Note-&-Rassegne-2018

 

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foto_chessa_oIl Diritto pubblico nella storia della Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Sassari [1]

A proposito del recente libro di Antonello Mattone sulla Facoltà giuridica sassarese[2]

 

OMAR Chessa

Professore ordinario di Diritto costituzionale

Dipartimento di Giurisprudenza

Università di Sassari

 

 

 

Mi è stato assegnato il compito di illustrare il contributo che gli studi giuridici sassaresi hanno apportato nel campo del diritto pubblico.

Dapprincipio confesso che avevo preso un pò sottogamba l’impegno. Poi confrontandomi a fondo col volume che qui oggi presentiamo, mi sono reso conto che non sarebbe stato un compito di semplice svolgimento. Vista la mole del libro, si potrebbe dire – con una facezia neanche troppo spiritosa – che Antonello abbia scritto un Mattone. Ma non si renderebbe giustizia al lavoro, che offre invero una grande piacevolezza di lettura: le notazioni biografiche e la rapida ricostruzione delle vicende concorsuali si alternano all’illustrazione dei lavori scientifici dei maestri che si sono succeduti nelle cattedre sassaresi. Mi ha particolarmente impressionato il modo in cui il prof. Mattone riesce a cogliere con esattezza e padronanza “tecnica” il profilo scientifico di ciascuno per restituircelo nella sintesi di poche battute. Insomma appena iniziata la lettura ho capito subito che soltanto con grande difficoltà avrei potuto aggiungere qualcosa di originale a quello che Antonello aveva già mirabilmente colto.

La prima difficoltà che mi si è parata dinanzi è la questione di cosa si debba intendere per “diritto pubblico”. Da studiosi non ci possiamo accontentare troppo delle partizioni convenzionali consegnateci dalla tradizione. Ma il potere di stabilire ex novo dei confini è quasi come il potere di dare nomi alle cose, che è – come sappiamo – una prerogativa divina: il rischio di peccare di hybris è dietro l’angolo.

La stessa grande distinzione tra diritto pubblico e diritto privato è assai problematica. Risente per certo versi della separazione ottocentesca e hegeliana tra Stato e società civile, ed è indubbiamente collegata alla grande tradizione statualistica che si afferma egemone a cavallo tra i secoli XIX e XX. C’è qui una traslazione di significato rispetto allo ius publicum romano, che era ius populi, mentre in epoca moderna il diritto pubblico è diritto che pertiene essenzialmente allo Stato (ed è assai discusso se popolo e Stato siano la medesima cosa): ad ogni modo, la distinzione moderna tra diritto pubblico e diritto privato si costruisce in relazione al concetto di Stato e alle categorie statualistiche.

Faccio questa premessa, perché il dato interessante è che proprio la tradizione statualistica – come rimarcherò nella conclusione del mio intervento – ha costituito un obiettivo polemico costante delle opere scritte negli anni sassaresi da maestri come Giovanni Miele, Giuseppe Treves, Massimo Severo Giannini, Giuseppe Sperduti. E quando non c’è un esplicita polemica anti-statualistica, come nel caso di Giuseppe Guarino (ma anche, per ovvie ragioni, come nel caso di Carlo Alberto Biggini), c’è comunque un approccio metodologico che si colloca ben al di là del c.d. «metodo giuridico»per come era inteso dalla scuola germanica e italiana del diritto pubblico statale a cavallo tra Ottocento e Novecento.

 

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Questa sensibilità inizia a manifestarsi nelle opere di Giovanni Miele e Giuseppino Treves, che si succedono nella cattedra di diritto amministrativo dell’ateneo turritano (il primo inizia il suo insegnamento nel 1928, il secondo nel 1932).

storia-giurisprudenza - CopiaAntonello ricorda come Miele abbia scoperto negli anni sassaresi il libro di Francesco Ruffini del 1926 su I diritti di libertà, scovandolo per caso nella biblioteca giuridica della nostra Università; e come questo libro abbia lasciato un segno profondo nella sua formazione di giurista: un segno che ci compendia nell’affermazione del Miele, anch’essa riportata da Mattone, secondo cui è «idea sacrosanta» che «il diritto tenda a confondersi con la morale, a costituire una morale rafforzata dal potere sociale».

Se tra diritto e morale ci sia una cesura o una continuità, una separazione netta ovvero un’incorporazione della prima nel secondo è questione dibattuta da sempre. Ma è certo che per il c.d. «metodo giuridico», di cui parlavo prima, il dilemma deve sciogliersi a favore della prima alternativa, pena l’impossibilità di concepire e costruire la scienza giuridica come autonoma rispetto ad altre discipline. Diverso era invece l’orientamento del Miele, come si è visto (un orientamento che ha lasciato poi traccia – lo dico incidentalmente – nella sensibilità e nelle opere del suo allievo Andrea Orsi Battaglini, che pure insegnò a Sassari negli anni Settanta, per poi trasferirsi a Firenze).

Una forte carica di innovazione era altresì presente negli scritti di Treves del periodo sassarese.

 

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Ma, dovendo fare una scelta dettata dalla necessaria brevità delle relazioni, è sulla figura di Massimo Severo Giannini che merita soffermarsi in maniera particolare. Il contributo di questo studioso alla scienza giuridica italiana è vastissimo e di enorme importanza: e il prof. Mattone lo rammenta.

Al periodo sassarese appartiene la nota prolusione sui Profili storici della scienza del diritto amministrativo, pubblicata negli Studi sassaresi nel 1940 (ma ripubblicata nel 1973, su iniziativa del prof. Paolo Grossi, nei Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico, con Postilla dello stesso Giannini). In quest’opera si investigano le origini storiche della scienza del diritto amministrativo e dello stesso diritto amministrativo come autonomo ramo del diritto. Ma è anche l’occasione per una riflessione più ampia sul diritto pubblico, sulle diverse tipologie di forme statali (Stato giurisdizionale, amministrativo, legislativo), nonché sulla effettiva portata di taluni principi relativi alle organizzazioni statali (ad esempio, i principi dello “Stato di diritto” e della divisione dei poteri).

La prima questione affrontata, oltre alla definizione di cosa deve intendersi per “ramo del diritto”, è se il diritto amministrativo sia sempre esistito o se invece sia un prodotto dell’evoluzione statale moderna: Giannini propende, ovviamente, per la seconda ipotesi e cerca di collocare in modo più preciso quest’origine, interrogandosi sulle condizioni che storicamente e logicamente hanno reso possibile il costituirsi di questo ramo autonomo del diritto. È contestata la tesi allora di comune dominio (fatta propria sia dalla dottrina germanica che da quella italiana), secondo cui non potrebbe parlarsi di un diritto amministrativo se non coll’avvento dello Stato di diritto e della divisione dei poteri. Giannini ritiene «dubbio operare con concetti tanto incerti». È richiamata l’opinione di Kelsen, per il quale tutti gli Stati, quali ne siano le forme, i criteri organizzativi e i valori sostanziali perseguiti, sarebbero “Stati di diritto”, ivi compresa la forma storia dello “Stato di polizia”: vista la necessaria identificazione tra Stato e ordinamento giuridico, non esisterebbero competenze statali non costituite e regolate dal diritto. Le differenze tra i diversi Stati sarebbero solo quantitative: in alcuni il diritto lascerebbe un margine maggiore alla libertà degli individui rispetto all’autorità degli organi statali, in altri invece il margine lasciato sarebbe minore. Egualmente incerto è giudicato il principio della divisione dei poteri. Se con questa formula s’intende la distinzione funzionale tra funzione legislativa, giurisdizionale ed esecutiva e quindi quella tra atti legislativi, giurisdizionali ed esecutivi, ciò non è ancora sufficiente al fine di enucleare la categoria peculiare degli “atti amministrativi”, ben potendo «l’attività amministrativa esplicarsi con atti propri del diritto privato o strutturalmente analoghi». E tuttavia, aggiunge il Giannini, «l’essere il potere esecutivo separato dagli altri, o meglio il fatto che la funzione esecutiva sia attribuita, istituzionalmente e in via principale, a un gruppo determinato di organi, costituisce uno dei presupposti fondamentali per l’esistenza di un diritto della amministrazione il quale abbia propria fisionomia e individualità». Sennonché si tratta di «presupposto necessario, ma sempre presupposto, ossia non causa determinante». Inoltre si fa l’esempio di ordinamenti dove ci sono organi amministrativi e attività amministrative molto sviluppate, ma senza un diritto amministrativo propriamente inteso, come è il caso dell’Inghilterra.

Dopo questa disamina critica, arriva il contributo originale di Giannini: perché si abbia un diritto amministrativo occorre non solo una condizione di autonomia del potere amministrativo-esecutivo rispetto agli altri poteri statali, ma altresì che l’attività da questo svolta sia disciplinata da un complesso di «norme giuridiche esteriormente obbligatorie», aventi una propria fisionomia peculiare che le rende irriducibili al diritto comune. Ciò spiega, a giudizio di Giannini, perché nella fase storica dello «Stato giurisdizionale», caratterizzato dalla pluralità dei «diritti signorili territoriali», tutti di stampo privatistico, non ci fosse un diritto amministrativo; e perché non ci fosse neppure nella fase dello «Stato di polizia», visto il carattere “interno” e non “esteriormente obbligatorio” delle norme rivolte all’amministrazione.

Un vero diritto amministrativo e una vera scienza del diritto amministrativo potè sorgere, dunque, solo nell’Ottocento, in qualche misura sulle ceneri della “scienza della polizia” e della “scienza camerale”. E precisamente quando questo corpo di norme pubblicistiche esteriormente obbligatorie ebbe acquisito carattere di organicità, coerenza interna, complessità e vastità, in correlazione all’estensione progressiva dei compiti amministrativi statali. In Germania, ad esempio, fu dopo il 1870 che il diritto amministrativo si distaccò dallo Staatsrecht, dal diritto statale, per acquistare piena autonomia come ramo giuridico autonomo, mentre lo Staatsrecht si ridusse al solo diritto costituzionale.

Quanto alla scienza del diritto amministrativo, la sua elaborazione ha seguito le orme dell’elaborazione della scienza del diritto pubblico in genere, come era proposto dalla scuola germanica di Laband, Gerber, Jellinek, Mayer, e dalla scuola italiana di Orlando. Ossia un «metodo giuridico» costruito sulla falsariga di quello della scienza del diritto privato e quindi basato sulla pandettistica. Qui le notazioni di Giannini nei confronti del magistero orlandiano si fanno particolarmente critiche. Se questa scienza deve costituirsi quale «sistema di principi giuridici sistematicamente coordinati» (principi che debbono essere “giuridici” e che pertanto debbono essere tenuti distinti dai principi filosofici e politico-morali), non si capisce però come debbano essere «raggiunti e utilizzati»: come si perviene, cioè, alla loro elaborazione e in che modo operano con riguardo alle varie fattispecie concrete, ossia quale deve essere la loro funzione nel lavoro pratico del giurista? Insomma, «come individuarli, come impiegarli, come giudicarne I’esattezza?». Orlando, a giudizio di Giannini, «indicò molto semplicemente quei criteri che la scienza del diritto romano si era costruiti in due millenni».

La critica alla pandettistica non è però radicale, perché Giannini consente sul fatto che, sul piano tecnico, abbia costituito un apporto decisivo allo sviluppo della scienza del diritto amministrativo e pubblico in genere (così come indubbiamente feconda sarebbe stata la sua importanza per la scienza del diritto privato). Il difetto sta nella «problematica», ossia nel fatto che ha indotto la scienza giuridica a interrogarsi su questioni di poco rilievo e a investigare problemi meno importanti di quelli cui naturalmente si rivolge l’attività amministrativa. Insomma, un «metodo giuridico» troppo fissato nei suoi astratti presupposti dogmatici, che non consentono di cogliere e problematizzare le novità che emergono dalla vita sociale reale, dalla concreta esperienza giuridica.

 

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Nel campo del diritto internazionale merita particolare menzione il nome di Giuseppe Sperduti, docente dal 1947 al 1954. Agli anni del suo insegnamento sassarese risalgono due lavori importanti: la monografia L’individuo nel diritto internazionale. Contributo all’interpretazione del diritto internazionale secondo il principio di effettività (Milano, Giuffré, 1950) e il saggio La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (Sassari, Gallizzi, 1950 e in Riv. inter. fil. dir., 1951). Nel contributo monografico si propone un approccio originale al diritto internazionale, che mira a smarcarsi dalle impostazioni veteropositiviste, ancora troppo legate all’idea che i soli soggetti dei rapporti di diritto internazionale siano gli Stati: questa era la visione – come dire – “classica” del diritto internazionale, una visione di stampo “westfaliano”, secondo la quale le norme internazionali sono solo quelle stabilite dal diritto pattizio, dai trattati conclusi liberamente dagli Stati in condizione di formale uguaglianza.

Era una visione che Sperduti aveva provato a sfidare già in un lavoro monografico del 1946, precedente quindi il suo magistero sassarese e dedicato a La fonte suprema dell’ordinamento internazionale, fonte che veniva identificata nella «consuetudine pregiuridica», ossia in una realtà normativa che deriva la propria forza e validità da altro che non da manifestazioni di volontà statale in forma pattizia. E del resto, sotto il profilo logico, in tanto il diritto internazionale pattizio può considerarsi giuridicamente valido in quanto si postuli un fondamento di validità che operi come una sorta di condizione trascendentale, qual è infatti il principio o regola pacta sunt servanda, la cui forza normativa è logicamente intrinseca e fattualmente legata alla dimensione consuetudinaria (peraltro ricordo che nel 1961 Carlo Esposito svilupperà in modo teoricamente approfondito l’idea che alla base di ogni ordinamento positivo ci sia una consuetudine confermativa o di riconoscimento provvista di valenza fondativa).

Ma è con la monografia del 1950 che il pensiero di Sperduti realizza la svolta rispetto agli indirizzi tramandati, ravvisando negli individui dei nuovi soggetti di diritto internazionale. Un orientamento che trova conferma e ulteriore sviluppo nello scritto su La dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, legato evidentemente alla novità costituita dall’approvazione di questo Bill of rights da parte dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e recante la tesi innovativa secondo cui gli individui e i loro diritti sarebbero, sotto il profilo teleologico e quindi assiologico, i destinatati per così dire “naturali” del diritto internazionale e, perciò, anche degli Stati. È nitido il trapasso da una concezione statualistica (del diritto in genere e non soltanto del diritto internazionale) a una visione basata su un diverso “centro spirituale di riferimento”. Sono – come ognuno vede – considerazioni che vanno oltre la scienza internazionalistica e che valgono per ogni ramo del diritto, e segnatamente per il diritto costituzionale o pubblico: è sempre discusso se il suo centro o nucleo profondo sia lo Stato con le sue prerogative sovrane oppure l’individuo o la persona con i suoi diritti inalienabili.

 

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A partire dal 1948 e fino al 1951 la scienza sassarese del diritto costituzionale si arricchisce del contributo straordinario di Giuseppe Guarino. È superfluo – credo – spendere parole per illustrare quale importanza abbia avuto e ancora oggi abbia la produzione scientifica del decano italiano degli studi giuspubblicistici, che quest’anno (2018) si accinge a compiere il 96esimo anno d’età. Come tutti i grandissimi studiosi, la vastità delle sue ricerche non può essere circoscritta a un solo ramo del diritto e in particolare al solo campo del diritto costituzionale propriamente inteso: come tutti sanno, Guarino è anche un grande amministrativista, un grande conoscitore del diritto comunitario o dell’Unione Europea, un raffinato esperto di diritto dell’economia, ecc.

Fedele all’impegno preso di considerare soltanto i lavori scientifici legati agli anni sassaresi, ricordo solo la monografia con cui a soli 26 anni Guarino ottenne la libera docenza, e cioè Lo scioglimento delle assemblee parlamentari (Napoli, Jovene, 1948).

È un libro giovanile solo da un punto di vista puramente anagrafico, perché dal punto di vista della maturità scientifica è un libro “adulto”, anche per la tematica trattata, che ha per oggetto un istituto d’importanza cruciale nella dinamica delle forme di governo parlamentari e che era discusso se avesse mantenuto lo stesso significato e la medesima funzione nel passaggio dalla monarchia costituzionale alla monarchia parlamentare.

In questo lavoro monografico, che era coevo all’entrata in vigore della nuova Costituzione repubblicana, Guarino traccia un bilancio, proponendo però un approccio di metodo che si discosta non poco dal «metodo giuridico» basato sulla sola esegesi del testo costituzionale. Afferma infatti che «lo scioglimento [...] acquista significato solo relativamente alle condizioni in cui agisce. Esso è spiegato da queste condizioni ed a sua volta le spiega». La ricostruzione dogmatica dell’istituto deve considerare anche il dato contestuale; non solo il testo, quindi, ma anche il contesto, e in particolare la struttura e il rilievo concretamente assunto dal sistema dei partiti. Anticipa perciò un metodo nello studio della forma di governo che poi, negli anni Settanta, sarà teorizzato in modo approfondito da Leopoldo Elia.

La conclusione cui perviene il libro ha fatto scuola, ma più nella parte destruens che in quella construens. Fa piazza pulita della tesi tradizionale secondo cui «l’unica funzione dello scioglimento era quella di regolare i rapporti tra governo e Parlamento»: una tesi che poteva avere senso nella logica dualista della monarchia costituzionale e parlamentare classica, quando la Corona costitutiva un centro autonomo di direzione politica, in concorrenza e competizione con la Camera bassa, ma che era ormai priva di senso nel contesto ormai compiutamente monistico dei regimi parlamentari novecenteschi, dove la funzione di governo, di direzione politica è attratta, per il tramite dei partiti, nel raccordo tra Governo e Camere con la sostanziale marginalizzazione politica del Capo dello Stato.

Certo, poi Guarino, nell’interpretare l’art. 88 della Costituzione ricostruisce il decreto di scioglimento come un atto che è presidenziale anche sotto il profilo sostanziale oltre che sotto quello formale, con ciò ribadendo un’impostazione dogmatica che era tipica delle fasi in cui c’era un governo costituzionale “puro”, ma va detto che non si trattava di un’opinione isolata, visto che fu fatta propria anche da Paolo Barile e poi dalla sua scuola fiorentina del diritto costituzionale.

In ogni caso ciò che veramente conta è la parte analitico-demolitoria del libro di Guarino, che pure oggi è utile per fare piazza pulita di luoghi comuni che ancora circolano nella dottrina costituzionalistica italiana, come – ad esempio – quello per cui in un governo parlamentare il potere di scioglimento non può che spettare al Primo Ministro: luogo comune che si vale di un’errata ricostruzione del sistema costituzionale britannico e che Guarino aveva smascherato già nel 1948. Ma questo discorso ci porterebbe troppo lontano e non abbiamo il tempo di svilupparlo come meriterebbe.

 

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Non si può dire che, negli anni considerati dalla ricostruzione storica di Mattone, ci sia stata una scuola sassarese del diritto pubblico nel senso proprio del termine: per un verso gli interessi scientifici e gli approcci di metodo dei vari studiosi erano troppo eterogenei tra loro, per l’altro va detto che praticamente nessuno di loro lasciò allievi in loco (è vero che Guarino formò due sassaresi, Francesco Cossiga e Sergio Fois, ma il primo si avviò da subito su un’altra strada che non su quella della ricerca accademica e il secondo svolse la sua attività prevalentemente in sedi universitarie del Continente, facendo ritorno nella città natale solo a fine carriera, negli anni Novanta del secolo scorso).

C’è però un filo rosso che accomuna le ricerche di tutti: una sensibilità anti-formalistica e anti-statualistica, che si compendia nel rifiuto della centralità assoluta della legge (e del metodo esclusivamente testuale, eventualmente integrato dalla ricostruzione dell’intenzione del legislatore). Le loro opere non celebrano certo la sacralità della volontà legislativa e della legge quale punto di origine e di destinazione della fenomenologia e del discorso giuridici. Hanno tutti piena consapevolezza del fatto che il ruolo del giurista è più complesso, così come è più complessa la realtà dell’esperienza giuridica, che mal si presta alla reductio ad unum operata dalla statalismo legicentrico.

Sarebbe interessante vedere se e come questa sensibilità di approccio sia confermata nei giuspubblicisti che insegnarono a Sassari dagli anni Settanta in poi, sino ai giorni nostri. Rimaniamo dunque in fervida attesa di un nuovo contributo di Antonello Mattone, anzi direi che lo invitiamo a produrlo quanto prima.

 

 



 

[1] Relazione presentata al convegno scientifico tenutosi il 4 maggio 2018 nell'Aula Magna dell'Università degli studi di Sassari.

[2] ANTONELLO MATTONE, Storia della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari (secoli XVI-XX), [Studi e ricerche sull’università – Collana del Centro interuniversitario per la storia delle università italiane, diretta da Gian Paolo Brizzi], Bologna, Società Editrice il Mulino, 2016, pp. 1037. ISBN 978-88-15-26674-3.