e, nell’interpretazione dei Glosssatori, dell’imperatore. Riferendosi esplicitamente all’esperienza comunale, Bartolo inizialmente nega la possibilità della delega «nelle città che riconoscono un superiore [in quanto] esse sono obbligate a ricorrere all’imperatore». Paradossalmente ciò dimostra la possibilità della delega «nel caso di città che rifiutano di riconoscere la signoria dell’imperatore [poiché] esse sono in grado di fare le proprie leggi» giacché «in questo caso la stessa città è sibi princeps, un imperatore essa stessa»[30]. Anche il secondo argomento serve a giustificare la rivendicazione del diritto all’autonomia ordinamentale – sBartolo fa esplicito riferimento alla città di Firenze – e dunque alla conservazione dell’autogoverno repubblicano attraverso la libertà di emanare statuti. Il pretesto è qui la questione della competenza nei giudizi di appello che egli esamina ripercorrendo la gerarchia fra i giudici fino all’apice, nel quale il Digesto colloca il priceps. Questa gerarchia sarebbe non applicabile, egli sostiene, nelle città che non riconoscono alcun superiore, come appunto Firenze, che «elegge il suo reggitore e non ha altro governo». Infatti, «in questo caso il popolo stesso deve agire come giudice di appello, oppure una classe speciale di cittadini nominata dal governo [poiché] in questo caso il popolo stesso costituisce l’unica entità superiore e quindi costituisce il sibi princeps, ossia un imperatore esso stesso».

Al di là degli straordinari esiti teorici (l’elaborazione di una teoria della sovranità popolare nel quadro di un pressoché generalizzato consenso delle teorie sull’origine discendente del potere) le opere di Marsilio e Bartolo sono particolarmente interessanti anche perché contengono un preciso intento pratico, più raffinato e articolato, ma sostanzialmente simile a quello dei dictatores: quello cioè di sottolineare la bontà di istituzioni non arbitrarie e parallelamente evidenziare il punto critico della tenuta del sistema, che come in altri autori, è il fazionalismo, il pericolo della scissione del corpo cittadino in partiti e gruppi rivali e la corruzione dei valori repubblicani per la cui soluzione era continuamente evocata la minaccia del ritorno dei tiranni. È proprio questa minaccia che giustifica l’impossibilità per il popolo di alienare il potere sovrano. Nessuna migliore garanzia per il popolo di evitare il dominio che quella di detenere il potere sovrano. Può essere secondario il soggetto che esercita effettivamente il potere. Quest’ultimo tuttavia è un mero rappresentante pro tempore e in base a un mandato esplicitamente definito - e pertanto revocabile - dai cittadini. Riemerge evidentemente, anche in questi autori, quella che ho definito come l’ossessione repubblicana per il controllo sull’esercizio del potere politico. Non è un caso che essi, in aperta polemica con le tesi sintetizzate da Tommaso, secondo cui «tutte le città e le provincie che non sono rette da una singola persona divengono lacerate dalle fazioni e si agitano senza mai ottenere la pace, (mentre) non appena vengono ad essere rette da un unico governante, gioiscono in pace, fioriscono in giustizia e godono di abbondanza e ricchezza»[31], ribadiscono che la piena compatibilità fra la tutela della libertà e la garanzia della pace è possibile solo attribuendo al popolo il ruolo di Defensor pacis.

 

 

5. – La piccola repubblica

 

Più o meno negli stessi anni in cui le proteste popolari, attraverso le richieste di maggiore inclusione nel governo delle città, provocarono la svolta anti nobiliare in molti dei Comuni dell’Italia centro-settentrionale, l’esperienza comunale si estese fino a connotare anche l’organizzazione politica e sociale di alcune città situate geograficamente nell’Italia meridionale e insulare. Fra queste, per il modo peculiare della sua genesi e per talune caratteristiche connesse ai costumi e ad altre espressioni culturali particolarmente legate al territorio, il caso di Sassari ha un particolare rilievo storico.

La forma di governo che si istituì a Sassari con la convenzione fra il capoluogo turritano e la Repubblica di Genova (1294) fu il risultato di due impulsi popolari solo apparentemente contrapposti, uno di emancipazione, l’altro di stabilizzazione. Il primo caratterizza la fase di creazione di un nuovo ordine politico e di una nuova organizzazione amministrativa durante il processo (spesso cruento) di emancipazione della città di Sassari dalla giurisdizione del Giudicato di Torres e dall’influenza pisana. Il secondo è la sistematizzazione e positivizzazione in un codice statutario di una serie di istituti e norme consuetudinarie stratificate nel tempo che rivelano da un lato elementi tipici delle pratiche e dell’identità della società sarda dell’epoca, e dall’altro lato l’integrazione degli istituti e della cultura repubblicana traslata proprio dall’esperienza della dominazione pisana[32]. Un terzo impulso determinante fu ovviamente l’utilitaristica benevolenza[33] di Genova che, confederando la città di Sassari consentiva l’istituzione di una piccola repubblica[34] più o meno a sua immagine e somiglianza.

L’Atto di confederazione tra il comune di Genova e il comune di Sassari contiene già tutti gli elementi che consentono di collocare pienamente quell’esperienza fra gli esempi medievali di applicazione dei principi del governo popolare così chiaramente illustrati nei lavori di Ullman e Skinner. E’ tuttavia nelle norme contenute nei codici statutari, e non solo in quelle relative al diritto pubblico e all’organizzazione amministrativa, che emerge la natura specifica della forma di governo del Comune autonomo sassarese.

Sul concetto di autonomia ruota molta parte del dibattito sull’interpretazione e il valore di quella esperienza di governo. Forse troppo enfaticamente si è cercato di individuare in quel moto di ribellione contro il dominio giudicale e nelle maglie degli Statuti, il principio di una presunta radice congenita dei sardi all’autogoverno[35]. Anche più azzardato è il tentativo di forzare la lettura degli Statuti per rintracciare una forma “primigenia” di democrazia[36].

Con l’uso delle categorie proprie della teoria repubblicana del governo illustrata sopra, intendo sostenere in particolare due tesi. La prima, concerne il valore dell’istanza dell’autonomia che, in quest’ottica, non traduce l’idea della democrazia (il presupposto assiologico del governo popolare non è l’uguaglianza dei cittadini rispetto all’esercizio diretto del potere; casomai è l’uguaglianza rispetto alla protezione e alla sicurezza garantita dalla legge). La seconda tesi, strettamente collegata alla prima, riguarda la definizione - tanto indagata nella letteratura sugli Statuti medievali - del cittadino, che non è definito da un catalogo di diritti ma dall’ideale della libertà intesa come non dominio e dal sentimento di appartenenza (organicisticamente inteso) alla città, che si esplica attraverso l’esercizio di quelle che il pensiero repubblicano definirà virtù civiche.

Dal punto di vista di una teoria generale delle forme di governo, le repubbliche medievali italiane, e a maggior ragione il caso delle città confederate e pazionate, sfuggono a una rigida classificazione. Infatti esse non sono particolarmente inclusive (rispetto all’estensione dei diritti politici) da rientrare nella classe delle repubbliche democratiche né particolarmente esclusive da essere considerate, secondo la distinzione che opererebbe Machiavelli, repubbliche aristocratiche. Del resto, per il Segretario fiorentino la grande distinzione, quella sostanziale, è quella fra il governo condotto in base alla volontà di uno (il principato) e il governo espresso da una volontà collettiva (poco importa che tale volontà si formi democraticamente o provenga da una aristocrazia). Un realismo che ispira anche il giudizio di Giuseppe Manno quando segnala che l’importanza della Convenzione sta nel fatto che «grande è il passaggio di città soggetta a città confederata»[37] e quando inaugura l’uso della locuzione “repubblica”, che nella Convenzione non compare mai per qualificare Sassari, come corrispondente sostanziale di quella nuova forma di reggimento.

Benché il termine appaia ripetutamente nelle titolazioni delle trascrizioni ottocentesche degli Statuti e nella vulgata[38], è improprio definire la Sassari comunale una res publica. Sassari è un comune pazionato, dalla sovranità limitata. Sebbene tali limiti avessero natura pattizia, fondati cioè sul consenso tanto da richiamare una sorta di analogia con la figura dell’assoggettamento volontario[39] e nonostante la prassi potesse aver consolidato fra i terrazzani della villa[40] di Sassari l’abitudine a considerarsi autonomi, il fatto che la nomina del Podestà, l’istituzione che coordina l’insieme dei poteri politici in una posizione sovraordinata rispetto agli altri, fosse prerogativa della Repubblica di Genova, ne limita di fatto l’autonomia. Tuttavia, questo dato non inficia la possibilità di estendere la definizione di Cicerone prima ricordata al Comune autonomo di Sassari. Non solo perché, come si vedrà, l’elettività, la frequente rotazione della carica e il sistema di controlli e contropoteri cui è vincolato il podestà garantiscono la comunità dall’esercizio arbitrario del potere ma anche perché, almeno formalmente, ciò che legittima la Convenzione e obbliga entrambi i contraenti è il perseguimento del bene comune delle due comunità. Infatti, la lettura combinata del patto di confederazione e degli Statuti conferma un’architettura istituzionale orientata da un lato a stabilire, attraverso il governo delle leggi, argini contro l’arbitrio e la corruzione nell’esercizio del potere politico, dall’altro a ribadire i fini generali del governo che nel linguaggio dell’epoca si esprimeva attraverso la ricerca della grandezza, della conservazione e della stabilità della Repubblica.

Sotto il profilo dell’organizzazione interna la Convenzione e gli Statuti prevedono tre istituzioni politiche fondamentali: il podestà, il consiglio maggiore e il consiglio minore. Il podestà, eletto direttamente a Genova fra cittadini di Genova, attraverso un meccanismo a doppio turno e (nell’attuale terminologia si direbbe) dalle due camere in seduta comune (consiglio maggiore e consiglio degli anziani), resta in carica un solo anno. Fra i cittadini di Genova sceglie i suoi più stretti collaboratori. Riguardo alle sue funzioni, è disposto che egli «abbia ed eserciti ogni giurisdizione, il mero e misto imperio e qualunque autorità sulla detta terra di Sassari e sul distretto (…) così che non abbia alcuno né superiore né uguale, né alcun magistrato od altri sia o possa crearsi in detta terra di Sassari»[41].

Il consiglio maggiore, composto da cento consiglieri (juratos), il 90% dei quali eletti a vita (e rinnovato attraverso cooptazione dallo stesso consiglio), è la massima istituzione rappresentativa del Comune: riunisce infatti non solo i rappresentanti dell’oligarchia borghese e mercantile (l’indiscussa classe dirigente del comune medievale) ma anche una piccola rappresentanza di cittadini di origine popolare, nominati non per lo status sociale ma in base alle qualità morali, alla reputazione acquisita per aver reso servizi alla Città e per il fatto di possedere competenze tali da garantire l’esercizio esperto e saggio della funzione. Ciò che conta sottolineare, a questo proposito, è che questa pur esigua rappresentanza popolare è designata da quelli che negli Statuti sono indicati come boni homines fra altri boni homines, cioè fra coloro che meglio esibiscono le qualità morali e le competenze tecniche di cui si è detto[42]. Il consiglio maggiore assomma molteplici funzioni (dalla vendita degli uffici e dei beni del comune alla selezione degli emendatori degli Statuti; dalla designazione degli otto sindaci alla determinazione dei prezzi delle carni) molte delle quali svolge in concorso col podestà[43].

Il consiglio minore, o consiglio degli anziani, è invece una sorta di organo esecutivo rispetto alle deliberazioni del consiglio maggiore. La sua composizione riflette la volontà di coinvolgimento di tutta la città nella vita politico-amministrativa, mentre le sue funzioni evidenziano la ricerca del bilanciamento fra poteri e del controllo sull’esercizio del potere politico. Infatti, è composto da sedici membri (nominati fra gli anziani), quattro per ciascun quartiere in cui è divisa la città; è presieduto da un priore, di solito il più anziano. Al consiglio minore, fra le altre cose, spetta, di concerto col podestà, convocare il consiglio maggiore, emanare i bandi, selezionare il personale amministrativo - gli officiales dessu comune - e i tecnici. Un ruolo rilevante svolgono, fra questi, gli otto sindaci (scelti anch’essi fra boni homines) e il massaio. Ai sindaci è infatti delegato il compito di vigilare sulla legittimità e sul merito dell’operato degli ufficiali pubblici: verificano la corrispondenza degli atti alla Convenzione con la Repubblica di Genova, approvano i bilanci delle spese degli uffici, vigilano sulla fedeltà degli ufficiali, sulla corretta gestione del patrimonio pubblico e sulla conservazione dei beni del Comune. Il massaio è invece il tesoriere. È nominato da otto boni homines (due per quartiere) invitati dal consiglio minore a selezionare appunto uno buono e savio uomo. Dura in carica appena due mesi e non è rieleggibile prima di dieci anni né coloro che lo hanno eletto possono per un anno far parte degli elettori del massaio successivo. Si noti a questo proposito che gli Statuti non tralasciano, a conferma dell’impianto in funzione anti corruttiva, di esplicitare il divieto del voto di scambio inibendo, a tutti coloro che sono chiamati nel ruolo di elettori, di accogliere richieste di candidature, direttamente o per interposta persona[44].

Una miriade di altre funzioni completano il quadro istituzionale: dalle corone (organi giudiziari tipicamente autoctoni[45]) ai majores de chita[46] ai vari apparati di polizia e pubblica sicurezza.

Ciò che caratterizza le istituzioni comunali, qui solo rapidamente abbozzate, è tuttavia da un lato la connessione costante, regolata dalla legge, fra l’esercizio della funzione e la responsabilità personale. Una connessione che investe tutti i ruoli, da quello apicale del podestà fino all’ultimo degli officiales dessu comune e persino i semplici cittadini. Dall’altro lato la previsione di una serie di vincoli contro l’esercizio arbitrario del potere e di argini contro la possibilità della corruzione. Se c’è una discontinuità specifica fra le forme di governo che il mondo occidentale ha praticato fra la caduta della Repubblica romana e l’edificazione dei grandi stati assolutistici è proprio in queste due istanze, idealmente pensate per affermare il governo della legge contro il governo degli uomini, il non dominio rispetto all’arbitrio, la volontà collettiva rispetto agli interessi di uno (o di pochi).

Già nell’Atto di confederazione, assieme alle prerogative, sono indicati i limiti del potere del podestà. Mentre infatti gli si riconosce ogni giurisdizione (civile e penale) e una autorità che sulla villa e sulla terra di Sassari non ha superiore né uguale, questa tuttavia è esercitata «secundum capitula, et statuta et consuetidines loci predicti». E l’articolo 152 del I libro degli Statuti, a ulteriore conferma di quanto già contenuto nell’articolo 1 dedicato al giuramento del podestà, ribadisce che egli non possa esercitare alcun arbitrio: «Ordinamus qui sa potestate del Sassari (…) non pothat, over deppiat in nessunu modu aver, nen exponner in consizu, over foras, de aver daue su Cumone de Sassari alcunu arbitriu, salvu solamente secundu sas conventiones factas inter issu Cumone de Ianua, et issu Cumone de Sassari, et issos capitolo et ordinamentos dessu Cumone de Sassari».

In generale, gli Statuti disciplinano in modo stringente l’azione del podestà, stabilendo l’onorario, l’abitazione, il divieto di esercitare violenza fisica su alcuno, di accettare regali (I, 114), di intraprendere attività commerciali in proprio, di coltivare relazioni personali con i terrazzani (I, 118) e soprattutto, di avanzare personalmente o tramite il consiglio richieste in denaro (oltre gli emolumenti stabiliti), esigere beni del comune o la possibilità di ampliare la sua personale guardia armata (masnada). Del resto, come pure sostiene Costa, la stessa scelta di eleggere il podestà fra un cittadino straniero, pratica consueta nei comuni confederati, «presentava maggiore guarentigia, non avendo rapporti d’interessi e d’amicizia co’ cittadini»[47]. Dello stesso tenore la precisazione del Tola a proposito del capitolo XCV, «Qui sa potestate non pothat dimandare sergentes, norma “sancita per impedire che il podestà potesse con la forza armata opprimere la libertà dei cittadini»[48].

Per ciascuna di queste violazioni, gli Statuti prevedono sanzioni, prevalentemente pecuniarie, generalmente destinate alla gestione dei beni del comune o delle opere pubbliche (esemplare a questo proposito le multe «da destinarsi al porto di Torres»[49]). Analoghe prescrizioni e sanzioni sono estese dagli Statuti alla famiglia e ai collaboratori del podestà, a tutti gli impiegati e funzionari pubblici (esposti questi tuttavia non solo a sanzioni pecuniarie ma, in casi di gravi reati contro i beni e l’immagine del Comune, puniti con la pubblica infamia e l’allontanamento perpetuo dagli uffici) e al massaio.

Assieme ai vincoli, assume, come si è detto, un ruolo determinante nella dinamica del governo del Comune autonomo, la responsabilità personale associata all’esercizio del potere. Ancora una volta in analogia alla legislazione della Repubblica di Genova, anche al podestà, ai suoi collaboratori e ai pubblici ufficiali di Sassari è esteso infatti l’obbligo di rendiconto delle azioni e delle scelte operate; nel caso del podestà questo avviene alla fine del mandato e nel corso di solenni e periodici giudizi detti sindacature. È interessante notare non solo che il diritto di sindacare l’operato del podestà e dei vertici politico-amministrativi è affidato agli otto sindaci, dunque ai locali rappresentanti dei quartieri cittadini, ma che essi sono indicati come «providos viros consiliarorum Sassari iuxta morem et consuetudinem»[50]. L’accento qui è sull’aggettivo providos, che traduce qualità quali la prudenza, la saggezza, la perizia; qualità dunque non necessariamente associate all’appartenenza alle classi agiate o agli intellettuali, il che è indicativo del coinvolgimento popolare nella ricerca dell’armonico funzionamento delle istituzioni politiche e del bilanciamento fra poteri.

La piccola repubblica di Sassari appare dunque, sotto il profilo funzionale, come un sistema complesso, che esibisce caratteri suoi propri integrati nel generale quadro di riferimento delle più note e consolidate esperienze comunali medievali. Un sistema che affida all’elettività delle cariche, alla loro frequente rotazione, a un tentativo (sebbene embrionale) di separazione/bilanciamento fra ruoli e alla responsabilità personale (che, legata ad ogni stadio dell’esercizio del potere, implica un efficiente sistema di controlli sull’operato dei governanti e degli amministratori) il contrasto del potere arbitrario, che incarna il reale significato del principio dell’autonomia, giusta la definizione di Cicerone.

 

 

6. – Fra il cittadino e il suddito

 

Ed è questa l’immagine che del principale esempio sardo di Comune autonomo riportano le cronache dei primi analisti ottocenteschi della piccola repubblica. Cosi, Augusto Bouillier, già nel 1865, sottolineava «lo spettacolo effimero, ma pur consolante, di una città governata con sagge istituzioni, aspirante alla pace, regolando essa stessa i suoi propri interessi” e la cui “Costituzione (…) conciliava saggiamente la libertà coll’autorità. Uno dei caratteri salienti era la diffidenza verso il potere esecutivo, e le garanzie prese contro ogni arbitrio»[51]. Nella connessione fra l’idea di libertà e quella di governo non arbitrario va rintracciato, come si è detto sopra, l’elemento che caratterizza la forma di governo del comune autonomo. È proprio in questa connessione che è possibile isolare una condizione particolarmente originale del rapporto fra “individuo” e “stato” nel passaggio dalle forme della cittadinanza attiva, associata prevalentemente all’esperienza della democrazia greca, alla sudditanza più o meno radicale dell’età dell’assolutismo. Una connessione dalla quale emerge una concezione della cittadinanza e del cittadino che, come evidenzierà il linguaggio proprio della tradizione repubblicana, sposta l’accento dai diritti ai doveri, dall’idea di libertà intesa come spazio individuale di non-interferenza all’idea della libertà intesa come sicurezza garantita dalle leggi (libertà come non dominio) e che assegna all’esercizio delle virtù civiche il ruolo di connettore fra il perseguimento del bene personale e la stabilità della città.

Ripartiamo dall’ossessione repubblicana - gli effetti disgregatori della corruzione politica - e da alcune precisazioni concettuali e terminologiche. Tradizionalmente, almeno nel campo della filosofia politica, la cittadinanza ha sempre qualificato l’appartenenza a una qualunque comunità politica. Se si guarda alla storia delle dottrine politiche si nota che la definizione del cittadino è sempre abbinata alla possibilità (-diritto) di partecipare ai processi politici. Ciò automaticamente connette la definizione del cittadino a quella di (una qualche forma di) autogoverno o di democrazia, cioè di un governo prodotto (o legittimato) dai medesimi destinatari del potere. Tesi che con rare discontinuità ritroviamo da Aristotele, passando per Marsilio fino alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, con le opportune differenze storico-temporali che riguardano non già le prerogative del cittadino ma la quantità di cittadini, cioè la capacità di inclusione nella partecipazione politica che aumenta man mano che diminuiscono le gerarchie sociali fino al suffragio universale[52]. Altri approcci disciplinari al tema sono meno “esigenti” e, non attribuendo rilevanza alla distinzione fra diritti civili e diritti politici e tanto meno alla distinzione fra il diritto e il privilegio (quindi fra consenso e concessione, fra autodeterminazione e paternalismo), estendono la qualificazione del cittadino a tutte le forme associative che fanno discendere dall’appartenenza un qualche vincolo di reciprocità fra chi governa e chi è governato. Rapportato al medioevo e ai comuni autonomi il discorso sulla cittadinanza sconta necessariamente la complessità sociale e i modelli di autorità dominanti all’epoca, profondamente stratificati in senso verticale e necessariamente produttori di lealtà plurime e disuguaglianze di status. Ciò non impedisce, secondo alcuni analisti, di parlare anche per quella fase storica di «cittadinanza normale» ossia di una condizione che «faceva tendenzialmente tutti partecipi dei diritti civili in patria, indipendentemente dallo status nella gerarchia sociale»[53]. Questo ha un certo margine di riscontro, come vedremo, anche negli Statuti di Sassari ma non è teoricamente né praticamente trascurabile che i diritti civili, potendo coesistere “con la condizione di semi-cittadino o di non-cittadino, con regimi oligarchico-censitari, di dispotismo illuminato o paternalistico e perfino con regimi di tipo assolutistico”[54] da soli non consentono di evidenziare le specificità di una forma di governo che pretende di definirsi proprio in contrapposizione a molte delle condizioni appena elencate. Se è vero dunque che i cosiddetti diritti civili contemplati negli Statuti istituiscono una sorta di uguaglianza fra gli appartenenti alla terra, e ammesso che tale uguaglianza consentisse di per sé di qualificare costoro tutti ugualmente come cives è pur vero che la civilitas di Baldo degli Ubaldi resta ancora incompiuta dal momento che nelle Repubbliche medievali, e nelle sorelle confederate a maggior ragione, si continua a perpetuare la scissione fra essere cives (o borghesi o terrazzani che dir si voglia) e far parte delle istituzioni di governo della città[55], una distinzione che ripropone a grandi linee quella praticata nella Roma repubblicana fra cives cum sufragio (nella Sassari comunale corrispondenti all’oligarchia mercantile e agli anziani) e cives sine sufragio (i cooptati). Ciò che caratterizza il civis romano sono infatti le prerogative legate alla sua capacità giuridica, che si esplicano prevalentemente nella sfera dei rapporti regolati dal diritto civile, e non i diritti politici che assumono, in quest’ottica, una rilevanza molto secondaria. Anche perché, il soggetto “privilegiato” del rapporto politico è a Roma prevalentemente identificato nel popolus e non nel cittadino. Una condizione, quest’ultima, più che rilevante anche nei nostri Statuti e nell’atto fondativo del Comune (dove è costante il riferimento al popolo sassarese piuttosto che agli abitanti di Sassari) nei quali tuttavia si innestano i meccanismi all’origine della metamorfosi della natura e dell’identità dei soggetti del rapporto politico. È infatti in questo snodo storico che, come si è visto dall’analisi di Ullman, si sviluppano tutta una serie di impulsi (teorici) e di pratiche che segnano il passaggio dalla visione organicistica del popolo come entità indistinta alla definizione (per tappe più che secolari, in realtà) dell’individuo soggetto di diritti, e soprattutto titolare di un ventaglio di diritti che lo collocheranno compiutamente su un piano di uguaglianza con chi governa nella definizione delle regole della sfera della politica.

Negli Statuti sassaresi affiorano tracce anche molto evidenti di questa evoluzione di contesto, anche se l’ingrediente specifico è quello che rimane sotto traccia. Basta scorrere l’indice, incrociando la disposizione dei capitoli, per cogliere la trama di una iniziale sovrapposizione fra diritti civili (la proprietà, il diritto di famiglia, il diritto commerciale) e i diritti politici di cittadinanza. E che la cittadinanza non sia un mero fenomeno di appartenenza, un mero dato anagrafico, è altresì dimostrato dalle disposizioni che ne stabiliscono l’acquisizione. La quale consiste essenzialmente in un atto di giuramento, ripetuto annualmente, che vincola ciascun maschio sassarese da un lato all’obbedienza all’autorità costituita, dall’altro alla conservazione e protezione della città e dei patti con Genova. Con l’avvertenza che è proprio la Convenzione che istituisce l’autorità e che dunque trasforma il giuramento (tipico istituto feudale connesso alla sudditanza più o meno totale) in un atto individuale, volontario e consensuale. Un atto che inserisce ciascun sassarese in una teorica dimensione di partecipazione alla gestione della cosa pubblica, istituendo oltretutto il dovere della vigilanza sul rispetto delle norme (una sorta di dovere alla denuncia di qualunque reato commesso dai concittadini contro la proprietà pubblica e privata). Si tratta però di una inclusività solo teorica, o parziale, da momento che la partecipazione effettiva è sempre condizionata. O meglio, mentre i doveri di cittadinanza sono estesi a tutti indistintamente, i diritti di partecipazione politica sono garantiti o dallo status sociale o dalle qualità morali, ovvero dall’insieme di quelle caratteristiche che identificano i megius, ossia i migliori, fra i cittadini delle classi popolari.

A ben vedere, sono proprio i doveri a qualificare il cittadino e a rendere la cittadinanza una categoria euristicamente efficace. Dagli Statuti emerge infatti una concezione della cittadinanza come onere (più che come onore), cioè come impegno civico. Questo è evidente non solo nella insistenza di numerose disposizioni sul dovere di contribuire alla generale utilità e grandezza della città, ma soprattutto nelle norme che obbligano tutti i cittadini all’assunzione di responsabilità pubbliche. Basti pensare che per nessuna delle funzioni politiche o amministrative è prevista la candidatura. Il personale è quasi sempre designato d’autorità e l’eventuale rinuncia a ricoprire l’incarico è sanzionato con multe.

Nella Sassari comunale agisce dunque una parallela soggettività politica, sintomo della confusione e perdurante sovrapposizione fra istanze organicistiche radicate nel passato repubblicano romano e ancor di più nell’impero e nella cultura cristiana della chiesa universale e nuove esigenze legate all’efficienza del sistema politico: da un lato il popolo, inteso indistintamente come il soggetto legittimante e il destinatario dei benefici del contratto politico, dall’altro lato il cittadino (o una sua forma embrionale), chiamato a contribuire individualmente alla dimensione collettiva.

Riassumendo. Ho proposto una lettura della forma di governo che emerge dagli Statuti medievali sassaresi alla luce delle principali categorie della teoria repubblicana della libertà e del governo. Il linguaggio repubblicano (o neo-romano, secondo Skinner) consente infatti di isolare questioni centrali nella dinamica politico-sociale del Comune medievale intorno al rapporto fra governanti e governati; un rapporto che non è comprensibile utilizzando esclusivamente le categorie giuridiche medievali né quelle della teoria democratica e tanto meno la successiva teoria dello stato limitato. Tali questioni, strettamente connesse, attengono al presupposto dell’autonomia, alla dialettica diritti/doveri, alla definizione del cittadino e al ruolo che egli assolve nella costruzione della forma del governo autonomo. 

Il presupposto dell’autonomia l’aveva ben indicato Cicerone associando l’idea della repubblica al contrasto del potere arbitrario. Machiavelli, erede degli sviluppi compiuti dal pensiero umanista,  lo ribadisce con una formula diventata paradigmatica del pericolo della corruzione: «presupporre tutti gli uomini rei e che li abbiano a usare sempre la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione»[56]. Da qui la necessità del controllo dei processi politici anche attraverso la distribuzione di quote di potere fra i cittadini.

Tutta la teoria repubblicana o neo-romana della libertà e della cittadinanza ruota intorno alla necessità di eliminare il dominio nel rapporto fra chi governa e chi è governato. Il governo della legge mentre stabilisce i limiti dell’esercizio del potere crea constestualmente una sfera di sicurezza e protezione per gli individui. In ciò consiste la libertà: libero è chi non è schiavo, chi non è sottoposto al potere arbitrario di un altro soggetto, chi non è, cioè, dipendente dal capriccio e dalla volontà altrui. Le conseguenze teoriche di questa definizione sono facilmente intuibili: la libertà non consiste in ciò che la legge non impedisce o non obbliga. Viceversa, libertà è ciò che è comandato dalla legge.

Skinner, attento lettore di Machiavelli mostra chiaramente il senso dell’inversione fra diritti e doveri nella definizione del cittadino pre-moderno, facendo leva sul nesso fra libertà e civismo. Sostiene infatti che «per un teorico come Machiavelli, la legge salvaguarda la nostra libertà non semplicemente attraverso la coercizione degli altri, ma anche obbligando direttamente ognuno di noi ad agire in modo particolare. (…) viene usata cioè anche (…) per forzarci ad adempiere tutti i nostri doveri civici, consentendo così che lo stato libero, dal quale dipende la nostra stessa libertà, non venga asservito da altri»[57]. In questo senso, in realtà, Machiavelli non fa che recuperare il significato ciceroniano, pre-cristiano del termine virtù, intesa come «Fortitudo moralis, come forza d’animo, capacità di resistenza alla volontà» che nella sfera politica si traduce nella «capacità di sacrificio del proprio particolare e personale interesse in nome dell’interesse generale della civitas»[58]. Dunque non una tendenza naturale ma una limitazione dell’inclinazione individuale a ricercare il proprio personale interesse, non manifestazione di una razionalità astrattamente tesa al bene (come vorrebbe Aristotele), ma faticosa rinuncia al punto di vista egoistico. È importante sottolineare che il riferimento alle virtù prescinde completamente da un’opzione di tipo etico o religioso, esattamente come il riferimento alla priorità dei doveri sui diritti, che poggia su presupposti del tutto estranei – anche perché storicamente precedenti – a quelli elaborati dalla teologia cristiana. In un contesto culturale dominato dall’interpretazione e dal linguaggio evangelico, i Comuni medievali anticipano quella che è considerata la vera rivoluzione operata nel XVI secolo da Machiavelli, ossia «utilizzare i concetti di virtù in riferimento a qualsiasi serie di qualità necessarie per mantenere lo stato e compiere grandi cose»[59].

La repubblica, e gli Statuti sassaresi sembrano aderire integralmente a questa prospettiva, ha dunque bisogno delle virtù civiche, di cittadini cioè che non rinunciano al perseguimento degli interessi generali per i loro benefici privati e che partecipano alla vita pubblica secondo modalità che non implicano necessariamente un esercizio diffuso del potere sovrano, ma una reciproca vigilanza e una diffusa responsabilità verso il bene dello società politica.

 

 

Abstract

 

The paper has two objectives. The first is to illustrate the elaboration’s process of the republican civic vocabulary which constitute the theoretical bases of the medieval autonomous government. The second is to evaluate the heuristic proprerties of the republican theory of the government by examining, through a critical reading of its Statute, the political orgnization and social relations that characterize the city of Sassari in the XIIIth century.

 

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Contributi” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind]

 

*Questo articolo costituisce un approfondimento di un saggio, scritto con Virgilio Mura, dal titolo Potere ascendente e cives negli Statuti di Sassari. Una riflessione avviata in occasione del convegno che ha celebrato i Settecento anni degli Statuti sassaresi, i cui atti sono ora raccolti nel volume, I Settecento anni degli Statuti di Sassari. 1316-2016, curato da A. MATTONE e P. Simbula, in corso di pubblicazione. Rispetto a quella versione, il presente lavoro tenta di dare una visione più dettagliata della formazione della concezione repubblicana del governo e del quadro concettuale che serve da retroterra culturale per inquadrare l’esperienza comunale nella cornice del pensiero politico pre-moderno.

[1]. Cfr. sul punto Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, I, (ed orig. 1978), Il Mulino, Bologna 1989, 36.

[2]. Cfr. A. Ryan,  Storia del pensiero politico, UTET, 2017, p. 149 e G. Holmes, The Emergence of an Urban Ideology at Florence c. 1250-1450, in Transactions of the Royal Historical Society, Vol. 23 (1973), pp. 111-134. Qui Holmes sostiene che una teoria repubblicana del governo autosufficiente rispetto al sincretismo tentato dalla Scolastica si raggiunge solo agli inizi del XV secolo, con la filosofia militante dell’Aretino, di Leon Battista Alberti e di Poggio Brancciolini. Negli scritti di questi autori egli situa l’origine della «political philosophy of the republican city state conceived not as part of a divine order of the universe in the manner of scholastic politics but as a self- sufficient secular society directed to the advancement of its citizens and their culture. Bruni was the chief promoter of this conception».

[3]. Q. SKINNER cita fra gli altri la tesi di H. Baron, La crisi del primo rinascimento italiano, Firenze 1970, p. 121.

[4] Cfr. a tal proposito E. Artifoni, I governi di «popolo» e le istituzioni comunali nella seconda metà del secolo XIII, in “Reti Medievali Rivista”, 4, 2003/2, 1-20.

[5]. W. Ullmann, Principles of Government and Politics in the Middle Ages, Methuen, London 1966 (trad. it., Principi di governo e politica nel medioevo, Il Mulino, Bologna 1972); W. Ullmann, The individual and society in the Middle Ages, The Johns Hopkins Press, Baltimore, MD, 1966 (trad. it., Individuo e società nel medioevo, Il Mulino, Bologna 1974).

[6]. Oltre al già citato Le origini del pensiero politico moderno, Skinner si è occupato della teoria repubblicana in moltissimi lavori tra i quali Machiavelli, Il Mulino, Bologna 1999, La libertà prima del liberalismo, Einaudi, Torino 2001, Virtù rinascimentali, Il Mulino, Bologna 2006.

[7]. Sul punto e in generale sulle tesi di Ullmann riguardo il superamento della teoria del potere discendente rinvio alle considerazioni di Virgilio Mura in V. Mura, R. Sau, Potere ascendente e cives negli Statuti di Sassari, cit., §. 2 e 3.

[8] Sulla funzione politica dell’associazionismo corporativo del Duecento si veda E. Artifoni, Corporazioni e società di «popolo»: un problema della politica comunale nel secolo XIII in «Quaderni storici», NUOVA SERIE, Vol. 25, No. 74, 1990, 387-404).

[9]. Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, cit., 140

[10]. Cfr. V. MURA, Potere ascendente e cives negli Statuti di Sassari, cit., §. 2.

[11]. Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, cit, 83.

[12]. Ivi, p. 89.

[13]. Ivi, p. 91

[14]. Cfr. a questo proposito D. QUAGLIONI, Legislazione statutaria e principi di governo della Civitas. Il caso di Sassari, in, Gli Statuti sassaresi. Economia, società, istituzioni nel medioevo e nell’età moderna, a cura di A. Mattone e M. Tangheroni, Edes, Cagliari 1986, 178.

[15]. Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, cit, 103.

[16]. Ivi, 109.

[17]. Cicerone, Dello stato, Zanichelli, Bologna 1986. Cfr., in particolare, i libri I, XXV e III, XXXI.

[18]. Aristotele, Politica, 1286a.

[19]. N. Bobbio, Il buongoverno, in Teoria generale della politica, Einaudi, Torino 1999, 149 e ss.

[20]. Esemplare l’argomentazione di MACHIAVELLI (Discorsi, cit. I, V, p. 118): «quelli che prudentemente hanno costituita una repubblica, intra le più necessarie cose ordinate da loro è stato costituire una guardia alla libertà, e secondo che questa è ben collocata, dura più o meno quel vivere libero. E perché in ogni repubblica sono uomini grandi e popolari, si è dubitato nella mani di quali sia meglio collocata detta guardia (….) E sanza dubbio, se si considerrà il fine nobili e degli ignobili, si vedrà in quelli desiderio grande di dominare e in questi solo desiderio di non essere dominati, e per conseguente maggiore volontà di viveri liberi; talchè essendo i popolari preposti a guardia di una libertà, è ragionevole ne abbino più cura, e non la potendo occupare loro, non permettino che altri la occupi».

[21]. Il punto è estesamente trattato in P. Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, Feltrinelli, Milano 2000. Pettit sottolinea infatti che «tradizionalmente i pensatori repubblicani hanno sempre guardato con un certo pessimismo alla possibilità che gli esseri umani si mantengano incorrotti una volta assurti a posizioni di potere, mentre si sono mostrati relativamente ottimisti sulla natura umana in quanto tale. Hanno respinto in generale, la rappresentazione agostiniana del popolo come insieme di individui intrinsecamente riottosi cui, per scongiurare i pericoli di derive anarchiche, deve essere imposta una leadership forte, ma hanno profondamente condiviso il timore ciceroniano nei confronti della corruttibilità dei potenti, cui va trovato un antidoto adeguato se si desidera evitare la tirannide e il dispotismo. Nelle parole di Richard Price: non vi è nulla che richieda maggiore vigilanza del potere» (p. 252).

[22]. Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, cit., 109 e ss.

[23]. Le proteste popolari miravano, ricorda SKINNER (Ivi, 78), a «mettere direttamente in discussione la forma tradizionale di governo del podestà, dal momento che quest’ultimo veniva di solito eletto dalle più influenti famiglie dei magnati. Consigli di questo genere vennero istituiti a Lucca e a Firenze nel 1250, a Siena nel 1262 e in rapida successione nelle principali città lombarde e toscane. (…) a Siena nel 1287 il popolo si impadronì di tutti i poteri del podestà, esiliò numerosi nobili e insediò il consiglio del nove, un’oligarchia mercantile che resse la città ininterrottamente fino al 1355».

[24]. W. Ullmann, Principi di governo cit., 368.    

[25]. Le origini del pensiero politico moderno, cit, 67.

[26]. W. Ullmann, Principi di governo, cit., 359.

[27]. MARSILIO DA PADOVA, Il difensore della pace, UTET, Torino 1960, Primo discorso, XII, 3, 169.

[28]. W. Ullmann, Individuo e società, cit., 115.

[29]. V. Mura, Potere ascendente e cives negli Statuti di Sassari, cit., § 2 e 3.

[30]. Q. SKINNER, Le origini del pensiero politico moderno, 60.

[31]. Ivi, 140.

[32]. Si rinvia per un’approfondita analisi del contesto storico, delle istituzioni politiche, della storia sociale di Sassari e dell’inquadramento degli Statuti sassaresi nella cornice dei comuni medievali al volume Gli Statuti sassaresi. Economia, società, istituzioni nel medioevo e nell’età moderna, curato da A. Mattone e M. Tangheroni, cit.; in particolare, si vedano i contributi di A. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo (409-490), di F. ARTIZZU, Le strutture politico-amministrative del Comune di Sassari attraverso la lettura degli Statuti (167-176) e di G. Olla Repetto, I “boni nomines” sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale e moderna, (355-364).

[33]. A dispetto di interpretazioni più indulgenti che sottolineano nella Convenzione «condizioni per nulla inique» per i sassaresi (cfr. G. Caro, Genova, 1975, 189) o di quelle che evidenziano una gestione autonoma nella pratica al di là dei vincoli pattizi (cfr. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, cit., 413), E. Costa (Sassari, [1° ed. 1885], Gallizzi, 1992 Sassari, 64) è assai sarcastico circa le ragioni che indussero Genova a prestare protezione a Sassari. Nell’atto di confederazione, scrive Costa, è manifesta «l’astuzia usata dai genovesi nel venire a patti col Comune di Sassari; essi svelarono la loro segreta intenzione, che era stata unicamente quella di voler trarre dall’alleata sorella tutti i guadagni e lucri possibili. Nei patti dell’alleanza era tutto per Genova, nulla per Sassari (…). Anche nel parer larga, Genova non faceva che speculare sulla terra che prendeva sotto la sua protezione».

[34]. La locuzione è tratta da A. Boullier, L’ile de Sardaigne, Parigi 1865 e riportata da E. Costa in Sassari, cit. 56.

[35]. Cfr. a questo proposito G. Olla Repetto, I “boni nomines” sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale e moderna, cit.

[36]. L. Tanzini, A consiglio. La vita politica nell'Italia dei comuni, Laterza, Roma-Bari 2014. Sul punto si veda pure G. Briguglia, Io, Brunetto Latini. Considerazioni su cultura e identità politica di Brunetto Latino e il Tesoretto (in Philosophical Readings  X.3, 2018, 176-185). Qui Briguglia segnala la forzatura interpretativa della connessione fra l’emersione di una «linea repubblicana» e «l’intento di celebrare una via comunale alla democrazia».

[37]. G. Manno in Costa, Sassari, cit., 57.

[38]. Basti il riferimento alla lettera del 1826 di G. Manno ai consiglieri del Comune di Sassari con la quale accompagnava, avendola tratta dai regi Archivi di Torino, «un codice e alcuni frammenti degli antichi Statuti della Repubblica di Sassari»; all’edizione degli Statuti (Codice della Repubblica di Sassari), curata da P. Tola e pubblicata nel 1850 a Cagliari; alla Storia della Legislazione italiana, di F. SCLOPIS del 1844, al saggio di P.E. GUARNERIO, Gli Statuti della repubblica sassarese, in «Archivio glottologico italiano», XIII (1892); o al volume, di poco successivo, di V. FINZI, Gli Statuti della Repubblica di Sassari, pubblicata sempre a Cagliari nel 1911. Si pensi inoltre al titolo dell’opera del pittore Giuseppe Sciuti, La proclamazione della repubblica sassarese (1880 ca), scelta per decorare il salone delle adunanze del Consiglio del Palazzo della provincia di Sassari.

[39]. Cfr. Mattone, Gli Statuti sassaresi nel periodo aragonese e spagnolo, cit., 412.

[40]. Così sono definiti prevalentemente gli abitanti di Sassari negli Statuti.

[41]. Atto di confederazione in E. Costa, Sassari, cit.

[42]. Cfr. Statuti sassaresi, I, 142. Sull’importanza dei boni homines nella dinamica politico-amministrativa del Comune si veda G. Olla Repetto, I “boni homines” sassaresi ed il loro influsso sul diritto e la società della Sardegna medievale e moderna, cit., 358.

[43]. Cfr., Statuti sassaresi, I, 22, 28, 29, 84,62,82, 84, 93.

[44]. Statuti sassaresi, I, 97.

[45]. Statuti sassaresi, I, 11, 13, 17, 23.

[46]. L’organo preposto alla vigilanza delle mura cittadine. Era composto da otto membri (due per quartiere), nominati dal consiglio degli anziani ogni due mesi. Ciascuno di essi giurava di esercitare il proprio “comando” sulle guardie in «buona fede, senza frode, senza odio, né amore, né guadagno». Quest’ultima specificazione è assai rilevante per la qualificazione del coinvolgimento dei cittadini inteso come impegno civico e dovere di contribuire alla cura degli affari pubblici (Statuti, I, XXVI).

[47]. Costa, Sassari, cit., (Statuti, I, 131).

[48]. Tola, Codice della Repubblica di Sassari, cit., 69.

[49]. Statuti sassaresi, I, 151, 152.

[50]. Atto di confederazione.

[51]. Ibidem.

[52]. Cfr. V. Mura, Sulla nozione di cittadinanza, in V. Mura (a cura di) Il cittadino e lo Stato, Franco Angeli, Milano 2002. Un testo classico per la ricostruzione delle tappe evolutive del concetto di cittadinanza, che egli estende fino ad includere i diritti sociali, è T.H. Marshall, Cittadinanza e classe sociale (1° ed. 1952), Laterza, Roma-Bari 2002. Si veda pure P. Costa, Civitas. Storia della cittadinanza in Europa, Laterza, Roma-Bari 2001.

[53]. M. Ascheri, Nella città medievale italiana: la cittadinanza o le cittadinanze?, in «INITIUM. Revista catalana d’història del dret», 16, 2011, 304.

[54]. Cfr. V. Mura, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Giappichelli, Torino 2004, cap. 5.

[55]. Cfr. M. Vallerani, Diritti di cittadinanza nelle quaestiones giuridiche duecentesche (II). Limiti dell’appartenenza e forme di esclusione, Mélanges de l’École française de Rome - «MoyenÂge» [Online], 125-2, 2013.

[56]. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, cit., I, III, 114.

[57]. Q. SKINNER, La libertà prima del liberalismo, Einaudi, Torino 2001, 95.

[58]. M. Revelli, Cicerone, Sant’Agostino, San Tommaso, Giappichelli, Torino 1989, 17.

[59]. L. Baccelli, Critica del repubblicanesimo, cit. 94-95.